Clicca per lettura non attiva della stessa pagina = ma con titolazione e guide metodologiche Il napoletano Predicatore Padre Teatino Lodovico Antinori (da pagina 93, ultima riga, del repertorio biblioteconomico aprosiano del 1673), ascritto come qui si legge tra i "Fautori" dell'Aprosiana, fu con Giovanni Argoli tra coloro che maggiormente sollecitarono ed indussero Angelico Aprosio a redigere la SECONDA PARTE DELLO SCUDO DI RINALDO la cui stesura iniziò in un momento ritenuto oscuro dagli astrologi e presagio di una tragedia (della peste poi realmente sopravvenuta) in quanto caratterizzato da due eclissi, una di luna e l'altra di sole = ritenute preavviso e segnale di grandi e malefici travolgimenti secondo la lettura degli "Arcani delle Stelle" (non bisogna dimenticare che se stava affermandosi come Terra di Astronomi: e quello di Gian Domenico Cassini ne fu solo il nome più illustre la Repubblica di Genova era anche celebre come Terra di Astrologi e in dettaglio Tomaso Oderico ne fu solo un esponente prestigioso fra tanti visto che Aprosio stesso -con doverosa prudenza- si dilettava di calcoli astrologici come si vede da questo manoscritto atteso il fatto che l'astrologia ed in particolare l'astrologia giudiziaria reputata connivente con divinazione e magia dopo lunghissima tolleranza era stata condannata dalla Chiesa nel XVI secolo e che nel XVII la condanna era stata ribadita da Urbano VIII, che pure la praticava, dopo esser stato vittima di una congiura magica connessa anche all'astrologia giudiziaria nota come "congiura Centini" cosa che aveva indotto il gesuita Giovanni Battista Noceto a condannare presso Stato e Chiesa Tomaso Oderico). Ritornando al tema della stesura e in particolare dell' incipit della Scudo di Rinaldo, Parte Seconda come detto sollecitata da tanti ed in particolare da Giovanni Argoli e Lodovico Antinori è da precisare che all'epoca "Il Ventimiglia" alternava il suo avvenuto ritorno nella città natia donde era stato coniato questo suo appellativo con spostamenti in varie località per i suoi compiti religiosi non esclusa l'opera di predicatore sì che particolarmente lunghi si rivelarono i periodi in cui risiedette a Genova tra il 1653 e il 1656, anno in cui iniziò l'olocausto della Morte Nera, riprese l'argomento dopo l'avvento della peste del 1656/'57 (che generò nell'erudito intemelio un globale incupimento sulla fugacità e vanità della vita = una fugacità e vanità invero su cui Aprosio aveva già discusso con l'erudito Pier Francesco Minozzi) nella stessa opera ma in altro capitolo (l'XI) scrivendo al nobile siciliano Giovanni Ventimiglia di cui temeva che, a differenza di Scipione Errico e di altri eruditi meridionali, fosse stato bloccato nei territori contagiati senza poter far ritorno alla sua Messina

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