B. D. SCUOLA MISTA NELLA ROMANITA'? = MOMENTI DI STORIA DELLA SCOLARIZZAZIONE

SOPRA, DA UN MOSAICO DI CAPUA: "MAESTRO CON SCOLARE", MOLTE ACCONCIATE COI CAPELLI LUNGHI ALLA FOGGIA DELL'APOLLO MUSAGETE, GIA' CUSTODITA IN MUSEO NAZIONALE DI NAPOLI : IMMAGINE E COMMENTO CRITICO IN SAGGIO A CURA DI EMILIA NANNI IN "QUADERNO DELL'APROSIANA / NUOVA SERIE - STUDI IN ONORE DI MARIO DAMONTE", N.4 - 1996.
A QUESTA INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE SE NE ACCOSTA UN'ALTRA CHE CONFERISCE AL MOSAICO L'EMBLEMATICO TITOLO DI "CORO SACRO".
ANCHE NON VOLENDO ACCETTARE L'IPOTESI PIU' ANTICA E CERTO PIU' ROMANTICA, CHE SI TRATTI D'UNA SCOLARESCA, BISOGNA AMMETTERE CHE LA VASTA ICONOGRAFIA SUPERSTITE DEL MONDO ROMANO NON MANCA DI FARCI ENTRARE NEL VISSUTO DELLA SCUOLA: COME E' DATO DA QUESTO ALTRO REPERTO, UN RILIEVO D'EPOCA IMPERIALE RINVENUTO AD OSTIA ANTICA INDUBBIAMENTE RIPRODUCENTE UN EPISODIO DI VITA SCOLASTICA (ED A VOLTE, TALI RILIEVI ERANO APPOSTI A GUISA DI ISCRIZIONI PUBBLICITARIE O DI PUBBLICI SEGNALI PER ATTIRARE L'UTENZA A FREQUENTARE QUESTA PIUTTOSTO CHE QUELLA SCUOLA, MAGARI PER LA PRESENZA DI INSEGNANTI PARTICOLATRMENTE BRAVI, IN CAMPO PROFESSIONALE OD ANCHE SOLO NELL'ARTE DI PROPORSI ALLA PUBBLICA ATTENZIONE, SECONDO UN FENOMENO CHE SOSTANZIALMENTE NEPPURE OGGI E' MAI VENUTO MENO)
































DA LA PIAZZA UNIVERSALE DI TUTTE LE PROFESSIONI DEL MONDO
OPERA DI TOMASO GARZONI
DISCORSO XLIX
DE' MAESTRI DELLE SCIENZE E COSTUMI, E DE' PUTTI CHE VANNO A SCUOLA, E DE' DOTTORI DI STUDIO E SCOLARI DI STUDIO
[per un approfondimento moderno vedasi poi questo saggio sullo sviluppo delle UNIVERSITA']
Avendo io da dipingere un MAESTRO, overo PRECETTORE, quali debbono esser communemente quelli ch'instruiscono putti e che leggono a' provetti, ho pensato nell'istesso discorso chiudere ancora i fanciulli e giovenetti che vanno a SCUOLA con quegli altri più maturi [STUDENTI] che vanno in studio, descrivendo le condizioni e qualità di tutti, acciò che questa materia non resti diminuita, ma da tutte le parti più perfetta che sia [ad integrazione di queste affermazione del GARZONI può esser utile analizzare anche la STRUMENTAZIONE TECNICA di cui dovevano dotarsi i discepoli per ben seguire gli insegnamenti loro impartiti]
E per servare la precedenza che all'antichità si deve, dico che i BUONI MAESTRI hanno da esser come lucidi specchi di creanza, costumatezza e gravità, perché sono la mira dei SCOLARI , ove tengono l'occhio affisso di tutte l'ore.
E Quintiliano [Inst. orat., II, 2, 1 - 8] ricerca ne' MAESTRI questa condizione per principlae, dicendo che la santità loro custodirà da mille scorrezioni i teneri animi giovenili, e la grvità spaventarà dalla licenza i più feroci.
Plutarco parimente ricerca ne' MAESTRI la bontà della vita in quel trattato che fa De liberis educandis mentre dice: "Inquirendi sunt praeceptores filiis, quorum vita nullis obnoxia sit criminibus, irreprehensi mores, et optimum sit experimentum" [il passo risulta verisimilmente ripreso da G. B. Caccialupi, Modus studendi in utroque iure, documento I citato nell'edizione comparsa con il Vocabolarius perutilis utriusque iuris, Venezia, per O. Scoto, 1545] essendo cosa certa ed evidente che quanto imparano i PUTTI ASCUOLA, tutto l'apprendono più presto da' MAESTRI che da loro.
Della qual cosa non mi lascia mentir Plutarco, nella epistola [apocrifa o falsa] a Traiano, il quale afferma, che i delitti de' SCOLARI comunemente s'attribuiscono a' MAESTRI : onde non mancarono molti che dissero l'ingegno depravato di nerone esser proceduto dalla trista disciplina di Seneca suo precettore [vedi anche Enea Silvio Piccolomini (alias Papa Pio II), De liberorum educatione in Opera Omnia, Henricipetri, basilea, 1571).
Però si legge che Socrate, vedendo un PUTTO scostumato e privo di creanza, disse che bisognava dare un buon cavallo al suo MAESTRO.
E Diogene babilonico narra che Leonida, PEDAGOGO d'Alessandro, l'empì d'alcuni vizi mentra era fanciullo, i quali non potero nell'età virile mai più levarsi e separarsi da lui.
Si ricerca anco nel MAESTRO che sia dotto ed erudito, essendo la dottrina uno degli oggetti principali per il quale si mandano dai padri i giovenetti a SCUOLA.
Per questo narra Aulo Gellio che Filippo, re di Macedonia, raccomandato Alessandro suo figliuolo alla disciplina d'Aristotile, disse di ringraziare infinitamente gli dei, non tanto per il nascimento d'Alessandro, quanto che li fosse nato al tempo d'un tanto filosofo, che con la sua dottrina maravigliosa l'avesse ad instruire.
Per il contrario uno ignorante è atto a imprimer nella mente de' gioveni talmente cose inette e sciocche che mai più si possono rimuovere e separar da loro.
Prò fu molto savio quel filosofo che disse ch'erano infelici coloro che nascevano senza esser stati i primi lor fondamenti piantati debita e diligentemente.
Diceva a questo proposito quel gran giuriconsulto di Giovan Petrucci Perugino ch0aveva da PUTTO imparato da un MAESTRO ignorante alcune baie mere delle quali a pena nell'età di sessant'anni si poteva dimenticare.
Però S. Ieronimo, nella epistola a Leta De institutione Paulae, ammonisce i gioveni che nella verde età loro non imparino quelle cose che non son da imparare, essendo cosa malagevole che la memoria si scordi quel che nella roza età con tanto gusto apprese.
E quanto alla dottrina e sufficienza del MAESTRO, l'illustre dottore Martino da fano in quella epistola che fa De modo studendi, dichiara molto bene che cosa convenga a un PRECETTORE LETTERATO: che bisogna ch'insegni le cose necessarie da insegnare; che non si facci pregare a rispondere alle domande de' SCOLARI; che sia facile nell'isprimere, acuto nel scioglier le obiezioni, paziente nell'ascoltare le dontradizioni, ragionevole nè suoi detti, sentenzioso nelle sue parole, elegante nel leggere, facile nell'insegnare, efficace nel prononciare, fidele nell'allegare e utile sopra tutto in ciascun ragionamento e lettura che facci.
Per questa cagione racconta Omero che Peleo diede la cura e il governo del suo figliuolo Achille al dottissimo e virtuosissimo Fenice, perché egli li fosse guida e maestro così nel dire come nel fare.
Per questa istessa causa è degna d'imitazione Euridice (come dice Plutarco) la quale, quantunque fosse schiavona e barbara, per poter, nondimeno, allevare i suoi figliuoli virtuosamente, diede opera agli studi buoni e alle discipline; e la sua sufficienza si conosce da quello epigramma ch'ella dedicò alle muse; il quale è questo "Euridice d'Iropoli, dopo ch'ella si sodisfece secondo il suo desiderio delle belle dottrine, consacrò questo titolo alle muse; perché, essendo già madre e di molta età, perché i suoi figli già entravano nella gioventù, imparò con molta fatica le lettere, che le saranno sempre una memoria de' suoi studi e della virtù sana" [A qual guisa si debbano bene allevare i fanciulli, che fa parte di Alcuni opuscoletti del le cose morali del divino Plutarco in questa nostra lingua nuovamente tradotti, trad. di A. Massa e G. Tarchagnota, M. Tramezzino, Venezia, 1543].
Ma tanto più il dotto MAESTRO s'ha da ricercare per l'utilità quanto l'imperito PRECETTORE è dannevole e nocivo per l'imperizia sua, che mai si scorda e tanro difficilmente si tralascia.
Perciò nelle memorie de' scrittori si ritrova che Timoteo, musico eccllentissimo, era solito di chieder doppio salario a uno che fosse stato sotto la disciplina d'un grosso [rozzo] precettore, allegando che maggiore fatica faceva a levarli la ruggine che a darli l'oro.
Quindi i padri devrebbono imparare, quando mettono i lor figliuoli a SCUOLA, d'assegnarli un ottimo ed erudito PRECETTORE, né risparmiare ai soldi, pur che il figliuolo fosse instrutto bene.
Per il che Aristippo acconciamente toccò un padre non troppo ricco di senno, percioché, essendo da costui dimandato Aristippo quanto gli avrebbe tolto per insegnare a un suo figliuolo, e rispostoli che mille dramme: Veramente - disse colui - che questo è un gran prezzo che mi dimandi, percioché io ne potrei con mille dramme comperare un servo".
"Ti averai adunque - disse allora Aristippo - due servi a un tratto: e tuo figliuolo e colui che comprarai", volendo dirli che non sarebbe stata alcuna differenza fra il figlio, così malamente allevato, e il suo servo.
Però conchiudo che il principio, il mezzo e il fine della EDUCAZIONE DE' MAESTRI sia tutto onesto, e la erudizione sia legitima e vera.
Non debbono anco i MAESTRI essere austeri coi scolari -com'era Orbilio, il qual ne riportò il nome d'uomo plagoso [che infligge piaghe per punizioni fisiche] ne' suoi discepoli; e Domiziano grammatico, che in Roma fu tenuto per intrattabile - ma servar la metà tra le battiture e la piacevolezza ragionevole, perché le dolci essortazioni de' MAESTRI (come dice papa Pio nel suo trattato De educatione liberorum) vengono a incitare i gioveni nelle cose oneste, e i gridi con le stafilate vengono a frenarli dalle cose vituperose.
E benché Crisippo lodi molto le battiture, e Giuvenale dica che Achille col timore della verga imparò a cantare ne' patri monti, con tutto ciò l'essempio ci dimostra in infiniti che non è cosa più molesta all'utilità de' gioveni, quanto ODIARE I MAESTRI, fuggendo essi la scuola per il più, quando gli trovano così terribili e severi.
Quindi si partono dai padri, s'ascondono presso a' parenti, vanno a giocar dietro alle mura, s'aggirano per le piazze, stanno ad ascoltare i cantinbanchi, si riducono ne' claustri de' religiosi a far mille materie [pazzie, mattane], e come vagabondi non han stanza ferma, né sede permanente in luogo alcuno, fuggendo la SCUOLA più che il demonio la croce, e la presenza del MAESTRO come la faccia d'un serpe.
E perché i PEDAGOGHI hanno lacura di raddrizzare i PUTTI nel portamento esteriore e nelle amniere civili del corpo, ma principalmente in quelle dell'animo dirò brevemente con la sentenza s'uomini sapienti quanto ha da fare così nell'uno come nell'altro.
Al MAESTRO, adunque, si cinviene insegnarli tutte quelle cranze esteriori che pone il Galateo, come lo star civile, il moversi decoro, il ridere savio, il guardar grave, il caminare acconcio, l'atteggiare onorato e civile, e finalmente, la grazia e la vaghezza in ogni parte del corpo, non potendo altrui piacere quello che in se stesso disconviene.
E in ciò si dee avvertire l'essempio di Filippo, re di macedonia, il quale, essendo castigato da un suo schiavo un dì che si faveva publica vendizione di servi per tener la veste indosso senza il decoro regio, fece grazia a colui di restar libero, tenedolo per persona creata e di gentili maniere nel suo concetto.
E in questa cosa furono tanto curiosi i Greci che pubblicarono una legge intorno ai gesti, la qual fu chiamata cironomica, perché trattava del comportamento civile della persona.
Platone commendò questa civiltà nelle sue azioni civili, e Crisippo l'onorò ne' suoi precetti De educatione liberorum.
Sopra tutto gli hanno a insegnare la reverenza verso i maggiori, il rispetto a' religiosi, l'onore di berretta a tutti i vecchi, e quanto si conviene coi padri e con le madri, non eccedendo il modo come fa il Mainardo, ch'insegna lor d'inchinarsi e baciar la mano a quanti passano.
Bisogna parimente detestargli il troppo bere acciò ch'abbino gli organi preparati per lo studio, e vietar loro i solazzi più che possibil sia, essendo sentenza di Platone che basta dare tanta indulgenza al corpo che possi attendere ai misteri della filosofia.
Però si legge di Pitagora che, intendendo un certo suo famigliare donarsi molto in preda alle delizie, disse " Costui non cessa di fabbricarsi una carcere molesta per tutti i tempi".
E di Gneo Pompeo si narra quell'essempio memorabile, che in una sua infirmità commandandoli il medico che mangiasse un tordo, nè potendo trovarsi, per esser fuor di stagione, se non in casa di Lucullo Romano -uomo che, per lascivir nelle delizie, gli avrebbe tratto fin dall'Indie- disse:" Dunque, se Lucullo non fosse delizioso, Pompeo non potrebbe viver con onore?".
E così volle con la parcità del cibo recuperare le smarrite e perdute forze.
Guardisi grandemente il cauto PRECETTORE (per trattare dell'instruzione dell'animo) che il discepolo non presuma presso a lui, perché da questa tal baldanzosa presonzione ne nascerebbono infiniti errori, e tutta la machina delle sue fatiche restarebbe per essa distrutta e ruinata.
Perciò ben disse Temistocle di Diofanto, suo figliuolo troppo vezzosamente allevato, che egli commandava a tutta la Grecia: perché discorreva che Atene commandava a' Greci, esso imperava agli Ateniesi, a lui commandava la moglie, e la moglie obediva ai cenni del figliuolo troppo licenzioso.
Sia diligente il MAESTRO nell'ammonire i DISCEPOLI, acerrimo nel riprenderli, veemente nell'eccitarli, e prudente nel ritenerli con quella considerazione ch'aveva Isocrate intorno a Eforo e teopompo, suoi DISCEPOLI, de' quali uno diceva aver bisogno di freno, e l'altro di speroni.
Non deve mai lasciare che i scolari stiano in ozio, perché a quella guisa che i corsieri, a' quali spesse volte vien dato il maneggio da cozzoni, fan riuscita sotto lo sprone del signore, e quelli che si lascian star per molto tempo indomiti diventano duri, bizzarri e fieri, così avviene de' SCOLARI che, tenuti a segno da' MAESTRI fanno ottima riuscita nelle lettere, e i sciagurati che stanno in ocio divengono ogni giorno più grossi delle rape.
Onde ben disse colui di Tessaglia che, dimandato quai fossero i più vili e gli più abietti di tutta la patria sua, rispose esser quelli che vivevano in consuetudine storta o disconcia, mentre son PUTTI, perché, impressa ch'è una volta, sempre per l'ordinario si ritiene.
Il che dichiarò molto ben Licurgo presso a' Spartani, quando li mostrò quei due cagnetti diversamente allevati, de' quali uno, vedendo la caldaia, corse immantinente al brodo, e l'altro a una lepre, qual si lasciò per questo effetto uscir di mano. E seguasi in questo la sentenza di Focilide poeta:
Mentr'è tenero il putto, e 'l cor ha molle,
Empil di generosi alti costumi
.
Appresso i FANCIULLI si debbono ritrarre i MAESTRI quanto possibil sia dalle disoneste e laide parole, perché (come ben disse Democrito) il parlare è a punto un'ombra e un segno delle nostre azioni, imaginando ognuno che, quali son le parole, siano agevolmente [anche] i fatti di colui che le dice.
Ma fra tutte l'altre cose, anzi sopra tutte, un maestro cristiano dee avvertire d'insegnare a' fanciulli i fondamenti e principii della nostra fede, le virtù pertinenti al cristiano, essortargli alle messe, mandargli ai vesperi, alla dottrina cristiana, alle prediche, né risparmiare in queste cose all'ufficio e debito suo; fargli avvertiti che stiano costumati in chiesa, reverenti al Santissimo Sacramento, rispettosi verso i religiosi, tenendo a mente l'essempio di Teodosio -che, quantunque fosse imperatore potentissimo, con tutto ciò sommesse il collo ai precetti d'Ambrosio santo, e fece umilissimamente quanto gli impose- cos' quello di Costantino Cesare- che nel Concilio Niceno non volle arrogarsi il giudicio d'alcuni vescovi, dicendo non esser lecito che i dei fossero giudicati dagli uomini- e l'aurea sentenza di Clemente papa: "Omnes principes terrae, et cuncti homines sacerdotibus obedire, aut capita submiterre debent".
or tutte queste qualità si ricercano in un buono e virtuoso MAESTRO qual'è quello che descrivono Quintiliano, papa Pio, Battista casalupo, Martino da Fano ed altri assai; e non che sia ignorante come un asino, scostumato come una bestia, frosso d'ingegno come un cavallo, privo di giudicio come una pecora: perché non è cosa più ridicola al mondo quanto vedere un pedante borioso, che quattro sillabe in croce, con tre auttorità concie in agreste, con due discorsi messi in brodetto, con un distico pesto nel mortaio dell'agliata, vuol putire da filosofo al primo tratto, e anco da teologogo, restando colto come il pedante di San Quintino che, facendo professione di ridersi di tutti e d'aver ciascuno per una favola, fu uccellato un dì di buona maniera, quando commandò alla sua serva che facesse una mattina (aspettando forastieri a casa) una minestra elegante; ed ella, instrutta da un filosofo suo amico, tagliò minutamente tutte le opere di Marco Tullio [Cicerone] ch'egli aveva, e un Quintiliano e un salustio e un Demostene greco, e col formaggio e ova gli condisse elegantemente in una pentola; e poi la pose in tavola; e trovando ciascuno degli amici s' fatto intrico dentro, mentre il pedante alzò la voce per bravare, chiamandola sordida, essa arditissimamente rispose:"Che sordidezza ci è dentro? Anzi tutta l'eleganza del mondo si trova in questa minestra che voi ordinata m'avete". Per la qual cosa risero estremamente gli amici e, dopo il fine del convito, lodarono fra loro l'invenzione della serva, ch'aveva, con bellissima e ingeniosissima trovata, illuso la gloriosa rettorica del padrone.
Ma se a' MAESTRI di SCUOLA tante qualità onorate convengono e tante viziose disconvengono loro, l'istesso e molto più si dee dir di coloro che ne' PUBBLICI STUDI (cioè INSEGNANTI SUPERIORI = INSEGNANTI UNIVERSITARI) leggono a SCOLARI PROVETTI, essendo lor necessario tenere altra reputazione che i PEDAGOGI, e, secondo l'altezza del grado, avere i meriti da dovero onorati e sublimi, come: esser gravi ne' ragionamenti, circonspetti nelle loro azioni, trattabili coi SCOLARI, piacevoli nelle risposte, accorti nelle sottigliezze, destri nel pratticar coi STUDENTI, faticosi nell'INSEGNARE, diligenti nel leggere, sapienti nel discorrere, eloquenti nel parlare, garbati nel gestire, umani nel conversare, modesti nel disputare, e cercar con tutti i mezzi d'acquistar la benevolenza e amore di tutto lo STUDIO [leggi COLLEGIO UNIVERSITARIO].
Ma perché tali sono i medici, i leggisti, i teologi, i matematici, e altri PROFESSORI ne' STUDI, e di loro tratto le condizioni particolari èin altri DISCORSI+ bastami d'aver così in generale toccato le cose che si convengono all'UFFICIO loro, notando solamente che i DOTTORI DI STUDIO avvertiscano bene a quella sentenza di san bernardo :"Sunt quidem qui scire volunt, ut sciant, et curiositas est. Sunt quidam qui scire volunt, ut lucrentur, et cupiditas est. Sunt quidam qui scire volunt, ut aedificent, et charitas est" [in Sermones Super Cant., sermo XXXVI in PL, CXXXIII, 968], perché questo quarto modo è quello che ai DOTTORI DI STUDIO solamente si conviene.
E, benché siano libri o dottrine d'ETNICI [ETNICO = termine ecclesiastico usato per indicare i PAGANI e i GENTILI, cioè i CLASSICI GRECI e ROMANI a fronte dei CRISTIANI e degli ISRAELITI (vedi BATTAGLIA, sotto voce ETNICO)] Beda [il Venerabile] giudica doversi leggere tai volumi [scrive in questo DISCORSO il GARZONI] dicendo "Turbat acumen legentium, et deficere cogit qui eos a legendis secularibus libris omnimodis aestimat prohibendos, in quibus si qua utilia sunt, quasi sua sumere licet [leggi: "la probizione totale d'avvicinarsi ai testi profani, donde si può ricavare soltanto dell'utile, offende i lettori e li scoraggia" = così In Samuelem prophetam allegorica expositio, II, 9 = PL, XCI, 589-590].
Ed Eugenio papa [da Summa, III, 5,1,§2 = Decretum, dist. XXXXVII, 12, "de quibusdam"] nel suo sinodo instituì con ogni cura e diligenza si trovassero MAESTRI ch'insegnassero l'arti liberali, dicendo che i divini mandati si vengono sommamente a manifestare in esse.
Hanno dunque da insegnare per edificazione e utilità de' SCOLARI, e non per pompa, come molti fanno, recitando opinioni infinite di questi e di quell'altro, con argomenti innumerabili, senza risolvere infine la verità; non star sul pertinace nel difender più un auttore o una setta che un'altra, non dar mazzate irragionevoli ai concorrenti loro; non arguir temerariamente i DOTTORI d'importanza; non contradire dispettosamente a' suoi MAESTRI precedenti; non pigliar le letture per broglio; non sublimare i SCOLARI INETTI, e deprimere i DOTTI con qualche passione; non sprezzar gli emuli della sua professione a patto alcuno; non levar gli onori delle catedre a' SCOLARI SUFFICIENTI per invidia; non insegnar cose vane e curiose con danno de' STUDENTI; non tener la bocca chiusa contra i SCOLARI DISCOLI E SCORRETTI; non desiderare estremamente d'esser cortigiati da essi; non andar ornati e profilati di soverchio essendo lor condecente la gravità modesta, o una modestia grave più che altro.
Nel resto [i DOCENTI UNIVERSITARI scrive in questo DISCORSO il GARZONI] facciano onore a se stessi e allo STUDIO dove LEGGONO [INSEGNANO], e non lo STUDIO a loro: perché non l'UNIVERSITA' DI PARIGI fa onore a Alcuino, a Rabano, a Scoto, a Alessandro de Ales, a San Bonaventura, a San Tomaso d'Aquino; non lo STUDIO TICINESE (UNIVERSITA' DI PAVIA], primo dopo il predetto (secondo il Zabarella), è quello che onora Giasone del maino, Filippo Decio, Francesco di Corte, l'Alciato, e il Menochio; non lo STUDIO DI PADOA onora il Mantua, il Piccolomini, il Bellacatto, lo Stefanello (anima de' Canonici di San Giovanni di Verdara), il Pendasio, l'Arcangelo, il Mercuriale, il Pellegrino e altri infiniti; non l'UNIVERSITA' AURELIANENSE [di Orléans] decora Pirro suo DOTTORE e celebratore delle sue lodi; non la PITTAVENSE [di Poitiers] orna Tomaso Cusniero, Nicolò Dorbello, e Guglielmo da Monte Lauduno; non lo STUDIO DI MOMPOLIERI illustra Nicolò Boerio, il Piacentino ghiosatore, Iacomo Rebuffo e il dottore Azone; non lo STUDIO ROMANO porge onore a Plotino da Lione, e al dottissimo Augustino; non lo STUDIO DI BOLOGNA dà gloria e grandezza al Beroaldo, al Sigonio e ad altri infiniti; non lo STUDIO PERUGINO essalta bartolo e baldo suoi dottori principali, con Pietro e Angelo degli Ubaldi fratelli germani; non lo STUDIO DI SIENA rende famoso Pietro d'Ancarano e paolo di Soncino; non lo STUDIO DI FERRARA adorna di trofei il Maggio, il Bresavola, il Cinzio, il Pigna, il Roncagallo e tanti altri; non lo STUDIO DI TOLOSA, non QUEL DI SALAMANCA, non l'OSSONIENSE [di Oxford] in Anglia, non QUEL DI VALENZA o simili altri studi rendono grandi e celebri i lor DOTTORI, ma i DOTTORI FAMOSI son quelli che porgono decoro e grandezza a tali STUDI.
I PUTTI, poi che [con il MATERIALE NECESSARIO ALLO STUDIO] vanno a SCUOLA, e tutti i giovenetti [ancora scrive in questo DISCORSO il GARZONI] debbono cercare d'ubidire al MAESTRO e onorarlo, come bene avvertisce il Cardinal Milanese [cioè Simone da Bursiano] nel Prohemio delle Clementine; sostentar le loro opinioni veridiche, come faceva Cassio giureconsulto, e deferir sempre al MAESTRO, come gli essorta Platone in tanti luoghi.
A lor si conviene guardarsi dalla crapula ed ebrietà, perché, come dice san Gregorio nei Morali : "Dum venter non restringitur, simul cunctae virtutes obruuntur [Mor, XXXIX,18 = PL = "Se la pancia non vien meno, tutte le virtù si disperdono"]; e San Ieronimo nell'Epistole dice "venter pinguis non generat sensum tenuem [Epist., LII = PL, XXII, 537 = "Ventre pingue non dà intelletto sottile"].
Hanno da fuggire il giuoco, non quello, che Anacarsi concede per ricreazione d'animo, ma il profano e dannoso alla conscienza di ciascuno.
Hanno da schivare la conversazione de' compagni cattivi, e tutte le male prattiche.
Hanno da aborrire le parole viziose perché, dice Menandro :Corrumpunt bonos mores colloquia mala" [ la citazione da Menandro vien ripresa dai Cor., XV,33 quale prestito dalla commedia Thais dell'autore classico, parimenti citato dal Piccolomini nel suo De liberorum educatione].
In loro si richiede la vergogna onesta, il decoro civile, il timor figliale, la semplicità della mente, la purità interiore, l'onore reverenziale, l'esser da bene, l'esser devoti, attendere allo studio, seguitar la scuola, levarsi a buon ora, mandare alla memoria le lezioni, portare invidia generosa ai compagni, dar credito ai MAESTRI, imparar ben la grammatica, di leggere, di scrivere, di puntare [uso della punteggiatura], far conto, di leggere alla distesa [leggere a voce alta], di legger per il senno [leggere a mente, in silenzio], declinare, coniugare, far le concordanze, i latini per tutte le regole, le figure, l'epistole, e simili altri ch'insegnano i PEDANTI [all'epoca equivalente non spregiativo di MAESTRO e PEDAGOGO].
Ove giovarà loro pur assai l'operetta di papa Pio De educatione liberorum, l'epistola d'Agostino dato a Tomaso Rimboto [trattasi di breve lettera leggibile in Familiarissimae epistulae, N. de' Prati, Parigi, 1516, libro I, c. BIIrv] e la lettera del cavalier Pomponio Spreti a camillo suo figliuolo [lettera del S. Cavaliere Pomponio Spreti a camillo suo figliuolo, Francesco Tebaldini, Ravenna, 1579].
E sappiano i PUTTI che questi sono i diffetti e vizi loro: far chiasso nelle scuole, romper silenzio nell'absenza del maestro, dar de' pugni a colui che tien la norma [il demandato a mantener l'ordine], far le fugaccie dentro ai salteri [forse ungere i libretti su cui i fanciulli imparavano a leggere e detti così perché contenevano qualche salmo], cacciar la testa ne' studi e mangiar le castagne di nascosto, giocare a pisso e passo con la cera, o a primo e secondo con Virgilio e Cicerone, giocare a trent'uno, far le barchette da acqua con la carta, pigliar le mosche e serrarle ne' scartocci, dar la caccia ai grilli per farli cantare in scuola, portare i parpaglioni [grosse farfalle notturne] da volare, aver le piastrelle di piombo nella sacca da giocare, attendere a dipinger le rosette, a far de' pali da correre, far scarabotti [scarabocchi] sopra i Donati [il Donatus era la grammatica latina elementare divisa in Ars minor e Ars maior], dipinger teste dentro ne' Guarini, stracciare il cato per non tenerlo a mente, morder colui che gli leva a cavallo, dimandar d'ognora d'andare ad locum, overo mictum, attaccar la foglia di fico alla sedia del maestro, nasconderli la scutica magistrale, recitar fra la frotta de' scolari l'Ariosto in cambio dell'epistole d'Ovidio, uscir di scuola come diavoli scatenati, urtarsi fra loro come tanti fachini, girar per le mura facendo mille pazzie, dar la pasta ai ranocchi in cambio di studiare, tormentare i serpi in vece di leggere, strappare i frutti e i fiori d'altri quando si va alle perdonanze [luoghi pii come chiese e cimiteri], rompersi la testa fra loro per mille fanfalucche, consumare il tempo con giocare al pino, alla moscola [gioco che consisteva nell'usare la cocca metallica del fuso], al pandolo o alla baronzola, all'età dritta, alle piastrelle, a corrersi dietro, a cicerlenda [gioco che si svolgeva percuotendo a un'estremità un bastone], e a simili altre frascherie.
Or queste son le cose che fanno disperare i padri, che fan gridare le madri, che fanno adirare i MAESTRI, onde ricevon le staffilate con la scutica ch'è stata nell'aceto, le bacchettate con la verga di spino bianco, i tartuffoli sul capo, i mostaccioni nella faccia, i calzi di dietro, i pugni davanti, e una buona mano [mancia ma nel senso ironico di cegffone] il dì di San Silvestro.
Ma quei provetti che noi chiamiamo SCOLARI DI STUDIO [scrive ancora nel suo DISCORSO il GARZONI], over STUDENTI, sono quelli che acconciano il grasso nella minestra, perché son l'allegrezze compite de' padri, come in questo discorso intenderassi [in effetti qui il Garzoni qui si lascia andare ad un discorso moralistico in merito agli eccessi di alcuni GOLIARDI del suo tempo = GOLIARDO dal lat. mediev. goliardu(m), der. di Golias, v. anche provenz. ant. goliart del sec. XIII: anticamente GOLIARDI erano i "chierici vaganti", poi il termine si estese ad indicare gli "studenti universitari" coinvolgendo nel termine un riferimento semantico alla vita libera, spensierata e talora dissoluta che si riteneva caratteristica di tale periodo di studi].
A questi s'apperterebbe esser gioveni modesti e da bene, considerando il detto del Savio che "in malivolam animam non introibit sapientia [Caccialupi nel Modus studendi..., doc. I con citazione dai Proverbi, II, 10 = "La sapienza non entrerà in animo malvagio"]; il qual consiglio fra' primi è dato da Guglielmo da Monte Lauduno nella prima delle Clementine, dove si tratta de' MAESTRI; e l'eccellentissimo Dottore Simone da Bursiano cardinale di Milano, nel prohemio delle Clementine avvertisce i SCOLARI e STUDENTI che non confidino nella perspicacia e acutezza dell'intelletto loro, non nella ASSIDUITA' DELLO STUDIO, non nella tenacità della memoria, ma ponghino la loro speranza in quello ch'è Signore delle scienze, e in cui si chiudono tutti i tesori della sua sapienza.
L'istesso consiglio è dato loro dall'eccellentissimo Francesco zabarella e da Goffredo Gaietano nella predetta Clementina.
Bisognarebbe che s'astenessero dalle lascivie delle meretrici, perché sono la rete del diavolo, come dice Ieronimo santo; e molti SCOLARI fanno disonorato fine per loro, come testifica il cardinale Fiorentino nel suddetto luogo.
Sarebbe di mestiero ch'occupassero il tempo benissimo, non essendo cosa più perniciosa a loro, secondo il parere di teofrasto, che la perdita del tempo.
Sarebbe necessario loro trovar DOTTORI VALENTI, e frequentare l'udienze di quelli e imparando qualche cosa ai lor DOTTORI ignota, non riputarsi per questo di più di loro, essendo cosa agevole (come dice Seneca [in Caccialupi, documento III]) nel prato spaziosissimo delle discipline, che il bue ritrovi qualch'erba fresca, il cane dia la caccia a qualche lepre giovane, e la cicogna becchi qualche luserta [lucertola], che nuovamente sbucchi fuori.
Sarebbe ancora cosa molto opportuna, che essi stessero assidui nello studio, considerando il bel detto di Pomponio giureconsulto [in Caccialupi, documento IV] -che fino all'età di settant'anni diceva non aver avuto altra vita che quella che dallo studio aveva acuistata- e udir senza intermissione la voce viva de' precettori, perché "viva vox" (come dice Ieronimo santo nel prologo della Bibbia) "habet nescio quid latentis energiae" ["La viva voce ha non so quale forza misteriosa" = Gerolamo, Epist., LII,2 = PL, XXII, 541].
E questo consiglio è dato loro da Laurenzio, dottore antico, nella prima delle Clementine, e da Cenzelino sopra i Decreti, e da paolo da castro sopra i Digesti.
Non dee presumere lo SCOLARE di sapere, ma sapere in effetto, perché (come ben diceva Temistio filosofo) "maxima pars eorum quae scimus est minima eorum quae nescimus" ["nulla è ciò che sappiamo a fronte di quanto ancora ignoriamo" = [concetto ripreso da Polyanthea ad vocem scientia in cui si rimanda ad un Comm. de Anima, III].
E Alberto causidico bresciano diceva che "pars scientiae est scire quod nescias [Albertano da Brescia, De doctrina dicendi et tacendi, sezione De consiliis dandis et requirendis; De prudentia, Vioto de Dulcis, Cuneo, 1507, f. 10 v, col. I = "Base del sapere è il sapere che non si sa"].
La qual cosa conchiude benissimo marziale in quei due versi:
Discendi modus est, si te nescire videris,
Disce, sed assidue, disce, sed ut sapias
.
Sopra tutto bisognarebbe che spessissime fiate disputassero con gli altri, perché la disputa (come dice leonardo Aretino nel trattato che fa de utilitate disputationis) è quella che aguzza l'intelletto, e lo fa penetrare dove la lettura e lo studio non perviene.
E chi vuol vedere ristrettamente quanto si ricerca in un SCOLARE, legga Agostin santo nel libro De ordine contra Academicos, e Battista Casalupi da S. Severino nel libro che fa De modo studendi in utroque iure.
Ma oggidì gli STUDENTI non fanno cosa a proposito, anzi tutto il roverscio di quello che tocca loro, e non è vizio al mondo, dissoluzione alcuna o scandalo veruno, dove i SCOLARI o STUDENTI non s'immergano dentro.
E benché Santo Antonino nella terza parte della sua Somma dia una buona rasentata a tutti loro [Summa, III,5,2,§ 11], con tutto ciò non narra la metà di quello che ne' STUDI MODERNI oggidì si fa da loro.
Perdonatemi, signori STUDENTI, se io v'assettarò alquanto più strettamente il giuppone ["vi biasimerò"] attorno, perché son quello che m'intendo de' vostri capricci e delle vostre bizzarie per modum comprehensionis, essendo stato dell'academia de' vostri umori al tempo di così stravaganti cervelli ch'abbian le scuole mai provato.
Orsù volete ch'io dica le vostre materie, o no?
Poss'io contarle senza incarico vostro, e senza farvi oltraggio, o no?
Poss'io sedere in catedra, e fare una lettura di tutte le dissoluzioni e di tutte le vanità e pazzie che vengono da voi, o no?
Ma sento che il BIDELLO mi va intimando che non le tralasci per niente, imperoché tutto il COLLEGIO capriccioso l'avrà così care, come se a un per uno facessi vedere il demonio in un ampolla.
Vedete, non vi dolete poi di me, né mi state a far litigare con quel diavolo di Pasquino o Marforio, perché non mi vo' romper la testa come han fatto loro; e Dio sa che vi son servitore di buona carta e di buono inchiostro quanto sapete desiderare.
Io non tocco alcuna cosa quasi di quelle dell'Inferno del Doni [i VIZI DEGLI STUDENTI elencati da A.F.Doni nel II libro de i Mondi, intitolato I sette Inferni, specificatamente nel primo alla sezione "Lo scolare accademico peregrino agli scolari ignoranti"] che fa contra di voi, perché mi parrebbe un sciocco presso a tanti cervelli risoluti e fantastici, se io non dicessi più mal di voi che voi non fate male agli altri.
Orsù facciamo capo dalla conscienza, perché questa è quella ch'ordina il tutto, e che mette in essecuzione tutte l'opere de' SCOLARI.
La conscienza adunque, se non è grossa in loro, non val niente, perché non si tiene gran conto di tener la Pippa, la Nanna, le figure aretinesche, la torta del melzi, il bernia, il Burchiello, il Franco, idolo de' STUDENTI, benché si facciano tante inibizioni al contrario; e beato quello (parlo de' viziosi e scorretti, riservando l'onor de' buoni) che descrive meglio la confessione di sier Ciapelletto, il miracolo delle penne dell'angelo Gabriele, la burla di frate Alberto, e la favola della badessa dell'orto [novelle del boccaccescco Decameron], quasi che c'entri una laude eroica a farsi corona introno di mille cervelletti insipidi come i fongi, i quali stanno fissamente ad ascoltare queste mere dissoluzioni de' capricciosi STUDENTI MODERNI.
Non si parla di messe molte volte, e meno di vespro, e poco della predica, essendo riputato cosa da galant'uomini l'udire solamente l'Ite missa est e l'ultimo fervore, quando il predicatore sta per uscir di pulpito.
E quasi per ordinario la cocolla [capuccio monacale e quindi in senso esteso il monaco] è abborrita da' scolari, imperoché sanno che la bertuccia non può scherzare ove il leone mette la griffa [grinfia].
Oltra che presumono sempre d'esser più bei cervelli assai di loro, e tengon i cucullati per cucchi, pensando che i paragrafi non abbiano superiore, e i cristeri non ricevan pari ma si mettono i serviziali da se medesimi, imperoché questa insulsa persuasiva è sbattuta dall'opere che fanno alla giornata questi tali, valendo più di un quodlibeto di Scoto in su 'l mostaccio, che un digesto di legge sulla schiena, o un suppositorio di Mesuè dove si pone.
Della superbia intolerabile, della vanagloria indicibile de' STUDENTI non parlo, perché come sanno formare un madrigale del Parabosco o del Cieco d'Adria, una sestina del sanazaro, un sonetto del Tasso, allora son compiti e perfetti in utroque iure, così semplice come potacchio.
Ma se per sorte sanno conchiudere in logica che Sorte sia un asino, o Bucefalo un cavallo; in filosofia che il vacuo non sia fatto come il lor cervello; in matematica che non sian matti stravaganti affatto; in astrologia che non sian stralocchi e civette di quelle del campanile di San Giovan scalzo di Pisa, io dirò che la quinta essenzia della virtù gli va adombrando il campo, e che hanno l'elixir de' filosofi in testa che gli fa parere Esculapi col capo d'oro su la piazza di Corinto.
Con questa sciocca persuasiva di sapere, i miseri si fan beffe degli altri, scherniscono il mondo a lor piacere, deridono tutti riputando sè soli; chiamano cucchi i predicatori, asini gli teologi, civette i dottori, allocchi i medici, bestie i PEDANTI, chiudendo in loro tutta la scienza di Platone, se noi vogliamo dire tutta la goffaria de' mamalucchi, tutta la scempietà di quei di Valtolina [che una falsa credenza teneva per poveri di intelletto], e tutta la pazzia che hanno in loro i matti i matti di San Vincenzo èospedale dei pazzi] di Milano.
Com'esser può che la taglino tanto?
Che le bravure sian così stravaganti?
Che l'astrolabio del lor cervello guardi sì su da tutti i tempi, poiché non solo non vogliono superiore come Pompeo, ma né anco uguale come Cesare?
Lascio da parte le dispute e le contese vane che si fan da essi intorno un pezzo di codice rotto, d'una ghiosa tacconata [rattoppata], d'un titolo abrogato, d'un capitolo chìè escluso da voce attiva e passiva, d'un'auttorità che non val niente, d'una ragione senza sale, d'un testo senza testa, d'un passo senza compasso, d'una linea senza meta, perché le piazze e le botteghe più che i claustri della sapienza possono render testimonianza che il LITIGIO, figliuolo di demogorgone, abbia preso ricetto e albergo in essi.
L'ostentazione è tanto propria e particolare de' STUDENTI che, quando questa prospettiva non apparese in publico, i calzolari e i ciavattini perderebbono lo spasso che in mezzo alla piazza si prepara per loro.
L'esser parimenti immoderati in tutte le specie di disonestà, par che sia una gloria generosa presso a quelli, avendo per onorevole oggetto il corteggiare Isabella, favorir Lucrecia, compor sonetti per Cinzia, intricarsi con Andronica, praticar nei chiassi [postriboli], conversar con ruffiani, parlar disonestissimo, tirar la posteriora a sensi laidi e sporchi, la medicina a soggetti ridicoli di testi tarolati, e appellazioni di sentenze così fatte, aver l'Aretino per duce, e Fidenzio per poeta principale nelle azioni più deformi.
Or questo è lo STUDIO loro.
Qui si scorgono i lor capricci; qui ricevono il lor contento i padri; qui si mostra quanto hanno appreso in poco tempo.
Quindi hanno i parenti e gli amici l'allegrezze perfette della lor riuscita, mentre stanno sui chiassi ognora, sui giuochi del continuo, sui banchetti matina e sera, mentre visitano spesso il banco di messer Simone [banco dei pegni si suppone: dal nome ebreo del titolare], impegnano i testi civili per sei testoni, l'instituta per quattro gazette , Il Przio per una da otto, l'Aretino per un mocenigo, Bartolo va a spasso per [il] ghetto [di Venezia], Baldo passeggia sotto la loggia dei librari, e tutti i libri s'accordano di fare una rassegna per caminare alla volta di Cuccagna [paese di Bengodi ove sperperarvi tutti i soldi].
Altri pensieri hanno costoro che di studiare, pur che la paga venga, pur che la mancia s'avvicini, pur che il povero e stentato padre per le polize faccia risponder loro il salario d'Isabetta e Iacomina.
Del resto, se ben non aprono libro, se ben non entrano a alcun dottore, se bene entrando si numeran quadrelli in terra o fannosi castelli in aria, se ben non si fa altro che far la stampinata [dar assillo] al BIDELLO, fischiar del continuo come papagalli alla lezione, batter nei banchi con le manopole da soldati, romper quell'ascie [ribalte dei banchi] delle scuole con i stiletti, e rapprresentar del continuo un carnevale, spegazzar èimbrattare] le muraglie di mille immagini sporchissime, dettare i lor trionfi su le porte delle SCUOLE, inchiudervi dentro un Pasquino lagrimoso con qualche motto da civetta, pare a lor che la cosa non importi.
E son tanto scioperati e distratti in tutte le sorti di materie che l'esser nominati per capricciosi, fantastici, indomiti, bestioni, rompicolli, l'hanno per un titolo da galant'uomo e da buon compagno.
E sempre cercando d'apparer tali, ragionando sporchissimamente fra di loro, e beffando quanti passano dinanzi alle SCUOLE, schernendo forastieri e terrieri [cittadini] d'ogni sorte; facendo soperchiarie di dì e di notte alla povera brigata; ordendo insidie ai zaffi e alla corte; facendo correr questi e quell'altro senza alcuna cagione; battendo alleporte delle meretrici da ogni tempo, staffilando le ruffiane ed esse, quando son satolli di loro, rompendo le pignatte per picciolissima occasione, dando nelle scartate [dare in escandescenze] per leggierissima causa, e facendo strabalzi inavedutamente a mille a mille.
E' felice colui che sa cacciar meglio carotte [dir scemenze], che sa trovar megliori invenzioni di baie, ch'è più prattico in tutte le frascherie, che sa meglio ribbare un pollaro, che sa metter più a ordine una fantasia da por terrore alla gente (come qui che fecero i diavoli ai Santiquaranta di Trevigi, fingendo Minos e Radamanto e Cerbero trifauce e un'anima cruciata nel regno di Dite, che fecero quasi spirare alcuni dalla paura [scherzo fatto da alcuni GOLIARDI del monastero dei canonici di treviso ove risedette il Garzoni]),, ch'è più audace a attaccar cartelli, ch'è più pronto a menar le mani, ch'è più ghiotto e furfante degli altri, e, in somma, chi ha manco cervello, in questa SCUOLA di pazzia riesce meglio.
Ma s'uno è gentil con tutti, modesto, affabile, cortese, letterato, giudicioso e savio, questo tale ne' moderni STUDI è riputato poco, non essendo della caterva de' trascurati e desviati.
E s'altri con bellissimo discorso e felicissimo giudicio cerca di far ridotto [ritrovo] onorato di comedie, di tragedie, di canto, di suono, di retorica, di poesia, di spettacoli civili (come pur tal volta se ne vede), pochi si vedono farli corona intorno, perché la gloria vera è opffuscata dinanzi ai giudicii de' studenti depravati, i quali non son buoni da altro, quasi, che da porsi come i tori in un steccato, e cacciargli i soffioni [razzi] nelle corna, acciò si scapriccino a lor modo di far pazzie.
Però avvertiamo il lor nobilissimo RETTORE e tutti i DOTTORI eccellenti di STUDIO, mandando un BIDELLO a un per uno, che facciano in modo che questi diavoli scatenati venghino allegramente alle volte di piazza, perché con le materie loro tutto il vulgo s'aspetta una festa ridicolosa e un spasso maraviglioso da vedere, sperando che i Burattini, i Graziani, i magnifici, i Zani, e tutte le sorti di buffoni non mancaranno ad illustrar la piazza per farci cosa grata.
Fra tanto ciascuno prepari il luogo, perché s'han da veder i più bei matti de' trionfi che si sian visti ancora, perché per questa correzione fraterna non cesserà in lor il carnevale; anzi il cervello gli diventerà frollo in modo che saran più solenni per l'ottava [priodo di otto giorni che precede una festività] che per la festa.
Ma partiamo da questi fanatici, e facciamo transito ad altri.
Annotazione sopra il CI discorso
Diceva il Barges [forse Antonio Barges autore de Il primo libro de villotte a quattro voci, con un altro canzon della Gattina, Venezia, 1550] che il vacuo in natura non si dava, eccetto che ne' scolari di studio communemente, perché tre cose eran sommamente vacue in loro: il cervello, la borsa e la scienza.






























Le notizie su ACHILLE TAZIO sono assai scarse.
La fonte principale è il lessico bizantino Suda (X sec. d.C.) sul quale è detto "alessandrino" e autore di opere di carattere etimologico e miscellaneo, notizie entrambe non improbabili.
Nella medesima voce lessicografica si dice che Achille Tazio si sarebbe convertito al cristianesimo, diventando persino vescovo: non è notizia totalmente da escludere e nemmeno va escluso il fatto che fosse a conoscenza, se non addirittura ammiratore della fede cristiana; senz’altro nel suo romanzo si coglie un influsso di dottrine neoplatoniche e mistiche.
Una seconda testimonianza è quella di Tommaso Magistro, che lo chiama "retore", cioè oratore, avvocato, il che è verosimile, anche se forse la notizia è desunta dalle parti conclusive del romanzo, spiccatamente giudiziali ed oratorie.
Non abbiamo testimonianze a riguardo, ma il romanzo si può datare nella prima metà del II sec. d.C. grazie al "papiro milanese", che criteri paleografici assegnano a tale periodo.
La Suda lo definisce un romanzo erotico.
E’ indubbiamente vero, anche se presenta delle differenze rispetto agli altri:
Il carattere omodiegetico: la narrazione è condotta in prima persona, per cui il racconto si svolge intorno ad un personaggio principale che è anche il narratore, caratteristica che si può ritrovare nelle novelle milesie; affinità con i caratteri della "fabula milesia" presenta anche il personaggio della presunta vedova Melite.
I personaggi: la figura di Clitofonte non è idealizzata, non ha quindi qualità che possano suscitare la lode o l’ammirazione del lettore; non si può parlare di parodia dell’eroe romanzesco, ma semmai del tentativo di Achille Tazio di essere vicino alla realtà e di osservarla talora con sorridente disincanto, grazie al suo spirito curioso, analitico, non portato alla idealizzazione.
La frequenza di excursus, discussioni dottrinarie, orazioni e dibattiti giudiziari che evocano le controversiae delle scuole di declamazione, ampi soliloqui dei personaggi, che evocano le monodie euripidee.
Inoltre l'impiego indistinto e privo di intenti moraleggianti di generi narrativi minori come favola, eziologia, novella, aneddoto, che è prova sia della connotazione più comica e più "realistica" del romanzo, sia della tendenza enciclopedica di Achille Tazio e del piacere dell’affabulazione.
Pertanto l' autore è osservatore tanto della natura umana, quanto di quella del mondo; e se a noi moderni certe sezioni possono sembrare datate, quasi pause forzate che nuocciono alla levità del racconto, dovevano essere molto gradite invece ai lettori del tempo, oltre che , naturalmente, ai lettori medievali e bizantini.
Lo stile: è sempre stato lodato dagli antichi come dolce, semplice; i periodi sono brevi, musicali, ma l'apparente semplicità è frutto di colta e studiata abilità retorica, evidente nel ricorrere costante di antitesi, parallelismi, chiasmi, omoteleuti...
Il romanzo è volutamente privo di elementi nobilitanti come i richiami epici, mitici o storiografici; è invece ricco di situazioni da commedia e, come si è già ricordato, inserisce narrativa "minore" popolare, risultando particolarmente multiforme e disarticolato in mille inserzioni e aperture collaterali.
Il rapporto con i modelli e con il genere romanzesco: Achille Tazio si distacca dai modelli letterari e dai topoi romanzeschi in modo persino spregiudicato. Basti osservare come vengono affrontati alcuni temi caratteristici: la castità, la fedeltà, la prova della verginità, la figura del rivale, la morte apparente (inserita ben tre volte nella vicenda), la magia... In conclusione, si può affermare che Tazio opera un gioco disincantato sulle convenzioni romanzesche, che si attua in uno scarto iniziale rispetto alla norma, destinato poi a risolversi in modo originale nell' ambito della convenzione stessa. L’opera appartiene alla fase post sofistica e si configura come un "laboratorio di scrittura", l’autore gioca con sicurezza con i generi e con i meccanismi della neoretorica del II secolo d.C., con spiccata metaletterarietà.
I LIBRO: Il narratore giunge a Sidone in seguito ad un naufragio e si reca al tempio per offrire un sacrificio di ringraziamento. Qui incontra un giovane, che si presenta col nome di Clitofonte e inizia a narrare la sua storia. Abitante di Tiro, si era innamorato di Leucippe, figlia di suo zio Sostrato di Bisanzio, ospitata in casa sua a causa della guerra mossa a Bisanzio dai Traci. Il cugino Clinia lo consiglia sull'arte amorosa, ma viene interrotto dalla tragica notizia della morte del giovinetto suo amante, durante una cavalcata. Seguono i lamenti funebri del padre del ragazzo e di Clinia. Clitofonte inizia il corteggiamento della fanciulla.
II LIBRO: Clitofonte con l'aiuto del fidato servo Satiro, riesce finalmente a vincere le resistenze di Leucippe. Egli tuttavia era promesso alla sorellastra Calligone, mentre Leucippe aveva suscitato l'amore del giovane bizantino Callistene. Per ottenerla, questi decide di rapirla, ma per errore trascina via con sé Calligone. Dopo qualche tempo, i protagonisti stabiliscono un convegno notturno, ma trovano come ostacolo il servo di Leucippe Conope e la madre Pantea. I due amanti fuggono insieme a Satiro e a Clinia. Si imbarcano e durante la navigazione conoscono il giovane Menelao.
III LIBRO: Scoppia una tempesta, a seguito della quale apparentemente solo Leucippe e Clitofonte sono sopravvissuti. Ritornati sulla terra ferma, si imbarcano di nuovo, e viaggiano verso Alessandria lungo il Nilo. Catturati in un assalto dai predoni, Clitofonte viene presto lberato dai soldati; Leucippe invece, è stata già portata via per essere sacrificata. La notte, Clitofonte assiste impotente all'uccisione dell'amata e tenta il suicidio per il dolore. Lo fermano Menelao e Satiro, che gli rivelano che in realtà Leucippe non è morta, grazie ad uno stratagemma da loro architettato. Nel frattempo, l'assalto decisivo dell'esercito contro i predoni viene rimandato a causa di un infausto presagio.
IV LIBRO: Lo stratega dell'esercito, al quale si sono uniti, si innamora di Leucippe; ella, però, riesce a tenerlo lontano, finchè egli non trova la morte in battaglia. Intanto un altro suo spasimante, cercando di conquistarla con un filtro d'amore, le causa un'improvvisa follia. Clitofonte riesce a guarirla grazie all'antidoto fornito da uno sconosciuto, Cherea. Finalmente i predoni vengono sconfitti e il Nilo torna navigabile.
V LIBRO: Cherea, segretamente innamorato di Leucippe, decide di rapirla durante una gita a Faro. Durante l’inseguimento, Clitofonte assiste alla sua decapitazione e ne raccoglie dal mare il corpo. Tornato ad Alessandria, dopo qualche tempo, incontra per caso l’amico Clinia: egli infatti non era morto nel naufragio, ma quando era tornato a Tiro aveva saputo che il padre di Leucippe l’aveva concessa in sposa a Clitofonte. Informa inoltre il giovane che Sostrato stava per giungere lì ad annunciargli la felice decisione. Clitofonte è disperato e Satiro, Menelao e Clinia gli consigliano di sposare Melite, una ricca vedova perdutamente innamorata di lui. A malincuore egli accetta, a patto che il matrimonio non venga consumato prima dell’arrivo a Efeso, per non mancare alla memoria di Leucippe. Ad Efeso, Melite affranca una schiava di origini libere, ridotta in terribili condizioni dall’amministratore Sostene, che viene licenziato. Mentre continua a respingere la moglie, Clitofonte viene a sapere che quella schiava è proprio Leucippe, che lo accusa di esserle stato infedele. Intanto Melite manda nei campi Leucippe per procurare un filtro d’amore per Clitofonte. Improvvisamente però, si ripresenta il marito di Melite, Tersandro, scampato in realtà al naufragio. Clitofonte viene imprigionato nella casa. Melite lo fa fuggire, solo dopo averlo convinto a concedersi a lei.
VI LIBRO: Clitofonte fugge travestito da Melite. Sostene intanto, per vendicarsi di Melite, rapisce Leucippe e decide di affidarla al padrone Tersandro per allontanarlo dalla moglie, ma mentre lo conduce dalla ragazza, incontra Clitofonte e lo rinchiude in prigione. Giunto presso Leucippe, Tersandro cerca di conquistarla ma ella lo respinge commuovendolo. Melite placa il marito sostenendo che Clitofonte non è il suo sposo ma è solo un ospite e che anzi ha per moglie Leucippe. Per avere una conferma Tersandro torna dalla fanciulla che resiste al suo tentativo di farle violenza.
VII LIBRO: Tersandro in preda all’ira lascia Leucippe, avendo compreso che non sarebbe mai riuscito a possederla. Escogita quindi di mandare in prigione da Clitofonte un uomo che gli faccia crederere che Leucippe sia morta per mano di Melite. Egli si dispera e, in vista del processo, decide di accusare se stesso e Melite sia di adulterio sia di omicidio. Così avviene; Clinia cerca inutilmente di discolparlo davanti al tribunale. Melite, a dimostrazione della propria innocenza, mette a disposizione la sua ancella perché testimoni sotto tortura e vuole che anche Tersandro faccia lo stesso con Sostene. Questi fugge immediatamente a Smirne, ma per errore lascia aperta la capanna dove era rinchiusa Leucippe. Dal momento che anche Sostene risulta scomparso, Clitofonte viene accusato della sua morte. Il giovane viene quindi condannato alla tortura e alla morte. In quel momento, però, giunge una processione di Bizantini, grati ad Artemide per aver vinto la guerra. Fra loro si trova anche Sostrato e la condanna di Clitofonte viene dunque sospesa. Intanto il sacerdote della dea annuncia che una fanciulla si è rifugiata nel tempio e Sostrato, giunto lì, riabbraccia la figlia Leucippe.
VIII LIBRO: Clitifonte, liberato, è ospite del sacerdote e qui narra a Sostrato tutta l’avventura, fin dalla fuga da Tiro e sottolinea l’intatta verginità di Leucippe. Dopo alcuni giorni, riaperto il processo, Tersandro pronuncia un discorso in cui si lamenta del fatto che Clitofonte sia ancora vivo e che, pur essendo un assassino (Sostene è ancora introvabile ), sia stato ospitato dal sacerdote nel tempio. Questi lo accusa di empietà e di essere lui stesso il vero uccisore di Sostene. Tersandro chiede che vengano messe alla prova la verginità di Leucippe e la fedeltà matrimoniale di Melite, lasciando il giudizio al dio Pan e alla dea Artemide. Gli oracoli risultano entrambi favorevoli, così Tersandro è costretto a fuggire, condannato all’esilio, dopo che anche Sostene è stato catturato. Leucippe racconta come sia sopravvissuta alla decapitazione dei predoni di Cherea e Sostrato spiega come Calligone abbia sposato il rapitore Callistene, lasciando così Clitofonte libero da ogni promessa. Leucippe e Clitofonte salpano per Bisanzio dove si uniscono in matrimonio.