"Capitolo XLII" degli STATUTI CRIMINALI DI GENOVA DEL XVI SECOLO>
DEGLI INCENDIARI ( o "piromani"):
Una vera calamità erano gli INCENDI in una società del legno come in gran parte era quella dell'età intermedia: ma che, ignorando le previdenze e l'organizzazione della romanità che aveva istituito una MILITIA VIGILUM, ha continuato la sua lunga vitalità attraverso pure il XIX e XX SECOLO.
Ad aggravare la situazione stava il fatto che, a fianco di INCENDI SPONTANEI a metà del '500 si intensificarono gli INCENDI DOLOSI di "comunaglie" e "boschi comuni" cioè ad uso delle Comunità che, col passar del tempo, divennero una temuta consuetudine criminale.
Naturalmente gli INCENDI, SPONTANEI, CASUALI o DOLOSI, risultavano pericolosissimi ogni volta che investivano i centri urbani ove la grande quantità di legno utilizzato nelle strutture edili poteva causare vere e proprie calamità con gravi stragi: anche per questa ragione alcuni autori come GEORG ANDREAS BOEKLER (autore della celebre opera Theatrum Machinarum Novum [Nurberg, Paulus Fursten, 1661]) divenne famoso per le macchine da lui ideate per lo sfruttamento dell'acqua in ogni campo, da quello di sfruttarne l'energia motrice a quello di dotare gli inservienti pubblici dei vari Stati di una MACCHINA TRAINATA DA ANIMALI ED IN GRADO DI SCAGLIARE UN GETTO D'ACQUA al modo delle moderne AUTOCISTERNE DEI POMPIERI un GETTO COSTANTE D'ACQUA SULLE STRUTTURE AGGREDITE DAGLI EVENTUALI INCENDI.
IL PERICOLO degli INCENDI ed il COSTANTE SOSPETTO DELLA LORO ORIGINE CRIMINOSA condizionò comunque spesso gli estensori delle NORME STATUTARIE DEL DIRITTO PENALE ed a questo non sfuggirono gli autori degli STATUTI CRIMINALI DI GENOVA del 1556.
Difatti al libro II degli stessi o "delle Pene" risulta trascritto: Chiunque entro la città di Genova o nel distretto ma entro la cinta muraria, direttamente o prezzolando sicari, abbia incendiato, per far danno, qualsivoglia edificio, venga condannato a morte e, a guisa di risarcimento, i suoi beni vengano attribuiti al fisco repubblicano. Qualora non sia stato catturato, venga allora condannato in contumacia per tal crimine e risulti bandito, come esule, dal consesso dello Stato. Nei limiti territoriali sopra evidenziati e segnati può talora accadere che qualcuno abbia fatto scoppiare un incendio, anche se non al segno che ogni cosa venga combusta, all'interno di qualche casale rurale sito fuori mura fortificate. Il colpevole sia tenuto a risarcire i danni procurati ed a versare al fisco una somma variabile da cinquecento a mille lire. Nel caso che non abbia pagato il dovuto entro dieci giorni da quello della condanna, il reo venga perpetuamente esiliato dallo Stato o sia incatenato come galeotto per il resto della vita. Se al contrario l'incendio avrà distrutto il corpo intero dell'edificio od anche solo parte dello stesso, il responsabile condannato, salvo l'obbligo dei risarcimenti, sia condotto al supplizio estremo. Allo stesso modo venga punito chi da sé o per mezzo d'altri, in qualche spazio esterno ad abitazioni residenziali o edifici rustici, abbia appiccato fuoco, per dolo, a qualsivoglia cosa o manufatto, di modo che l'incendio si sia poi esteso al vicino edificio, sì da distruggerlo in tutto o in parte. Tenuto altresì conto se l'incendio si sia esteso per colpa o casualmente e comunque oltre la reale volontà di nuocere, il reo sia condannato e multato secondo la forma del diritto. Chi abbia devastato col fuoco un'altrui terra agricola coltivata, in cui si trovino piante da frutto, paghi la multa di cinquanta lire e risarcisca al proprietario il doppio del danno patito. Chi invece, senza volontà di dannificare ma per negligenza, abbia appiccato il fuoco ai coltivi altrui debba risarcire il semplice danno e versare al fisco l'ammenda di dieci lire. In ultimo chi, di persona o per via di complici, abbia incendiato per fini dolosi degli incolti, senza però impedire che il fuoco devasti dei coltivi vicini, venga ritenuto colpevole come se avesse incendiato le terre agricole poste a coltura.
Chi abbia incendiato una terra silvestre o pratense od un qualsiasi incolto risarcisca il danno per il doppio di quanto stimato e paghi al fisco un'ammenda da dieci a cento lire, oppure venga portato in giro per la città, incatenato e battuto a colpi di verga. Qualora per colpa o negligenza ma ben oltre la volontà di far dolo il fuoco abbia invaso un terreno silvestre, pratense od incolto, il reo debba invece risarcire il danno semplice, versando al fisco un'ammenda di dieci lire. In senso più ampio si ribadisce che allorquando qualcuno sia morto per un incendio o sia rimasto ferito se non menomato oppure una casa sia andata distrutta interamente od in parte, spettino al fisco repubblicano tutti i ben di colui, per cui colpa, opera, incitamento o consiglio, sia stato appiccato il fuoco. Poiché tuttavia è arduo provare le responsabilità degli incendiari o piromani, in particolare perché fraudolentemente di per sé agiscono solo colla copertura della notte od ancor meglio si valgono di interposte persone come fanciulli, sempre giustificati dall'età, domestici o parenti nullatanenti, intendendo qui soccorrere a tutti questi problemi inquisitoriali e quanto più facilmente giovare alla ricostruzione della verità, si conferisce potestà, al Pretore di Genova come a tutti gli altri magistrati cui spetta indagare su questi crimini, di esercitare costrizione, ogni volta che parrà necessario, sul malfattore, procedendo anche per presunzione di colpa e per vie indiziarie ad arbitrio dell'uomo buono e giusto, colla facoltà d'obbligare, per la riparazione del danno, il padre al posto del figlio, il padrone per il servo oppure uno solo dei componenti di tutta quanta la famiglia cui appartiene colui che fu responsabile materiale dell'incendio..
Incendio/ Incendiario v.Stat.Crim., lib.II, c.42,"Degli Incendiari"> reato gravissimo in una società del legno come in gran parte era quella dell'età intermedia: a metà del '500 gli incendi dolosi di "comunaglie" e "boschi comuni" cioè ad uso delle Comunità, divennero temuta consuetudine criminale. Nel "Capitanato di Ventimiglia" nel 1572 si tenne, ad esempio, un processo contro certo Giovanni Maccario figlio di Nicolò reo d'aver dato fuoco ad un "bosco comune" (ora detto di Passal'orio ora di Passalovo ora di Passalupo) per inglobarne, acquistando poi dal fisco a prezzo ridottissimo i terreni arsi e inutili, gran parte nelle proprietà paterne. Dopo varie ricognizioni, sentiti testimoni ed estimatori (la commissione d'inchiesta presieduta da Pietro Cassini di Vallecrosia computò che dei 1710 alberi del bosco 200 erano andati irrimediabilmente distrutti e che buona parte del bosco, per i vari danni patiti, non sarebbe stata più usabile per le "comunaglie" per circa 30 anni) il Maccario venne condannato alla pesante multa di 100 scudi d'oro>doc. in Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia-Fondo Bono-Ms.1, c.470-71, recto-verso e 482 verso: DURANTE-POGGI, pp.169-175> per supposte azioni stregonesche da cui Maleficio incendiario.
Tra il '600 ed il '700 una superiore normativa per la lotta alle Calamità naturali ed agli incendi venne poi fissata dagli Ordinamenti Militari, in particolare quelli di primo '700 stesi dal colonnello Zignago dove le norme di pronto intervento furono fissate al CAPITOLO IX DELLA PARTE II.
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MALEFICIO INCENDIARIO> DELRIO, Dissertazioni sulla magia (varie ed. fine XVI-XVII sec.) Lib.III, P.I, Q.V, Sez.X> " Non solo [demoni, streghe e maghi] infiammano gli animi suscitando odio e passioni ma danno anche fuoco a case, corpi, città, che paiono esser facili vittime delle fiamme...non son passati molti anni da quando alcuni incendiari tormentavano le terre del Reno: costoro solevano invadere le case altrui e deporre in esse spade, lance, elmi, scudi o qualsiasi altra cosa che racchiudesse l'idea d'alimentare la fiamma dell'odio e della devastazione. Ebbene, dopo alcune ore, esplodendo di colpo un mare di fiamme, quasi provenissero da quel tipo di proiettile incendiario che chiamiamo malleolo, tutte le case prendevano fuoco ed andavano distrutte".
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Tra i documenti dell'ex provincia di Porto Maurizio conservati presso l'Archivio di Stato di Imperia esiste una'utile Relazione dell'Ispettorato alle foreste del 1870 che, per certi aspetti, rappresenta una importante pagina conclusiva sul trionfo ed il declino in Liguria occidentale di quell'importante settore della civiltà rurale e campestre
Secondo la citata Relazione nella II metà del XIX secolo il patrimonio forestale dell'estremo Ponente ligustico contava 160 Kmq., vale a dire più del 13% della superficie provinciale, di 1209 Kmq.
Risultavano computati per la buona qualità
i boschi dei comuni di Pigna, Ventimiglia, Taggia, Triora, Apricale, Sanremo, Rezzo, Dolcedo e parte di quelli di Isolabona, Perinaldo, Baiardo.
Erano giudicati media condizione i boschi di Colla (oggi Coldirodi), Seborga, Bordighera, Castelvittorio, Dolceacqua, Montalto, Badalucco e Ceriana.
Risultavano in cattiva condizione i boschi di Piena, Rocchetta Nervina, Cosio d'Arroscia, Mendatica, Montegrosso Pian Latte.
L'estensore della Relazione suffragava quest'ultimo suo giudizio affermando che in siffatte contrade era "più sfrenato...l'esercizio del pascolo e frequenti più che altrove i tagli clandestini".
L'ispettore, in sintonia con certe preoccupazioni epocali, segnalava alla pubblica attenzione un aumento di quei reati forestali e campestri (in particolare del FURTO CAMPESTRE) che costituirono da tempo immemorabile la piaga storica della civiltà rustica e silvestre ed la cui tutela spetta alla figura istituzionale del CAMPARO (GUARDIA CAMPESTRE)
Questi, a suo parere, avrebbero tratto pernicioso incremento dal rincaro della tassa comunale sulle campagne che spingeva i trasgressori a rifarsi sui boschi comuni.
Ulteriore motivo del degrado del patrimonio boschivo sarebbe dipeso dal raccolto delle foglie giacenti nel sottobosco al fine di utilizzarle quali
concime per gli oliveti.
Data l'assenza dell'ingrasso naturale , per effetto della decomposizione del fogliame, i boschi dove più era eserciata tale pratica regredivano.
Tale fenomeno caratterizzava soprattutto l'areale di Sanremo.
Considerevoli porzioni dei boschi comunali risultavano altresì abusivamente occupati da privati cittadini senza alcun provvedimento delle indifferenti amministrazioni pubbliche.
Esistevano, anche se costituivano eccezioni, i lodevoli casi di più attente amministrazioni, come Pigna, Ceriana, Apricale, che peraltro avevano avuto cura di impedire il pascolo delle capre nei boschi comuni.
Tali animali procuravano infatti considerevoli dani ai germogli ed alle piante novelle: non fu peraltro casuale che le vecchie normative campestri regolassero con peculiare attenzione il pascolo di questi animali brucatori.
L'ispettorato si poneva quindi il quesito se fosse prferibile che le guardie forestali (nella provincia risultavano 21) fossero concentrate in caserme o lasciate isolate.
Nella prima evenienza si correva il rischio che queste spesso si trovavassero lontano dai luoghi in cui volta per volta era necessario il loro intervento tenendo altresì conto che visto il loro scarso numero, l'accentramento potesse danneggiare il servizio.
Nella seconda ipotesi sarebbero state da preventivare la possibile ignavia nell'esercizio della disciplina ed in particolar modo l' "accessibilità ai favori ed alla corruzione": del resto a condivisinìbile parere dell'estensore della Relazione i verbali "di un singolo perdevano quella fede che acquistano quando sono parecchi i denuncianti".
Nella Relazione si suggeriva quindi l'uso di un controllo del patrimonio forestale ispirato ad sistema misto, facente leva su tre caserme fisse dislocate a Pigna, San Romolo e Pieve di Teco.
Nel corso del 1870 erano state dibattute 252 cause per reati forestali e campestri.
Ben 55 fra queste si erano chiuse con la condanna, 64 per transazione, 27 per assoluzione; le cause pendenti risultavano essere ancora 106.
Da secoli i Campari e le Guardie forestali avevano dovuto combattere contro ogni sorta di abusi e violenza: le VARIE NORME PER LA SALVAGUARDIA DELLE PROPRIETA' RUSTICHE DELLA MAGNIFICA COMUNITA' DEGLI OTTO LUOGHI in qualche modo possono esemplificare l'arduo lavoro che questi dipendenti delle pubbliche amministrazioni erano tenuti a sostenere: in un primo momento la normativa dei furti campestri era inserita nel contesto del generale ORDINAMENTO CRIMINALE: per esempio essi dovevano volgere la loro attività in un campo estremamente vasto come si evince dalla lettura del COMMENTO DEGLI ORDINAMENTI, col passare del tempo maturarono ulteriori precisazioni e si stesero normative sempre più specifiche. Ad esempio le gardie forestali dovettero specializzarsi nella tutela dei boschi in conformita' alle norme votate mentre i Campari dovettero impegnarsi nel servizio per la tutela delle proprietà fondiarie poste a coltura. Ma spesso nulla potevano contro interessi privati che andavano coinvolgendo la pubblica amministrazione: specie dopo che ci si rese conto del profitto economico che si poteva ottenere appaltando ad estrattori industriali di legname i boschi comuni in cambio di consistenti contropartite.
Le amministrazioni avevano peraltro concesso autorizzazione a 18 tagli di
piante per la vendita ammontanti ad un valore stimato in L. 123.932 (somma invero considerevole).
Tali concessioni concernevano prioritariamente il tagiio di abeti, faggi, pini siivestri e marittimi.
Questi processi di disboscamento, al fine della fruizione del legname, riguardavano soprattutto Isoiabona con l'abbattimento di 7.000 piante, Perinaido (2.000), Apricale (1.200), Taggia (1.000 a): alla data della pubblicazione della Relazione risultava peraltro in atto un grosso processo di disboscamento nell'areale di
Rezzo ad opera di un'impresa francese che a titolo di corrispettivo andava realizzando la strada "carrettabile" slls volta di Pieve di Teco.
Stando alla Relazione si era altresì provveduto al rilasco di 45 concessioni di disboscamento onde incentivare aree coltivabili per più di 11 ettari, 15 concessioni allo scopo di impiantare carbonaie, 8 per forni da calce, 2 per fluitazione (cioè affidare i tronchi tagliati alla corrente di corsi d'acqua per il trasporto a valle), 1 per formazione di debbi (vale a dire bruciare stoppie e sterpi per ottenere che la cenere potesse venire utilizzata quale).
La tecnica della fluitazione nel Ponente fu praticata fino ai primi del XIX secolo nel Negrone-Tanaro, nell'Argentina e nel Verbone.
Essa fu abbandonata in dipendenza dei gravi nocumenti ambientali procurati dai tronchi nell'evenienza delle piene fluviali e torrentizie: siffato sistema di trasporto del legname risulta senza dubbio praticabile soltanto nelle aree senza insediamenti demici prossimi alle rive.
Il graduale accentramento del controllo giuridico e statutario del DOMINIO nell'ambito delle autorità della Capitale concorse a sviluppare una nuova fase nella storia statutaria ligure.
Grossomodo tra la metà Cinquecento e la fine Settecento si assiste ad una considerevole pubblicazione di BANDI CAMPESTRI , pressoché contestualmente alla redazione di STATUTI POLITICI vale a dire di "regolamenti di governo della comunità locale.
Nel contesto globale questa emergenza dipende dalla volontà della amministrazioni locali di conferirsi delle normative specifiche e locali onde poter gestire i proventi derivanti dall'incameramento di multe ed introiti vari per ragioni di legge (notoriamente fruibili all'interno della propria amministrazione in base ad accordi di natura fiscale ovunque instaurati con Genova) e contestalmente poter godere di una certa libertà nella gestione della "cosa locale".
Il fenomeno si replicherà diversamente dopo la caduta del regime di Napoleone e l'ascrizione della Liguria, soppressa quale stato sovrano, al Regno Sabaudo: la soppressione delle Leggi del 1576 e di molte normative della vecchia repubblica determinarono una sorta di scompensi che divennero concausa di non poche controversie come già semplicemente si legge, sin dalle prime righe del testo, in occasione della stesura del REGOLAMENTO CAMPESTRE DI DIANO CASTELLO.
L'abolizione napoleonica delle antiche leggi del Dominio e contestualmente la soppressione di vetusti regolamenti aveva finito per generare grossi problemi legali e di polizia nella salvaguardia delle proprietà:a tal proposito una fondamentale discussione giuridica riguardava ed a lungo avrebbe riguardato, su scala italiana, il grave problema della TUTELA DELLE PROPRIETA' RURALI tanto che non mancarono svariate proposte legislative e significativi interventi di giuristi ed agronomi tra cui merita di esser segnalato, per l'evidenziazione panitaliana che fa della questione nel 1839, l'accademico Francesco Baldassini, in un suo significativo saggio intitolato INTORNO AL FURTO CAMPESTRE, DISCORSO (Pesaro, tipografia del Nobili, 1839).