GIULIANO II detto L'APOSTATA o IL FILOSOFO (FLAVIO CLAUDIO GIULIANO)

Fratello di Costanzo Gallo, nacque a Costantinopoli nel 331 d.C.> Il 6-XI-355 fu nominato Cesare da Costanzo e subito inviato a far guerra in Gallia dove a Lutetia Parisisorum (Parigi) fu proclamato Augusto dai suoi soldati. Dopo la morte di Costanzo, Giuliano fu riconosciuto unico Imperatore di Roma. Uomo colto, valoroso soldato, ottimo amministratore, governò con umanità ma abiurò il Cristanesimo e si dette all'idolatria erigendo templi agli antichi dei pagani. Fu ucciso da una freccia il 27-VI-363 d.C. mentre combatteva contro i Persiani.
















-MALATTIE DA AVVELENAMENTO

-POSSIBILI TERAPIE

-LA NUOVA TERAPIA SEICENTESCA A BASE DELLA BEVANDA DEL CAFFE'

-TOSSICOSI/ I SECOLI DEI VELENI

-VELENI E CRIMINALI: AVVELENATI ED AVVELENATORI

-VELENI E SOSTANZE TOSSICHE IN USO NELL'ETA' INTERMEDIA

-VELENI, STREGHE E NEGROMANTI
















Su veleni e tossicosi da sostanze perniciose un'autorità fu il medico forlivese G. Mercuriale (1530 - 1606 ): anche se, giova rammentarlo, molti progressi si fecero nella conoscenza dell'argomento in questo secolo, anche per l'opera di naturalisti empirici come il Pomet.
[Vedi comunque qui l'interpretazione che ne darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
Al Mercuriale comunque giunse il grande messaggio scientifico-culturale del pensiero medico greco e romano attentissimo al campo dei Veleni e degli Antidoti: Mitridate VI Eupatore Dioniso il Grande, re del Ponto, nemico di Roma nel I sec.a.C. da cui fu sconfitto dopo 3 duri conflitti, fu per un celebrato esperto di Veleni [assimilandone piccole quantità in modo periodico avrebbe raggiunta l'assuefazione e quindi l'immunità, donde il nome di mitridatismo] e rimase famoso per aver ideato un Antidoto universale detto Mithridatium antidoton la cui formula sarebbe stata individuata da Pompeo Magno nell'archivio reale e interpretata dal liberto Pompeo Leneo; PLINIO nella Storia Naturale (XXIII, 149) ne diede una descrizione "antidoto composto da 2 noci secche, altrettanti fichi e 20 foglie di ruta, il tutto pestato ed amalgamato, con l'aggiunta di un granello di sale; a chi avesse preso questo antidoto a digiuno, nessun veleno avrebbe nuociuto durante tutta la giornata"> formula troppo elementare su cui tornò lo scienziato romano correggendosi nella stessa opera (lib.XXIX, 24) in cui, senza riportare la formula [perché evidentemente non ne era a conoscenza nella completezza], invece che di soli 4 ingredienti lo ritenne composto di 54 > ma l' Antidoto universale , oggetto di investigazioni di alchimisti, maghi e streghe nei secoli dell'età intermedia, rimase un enigma; per CELSO (V, 23,3) gli ingredienti sarebbero stati 36, per GALENO (XIV, 152-'54) 43: ne parlò Scribonio Largo Designaziano nel I sec.d.C. in una delle 471 ricette della sua De compositione medicamentorum.
. Sin al XVI sec., sulla scia della tradizione medica greco-romana, l'ANTIDOTO migliore fu considerato la triaca o teriaca , specifico contro il morso di serpenti velenosi ma poi realizzato in varie formule e a difesa contro le intossicazioni da vari tipi di veleno> la più antica teriaca nota e utilizzata da Antioco il Grande [re di Siria dal 223 al 187 a.C.], era registrata su una lapide del tempio-santuario, dell'isola di Cos nelle Sporadi meridionali, dedicato a Esculapio, dio greco della medicina e figlio di Apollo e Coronide, (Plinio, XX, 264: "[la ricetta è composta] di serpillo [specie di timo - Thymus serpyllum - coltivato per l'estrazione dell'olio di serpillo dalle proprietà carminative, che producono cioé l'espulsione di gas dall'apparato gastro-intestinale], due denari di peso (1 denario = g.4,55); opopanace [opòponaco: gommoresine ricavate da piante della famiglia delle Ombrellifere, con proprietà medicamentose destruenti, cioè capaci di liberare lo stomaco da qualche intasamento] e meo [ meum athamanticum usato in medicina antica per le proprietà toniche e diuretiche> pianta Ombrellifera], altrettanto di ciascuno; semi di trifoglio [genere Trifolium di Angiosperme Dicotiledoni della famiglia delle Leguminose, comprendente circa 300 specie di cui 60 presenti in Italia> dalle proprietà officinali utili per il sistema digestivo], un denario di peso; semi di anice [erba annua delle Ombrellifere con la proprietà medicamentosa di corroborare lo stomaco disturbato e di liberare dalle flatulenze], finocchio [della famiglia delle Ombrellifere conveniente per l'aggiustamento dello stomaco e l'eliminazione di gas intestinali], ami [grecismo: gli antichi ne conoscevano solo i semi e lo stesso Dioscoride (III, 62) nutriva delle incertezze sulla pianta, poi identificata col Trachyspermum ammi o Ammi copticum : stando a Plinio (XX, 164) avrebbe avuto la proprietà di far cessare coliche e flatulenze] e apio [con tal nome si indicano parecchie varietà delle Ombrellifere tra cui sedano, prezzemolo, anacio ma è facile che qui ci riferisca alla varietà nota fra gli antichi come apios : MATTIOLI, 462, studiando Dioscoride, cita l' apios quale pianta le cui radici e semi mescolati nel vino provocano diuresi e disintossicazione]; farina di ervo [leguminosa da cui si estraeva una farina detta ervina usata nella combinazione delle medicine], 12 denari. Si schiaccia il tutto e lo si passa al crivello, e utilizzando il miglior vino a disposizione si formano col composto delle pastiglie del peso di un vettoriato ( circa g. 2,27). Somministrarne una per volta in tre ciati (1 ciato = l. 0,045) di vino mescolato ad acqua"> la teriaca (un rimedio serio ma non miracoloso, che sedava le coliche e liberava l'organismo dalle tossine) rimase per millenni un antidoto apprezzato dalla farmacopea anche se se ne ebbero vari tipi, con formule in cui presero a comparire ingredienti animali: si va da Galeno (XIV, 1 sgg. e 82 sgg.) sino all'ultima teriaca citata dalla "Farmacopea" francese del 1884.
Il XVI sec. fu detto Secolo dei Veleni per l'uso che se ne faceva nei crimini e per la possibilità di trovare scampo: Stat. Crim. , II, 10.
[vedi comunque qui l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi delle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
Il timore di ingerire Veleni giunse al punto che "personaggi importanti volevano che i cibi e le bevande serviti loro fossero prima assaggiati da un'altra persona in loro presenza"> W. DURANT, Il Secolo d'oro , III, p.79 in Storia della civiltà , Edito-Service, Ginevra, 1957> l' autore riferisce che nel '500, per Roma e da Roma per tutta l'Italia rinascimentale, si sparse il terrore di un venenum atterminatum, un tossico che, insensibile a qualsiasi antidoto, agiva dopo un tempo così lungo da far perdere le tracce dell' omicida.
In questo Secolo dei Veleni si ricorreva ad ogni sotterfugio per somministrare i tossici: un espediente era quello di spalmare con sostanze velenifere le armi da taglio o da getto (usanza già menzionata da Plinio XXXII, 58: per avvelenare le punte delle lance molto spesso si usava il doricnio , genere di arbusti velenosi della famiglia delle Leguminose Papilionacee, di cui parla MATTIOLI, 548).
[vedi comunque qui l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi delle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
Contro le tossicosi, ma anche per le perfette cicatrizzazioni e contro i rischi di infezioni e cancrene delle ferite un esercito di alchimisti, sulla scorta di Plinio (XIX, 39 e 43; XXII, 48-49) e d' altri classici cercavano la leggendaria pianta del SILFIO della Cirenaica (già quasi estinto sotto Nerone) da cui si distillava il Làsere dai tempi di Andrea (III sec. a.C), medico del re d'Egitto Tolomeo IV Filopatore ritenuto cura di molti mali, quello che Plinio definì uno "tra i doni più straordinari della natura...[che] entra in moltissimi preparati medicinali": il Làsere di cui si disponeva nel XVI sec. era estratto dalla pianta del Laserpìzio ("Ombrellifere") di Siria, Parmenia, Media, Armenia (M. MONTIGIANO, Dioscoride Anazarbeo. Della materia medicinale, tradotto in lingua fiorentina, Firenze, 1546 o 1547, p.154) e, oltre a non essere facilmente reperibile, non aveva le qualità attribuitegli da Plinio, riferendosi egli a quello della Cirenaica (scrisse che il Làsere delle regioni orientali - estratto dal Laserpìzio del genere Ferula Asa foetida delle Ombrellifere - "è di qualità molto inferiore rispetto a quello della Cirenaica, e per di più spesso mescolato con gomma o sacopenio [gomma di ferulacea orientale ma anche di una specie italica], o fave tritate": e del resto in Italia delle 30 specie di Laserpìzio conosciute ne crescono 8 (ma senza le supposte proprietà citate da Plinio): fra gli attributi medicamentosi del Làsere ottenuto dal Laserpìzio o Silfio della Cirenaica (che non è di sicura interpretazione e per cui si è supposta l'identificazione con la Ferula tingitana ed a cui Catone, 156-7 attribuì alto valore terapeutico ) si attribuivano poteri cicatrizzanti e la qualità di antidoto sì forte da neutralizzare ogni veleno: possedere o realizzare tal prodotto avrebbe fatta la fortuna di qualsiasi alchimista, speziale o medico ed avrebbe risolto i problemi di intervento, che a volte imponevano l' amputazione dell'arto ferito ed avvelenato, per i Chirurghi.
Da quanto si è scritto si potrebbe pensare che il SILFIO, dalle prodigiose qualità terapeutiche, sia stata solo una leggenda proveniente dal passato remoto: se però, trattando della pianta Ippocrate, Galeno, Dioscoride, Apicio, Plinio Seniore e tanti altri medici ed eruditi, nel campo delle reciproche competenze, parlarono sempre in termini entusiastici, alludendo soprattutto alle straordinarie qualità medicamentose, un fondo di verità nella "leggenda" deve pur esservi stato. E, con probabilità, era ancor più che una leggenda da studiosi e scienziati, se Nerone ne pagò a prezzo elevatissimo l'ultima spedizione, che reclamò per sè alla vigilia dell'estinzione della pianta, e se, già da molto prima, il succo del Silfio veniva conservato, sotto stretta custodia, nel tesoro pubblico e nei templi.
Fatto certo è che il SILFIO, verso il I sec. d.C. scomparve nel nulla: esiste un solo modo per cercare di ricostruirne la struttura botanica, quello di visualizzarla sulle monete, i tetradrammi (come quello qui riprodotti) di CIRENE dove gli antichi incisori e zecchieri lo immortalarono nei suoi frutti, nei germogli e persino nelle dimensioni, che dovevano essere notevoli se la testa di un cavallo giungeva a malapena alla sua cima.
CIRENE (colonia greca fondata forse nel 631 da coloni dori originari di Tera [Santorini] sulle coste settentrionali dell'Africa, donde la regione fu poi detta Cirenaica), a dimostrazione della grande quantità di tali piante così fiorenti nel suo territorio da caratterizzarlo come ne fossero un "simbolo", scelse, per oltre tre secoli (631-300 a.C.) di utilizzare l'immagine della pianta come "marchio della propria identità nazionale": alla stessa maniera di come fecero un pò tutte le altre città stato e colonie greche> celebre e splendido il caso di RODI e della rappresentazione della rosa, caratteristica della pianta, sulle sue monete a decorrere dal tempo (411-407 a.C.) dell'unione (sinecismo) dei tre centri antichi dell'isola ("Lindos", "Jaliso" e "Camiro").
Gli Statuti Criminali Genovesi del 1556 nel c. 10 del lib, II citano pure sostanze velenose non letali, capaci di condurre alla follia: vi si ricorda pure l'abitudine di ricorrere agli intrugli delle streghe (nel senso di facitrici di VELENI che talora funzionavano all'istante ed a volte no e che più spesso funzionavano, fra lunghe agonie, soltanto per una "bizzarra e casuale" tossicità raggiunta dalla correlazione di intrugli vari). Gli Statuti menzionano pure la consuetudine, in particolare di nobili e dei cittadini più agiati, di prezzolare sicari - avvelenatori [detti anche untori] fra la servitù della parte avversa, affidando loro ogni compito, di procurarsi e somministrare il Veleno, anche in modi impensabili (non era casuale che si prezzolasse una serva del casato nemico, specie una donna di cucina, che potesse manipolare le stoviglie, spalmandone di tossico magari una in particolare, destinata alla vittima prescelta, aggirando il controllo dei saggiatori ufficiali che, anche per non alimentare intorno al banchetto un clima di tensione, esercitavano la supervisione in cucina, lontano dagli occhi padronali e da quelli dei convitati, e soprattutto - per evitare interminabili attese, tranne che in particolari momenti di crisi e sospetto d'attentati - non sondando il contenuto delle specifiche portate ma controllando la genuinità del pasto quando era ancora nel grande recipiente ove era stato preparato; anche se, giova dirlo, non mancarono casi in cui gli avvelenatori, per non fallire o dovendo colpire un nucleo intiero di famiglia, non si fecero scrupolo di "ungere" di veleno proprio la superficie della grande pentola in cui si era preparato il pasto per la globalità dei banchettanti: B. DAVANZATI, Opere (Firenze, 1852 - '53, 2 voll.) II, p.358: "Anna gli fece avvelenare la pentola" (negli Statuti si legge che molti delinquenti si servivano per i loro crimini di bambini e minori sì che mentre questi sarebbero stati salvaguardati contro le pene dall'età, loro, i mandanti, avrebbero potuto allontanare da sè i sospetti o scampare dalle massime accuse, d'ufficio e no = vedi comunque qui l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi delle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale).



Il GUAIACO (ant. guiaco) è una pianta della famiglia delle Zigofillacee. Quelle della specie GUAIACUM OFFICINALE sono alte da 6 a 10 m. con foglie persistenti, opposte, peripennate, fiori azzurri in piccole cime, frutto capsulare> sono piante originare dell'AMERICA CENTRALE.
Una specie affine, il GUIACUM SANCTUM cresce nella Florida e nelle Bahamas. Il legno, durissimo, di colore bruno o verde bruno, di grato odore, di sapore acre ed aromatico, costuisce la DROGA detta LEGNO DI GUAIACO o LEGNO SANTO e soprattutto gli Spagnoli si arricchirono con essa importandola in Europa essendo ritenuta un potente rimedio contro le affezioni della SIFILIDE (cosa non vera: in effetti il GUAIACO è pianta curativa ma come antisettico e curativo nelle malattie della vie respiratorie: come si prese a scoprire da quando, nel 1826, Unverborden ottenne per distillazione il GUIACOLO -etere monometilico della pirocatechina-).
Il nome SIFILIDE (malattia che col suo dirompente "arrivo" in Europa quasi SCONVOLSE i teoremi della medicina ufficiale) deriva dal poema dell'autore italiano Gerolamo Fracastoro cioè Syphilis seu de morbo gallico , Padova, 1530: "Morbo gallico italianizzato in Mal franzese altra denominazione ritendensosi l'infezione introdotta i Europa dagli esploratori francesi delle Americhe: per ragioni pressoché identiche fu anche detta Mal napoletano> si cita poi anche la denominazione di LUE.
La variabilità del nome, che alludeva spesso alla provenienza, era dovuta appunto al fatto che, per quanto si può dedurre dalle prime notizie storiche, la malattia sembrerebbe esser stata importata dalle Americhe e, addirittura, si ritennero responsabili della primitiva diffusione gli equipaggi di Cristoforo Colombo (il contagio dipende dal batterio Treponema pallidum e può esser trasmessa alla prole: essa ha avuto larga diffusione soprattutto nel XIX sec. con effetti devastanti fino all'introduzione in terapia degli arsenobenzoli e quindi dei sali di bismuto ed infine della penicillina: anche dalla metà del '500 tuttavia, in Liguria come in tutta Europa, gli effetti disastrosi della malattia diventarono oggetto di grave se non isterica preoccupazione della Sanità pubblica.
Una variante assolutamente antiscientifica dell'interpretazione della SIFILIDE, e che comportava connessioni sia con l' ASTROLOGIA che con la MAGIA, fu sorprendentemente accolta da alcuni medici fisici come Dietrich Ulsen che accompagnò con una sua celebre profezia medica la rappresentazione del SIFILITICO di Albrecht Durer (incisione del 1496): secondo la profezia del medico la SIFILIDE era sì una malattia ma la sua diffusione epidemica sarebbe stata agevolata dalla congiunzione planetaria del pianeta GIOVE con SATURNO nel segno dello SCORPIONE, avvenuta poco più di dieci anni prima nel 1484 (vedi: C. d'AFFLITTO, in Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del Cinquecento , sezione Astrologia, magia, alchimia , Firenze, Edizioni medicee, 1980, p.335).
Questa VARIANTE PSEUDOMEDICA che affonda le sue radici parte nella MAGIA NATURALE, parte nell'ASTROLOGIA e parte nella SCIENZA MEDICA del tempo non costituisce tuttavia un fenomeno isolato.
A livello popolare la CAUSALITA' DELLE MALATTIE si caricò di ELEMENTI MAGICI e di un BAGAGLIO DI SUPERSTIZIONE che affondava le radici colte nella cultura dell'ARETALOGIA GRECO-ROMANA e di una MEDICINA POPOLARE ANTICA per cui, con vari espedienti (anche non privi di fondamento come il lavaggio nelle acque termali) si guariva da determinate malattie) ma per cui, talora, la MALATTIA era PUNIZIONE DIVINA PER UNA COLPA PROPRIA O DELLA FAMIGLIA: da qui, specie nei paesi mediterranei, si sviluppò, a livello di cultura popolare la consuetudine di nascondere dalla famiglia la malattia di un congiunto, come EFFETTO DELLA MALVAGITA' DI UN DEMONE MALIGNO O DI UN DIO PAGANO DIVENUTO DEMONE PER EFFETTO DELLA CRISTIANIZZAZIONE o quale ARTIFICIO DI MAGIA NERA, praticata da STREGHE, FATTUCCHIERE o MASCHE, specie in caso di malattia inspiegabile come una FORMA EPIDEMICA [ma anche un'impotenza a procreare, la tendenza ad abortire, la MALATTIA MENTALE nelle forme più temute, la MELANCONIA/MELANCOLIA, che poi era la DEPRESSIONE, ma che si ritenne a lungo effetto d'un MALEFICIO DIABOLICO (quando invero non se ne tentarono altre spiegazioni, magari con la discussa TEORIA DEGLI AFFETTI E DELLE PASSIONI [TEORIA DELLE INCLINAZIONI]), e la NEVRASTENIA OSSESSIVA, non compresa e quindi ricondotta al campo soprannaturale delle POSSESSIONI DIABOLICHE (INDEMONIATO - INDEMONIATA)] od un CANCRO, la MALATTIA che i DEMONI e le STREGHE scatenavano frequentemente contro le loro VITTIME.
L'indagine sui Veleni [vedi comunque qui l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi delle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale] in uso nell'epoca comporterebbe una trattazione specifica ma per avere un'idea si possono citare:
La CICUTA che le streghe avrebbero poi usato come componente fondamentale del loro velenoso UNGUENTO.
il CORIANDOLO: usato in erboristeria ma noto per esser ingrediente di filtri stregoneschi.
L'ERBA SARDONICA o SARDONIA causa come veleno delle convulsioni del RISO SARDONICO ma anche utilizzata in certi giovevoli medicamenti.
il GIUSQUIAMO veleno di estrazione vegetale, molto economico, popolare e tristemente diffuso (anche nell'Amleto di Shakespeare viene citato il giusquiamo come il veleno che il fratello del re di Danimarca e padre di Amleto avrebbe istillato nelle orecchie del congiunto per succedergli come Sovrano di Danimarca e sposarne la consorte).
la LAVANDA ed i rischi di un suo USO SCORRETTO NEL CAMPO DELLA MAGIA.
Lo STRAMONIO od "erba delle streghe": una connessione storica fra pozione malefica e stregoneria fu testimoniata da avvelenamento con stramonio, che in dosi massicce comportava alterazioni nervose, disturbi visivi, allucinazioni: lo stramonio è una pianta delle solanacee cui venne attribuito il soprannome d' "erba delle streghe o del diavolo", nei paesi anglosassoni ove si credeva che i suoi componenti alcaloidi servissero per gli incantesimi delle streghe causando, in occasione di carestie, sanguinose persecuzioni verso chi ne coltivasse anche piccole quantità nei propri orti: le foglie dello stramonio, originario della regione caspica ma diffuso allo stato spontaneo in tutta Europa, costituiscono la droga (stramonii folia) della Farmacopea ufficiale italiana contenente l'alcaloide josciamina, che nell'estrazione si trasforma in atropina, il cui uso in terapia si esplica quale calmante: S. MARSZALKOWICS, L'elemento tossicologico nella stregoneria e nel demonismo medievale in "Lavori di storia della medicina", 1936-7, Roma, ed.1938].
Il TABACCO (altresì citato quale TABACO -TOBACO secondo la forma delle parlate di Haiti da cui ne deriva il fitonimo) fu termine che si prese ad utilizzare sin dal XVI secolo per indicare le foglie di origine sudamericana e caribica che introdusse in Europa per primo nel 1559 Gonçalo Hernàndez di Toledo per incarico del re di Spagna Filippo II.
La diffusione della pianta avvenne però soprattutto ad opera di Jean Nicot de Villemai verso il 1560 nell'ambito della corte di Francesco II e di Caterina de' Medici.
Verso il 1586 nell'Historia generalis plantarum di Jacques Dalechamps la pianta, già citata col fitonimo di herba prioris od herbe du gran Prieur in quanto coltivata a fini medicamentosi dal Gran Priore di Francia della Casa di Lorena, assunse la nuova nominazione di herba nicotiniana a titolo di commemorazione del suo principale divulgatore, appunto Nicot.
Tuttavia le rimase come fitonimo principale quello più antico di TABACCO (peraltro destinato ad essere fissato scientificamente dalla classificazione del Linneo) che i commercianti spagnoli usavano abitualmente sin dai primi tempi e che trasmisero quindi ai mercanti olandesi e quindi ai produttori americani della Virginia.
La diffusione del TABACCO in Italia (per fumo, fiuto ed uso medicamentose) procedette trionfalmente dall'Olanda verso i primi del '600 (1615): nella penisola il porto di arrivo del TABACCO era lo SCALO GRANDUCALE DI LIVORNO (alla stessa maniera di quanto accadeva per il CAFFE').
L'uso divenne tanto comune che l'illuminista Bernardino Ramazzini nella sua opera De Morbis artificum [Modena, 1700, ristampata più volte e di cui esiste una buona traduzione italiana dell'Abate Francesco Chiari, Venezia, Occhi, 1754] scrisse (si cita dalla traduzione): "E' un'invenzione di questo secolo (almeno nella nostra Italia) o un uso vizioso questa polvere dell'erba nicoziana e non v'è cosa più usata, s' dalle donne che dagli uomini e da' fanciulli altresì, in guisa che la compra di esso si ripone fra le spese quotidiane della famiglia" [all'epoca il TABACCO veniva fumato, masticato e fiutato dagli uomini, oltre che fiutato spesso anche fumato dalle donne come terapia contro il mal di denti ed inoltre era frequentemente impiegato contro la stitichezza dei bambini sotto forma di "clisteri di polvere di herba nicotiana": è peraltro poco noto che di siffatte proprietà terapeutiche del tabacco proprio un letterato ligure settecentesco Celestino Massucco compose uno specifico elogio entro un suo poemetto, appunto intitolato Il Tabacco, e tuttora leggibile entro l'antologia letteraria ligure dell'anno 1789 curata dall'erudito e letterato ligure Ambrogio Balbi].
Pier delle Ville (Pietro Loi) in un suo utile saggio ha affrontato il problema dell'uso, dell'abuso e delle presunte qualità terapeutiche del TABACCO sulla base del materiale custodito in Ventimiglia nella Biblioteca erettavi dall'erudito del '600 Angelico Aprosio.
La lettura delle pagine di Pier delle Ville, che fu illustre veterinario e valente naturalista, permettono di vivere da vicino il dibattito appassionato che già nel Seicento si accese sulla valenza terapeutica o non del tabacco oltre che sulla moda del fumare, fiutare e masticare i vari preparati della lavorazione delle foglie del tabacco.
Scrive quindi l'autore con la riconosciuta competenza scientifica:
'(pp.1 - 5) Questa pianta, dotata di qualità ornamentali, aveva in origine due varietà: Nicotiana tabacum e Nicotiana rustica, secondo la nomenclatura botanica, distinguibili per il fiore tubolare allungato e dai petali rossicci della prima, e più piccolo e giallino dell' altra; anche le foglie diversificano per grandezza.
La Nicotiana rustica contiene molto più nicotina ed altri veleni, tutti facilmente assorbibili applicando la foglia sulla cute: è peggio della socratica cicuta mortifera, peggio dello shespiriano giusquiamo corruttore, e gli animali evitano di brucarla.
Per allontanare gli alcaloidi tossici, dopo il raccolto le foglie sono fatte appassire all' ombra, e lasciate fermentare prima di subire lavorazioni di vario tipo, per produrre i tabacchi d'uso.
Perché questa pianta, dal 1500 in poi, è entrata nell'abitudine assurda e dannosa del fumo! Il commercio transoceanico portò molti vegetali, nuovi per l' Europa, dalla patata al pomodoro, e caffè, mais , cacao, tabacco: il meno utile si affermò rapidamente nell'uso, mentre la patata destinata a sfamare i popoli potè imporsi relativamente più tardi.
Esistono testi del 1500 e del 1600 che trattano del tabacco, del cacao, e del tè: la Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia conserva diverse opere su questi vegetali.
Innanzi tutto numerosi testi di botanica, ad esempio uno Zenoni, Historia Botanica (Bologna, G. Lorghi, 1675) e un Montalbani, Hortus Botanigrophicus (Bologna, 1660).
Ovidio Montalbani, "philosophus naturalis", rappresenta una classificazione dei vegetali non per caratteri, come nel 1700 farà il Linneo, ma per habitat delle piante, o per incerte somiglianze. Del melo sono elencati come affini, con descrizione, quattordici piante, compresi il melograno ed i limoni. I tassonomisti a cui si riferisce il Montalbani sono cospicui nomi del passato: Dioscoride, Teofrasto, Galeno, Dodona, Bauhinio, Lobelio. L'autore tratta anche di Nicotiana maior, di Hyoshiamus peruvianus, di Datura stramonium. Ma del tabacco specificatamente scrive il medico ravennate Massimo Zavona nell'Abuso del Tabacco nei Nostri Tempi (Bologna 1650) in lingua italiana. Dall'elenco "Nomi'de gl'autori citati nell'opera" si prevede una trattazione erudita piuttosto che strettamente scientifica (Agrippa, Avicenna, Cesalpino... Vucherio). In otto capitoli è considerata l'origine ed il nome del tabacco, della forma e figura... della preparazione.
L'VIII capitolo è intestato: "L'uso d'oggidì del tabacco è un abuso". Nel testo in breve si scopre una contaminazione ascientifica, non sperimentale, con le confuse fantasie del secolo: "Ma se bene tuti che scrivono del tabacco concordano a constituirlo del temperamento caldo discordano nondimeno nel determinare il grado di calore, perché Monarale e Delecampio lo costituiscono caldo e secco nel secondo grado e temperato nelle altre qualità. Cesalpinio lo pone caldo nel primo grado e secco nel terzo... Altri... dicono essere di temperamento freddissimo". Spiegare oggi perché e percome il tabacco fosse caldo o freddo sarebbe sprecare carta, inchiostro e tempo.
Gli autori, qual più qual meno, sono interessati all'uso terapeutico delle foglie, cui vengono attribuite disparate capacità curative, in parte secondo osservazione, in parte secondo la pseudoscienza del secolo fantasioso. Non mancano ricette che ci fanno pensare ad una prima introduzione farmaceutica del tabacco , con successivo sviluppo d'un uso "edonistico". Le ricette hanno l'obbiettivo di esercitare un'azione "calda" in un gran nurnero di malanni "freddi": "A dolori articolari cagionati da materia o causa fredda... giovano lefoglie applicate calde". A parte fantasiose chiacchiere, lo Zavona esprime pareri utili ancor oggi, contro il vizio del fumo: "Fui sempre e sono di parere che il tabacco (adoprato nel modo che oggi si costuma)... si debba piuttosto chiamare abuso... Di questo parere fu Pietro Francesco Frigio Autore Moderno... annovera tra i mezzi di abbreviarsi la vita lo smodato pigliare il tabacco, e dice: A questi tempi è accresciato un uso per il quale molti scioccamente si ammazzano".
Zavona conclude: "Habbisi per ultimo quella considerazione che chi disegnasse trattenersi dal troppo uso, di farlo a poco a poco, non in un subito, perché conforme a Cornelio Celso... ogni mutazione subitanea è pericolosa ". Il buon dottor Zavona aveva individuato la patologia dell'assuefazione alle droghe.
Anche più interessante è l' opera di Giovanni Crisostomo Magen (Magnenus), "Burgundi Luxoniensis Patrici philosophi medici", docente presso l'Università di Pavia, dove pubblicò nel 1648, quattordici "Exercitationes de Tabaco". Nella "Praefactio ad Lectorem" menziona gli autori che sull'argomento lo hanno preceduto:"Everartus Antverpianus (1587), Mathies Lobellius, Johannes Neander, Bremanus Vestfaliensis ( Tabacologiahoc est Tabaci seu Nicotianae eius descriptio, ecc.). Il testo è in lingua latina, con dedica a Filippo IV, ed al regio rappresentante in Italia "Heroi Othoni Caimo". L'autore si chiede: "...laudemne aut vero damnem tabaci usus?... Tum, mi lector, utere non abutere..." e sull'uso del fiutar tabacco: "...felicitatem possimus augurari, dum starnutabis".
Segue un Sillabus, ovvero Indice delle Exercitationes, ovvero Capitoli, che conferiscono un'iniziale organicità scientifica e fanno sperare una metodicità illuministica. Sul nome ci informa: "Apud indigenos americanos vocabulo Pictalet vocatur ut ait Monardels... In Hispaniola Insula Petebecenuc dicitur teste Oviedo..: Ab Novae Franciae Pet nomine... ab Hispanis inditum ab suo natali solo insula scilicet Tabaco". Ovviamente ricorda il nome Nicotiana a Johan Nicotio regis Galliarum Legati in Lusitania anno 1559 ed altri nomi: Herba Reginae... Herba Medicea (da Caterina de' Medici).
Descrive quattro varietà di piante, minutamente, e nel paragrafo 5 dell' Exercitatione Secunda distingue in uno schema le "infima tabaci folia deteriora", quelle sviluppate presso il terreno, le inferiori, e spiega che "...natura teneriora semper magis fovet ".
Il Magen, evidentemente ben informato, colto e riflessivo, permeato di scientifica cautela, sulle virtù terapeutiche del tabacco si esprime negativamente: "Censeo primo tabacum non esse reponendum inter benigna medicamenta... vomitum enim facit... cerebrum turbat", e più avanti, Exercit IV,: "Dico primo usum familiarem tabaci pueris nullo modo convenire...".
La metodicità del testo faceva presagire un criterio scientifico illuministico, da Enciclopedia, ma anche Crisostomo Magen, come Massimo Zavona, pensa che il tabacco per effetto del suo calore secco "somni conciliatione promovet", ed avrebbe una "Relatione et Analogia" di carattere zodiacale "cum Aquario et Marte"...
Il professor Magen propone numerose ricette ed indicazioni con osservazioni critiche: per esempio ad Henricius, che consigliava: "in ore detento" un decotto di tabacco e camomilla per lenire il mal di denti, risponde: "Dentium dolor a causa frigida nullo modo tollitur tabacco".
Ricorda l'avversione per il tabacco di due regnanti: uno è il Tyrannus Ammurathes IV, che per editto vietò "... ne quisquam fumo tabaci uteretur... quia prolis multiplicatione impediebat...".
Sicuro: i suoi sudditi fumavano... come Turchi! L'altro re è "Jacobus Britanniae Regis, odio ergo tabacum... libello scripsisse Misokapnion".
La pericolosità della droga si manifestò specialmente con l'usanza sociale del fumare, del masticare e dell'annusare il tabacco, ed anche di più con la somministrazione di varie preparazioni per finalità farmacoterapiche. In sostanza la nicotina e gli altri alcaloidi della linfa vegetale sono talmente tossici, che tutti i tentativi del passato di introdurli in terapia sono falliti. Infine oggi un estratto nicotinico può essere utilizzato solo in agricoltura a fine parassiticida.
Di Angelico Aprosio esiste un manoscritto, parzialmente pubblicato dal Durante nel I volume monografico di questa Nuova Serie dei Quaderni dell 'Aprosiana edito nel 1993, presso la Biblioteca Universitaria di Genova: si tratta della seconda parte "Dello Scudo di Rinaldo", opera moralistica. Il capitolo VIII, "Del Tabacco e dell 'abuso di esso" e dedicato "Al Signor Domenico Panarolo filosofo medico e pubblico professore di Medicina nel Romano Ateneo". Nella pagina segnata 254 del manoscritto l'Aprosio manifesta notevole disprezzo per l'uso del tabacco, che "Da Galeotti passò alle mani dei Birri e di simile canaglia... ridotto in sottilissima polvere cominciò a lasciarsi vedere tra quelle d'uomini dei piu' civili, in tanta moderazione che la quantità... di un fagiuolo indiano era soverchia a pascere i pruriti del naso per il corso di un anno lunare: ora è talmente cresciato l'abuso... che apparendo incapaci le scatolette, non mancano di quelli che se lo pongono nelle tasche a rinfuso... In tutte le città altro non si veggono che cartelli di tabacivendoli, ed in Londra in particolare come riferisce Barnaba de Riicke citato da Henrico de Engelgrave se ne veggono e se ne contano piu' di mille botteghe... ". A pagina 266 del manoscritto 1'Aprosio conclude con durezza: "II tabacco distrugge e malmena in tutto mentre egli fa arrugginire... i nervi immediatamente del cervello e gli rubba ogni argentino candore... Tabaci cerebro valde Inimici"...'
La MANDRAGORA, più dello STRAMONIO, "famigerato soprattutto nelle isole britanniche, fu l'"erba delle streghe" tipica dell'Europa continentale (Italia compresa) Delle bacche di questa solanacea si sarebbero servite streghe e fattucchiere per preparare narcotici e filtri amatori, non di necessità quindi mortali ma comunque capaci di alterare e condizionare la mente di un uomo.
Nell'antica erboristeria si credeva poi che gli infusi di MANDRAGORA fossero utili contro sterilità (Teofrasto, Plinio). Pitagora riteneva che le radici rendessero invisibili.
Si diceva che procurasse voluttà, che guarisse malanni, che recasse fortuna nei processi e nelle liti: erba magica per eccellenza... dunque!
Le più cupe leggende accompagnano comunque la storia di questo vegetale: esso veniva considerato della massima efficienza, specialmente quando fosse stato colto sotto una forca, ai piedi dell'impiccato, bagnato da goccia di sperma emessa negli ultimi spasimi, durante l'agonia.
Caratteristico è anche il modo con cui doveva essere colta: non doveva venir toccata dall'uomo poiché come diceva la leggenda questi sarebbe morto fulminato nel momento stesso che l'avesse sradicata.
Allora era necessario legarla a mezzo di corda al collo di un cane nero: s'incitava la bestia alla corsa, la MANDRAGORA veniva sradicata e il cane moriva. Nello stesso momento l'uomo doveva suonare un corno per non udire le grida che la pianta avrebbe mandato nel sentirsi staccare dal suolo: quelle grida infatti lo avrebbero fatto morire.
E' da ricordare che, sia pur vagamente la MANDRAGORA ricorda una forma umana: come tale era ritenuta un amuleto di insuperata virtù magica: la si doveva tenere gelosamente custodita in un cofanetto, vestita di abiti sontuosi, le si doveva dare regolarmente dar mangiare e da bere. Quando si credeva di udirla piangere (e si citavano testimoni che giuravano di averne sentito i gemiti!?!) si prevedevano gravi disgrazie nella famiglia.
Nella farmacologia, la MANDRAGORA era considerata erba dotata di virtù afrodisiache: tale infatti è, per vari aspetti, il concetto della omonima commedia di Machiavelli.
La sua azione principale però, a quanto sembra, era quella anestetica: accompagnata ad altri unguenti, la MANDRAGORA era somministrata ai condannati a morte.
Gli effetti magici della MANDRAGORA, secondo gli occultisti, sarebbero i più potenti di tutte le piante. Occorrerebbe però attenersi ad alcune rigorose precauzioni: tra queste, importantissima, quella di non toccarla mai con il ferro e con i cosiddetti metallini, e di raccoglierla infine sempre sottovento.
In quanto alla sua radice, secondo gli antichi testi di magia, i veri effetti magici sarebbero determinati dalla pasta ottenuta dalla stessa dopo averla pestata: ma, si sarebbe dovuto far ciò sempre in certe ore astrologiche; in certi periodi annuali: lavorando il tutto in un mortaio composto da sette metalli, formato da una lega speciale, di fabbriazione complicatissima sì che quasi tutti ricorrevano a fabbri specializzati...ma qui si è ormai sulle sabbie lella leggenda.
l'ELEOMELE era una sorta di veleno particolare sospeso tra criminalità e stregoneria le cui caratteristiche, tranne che dai competenti erboristi, non furono mai comprese del tutto.
Il NAPELLO (Aconitum napellus) o specie di ACONITO resistente ad ogni sorta di antidoto: nonostante la difficoltà di procurarselo per via clandestina ed il prezzo elevato da pagare ai migliori "maestri di veleno" il Napello era ricercato dagli Avvelenatori come simbolo del Veleno per eccellenza di potenti e cortigiani. Nel NAPELLO, assieme ad altri alcaloidi, si trova l'aconitina, uno degli alcaloidi più tossici per l'uomo: basti pensare che la dose mortale per l'uomo è di uno o due milligrammi, sì che anche la farmacopea moderna, che era riuscita a controllare l'alcaloide, ha preso ad usarlo sempre meno in terapia (dove pure a minime dosi l'alcaloide ha spiccate proprietà sedative ed analgesiche)
La pianta erbacea perenne della "Ranuncolacee", appunto l'ACONITO, nelle sue varie specie oltre il napellus e compresi il lycoetonum ed il variegatum .
Con il nome di APPIO (anche APIO) si indica una pianta della famiglia delle Ombrellifere, che comprende parcchie varietà d'orto tra cui il SEDANO (Apium graveolens), il PREZZEMOLO o APIO PALUSTRE (Apium petroselinum), l'ANACIO (Pimpinella anisum).
Traducendo la Storia Naturale di Plinio, Cristoforo Landino scrisse (BATTAGLIA, sotto voce Appio): L'erba detta Olusatro, el quale chiamano ipposelino, cioè appio cavallino, è rimedio a' morsi dello scorpione...Quello chiamato ELIOSELINO, cioè appio di palude, ha propria virtù contro a' ragni [L'APPIO o APIO era peraltro uno dei componenti degli ANTIDOTI CONTRO I VELENI].
La BELLADONNA appartiene alla famiglia delle Solanacee: gli antichi erboristi la nominano spesso anche SOLATRO [dal lat. mediev. solatru(m), contrazione della loc. solanum atrum propr. "solano scuro"] che rappresenta un nome comune di alcune piante della famiglia delle Solanacee.
La BELLADONNA contiene l'ATROPINA che veniva usata nelle giuste dosi già dagli antichi Egizi per produerre del collirio capace di far dilatare gli occhi e renderli quindi più splendenti: anche le donne romane se ne servivano per lo stesso genere di cosmesi.
L'ATROPINA ha infatti proprietà vasodilatatrici: per questo può essere usata in terapia medica per gli spasmi intestinali, i catarri bronchiali, la pertosse, le bradicardie ed anche per ridurre la sintomatologia del Morbo di Parkinson (in questo caso però sotto la forma di "Cura bulgara" somministrando cioè decotti ottenuti da un particolare tipo di Belladonna che cresce in Bulgaria).
Tuttavia la somministrazione di dosi eccessive di atropina può provocare una grave forma di avvelenamento caratterizzata da secchezza delle fauci e della gola, raucedine, disturbi visivi, tachicardia, sintomi a carico del sistema nervoso, mal di capo, vertigini, irrequietezza, allucinazioni, delirio.
l'ARSENICO usato dai Romani che lo importavano dal Ponto sotto forma del solfuro d'arsenico detto Sandaraca, poi noto come Risogallo fu uno tra i più usati tossici di quest'epoca di veleni in cui la maggior parte di sostanze nocive era estratta dalle piante: nel tentativo di elaborare antidoti reali o nella vana ricerca di cure antiche, diventate quasi mitiche, come la panacea di tutti i mali come il silfio si finiva per manipolare sostanze altamente velenose quali i composti dell'arsenico e per contrarre delle tossicosi incurabili.