ABBIGLIAMENTO E CALZATURE ATTRAVERSO I SECOLI

Quanto è oggi risaputo sulla manifattura delle scarpe nella Grecia classica , sulla concia di pelli e cuoi destinati a confezionarle e quindi sul mestiere di calzolaio proviene da testimonianze letterarie e da reperti archeologici, in particolare statue e vasi con figure dipinte.
Su un vaso proveniente dall’isola di Rodi, conservato presso l'Ashmolean Museum di Oxford, è effigiato uno sprazzo di vita operosa entro una calzoleria: un artigiano infatti è impegnato a modellare col trincetto un pezzo di cuoio sì da adeguarlo alla conformazione dei piede di un giovanissimo cliente ritto sopra il deschetto.
Le pelli venivano conciate con varie sostanze tra cui l’ allume , materie grasse quali il grasso di maiale o la morchia d'olio giovevoli per garantirne la morbidezza, estratti tannici derivati da vegetali quali le foglie di more, corteccia di alcune conifere, scorze di melograno, ghiande, radici e bacche di vite selvatica, frutti dell'acacia egiziana e corteccia di quercia.
Gran parte delle pelli erano importate in Grecia dalle regioni bagnate del Mar Nero, dalla Cirenaica e successivamente in seguito da Sicilia (Magna Grecia) ed Asia allorquando l’ecumene greco pose le sue basi anche in queste regioni.
E’ facile che in un primo tempo la concia delle pelli venisse finalizzata a livello artigianale dagli stessi calzolai ma, nello sviluppo socio-economico del mondo ellenizzato, si siano affermate concerie di dimensione pseudoindustriale in cui era sfruttata prioritariamente una manodora di tipo servile: il mestiere del conciatore nell’antichità, attese le sgradevoli emanazioni degli impianti che quasi si fissavano sul corpo degli operatori, godeva infatti di poca stima sociale.
In vero nelle epoche più antiche i Greci, militari compresi, procedevano soprattutto a piedi nudi (benché Omero ci descriva, nel VI canto dell’Iliade una donna che indossa dei sandali) sì che e solo in periodi posteriori cominciarono ad usare le calzature pur continuando a restare scalzi tra le pareti domestiche.
Da poche fonti letterarie si sa poi che i Cretesi usavano stivaletti di cuoio bianco o di camoscio alti fin sopra la caviglia e che i soldati di Orcomeno calzavano stivaletti di cuoio rosso che li distinguevano da quelli di Micene soliti a portare sandali corredati da gambali di cuoio scuro.
In un dialogo letterario tra il calzolaio Cerdone, la procacciatrice di affari Metrò e due clienti, Eroda, tramite un suo mimiamo, in qualche modo rende possibile apprendere la molteplicità tipologica e la raffinatezza delle calzature femminili in uso in età ellenistica. Rsiultano elencate scarpe di Sicione o d'Ambracia gialle o verdi, scarpe senza tacco, pianelle, pantofole, scarpe ioniche, scarpe alte, scarpe da notte, scarpe aperte, scarpe rosse, scarpe argive, calzature da giovinetto e da passeggio.
Secondo l’interpretazione prevalente le prime scarpe greche di grande uso erano chiamate Upodémata ed erano confezionate tramite una suola di cuoio, legno o sparto ancorata al piede da corregge di pelle. Questa foggia generò quindi i Sandalia ed un tipo importante di Sandalia risultavano i Krepidoi scarpe indossate parimenti da uomini (solo i liberi tuttavia avevano diritto di calzare una Krepis con la linguetta intagliata)che da donne e comuni soprattutto per sostenere i viaggi, vista la loro robustezza idonea a sostenere i capricci del tempo quanto a sostenere tragitti aspri su strade non ancora adeguate dalla tecnologia romana.
I Krepidoi delle donne risultavano comunque di pelle più morbida ed erano molto spesso colorati, per lo più in giallo: oltre aciò gli erano applicate delle suole alte di sughero sia per guadagnare qualche centimetro in statura che per destreggiarsi tra i frequenti pantani di sentieri e vie spesso abbandonati al degrado fuori del centro vitale delle città.
; Per Embades si intendevano poi stivaletti parimenti calzati tanto da uomini che da donne e la loro la tomaia era completamente chiusa: questo tipo di scarpe nell’uso di Sicione era di colore bianco mentre in Laconia prevaleva la colorazione in rosso ed oltre a ciò le scarpe quelle femminili risultavano di frequente arricchite da intarsi ed ornamenti fatti da ricami in fili d'oro.
Alle spose si concedeva l’uso delle candide Ninfides mentre erano del tutto meno fini ben altra tipologia di calzatura: ci si riferisce qui a scarpe pesanti impiegate tanto dai soldati quanto da coloro che si dovessero impegnare in viaggi per terreni asperrimi.
A queste solide calzature si dava in genere il nome di Koila upodémata : esse avevano la suola rinforzata da chiodi e parti di tomaia proteggevano saldamente il tallone e i lati del piede.
Tra le tante calzature della fioritura greco-ellenistica si possono quindi menzionare gli stivaletti detti Endromides (che ricoprivano le caviglie risultando ancorati alla gamba in virtà di corregge di cuoio) ed ancora gli Akatioi scarpe dalla punta rialzata forse di derivazione ittita.
Vantavano altresì una genesi medio-orientale i
Kothornoi provvisti di solida suola di cuoio e con una tomaia in pelle morbida alta al polpaccio che era allacciata sul davanti della gamba tramite corregge rosse: la loro fama deriva soprattutto dal fatto che sono stati eternati dal primo dei grandi autori tragici greci Eschilo che li fece indossare dai suoi attori inaugurando una plurisecolare tradizione nelle rappresentazioni del teatro.
In effetti i Kothornoi teatrali costituirono un’enfatizzazione voluta della scarpa normale di tale nome: la sublimazione dell’enorme suola, ispessita da strati di sughero e l'altezza valeva a sottolineare la funzione, più o meno carismatica dei vari personaggi: era una sorta di elementare meccanismo scenico per far sì che già nell’immadiatezza della percezione visiva, per esempio dei ed eroi , destinati in genere ad egemonizzare le vicende, apparissero più alti dei comuni mortali (lo stesso non avveniva nel contesto delle rappresentazioni comiche i cui attori calzavano le Embades).
Lo storico filospartano Senofonte ci permette poi di apprendere che con lo scorrere del tempo i calzolai univano suole e tomaie con tendini animali seguendo una procedura sempre più uniformata nell'assemblaggio delle calzature: per esempio gli stivali per i cavalieri erano invariabilmente adattati per l’applicazione degli sproni.
Nelle case solitamente non si portavano scarpe, ci si recava sì all’abitazione di un amico, magari per un banchetto, portando scarpe, pure molto robuste, per non giungere imbrattati dall’ospite ma, una volta entrati in casa, già nell’androne della stessa, le calzature venivano dimesse e mediamente uno schiavo od un servo (trattandosi di ambiente sociale elevato) si prendeva cura dell’invitato accorrendo con un catino e tutto l’occorrente per un rapido pediluvio onde liberare il sopraggiunto delle eventuali sporcizie raccolte involontariamente nella passeggiata per strada, permettendogli di conseguenza di recarsi nella sala dei ricevimenti libero dall’imapccio di qualsiasi calzatura.
Per quanto concerne Roma lo storico Plutarco ha lasciato scritto che già nel periodo regio gli addetti alle lavorazioni di cuoio e pelli erano organizzati (forse sotto l'influsso dei più progrediti vicini Etruschi) in una corporazione che secondo la leggenda venne, al pari di altre, fu regolamentata dai re Numa Pompilio e Servio Tullio.
Le corporazioni, precorritrici delle "arti" medioevali, operarono per tutto il periodo repubblicano e ricevettero altre regole da Giulio Cesare : a dimostrazione di tanta preoccupazione normativa nel foro di Ostia si può vedere un mosaico in cui furono effigiate le varie opere dei Coriarii ossia degli artigiani che si occupavano delle lavorazioni di cuoio e pelli.
La tecnica conciaria romana è nota solo dalle documentazioni letterarie ed epigrafiche ma per il rinvenimento archeologico di reperti vari: il più completo ed eclatante è certo costituito dal complesso murario di una conceria pompeiana, ricoperta dall'eruzione vesuviana del 79 d. C.
I Romani conciavano le pelli (che venivano conservate per lunghi periodi tramite la tecnica della salatura imparato soprattutto dai Galli) con l'allume , con materie grasse e con prodotti vegetali contenenti tannino come il sommacco (Rhus coriaria), le noci di galla, la corteccia di quercia, di pino e od ancora le scorze di melograno che giungevano dall'Africa.
Le Soleae furono i primitivi calzari dei Romani ed erano fatte con suole di cuoio allacciate alla gamba in virtù corregge di pelle: con l'evoluzione della civiltà romana queste calzature furono relegate all'uso esclusivamente domestico venendo usate solo nell'intimità della vita privata come i Socci ovvero pedule di feltro colorate usate sulla scena teatrale anche dagli attori comici.
Col tempo la differenziazione nell'uso delle calzature, più o meno sofisticate, finì per diventare la sanzione degli stati socio-economici: così per esempio i cittadini di elevata condizione solevano calzare usavano i Calcei assieme alla toga od all'uniforme soldatesca.
Tali scarpe erano realizzate con suole prive di tacco e spesse grossomodo 5 mm. Oltre che caratterizzate da tomaie di morbida pelle che avvolgevano completamente il piede.
Lateralmente, da ogni suola si espandevano quindi due grosse strisce che si incrociavano ed erano annodate sul dorso del piede: strisce di minor dimensione talora procedevano invece dal tallone per avvolgersi sopra la caviglia (circa 15 cm.) ove erano annodate sì che ne pendessero le estremità non raramente decorate, anche con fibbie d'avorio a mezzaluna. che venivano conservate per lunghi periodi col metodo della salatura imparato soprattutto dai Galli I Calcei indossati dai senatori (Calcei senatorii) erano neri mentre quelli delle più alte cariche civili erano rossi: si indossavano pure dei Calcei rimandi ("Calcei uncinati") caratteristici per la punta rialzata secondo una foggia di presumibile influsso etrusco.
Nel corso di particolari feste e cerimonie i patrizi erano soliti calzare i Mullei che in ultima analisi erano una sorta di Calcei dal color rosso e con la suola molto spessa in modo da slanciare, conferendo una positura ancora più aristocratica, quanti li calzassero stando ai parei di Plinio e Svetonio.
Una statua alessandrina dell'imperatore Settimio Severo oggi custodita al British Museum di Londra calza appunto una peculiare variante di Mullei.
Questo tipo di scarpe raffinate mal si adattava però alle pratiche esigenze della vita di tutti i giorni nel corso della quale si optava piuttosto per l'uso di comodi sandali con le suole fissate ai piedi attraverso una variegata strumentazione di cinghie di pelle: per una comprensibile esigenza all'eleganza femminile i sandali delle donne, spedie se di alto lignaggio, risultavano spesso arricchiti esteticamente con ricami, perle e pietre preziose e secondo alcune fonti, potevano avere persino suole d'oro o d'argento.
Le Crepidae erano invece un usato e comodo (utili pure a camminare su terreni ardui) tipo di sandali d'origine greca: alla più graziosa variante per le donne si dava il nome di Crepidulae.
Potrebbero essere un modello di Crepidae le calzature che completano di una statua dell'imperatore Adriano proveniente dal tempio d'Apollo a Cirene ed ancora conservata al British Museum di Londra.
Ancora Crepidae sono verisimilmente le scarpe di una statua bronzea di Settimio Severo visibile ai Musées Royaux d'Art et d'Histoire di Bruxelles dove si trova anche un calamaio portatile romano in bronzo trovato a Willemeau (Belgio).
Le Crepidae dovevano costituire comunque scarpe di uso comune, tanto da diventare sinonimo di "camminare, procedere dei pedoni": e non sembra peraltro casuale che crepidines venissero denominati i marciapiedi ad uso pedonale che correvano nelle città a lato delle arterie come si può anche notare nel tessuto viario ed urbano di Ventimiglia romana.
Le donne vestivano comunque anche dei calzari simili a scarpe basse attuali, ma senza tacco mentre per i popolani ed i contadini erano usuali altri tipi di calzature e tra queste erano assai menzionate quelle dette Perones, scarpe dalla suola senza tacco con una tomaia in pelle alta alla caviglia allacciata sul dorso del piede con fibbie o stringhe e che potevano essere indossate sul piede nudo o interponendo una specie di calza in feltro.
I militari, fino al grado di centurione, i contadini e chiunque dovesse percorrere lunghi tratti su terreni accidentati portavano le Caligae scarpe dalla pesante suola senza tacco chiodata con bullette (clavi caligares) tanto che nelle sue satire Giovenale commiserava chi avesse posto il piede sotto la suola di un soldato. La tomaia era simile a quella dei Perones, ma senza apertura affibbiabile, come quella di uno stivaletto moderno. Sul bordo superiore, per aiutarsi a calzarle, erano praticate, davanti e dietro, due fessure a mezzaluna e, poiché era fatta di cuoio molto spesso e quindi rigido, la punta era aperta onde evitare di ferire le dita con lo sfregamento.
Per assicurare queste scarpe al piede e per irrobustirle ulteriormente, la tomaia era attraversata da una serie di corregge ed era dotata di rinforzi, alleggeriti da fessure, nel tallone: i lati della suola erano collegati da una striscia di pelle che passava sopra il dorso del piede e quindi altre due strisce più strette univano la tomaia con la suola verso la punta risultando distanziate da una striscia trasversale posta all'altezza dell' apertura sulla punta stessa.
E' questo il tipo di calzatura donde derivò il soprannome di Caligola (Gaio Cesare Germanico 12d.C. - 41d.C.), soprannome che gli conferirono i legionari del Reno agli ordini del padre Germanico.
Le Carbatinae in cuoio grezzo e con la tomaia ricavata da un unico pezzo di pelle erano anch'esse adatte alla marcia su terreni difficili e quindi venivano parimenti utilizzate dai soldati.
Mentre le scarpe dette Gallicae costiuivano una variante, appunto gallica, delle Carbatinae le Ocreae erano stivaletti alti al polpaccio allacciati sul davanti da stringhe incrociate.
Proveniente dagli scavi di Qasr Ybrim in Egitto è lo stivaletto militare, databile fra il I sec. a.C. ed il I sec d.C. ed esposto al British Museum di Londra, considerato una Caliga ma confezionato con un unico pezzo di cuoio cui fu aggiunta la suola mentre era tenuto allacciato al piede tramite stringhe di pelle passanti per le fessure di cui vennero fornite le cinghiette collegate alla tomaia.
Agli schiavi ed ai proletari erano usuali degli zoccoli di legno detti Sculponeae mentre la gente di campagna era solita avvalersi dei semplici Udones fatti costituiti da suole rettangolari munite di lunghe cinghie di cuoio che le assicuravano ai polpacci protetti da pezze di lana e/o pelli d'ovino, in pratica il modello arcaico delle "Ciocie" che nominano una vasta area dell'agro romano. Nell'Edictum de pretiis venalium rerum, calmiere di Diocleziano del 301 in cui si fissarono i prezzi massimi di vendita di tutti i generi di consumo, risultano citate almeno 20 tipi di scarpe tra cui Calcei patricii, Calcei senatorii, Caligae equestres, Caligae muliebres, Campagi, Urinae.
All'epoca si citavano pure i Campagi ovvero calzature militari e le Urinae che erano sandali femminili realizzati con pelle bovina.
Nel tardo impero (V - VI sec.) le donne romane di elevato lignaggio indossavano zoccoli dorati o stivaletti di cuoio che scricchiolavano ad ogni passo, come racconta San Gerolamo per cui questa moda, che mirava senza dubbio a sottolineare l'incedere femminile, non solo era frivola ma celava quella aura di peccaminosità su cui si sarebbe poi abbattuta la misoginia cattolico integralista. Nella legge De abitu quo uti oportet intra orbem del codice teodosiano ( libro XIV, legge 2) si legge che gli augusti Arcadio e Onorio proibirono a Roma l'uso delle Zanche chedovevano essere una sorta di stivaletti o scarpe.
Le scarpe romane potevano essere lucidate con la cera d'api ed avere vari colori; per il nero si usavano sali ferrosi e/o estratti tannici, il giallo si otteneva dallo zafferano, l'azzurro era ricavato dal guado (Isatis tintoria), le scarpe di lusso erano colorate di rosso con la porpora o con l'Oricello (Roccella tintoria) di minor prezzo.
Le tomaie erano cucite con filo di lino ed erano unite alle suole con strisce di cuoio, tendini o budello ritorto. I Romani usavano togliersi le scarpe durante i banchetti ed anche prima di entrare nelle terme: in merito è pervenuto un mosaico, situato all'ingresso di un complesso termale, che raffigura la scritta Benelava ed un paio di pianelle a infradito per rammentare alla clientelai di togliersi le calzature per recuperarle solo all'uscita.
Lo storico Paolo Diacono ci informa che i LONGOBARDI usavano calzature aperte fin quasi all'alluce fissate al piede da lacci incrociati dette Hosis sulle quali, per cavalcare, infilavano delle uose in lana dette Tubrugos..
In tombe dei FRANCHI di epoca merovingia furono rinvenute fibbie in metallo ad aghetto usate per chiudere sia le calzature che le uose.
Eginardo, cronista Franco, narra che Carlo Magno calzava, nelle solennità, scarpe tempestate di gemme.
Un modello di calzatura franca fu rinvenuto nella tomba di Bernardo, figlio di Pipino, re d'Italia, morto nell'818 quando il sepolcro fu aperto nel 1618: si tratta di calzari alti al polpaccio con tomaia in cuoio rosso ornata da strisce di pelle e suola in legno e con apertura dal dorso alle dita del piede, tenutevi aderenti con legacci.
Le illustrazioni della bibbia di Carlo II il Calvo (823 - 877) mostrano scarpe simili a pantofole allacciate fino alla caviglia e proprio in questo periodo, vengono di moda le calzature à la Poulaine, dette anche Pigaces , con una punta che, all'inizio, era al massimo lunga come la metà del piede, ma che, in seguito, divenne talmente lunga da rendere difficoltoso il camminare ed era imbottita con muschio, peli animali o lana; talvolta terminava bizzarramente a coda di pesce, di serpente o a pungiglione di scorpione.
Le Poulaines dapprima erano portate solo dai nobili come scarpa da guerra e quando la lunghezza delle punte crebbe, nel sec. XIV furono emanate leggi che ne fissavano le misure per nobili, borghesi e popolani anche se erano indossate sopratutto dai primi mentre i comuni cittadini portavano scarpe dalla punta arrotondata.
Si dice che questa moda sia stata introdotta dal conte Fulco D'Angiò che aveva la necessità di nascondere un piede deforme, ma, in realtà, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, esisteva già fin dai tempi dei Sumeri e degli Egizi e, forse furono i crociati ad importarla in Europa.
La moda attecchì anche tra gli ecclesiastici tanto che S. Pier Damiani (1007 -1072) ne condannò l'uso.
Il termine francese Poulaines significa "(punte di) scarpe alla polacca" e ciò si spiega con il fatto che l'uso di tali calzature si era esteso anche alla Polonia tanto che in Inghilterra, a partire dal 1367, esse furono anche chiamate Crakows.
Gli Angli ed i Sassoni ( tribù germaniche che dallo Schleswig e dalla costa frisona, verso la metà del 400 d.C. invasero e colonizzarono l'Inghilterra prima di essere sopraffatti dai Normanni) per quanto ha confermato l'esame dei reperti archeologici delle necropoli non dovevano distinguere le calzature maschili da quelle femminiliche al limite risultavano ornate da una striscia ricamata dall'apertura alla punta.
Le calzature erano confezionate cucendo assieme suola e tomaia sul rovescio delle pelli o unendole con corregge (metodo di assemblaggio detto "A tomaia risvoltata, in inglese Turnshoe Technique) e normalmente erano alte alla caviglia, con la punta arrotondata, senza tacco ed allacciate con cordoncino o stringhe; non venivano usati chiodi e, verso la metà del IX sec., ne comparvero anche di dotate di una linguetta triangolare chiuse da una fibbia a barretta.
Erano usati anche modelli di pantofole basse, sandali del tipo tardo romano, calzature di pelli non conciate ed altre fatte con un unico pezzo di pelle.
Il sistema di costruzione sopra citato fu importato in Inghilterra dai Sassoni verso il 5° sec. e, a poco a poco, soppiantò quello usato dai Romani che consisteva, tra l'altro, nel cucire le tomaie con spago e di fissarle alla suola con strisce di pelle mentre i Sassoni usavano corregge di pelle non conciata.
Molti vocaboli in inglese arcaico fanno riferimento alle calzature di quest'epoca, ma non è chiaro a quale particolare tipo: il termine Scoh potrebbe indicare la scarpa in generale o uno stivaletto alla caviglia o una pantofola; Swiftlere e Staeppescoh erano scarpe a pantofola di pelle non conciata alte alla caviglia, Hemming, Rifeling, Socc (di derivazione chiaramente romana) indicavano scarpe fatte con un unico pezzo di pelle; Crinc e Calc erano invece sandali a strisce.
I NORMANNI (VICHINGHI) Erano popolazioni d'origine germanica viventi nell'area scandinava che dall'VIII al XI secolo si espansero notevolmente in Europa, spostandosi soprattutto per mare, essendo abilissimi navigatori. Stabilitisi in Francia, dove nel 911 Rollone fondò il ducato di Normandia, si convertirono al cristianesimo. Nel 1066 Guglielmo il conquistatore occupò l'Inghilterra mentre in Italia meridionale alcuni cadetti di nobili famiglie si impossessarono di vasti territori, tolti ai Bizantini, che furono unificati da Roberto il Guiscardo (1015 - 1085) che tolse la Sicilia agli Arabi e da Ruggero II re di Sicilia dal 1130. Si può ragionevolmente affermare che usassero calzature simili a quelle degli Anglosassoni e, verso il 1.150, dopo la conquista dell'Inghilterra, adottarono, per un breve periodo, tacchi arrotondati e punte aguzze mentre cominciava ad essere usato il metodo di giunzione di tomaia e suola a mezzo del guàrdolo probabilmente importato in Europa del nord dai Crociati.
Nelle raffigurazioni dell'arazzo di Bayeux che descrive lo sbarco in Inghilterra, calzavano scarpe chiuse allacciate munite di speroni che, in inverno, erano foderate di pelliccia.
Il cronista inglese Orderico Vitale (1075 - 1143) che nella sua opera Historia ecclesiastica ci ha lasciato una ricca documentazione sui Normanni cita le Pigaciae e le Pigatiae.
Per quanto concerne l'Italia, in quest'epoca, si hanno notizie soprattutto su Venezia e Nella vita di Orseolo, doge di Venezia (928 - 987) si legge che il doge indossava delle Zanghe, che, a quel tempo, dovevano consistere in una sorta di stivali atti a riparare piede e gamba.
I sacerdoti cattolici indossavano, in questo periodo, sandali chiusi con tomaia in cuoio che proteggeva il tallone e la punta delle dita legati al piede con corregge: in un suo editto Carlo Magno impose agli ecclesiastici di indossare solo semplici sandali durante la celebrazione della messa.
Continuò per tutto il XII secolo la moda delle Poulaines che ebbero punte sempre più lunghe, talune dal tallone alla punta misuravano più di 90 cm., per cui, onde evitare d'inciampare, le punte venivano assicurate alle gambe con legacci o catenelle.
A Vienna sono conservati dei sandali, di tradizione NORMANNA, appartenuti alla regina Costanza moglie dell'imperatore di Germania Enrico IV (1.050 - 1.106) che hanno ricamata sulla tomaia una sirena.
Nei sarcofagi reali della cattedrale di Palermo sono stati rinvenuti alcuni esemplari di calzature; in quello di Enrico VI (1165 - 1197) erano scarpe con tomaia in seta decorata da oro e perle e con suola in sughero rivestita di seta; in quello di Federico II ( 1194 - 1250) stivaletti con tomaia in seta recante il ricamo di una cerva e suola in sughero rivestita di seta.
I Veneziani praticavano la concia vegetale con estratti dal sommacco e dal rovere, quella con allume di rocca e quella con materie grasse.
I calzolai erano riuniti nella corporazione dei Caleghéri e Zavateri (calzolai e ciabattini) che comprendeva anche alcune categorie speciali di calzolai come quella dei Solarii che facevano solo suole per scarpe e calze solate o quella dei Patitari che realizzavano invece zoccoli detti Patitos; la corporazione imponeva ai suoi membri il rispetto di una serie di norme a tutela dei diritti dei clienti.
I Patitos (affermatisi per la grande tradizione manifatturiera di Venezia) erano ZOCCOLI con la tomaia in pelle di montone e suola alta ed erano usati in tutt'Italia, sia in campagna che in città, per non rovinare e sporcare le calze solate con il fango delle strade non lastricate.
Le donne veneziane indossavano in questo periodo zoccoli detti SOCCHI e ZANGHE; ambedue i modelli potevano avere la suola in legno o in sughero, ma quelli con suola in sughero, in virtù delle norme a tutela della clientela sopra citate, dovevano avere la tomaia in cordovano ovvero pelle di capra morbida conciata al tannino, mentre quelli con suola in legno potevano avere la tomaia in pelle di montone.
I VALDESI Erano seguaci di un movimento religioso sorto in Francia nel 1.175 che prese nome da Pietro Valdo mercante di Lione, il quale, in un certo momento della sua vita, decise di donare ai poveri tutte le sue ricchezze e di vivere secondo le regole del Vangelo; dapprima furono tollerati dalla Chiesa cattolica, ma quando decisero di far svolgere attività pastorale anche dalle donne, furono tacciati d'eresia e perseguitati, specie dopo il 1.532 quando aderirono alla riforma protestante.
Nel sec.XII passarono in Svizzera dalle zone di confine tra Piemonte e Francia in cui erano stanziati e tornarono in Piemonte nel 1689 dietro autorizzazione del duca di Savoia che ne tollerò le pratiche religiose.
I loro uomini incominciarono nel XII secolo ad indossare le Calze solate, chiamate in francese Haut de chausses, una sorta di calzamaglia di tessuto munita di una protezione alla pianta del piede sotto forma di suola in cuoio che rendeva superfluo l'uso delle scarpe.
Per quanto concerne l'ambiente ecclesiastico è da precisare periodo il Papa calzava pantofole dette Sandalia di cui son giunti dal passato due esemplari, uno con tomaia in seta blu, l'altro in seta rossa e dorata.
Con i paramenti liturgici si calzavano Udones e Caligae con tomaie in lana, lino o seta di colore bianco. Ai Musées Royaux d'Art et D'Histoire di Bruxelles è esposto un paio di sandali liturgici di manifattura italiana, provenienti dall'abbazia di Stavelot (Belgio); hanno la tomaia in cuoio rosso decorata da ricami in filo d'oro ed applicazioni in pelle dorata.
Continuò in tutta Europa l'uso delle Calze solate e delle Poulaines.
Nel generale rifiorire della attività manifatturiere, si incentivò nell'Italia del XIII secolo l'organizzazione degli artigiani all'interno di CORPORAZIONI caratterizzate da apposite NORME STATUTARIE che ne regolavano l'attività onde rendere illegali le possibili frodi: la testimonianza più antica in merito alla CONCIA DELLE PELLI, per il PONENTE LIGUSTICO, si ricava dalla RUBRICA 60 dei duecenteschi STATUTI DI APRICALE (peraltro dagli stessi STATUTI e precisamente dalla RUBRICA 13 si evince quanto fosse giudicato grave il furto di pelli destinate alla concia, tanto da sottoporre i sospetti di reato alla temuta prova dell'ordalia: del resto anche dagli STATUTI DI SAN ROMOLO si evince l'importanza pubblica che, nonostante lo scorrere del tempo, veniva attribuita a siffatta impresa manifatturiera ed artigianale).
A Firenze gran parte delle attività di commercio, artigianato, manifattura, ma anche l' esercizio di professioni quali quelle di medico, notaio etc., risultavano appunto inquadrate entro il sistema delle CORPORAZIONI, localmente dette ARTI, precisamente 21, distinte in MAGGIORI, MEDIANE e MINORI.
I CALZOLAI facevano parte di una delle 5 ARTI MEDIANE mentre i CONCIATORI appartenevano ad una delle 9 MINORI.
Mentre molti commercianti ed artigiani del cuoio o della pelle esercitavano i loro mestieri in botteghe di legno situate sul Ponte Vecchio, i conciatori dovevano essere allocati in zone più periferiche dati i cattivi odori derivanti dai metodi di concia.
Infatti le pelli venivano lasciate a macerare per circa otto mesi con l'uso anche di orina di cavallo. All'inizio del secolo uomini e donne calzavano gli Usatti, sorta di stivali in cuoio e la semplicità del loro vestire é ricordata con nostalgia da Dante Alighieri nel Paradiso (XV, 100-116)) Giudici e notai usavano le Calze solate mentre in inverno, oltre agli Usatti, si indossavano anche Calzari in cuoio che potevano avere anche la suola in legno; i poveri in estate andavano scalzi ed in inverno si avvalevano di zoccoli che venivano portati senza calze.
Le donne indossavano calzature con tacchi e suole molto alti tanto che i predicatori, sempre pronti a stigmatizzare le vanità della moda, le prendevano in giro per il loro deambulare come su trampoli anche se una certa giustificazione a quest'uso potrebbe essere data dallo stato delle strade della città piene di fango e con le acque di scarico dei caseggiati che scorrevano lungo la carreggiata.
Nel Regno di Napoli (e quindi anche in Sicilia, sua basilare appendice) si usavano scarpe dette Calzari, Sandali, Pianelle e Partitelle con suole di cuoio, legno o sughero e tomaie in stoffa, velluto o pelle dorata detta auripellium.
In un documento conservato nell'archivio di Palermo si legge che Carlo I d'Angiò (1226 - 1285) possedeva dei sandali aventi sulla tomaia una croce bianca ricamata.
Un'ordinanza emessa in questo periodo nel paese di Sciacca rende fattibile farsi un'idea dei prezzi delle scarpe; quelle usate dalli gintilomini et persuni onorati costavano un tarì (moneta d'oro o d'argento d'origine araba adottata anche dai Normanni e dagli Aragonesi ) e 10 grani (moneta d'argento o rame in uso nel regno di Napoli e Sicilia ), mentre le scarpe di montuni femmininu costavano grani 15.
In taluni contratti che regolavano rapporti di garzonato i maestri si impegnavano non solo ad insegnare la loro arte agli apprendisti, ma anche a fornire loro vitto, alloggio e calciamenta cioè le scarpe.
A Roma nel Libro dell'incoronazione di Bonifacio VIII (1235 - 1303) è citato un prefetto dell'urbe che partecipava al corteo papale indossando una Zanga d'oro ed una rossa ed, in quest'epoca, tale nome si riferiva ad una calzatura foggiata a stivaletto.
A Venezia si può quindi leggere uno statuto o capitolare (1221) della corporazione del Caleghéri in cui si citano due tipi di scarpe: i Calcarios , gambali di cuoio o in tessuto, forse muniti anche di piede e gli Stivallos, stivali alti al polpaccio con suola in legno.
In Inghilterra tra il 1984 ed il 1985 a Newcastle, scavi condotti lungo la riva del fiume Tyne, hanno riportato in luce frammenti di cuoio, tessuti e ceramica mescolati a residui di discarica usati per bonificare le rive del fiume nel XIII sec.
L' ambiente acido ha agevolato la conservazione del cuoio e si sono individuati frammenti di tomaie e suole sostanzialmente riconducibili a quattro modelli di calzature montati con la "tecnica a tomaia risvoltata (nella Turnshoe Technique duecentesca tra tomaia suola veniva inserita una striscia di pelle che rendeva la cucitura a tenuta stagna).
Le scarpe in oggetto erano alte alla caviglia, senza tacchi e le tomaie potevano essere costruite o con un unico pezzo di pelle o con due; nel primo caso le due estremità della tomaia erano congiunte con una cucitura "di testa" laterale fatta con stringa di cuoio, ( piccoli pezzi triangolari ne completavano la forma), nel secondo con un pezzo di pelle si modellava la parte anteriore della tomaia e con l'altro quella posteriore che venivano unite con il sistema sopra citato, dei contrafforti venivano poi cuciti all'interno dei talloni.
Per tutto il trecento si conservò a livello europeo l'uso delle Calze solate e delle Poulaines che acquisirono però, in punta, la forma a becco.
A proposito dell'Italia G.Musso, nella sua Storia di Piacenza del 1388, scrive che i giovani di Piacenza indossavano, d'estate e d'inverno, Caligae solatae con sotto scarpe con tomaia bianca , talvolta con punte sottili lunghe tre once oltre il piede imbottite di crine onde evitare che si piegassero mentre i meno giovani che, precedentemente portavano tali modelli di calzature senza punta, ora le portavano con piccole punte "piene di peli".
In generale le scarpe femminili dei ceti abbienti avevano la tomaia in pelle, in seta anche ricamata, in fili d'argento, in tessuto ed erano corredate da fibbie d'oro o d'argento.
Per limitare l'eccessivo lusso negli abiti e nelle scarpe furono emanate molte disposizioni tra le quali quella che imponeva ai sarti di prendere la misura delle vesti alle donne scalze onde evitare che esse si potessero far confezionare vesti tanto lunghe da poter essere portate con zeppe esageratamente alte.
Durante le giornate di pioggia si portavano i Patitos, detti anche Coppelli, con tomaia decorata da rosette e suola bianca; gli uomini portavano Calzari, Borzacchini (scarpe alte), sandali e Ciocie con tomaia di colore bianco, il più alla moda, ma anche rossa o gialla in pelle bovina o di montone, talvolta decorata con impressioni a caldo oppure in tessuto.
Le popolane di Genova sfoggiavano un gran lusso e le cronache ci informano che anche le fornaie portavano scarpe con tomaia in seta decorata da nastri.
La lunghezza delle Poulaines divenne spropositata tanto che Filippo IV ( 1268 - 1314) ne fissò i limiti distinguendo tre misure per la nobiltà, la borghesia e il popolo; editti analoghi furono emanati da Carlo V ( 1338 - 1380) e da Carlo VI ( 1368 - 1422), ma senza alcun effetto.
Nel manoscritto miniato Les très riches Heures du duc de Berry sono raffigurati diversi modelli di questo tipo di calzatura (Museo Condé di Chantilly - Francia).
Anche Edoardo III d'Inghilterra (1312 - 1377) emanò un editto per regolare la lunghezza e l'uso delle Poulaines che, come tutti gli altri, fu disatteso.
Divennero di uso comune, in quel paese, i Pattens, sovra scarpe in legno o cuoio indossate per non rovinare le calzature con la pioggia e il fango.
Il modello costituito da un cerchio di ferro munito di supporti che reggevano la parte nella quale si infilavano le scarpe restò in uso fino al XIX sec.
I Coppelli erano usati anche dagli uomini della Savoia e Amedeo V di Savoia (1252 - 1323) ne possedeva alcuni con la suola d'argento.
Gli uomini nell'Italia del Quattrocento indossavano, per la caccia, stivali alti alla coscia con aperture laterali chiuse da stringhe.
Le donne del ducato milanese portavano pianelle dette pure Zibette con suola di cuoio o sughero e la tomaia in pelle, broccato o velluto mediamente calzate i Patitos .
Nella Firenze medicea di Lorenzo il Magnifico (1449 - 1492) la gioventù agiata indossava stivaletti con tomaia in velluto su calze di velluto bianco screziate in argento: non raramente, con scandalo di molti ecclesiastici regolari, le dame seguivano l'usanza maschile calzando sandali dal tacco alto.
Ai primi decenni del XV secolo in Venezia si diffuse un tipo di calzatura destinato ad affermarsi per lungo tempo a livello europeo ed a suscitare non poche controversie ed osservazioni satiriche avverso l'audacia del sesso donnesco: si trattava di pianelle o pantofole montate su una suola estremamente alta confezionata in legno o sughero e non di rado ornata di pietre preziose o dipinta e rivestita in cuoio e tessuto.
Si trattava degli Zoppeggi o Sopei (altrove nominati Calcagnini) ed in Francia detti Chopines.
I detrattori di questo modello lo denominavano con evidente allusione antifemminea A zoccolo di mucca : per alcuni sarebbe stato introdotto nella città lagunare, imitando una calzatura medio orientale, al fine di salvaguardare i piedi femminili dal contatto con i pavimenti caldi e scivolosi dei bagni turchi mentre a più condivisibile giudizio d' altri sarebbero penetrati dalla Spagna e comunque sarebbero stati realizzati allo scopo di salvaguardare le donne nel corso dei loro movimenti in città spesso infestate da impaludamenti o fenomeni alluvionali per la minima cura degli argini fluviali e con le pubbliche vie così poco curate da essere spesso invase da scarichi fognari per la scarsa cura epocale della pubblica igiene (il fenomeno ebbe risonanza a Venezia per la convenienza di tali calzature contro l'imprevedibilità dell'acqua alta nelle calli ma in effetti raggiunse notevole diffusione panitaliana: e non a caso in una delle celebri rappresentazioni di Abiti antichi e moderni di Cesare Vecellio è effigiata una nobile genovese che, come ben si può notare, indossa un tipo di queste discusse calzature).
La degenerazione della moda ( maggiore era l'altezza delle suole, maggiore dovevano essere la ricchezza e il prestigio di chi le indossava e col passar del tempo e soprattutto nel XVII secolo tali calzature raggiunsero "altezze vertiginose", sino ai i 60 cm., sì che le donne dovevano sorreggersi su due accompagnatori) originò un luogo comune dei trattazioni misogine fra parecchi scrittori di morale tra cui spiccò il ventimigliese Angelico Aprosio che, ancora nel XVII secolo, intervenne pesantemente contro questa moda di calzature femminili all'interno di una sua opera moralistica (Lo Scudo di Rinaldo) citando altresì la tendenza, per un processo crescente di effeminatezza, a farne uso anche da parte di alcuni uomini dalla morale, a suo dire, perlomeno discutibile. Nella citata opera dell'Aprosio alle pp. 62-63 si legge al riguardo:"Son di parere, che se senza nota d'ignominia fosse permesso a questi (effeminati personaggi) servirsi dell'habito delle Donne, che si facessero vedere anch'essi inalberati sù i Zoccoli. E non è forse fresco l'esempio di Ventura da Porto-gruer? Questi in habito di Donna, dollevato da un braccio, e mezzo di Zoccoli, sostenuto dalle Braccia di due serve, e nelle piazze, e nelle Chiese in mezzo alle altre Donne rinnovava l'esempio di Achille nella corte di Licomede. V'era però questa differenza, che Achille per necessità, e sforzato dalla madre di quelle vesti adornavasi, e questi per manifestare al Mondo qual fusse la sua vanità, o per meglio dire la sua pazzia. Non ne andò nondimeno impunito, impercioché nauseato il Cielo di rimirare un così strano portento, fece che inalzato con gl'istessi habiti sopra un'eminente palco (carro ove sono posti a trionfare gli infami e gli scellerati) per mano del Ministro di Giustizia gli fussero tagliati il Naso e le Orecchie e mandato per diece anni sopra una Galea a scriver con penna di faggio sonetti marittimi".
Bisogna però dire che in un primo tempo le autorità (italiane, dove la moda dapprima si affermò e quindi europee ove fu esportata) accettarono ed essa venne anzi favorita dall'istituzione ecclesiastica semmai alla pratica della danza avversata come attività peccaminosa e senza dubbio non praticabile per via di siffatte calzature.
Presto però ci si rese conto da parte dello Stato che l'abuso di siffatto modello di instabile calzatura poteva causare incidenti con aggravio per le spese della sanità pubblica: contestualmente gli interventi contro la moda finirono per interessare contestualmente il diritto intermedio e l'opera dei predicatori ecclesiastici visto che, soprattutto le cortigiane ma comunque anche parecchie donne di buona famiglia ma utilmente smaliziate, attesa la voglia di disfarsi di una gravidanza non desiderata e visto lo stato di grave reità attribuito all'aborto procurato avevano imparato a sfruttare l'abuso di tali scarpe per procurasi degli aborti "spontanei" senza incorrere nelle mire della giustizia sia laica che ecclesiastica.
Per la prima volta a Venezia, città in cui questa calzatura si affermò per la prima volta, già abbastanza presto, verso il 1430, un'ordinanza del Maggior Consiglio sancì il divieto di calzare Sopei più alti di 20 cm.: ma dopo qualche successo iniziale la tendenza all'esasperazione, come detto, venne riaffermata dai crescenti confronti delle mode in auge e l'usanza, nella città lagunare come in molte altre parti d'Italia ed Europa, continuò a fiorire pur tra i lazzi anche rabbiosi di tanti critici benpensanti, soprattutto di matrice ecclesiastica.
Intanto fuori d'Italia, in FRANCIA, il sovrano Carlo VIII (1470 - 1498), non potendo indossare le Poulaines per una particolare deformazione di un piede sostenne l'introduzione nell'uso delle scarpe À bec de cane o "A becco d'anatra" cioè dalla punta quadra che, proprio per l'augusta opera di promozione, ottennero inaspettato successo.
E così la moda delle scarpe "A becco d'anatra" ebbe rapido successo pure nella vicina Germania ove a tali calzature fu assegnato il nome di Entenschnäbel: proprio nei paesi tedeschi verso il 1.480 si prese quindi l'uso di realizzare tali scarpe con il " metodo del guàrdolo" tuttora utilizzato per scarpe di pregio (per "guàrdolo" si intende una striscia di cuoio di cm.60x3x2 cucita da un lato alla tramezza -il portante della scarpa quale soletta interna con la funzione di stabilizzare la forma della tomaia- e dall'altro alla suola. Per quanto concerne l'Inghilterra grossomodo dal 1450 alle Poulaines si conferirono altresì i nomi di Pikes e Piegains,: l'etimo traeva la sua genesi dal vocabolo piggen il cui referente era una specie di secchio dal lungo manico. In Inghilterra sono stati rinvenuti alcuni reperti di questo tipo di calzatura con la suola larga e appuntita, ristretta al fiosso e nuovamente più larga nel tallone; taluni avevano la suola in due pezzi e ci sono storici del costume che pensano che si tratti di un metodo di costruzione mentre altri affermano che si tratti semplicemente di calzature riparate alle quali è stata sostituita una parte di suola. A dimostrazione del rilievo sociale attribuito anche in questo paese allo sfoggio delle calzature basti ricordare come il sovrano Edoardo IV (1442 - 1483) fece promulgare una legge (che comportava per i trasgressori, una multa di 3 shellini e 4 centesimi) in base alla quale risultava concesso, esclusivamente a quanti potessero esibire perlomeno la condizione nobiliare di Lord, di indossare calzature di lunghezza maggiore del piede (cm. 30,48) .
Le dame italiane usavano in questo secolo anche pantofole con tomaia in pelle molto sottile, raso o velluto, talora dorata e ornata da pietre preziose, perle, intagli e ricami e contro questi abusi per il lusso nell’abbigliamento, pur censurato invano da leggi suntuarie, i risultati furono alquanto modesti.
Verso la metà del secolo pure le scarpe maschili vennero ornate da intagli e quelle indossate dal ceto nobiliare o dalla grassa borghesia presero a diventare espressione di stato sociale con le tomaie in seta, velluto: i ceti subalterni si accontentavano di sacrpe in vacchetta o confezionate in pelle di pecora. Gli uomini usavano pure calzature dette Alla francese od All'alemanna strette al tallone e larghe in punta.
Fiorì senza cedimenti la moda a Venezia dei
Zoppeggi o Sopei anche se fra le dame comparvero pure le pantofole chiamate nella città lagunare Scarpini o pianelle con suola in legno, intarsiate d'avorio e ricoperte di velluto.
Cesare Vecellio nel suo "Habiti", pubblicato nel 1590, descrive le sontuose vesti delle cortigiane veneziane che calzavano pianelle ornate di frange o di colore bianco.
In Francia furoreggiarono sempre le Chopines o Patins fin a quando verso il 1550 entrò in competizione con questa la moda delle Souliers à pont o scarpe a tacco (in legno mentre la tomaia era in pelle o broccato) il cui successo venne ampiamente sostenuto da Caterina de' Medici (1519 - 1589) che di bassa statura se ne avvalse per le sontuose sue nozze col futuro re di Francia Enrico II .
Le signore calzavano altresì pantofole basse quasi identiche a quelle comuni in Italia e le nominavano Escarpins: fra gli uomini presero quindi a diffondersi calzature dalla punta larga e arrotondata o stivaletti allacciati con ganci e bottoni e la tomaia impreziosita da intagli, fiocchi e nastri.
In ambito germanico si andava intanto affermando l’uso di scarpe dette A muso di bue (le Ochsenmäuler) indistintamente calzate da entrambi i sessi e che erano caratterizzate da punta larga e arrotondata con tomaia in pelle.
A metà secolo entrò in competizione con questa moda quella delle calzature dette A piè d'orso (Bärenklauen) la cui punta era ancora più larga di quella delle precedenti: questi tipi di calzature col tempo vennero però surrogate per gli uomini da scarpe con la tomaia in panno o seta ricamate per gli uomini e per le donne dalla trionfale affermazione di scarpette molto sfilate, spesso impreziosite da puntale argenteo.
Nel corso del reame di di Elisabetta I (1533 - 1603), in Inghilterra in ambito aristocratico entrambi i sessi si valevano di pantofole con il tacco mentre l'alto clero indossava pantofole con tomaia in broccato o velluto.
Comunque pure l’Inghilterra conobbe l’usanza delle Chopines contro cui venne emanata una legge severissima che concedeva al marito la facoltà legale di ripudiare la moglie qualora lo avesse ingannato sulla sua reale statura indossando questo tipo di calzature al fine di parergli più alta e imperiosa nella figura.
La tecnica realizzativi di matrice tedesca e detta Con guàrdolo si affermò anche qui e tra i reperti del relitto del vascello militare Mary Rose, colato a picco nel Solent verso il 1.545, si annoverarono resti di calzature confezionate col metodo Con guàrdolo. Talune (alte alla caviglia chiuse da lacci anche con puntali metallici o fibbie) rivelarono pure intagli ornamentali sulla tomaia: ai tempi di Enrico VIII (1491 - 1547) divennero poi comuni delle calzature con suole della larghezza di oltre 16,5 cm. E note quali Foot bags = "Borse da piede".
Le investigazioni sul patrimonio antiquario inglese hanno altresì reso possibile la riesumazione di alcune CALZATURE MILITARI: i cavalieri, in particolare, erano soliti portare sotto le scarpe corazzate dell'armatura dei morbidi calzari in pelle ed i fanti, istituzionalmente provenienti dal popolo, si accontentarono dell’uso di morbide pantofole dalla suola bassa che si rilevarono pure efficaci per le strategie di guerra atteso che rendevano agevole lo spostarsi con rapidità sui campi di combattimento.
Nel 1600 le dame in Italia [che comunque mai rinunciarono alla controversa moda di Zoccoli e Sopei - Calcagnini (alla francese detti Chopines)] adottarono pure l'uso di scarpette a punta arrotondata con tomaia in pelle bianca o in seta, velluto e tessuto con frammessi fili d'oro o d'argento (broccato) decorate con ricami, rosette di passamaneria e fibbie: dalla convergenza di diverse tecniche ben si può intendere a quale limite di sinergie fossero giunte la storica attività della concia delle pelli, quella dei lavoranti di feltro e di tessuti ed infine quella della lavanderia - tintoria dei tessuti.
Anche qui il nobile usò lo stivalone alto alla coscia con tacco alto e la tomaia ornata da intagli e pizzi e la punta, in un certo periodo del secolo, biforcuta, ma non si diffuse, come in Francia, la moda dei tacchi rossi.
Si usavano anche scarpe basse con tomaia in pelle o velluto ornate con rosette in tessuto del colore della calza e Borzacchini (dall'olandese broseken = scarpetta), vale a dire scarponcini; le scarpe di uso comune erano nere, quelle più eleganti bianche.
Nel ritratto di Salvatore Castiglione (1620 - ?) raffigurante il doge di Genova Gerolamo De Franchi che resse il dogato per il biennio 1652-1654, si vede come egli indossasse Calze solate in velluto rosso guarnite di un fiocco dello stesso tessuto.
Furoreggiarono durante il XVII secolo in tutta Italia, non solo a Venezia dove dal '400 s'erano affermati, gli Zoppeggi o Sopei, un modello dei quali, usato soltanto in Italia, venne chiamato Zoccolo ed era caratterizzato dall'avere, sotto la suola, due pilastri di circa 20 cm. che rendevano quasi impossibile la camminata tanto che le signore si aiutavano con due bastoni: come già detto, nel clima di aperta misoginia, le contestazioni a questa moda furono spesso accese ed al proposito si può leggere quanto ne scrisse l'erudito poligrafo Angelico Aprosio nel Capitolo XXXI della sua opera di varie curiosità Lo Scudo di Rinaldo (parte I, edita) sotto il titolo alquanto emblematico Dell'altezza degli Zoccoli
per giunta spesso arricchiti di ornamenti e suole di enorme pregio, anche d'argento ed oro.
L'uso di scarpe con il tacco non venne meno in Francia e si affermò pure la moda dei tacchi rossi (talons rouges) usati dai nobili come segno di distinzione sociale: inoltre durante il regno di Luigi XIV ( 1638 - 1715) i tacchi ebbero incise o dipinte scene romantiche o agresti.
Al pari che nel resto dell'Europa del XVII secolo i nobili calzavano in Inghilterra stivali alti al ginocchio come esposti al Victoria & Albert Museum di Londra; sono in pelle beige, molto morbida, con l'ampia strombatura al ginocchio decorata da finissimo pizzo, la linguetta di chiusura è a forma di farfalla e termina con una fibbia in metallo collegata agli speroni, i tacchi e la suola sono in cuoio nero.
Le aristocratiche portavano anche ciabattine (quelle dell'immagine risalgono al 1660 - 1670): esse hanno la tomaia in seta con ricami in rilievo e la punta quadrata con i due lati piegati all'ingiù o scarpe (1660 ca) con tomaia in pelle di maiale di colore verde vescica ricamata a strisce bordeaux e decorata con un fiocco di seta dello stesso colore dei ricami.
Nell'Amleto di Shakespeare (ca 1602) è citata una dama più vicina al cielo a causa dell'altezza delle sue Chopines: "By'r lady, your ladyship is nearer to heaven than when i saw you last, by the altitude of a chopine".
In effetti questo genere di calzature, attraverso i secoli, vennero avversate dalle più sorprendenti motivazioni e ad esempio il parlamento inglese nel 1670 sanzionò (in modo alquanto più severo di quanto letterariamente sosteneva l'innocuo sarcasmo moralistico italiano e in genere cattolico-papista) e fece pubblicare " Sia deliberato che ogni donna di qualsiasi età, rango, professione o condizione sociale, anche se donzella o vedova, che inganni e tradisca da sposata un suddito maschio di Sua Maestà, con profumi, belletti, cosmetici, lozioni, denti e capelli finti [tra i posticci si intendevano anche le unghie lunghe e/o unghie finte], busti, guardinfanti, scarpe con il tacco alto e fianchi rialzati con cuscinetti [nell'insieme delle presunte malie elencate, frutto di una cultura misogina, si riconosce facilmente il timore della presunta pratica stregonesca della fascinazione] potrebbe incorrere nelle penalità di legge in vigore contro la stregoneria, la magia e simili reati ed il matrimonio, se fosse accertata la colpevolezza, potrebbe essere dichiarato nullo e non valido".
Le dame italiane del XVIII secolo portavano scarpe estive e invernali con tomaia dalla punta aguzza in pelle, anche traforata, o dello stesso tessuto dell'abito decorata con fiori artificiali, con gemme incastonate e fibbie di metalli preziosi e tacco alto.
I maschi di elevata condizione indossavano invece calzature basse accollate con tomaia in pelle nera a punta quadrata e con la linguetta che saliva sopra il collo del piede: il tacco era molto robusto e rosso, colore che però al pari di quanto usuale in Francia non era qui usato solo dai patrizi. Si usavano anche stivali, considerati molto eleganti e stivaletti di pelle rossa da passeggio, come è ricordato dal Parini (1729 - 1799).
Ritratti di dogi o di nobili reggenti alte cariche della repubblica di Genova permetto di intuire la foggia delle scarpe usuali per i Magnifici della Serenissima Repubblica. Le scarpe dogali avevano la tomaia rossa mentre quelle dei patrizi era nera, fatto che si può constatare in vari ritratti: eppure l'arte manifatturiera della calzatura raggiunse gli esiti migliori per le dame come si può constatare da queste due scarpette in broccato databili tra il 1770 ed il 1780 e custodite in Genova presso le "Civiche Collezioni tessili".
Le dame di Francia preferibilmente calzavano scarpette dalla punta leggermente rialzata dette À la mahonnaise o pantofole dette Chaussons e ciabattine con tacco e punta aguzza.
La regina Maria Antonietta ( 1755 - 1793) sembra ne possedesse cinquecento paia ed avesse una cameriera esclusivamente addetta alla loro cura. Continuò l'uso di tacchi decorati e intagliati che avevano il nome di venez y voir e, all'epoca di Luigi XV (1710 -1774) di tacchi larghi alla base e rientranti detti tacchi Luigi.
Un po' ovunque presero veramente ad affermarsi assieme alle divise specifiche scarpe ad uso militare.
Ad esempio, durante la guerra di successione austriaca, le truppe della repubblica di Genova calzavano scarpe di vacchetta nera (pelle bovina conciata al tannino) con punta quadrata e fibbia in ferro che , durante una campagna, erano usate unitamente a ghette che arrivavano sopra il ginocchio.
[elaborato con aggiornamenti multimediali dal sito = Vaannacalzature, Storia e Geografia della Calzatura (http://www.vannacalzature.it/Storia_italiano/europei1.htm ) ]
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Sembra che per conservare le pelli importate si eseguisse un particolare trattamento contro le alterazioni ma non ci è noto in che cosa consistesse. Certo è che dopo i tempi omerici la tecnica greca doveva essere ben progredita e la vera e propria arte conciaria divenne una professione indipendente ed alquanto remunerativa, abbinandosi molto spesso a quella dei produttori di vari articoli di cuoio. Comunque i veri e propri conciatori si chiamavano byrseus byrsodepses o skiptodepses. Come abbiamo altrove ricordato trattando di altri popoli e di altre regioni le concerie, specialmente dopo essersi sensibilmente ingrandite, cominciarono anche in Grecia a dare fastidio ai cittadini che vi abitavano poco lontano, a causa dei poco gradevoli odori emanati dalle pelli in lavorazione.
Ricordiamo che un grande proprietario di conceria fu Claireto la cui attività fu proseguita dal figlio Cleone, il celebre uomo politico ateniese ed anche buon condottiero, morto combattendo nel 422 a.C.
Una grande conceria con annesso calzaturificio era quella di Anito, figlio di Artemione del quale parla Platone nel Dialogo "Menone"; Anito però non fu figlio laborioso, onesto ed intraprendente come Cleone. Importanti furono la conceria ed il laboratorio per la produzione di scudi e di altre attrezzature militari del famoso oratore Lisia che gestiva l'azienda in collaborazione col fratello Polemarco. Questo complesso dove lavoravano ben centoventi schiavi, era stato trasferito da Siracusa al Pireo dove si era ingrandito ed aveva conseguito una notevole importanza economica.
Più modesta fu la conceria di certo Arizalo, nella quale lavorava una decina di schiavi. Nel sopracitato quartiere ateniese di Kydathenes vi erano altre concerie, qui concentrate per ragioni igieniche e per tenerle lontane dati i fetori delle loro emanazioni. Proprio per il puzzo che veniva da questi laboratori il mestiere di conciatore era ovunque disprezzato: anche Aristofane non risparmiò le sue satire su quest'argomento, accrescendo il disprezzo per gli artigiani della categoria. Questo dei cattivi odori provocati dalle operazioni di concia è stato un problema di tutti i tempi ed ancor oggi ne conosciamo gli effetti sgradevoli.
Tra gli antichi autori che sollevarono le loro lamentele possiamo ricordare, oltre ad Aristofane, Polluce di Naucrati che nel secondo secolo a.C. definiva l'arte conciaria disprezzabile ed i suoi praticanti gente da tenere alla larga; e poi sempre nel secondo secolo a.C., Artemidoro di Deldris il quale definiva i conciatori fastidiosi ed invisi a tutti perché trattano i cadaveri degli animali in ciò assomigliando agli avvoltoi. Ed anche Socrate, quando il corrotto Anito gli chiese se approvava la sua intenzione di far continuare al figlio l'attività conciaria, il filosofo espresse parere nettamente contrario definendo questo lavoro addirittura disonorevole.
Ma malgrado il diffuso disprezzo per quest'arte le ragioni economiche prevalsero in ogni tempo e l'avversione generale si mitigò, tanto che mentre in un primo tempo i laboratori, per obbligo di legge, dovevano sorgere fuori dai centri abitati si finì per concedere che funzionassero anche presso i grandi mercati, purché vi scorresse in vicinanza qualche corso d'acqua.
Circa i processi di concia sappiamo che questa era preceduta, come di consueto, da una macerazione e quindi, per ripulire le pelli dalla parte della carne, si tendevano, come si fa oggi, su cavalletti e si raschiavano con lo scarnatoio. Aristofane ci descrive esattamente la maniera secondo la quale il conciatore disponeva la pelle su dei pioli piantati al suolo e come si raschiavano per eliminarne il pelo.
I Greci usavano anche tuffare le pelli in un bagno d'urina contenente delle foglie di gelso oppure in una soluzione a base di brionia (Bryonia dioica L.); ma nulla sappiamo su antichi procedimenti rivolti al rigonfiamento delle pelli. Sulle vere e proprie operazioni di concia siamo informati da Aristotele che ricorda sia quella a base di estratti vegetali, sia quella con
allume, ed anche quella con materie grasse. Della prima abbiamo notizie anche da Teofrasto che cita tra i vegetali tannici quelli estratti dalle galle di quercia della Turchia, dalle cupole delle ghiande, dal sommacco Rhus coriaria L.), dallo scòtano (Rhus cotinus L.), dalla corteccia di ontano (Alnus oblongata L.) dalle scorze di alcune conifere quali il pino di Idea (Pinus pinaster L.) e dal pino di Aleppo (Pinus halepensis L.).
Alcuni di questi estratti vegetali, oltre alla concia impartivano contemporaneamente belle tinte alle pelli: per esempio l'estratto di scotano dava una bella colorazione gialla e quello di ontano un gradevole tono rossiccio. Sempre da Teofrasto, ma anche da Dioscoride, sono ricordati come concianti i frutti di un vegetale, da identificarsi probabilmente con i baccelli della Acacia arabica, già noti ed usati dai conciatori dell'antico Egitto.
Sulla concia all'allume, oltre all'accenno aristotelico, non si hanno sicuri riferimenti letterari, anche se sappiamo che quel sale alluminoso era impiegato in quel tempo abbastanza frequentemente come ausiliario nelle tinture delle fibre tessili, così come avveniva nei paesi del Vicino Oriente e dell'area egiziana. Della concia con materie grasse abbiamo fatto qualche accenno: aggiungiamo che per eseguirla le pelli si battevano a lungo su tutta la superficie ed in ogni direzione con dei bastoni per farvi penetrare bene il grasso. Anche questo tipo di trattamento, secondo quanto ha riferito più tardi Plinio, sarebbe stato introdotto dall'Oriente.
Sui processi di concia dei Greci di ogni tempo non possiamo aggiungere più di quanto si è detto fin qui. Ciò che sappiamo è che gli articoli di pelle e di cuoio furono molti e destinati a svariatissimi impieghi sia civili che militari, dalle calzature ad elementi di vestiario, dai tappeti alle coperte per letti, dagli addobbi di mobili alle selle, dagli otri e altri contenitori, dalle guaine di vario genere ed uso, agli scodi, agli elmi, alle uose, alle cinghie e corregge. Tra gli oggetti d'abbigliamento sono da ricordare le alopekè, un tipo di berretti di pelliccia, quasi sempre di volpe con la coda attaccata e pendente dietro la nuca sul genere di quelli usati dai cacciatori dell'Alaska. Il pétason era un cappello di pelle, da viaggio, e pure di pelle erano i katonàke, vesti di pelle di capra portate dagli schiavi a Sicione. In modo simile si vestivano i contadini.
Questi organismi sociali si mantennero nei secoli successivi e furono confermati dal sesto re di Roma, Servio Tullio, e si interruppero solo sotto Tarquinio il Superbo che temeva il sorgere in essi di possibili covi di oppositori al suo potere; tornarono quindi in funzione con alterne vicende di prosperità e di decadenza finché Cesare con la Lex Julia ne decretò la solida ricostituzione impartendo severe e rigorose norme. Tra le corporazioni ripristinate vi furono anche quelle dei conciatori e degli importatori di pelli che avevano sede ad Ostia, ch'era allora il porto di Roma. Nel foro di questo importante scalo commerciale esiste un mosaico dedicato proprio al Corpus pellionum nel quale probabilmente confluivano sia i commercianti del cuoio, sia i lavoranti, cioè conciatori e confezionatori. I conciatori-cuoiai erano denominati coriarii e sono spesso citati con questo termine in molte iscrizioni; pellio era chiamato indifferentemente il pellicciaio, il conciatore di pelli col pelo ed il lavorante del cuoio in genere.
Siamo abbastanza bene informati sui vari tipi di pelli lavorate dai Romani. Mentre Omero non aveva menzionato altro che il cuoio di bue, di capra e di martora, nell'Editto di Diocleziano, che in effetti è una tariffa di merci, emanato verso il 300 d.C., ne sono registrate moltissime, in un numero impressionante di qualità. I Romani che in quel tempo ne facevano un'enorme consumo di ogni genere, si approvvigionavano soprattutto in Sicilia, in Asia Minore, dove si vantavano in particolare i cuoi fini dei Babilonesi, dei Parti e dei Fenici; e poi quelli dell'Illiria, della Germania, della Bretagna, della Russia meridionale, delle regioni scandinave e perfino dell'India. L'Editto di Diocleziano fa una distinzione netta tra le diverse qualità di cuoio di bue e raggruppa metodicamente le altre pelli partendo dalle meno costose alle più pregiate: compaiono nella lista quelle di capra, d'agnello, di iena, di lupo, di martora, di castoro, d'orso, di sciacallo, di foca, di leopardo, di leone.
Era stabilita una tassa d'importazione che per lo più si applicava ad valorem, secondo i tipi e la provenienza; per esempio le pelli persiane e babilonesi erano tassate a un tanto al pezzo e per talune qualità provenienti dall'Africa vigeva una tassa regolata da una apposita Lex coriaria. Fra i tributi che i Romani esigevano dai popoli sottomessi erano comprese tra altre cose anche le pelli; queste imposizioni naturalmente pesavano più o meno severamente sulla gente sottoposta e non di rado creavano reazioni a volte sanguinose. Esemplare è rimasta la rivolta dei Frisoni, scoppiata quando il governatore Olennius pretese che in luogo delle consuete pelli di animali domestici il tributo venisse sostituito con quelle molto più pregiate e rare di uro; in mancanza di queste si doveva aumentare il numero di quelle di animali comuni. Ma quella volta i Frisoni si ribellarono al sopruso e reagirono con la forza infliggendo ai Romani sensibili perdite.
Era dunque enorme la richiesta di pelli sia di produzione locale sia d'importazione per soddisfare una clientela vasta e molto spesso esigente. Naturalmente il fabbisogno era andato via via aumentando col mutare dei tempi. In epoca più antica le pelli furono adoperate sotto forma di pelliccia prevalentemente per la confezione di vesti o di parti di esse; ma anche nei periodi della decadenza e delle invasioni barbariche, imitando in qualche modo l'abbigliamento degli invasori che si vestivano di rozze pellicce, tornò in voga questo modo di coprirsi. Secondo Properzio, nei tempi più lontani anche i senatori vestivano pellicce di agnello, che in seguito restarono in uso solo tra i pastori ed i contadini. Comunque, anche in epoche in cui non si usavano più le primitive pellicce si indossò un tipo di mantelli di cuoio, talora foderato di pelliccia, denominato paenula, ed anche una specie di panciotto detto thorax; simile a questo erano lo strophium, il mamillarius, il pectoralis, ed altre fasce come il cruralis. Il campestre era una specie di pantalone corto indossato generalmente dagli agricoltori, ma anche da alcune categorie di artigiani.
Largo impiego di cuoio si faceva per confezionare l'abbigliamento militare che comprendeva numerosi articoli, dall'abito alla tunica, dal mantello al casco ed a vari altri accessori; tutto era di cuoio.
Le qualità di pelli destinate alla confezione di tante specie di scarpe erano comunemente quelle di vitello, di capretto o di montone per le tomaie, e molto più rare erano quelle bovine. Frequenti erano le colorazioni che variavano dalle più ricche eseguite in rosso con la porpora e destinate alle donne d'un certo rango, a quelle usate come imitazioni e realizzate con estratto di oricello (Roccella tinctoria L.) o di oracanetto (Anckusa tinctoria L.) entrambi largamente adoperati per la tintura dei tessili. Le colorazioni erano fatte anche in nero, combinando sali di ferro con estratti tannici, oppure in azzurro con il guado (Isatis tinctoria L.) o in tonalità più o meno giallastre mediante zafferano o reseda (Reseda luteola L.). Sulla tecnica conciaria dei Romani si può dire qualcosa di più di quanto si è saputo a proposito di altri antichi popoli. Abbiamo infatti non soltanto testimonianze letterarie e residui di pelli conciate che sono stati esaminati chimicamente, ma ci rimangono gli importanti reperti archeologici di Pompei rimasti sepolti nella famosa eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Tra questi resti sono per noi preziosi quelli riguardanti le concerie. Un laboratorio completo è stato scoperto fin dal 1873 poco fuori della Porta di Stabia dove era stato sistemato in vecchie case d'abitazione; sul muro esterno della costruzione è ancora leggibile il nome di colui che forse fu il proprietario della conceria: Monius Campanus.
Il vero e proprio laboratorio occupa un vecchio atrio di quella che fu la precedente abitazione: ha un pilastro centrale ed ospita le installazioni tipiche di una conceria. Su un lato, limitato da un basso muretto, sono allineate, scavate nel pavimento, quindici forse circolari profonde circa un metro e mezzo ed aventi diametri varianti da m. 1,25 a m. 1,60. Il loro interno è rivestito di una specie di stucco e sono munite di aperture per il carico e scarico dei bagni. Tre gruppi di quattro vasche, disposte a coppie, a destra ed a sinistra, fiancheggiano tre bacini parallelepipedi di forma allungata, profondi circa cinquanta centimetri, i quali forse in origine furono rivestiti di legno.
Ai lati di ciascun bacino, tra ogni coppia di tini si trovano sei vasi di terracotta incastrati al suolo, mentre un settimo è sistemato accanto all'angolo sud-est, a fianco d'una delle vasche. Di varie canalizzazioni che dovevano esistere quando la conceria era in funzione sono scomparse le tracce. Si sono trovati in alcuni vasi dei residui di qualche materia conciante. I bacini dovevano essere adibiti alle operazioni preparatorie delle pelli mentre le vasche erano certamente destinate alle vere e proprie operazioni di concia.
Un altro locale, anch'esso utilizzato per le operazioni conciarie, si trovava in un portico aperto verso quello che doveva essere il giardino. Qui forse si preparavano le soluzioni per il trattamento delle pelli.
Le interpretazioni di diversi studiosi sul significato di tutti i resti sopra ricordati non sono state tutte concordi, ma per un verso o per l'altro contribuirono a chiarire la funzione di queste importanti strutture artigianali.
Nel corso degli scavi pompeiani furono trovati anche molti attrezzi propri dell'arte conciaria, ora conservati nel Museo Archeologico di Napoli; vi sono i tipici coltelli a mezzaluna, altri trincianti e raschiatoi.
Sui procedimenti dell'arte conciaria romana troviamo accenni da parte di autori dell'epoca che però non erano dei tecnici e quindi le loro informazioni sono piuttosto vaghe. Il più preciso è forse Plinio il quale nella sua opera enciclopedica ricorda l'importanza della concia all'allume con la quale si produceva la aluta o pellis alutacea e poi la concia grassa e, per le pelli più pesanti, quella con materie tanniche: precisamente il sommacco, le noci di galla, la corteccia di quercia, di pino, di salice e, per le più pregiate il malum punicum ch'era la scorza di melagrano importata da Cartagine.
Come si può constatare non vi è nulla di nuovo rispetto a quanto era noto ai conciatori più antichi di altre aree mediterranee, ma Plinio parla ad un certo punto della preparazione d'un estratto che si otteneva macerando in acqua un prodotto importato dall'India e chiamato Iycion; non si sa esattamente a cosa possa corrispondere questa sostanza ma si suppone di poterla identificare col catecù l'estratto acquoso convenientemente evaporato e seccato che si ottiene dal legno di Acacia catechu W. e dalle sue varietà, tutte leguminose che crescono in India ed in Africa Orientale.
Qualche indicazione sui prodotti usati in conceria dai Romani si è colta in base alle analisi chimiche eseguite su resti di materiali di pelle rinvenuti in alcuni luoghi. A parte elementi comuni presenti probabilmente come impurezze quali il calcio, i solfati, la silice, si sono identificati il ferro, l'alluminio il cloro. In qualche campione è stato ritrovato il nerofumo, aggiunto probabilmente solo come colorante nero; in altri resti si è riscontrato la presenza di cera d'api forse impiegata come lucidante o anche come coadiuvante nella concia grassa.
Prima di concludere questo capitolo ci sembra di dover ricordare che in età classica giunse ai Romani qualche contributo sulla pratica conciaria anche da parte di popolazioni transalpine, in particolare dai Celti, dai Galli e dai Germani.
Possiamo dire per esempio del metodo di conservazione delle pelli per mezzo della salatura prolungata. Un caso tutto particolare dell'effetto conservante del sale si è riscontrato quando nelle miniere di salgemma del Salisburghese sono stati rinvenuti campioni di pelli che rimasero immersi nel sale per interi millenni. Ma i Celti non ricorsero al sale per conservare le loro pelli e pellicce, spesso di orso: usavano invece una concia vegetale con tannino. Ricordiamo anzi, a questo proposito, che la voce tannino viene proprio dal celtico tan che significava "quercia", la pianta dalla cui corteccia si ricavò in ogni tempo l'estratto conciante. Da Cesare sappiamo che i Galli erano sempre vestiti di pelli ed i guerrieri portavano corazze di cuoio; ai piedi portavano robusti sandali.
I Veneti, che si ritiene fossero appartenuti anch'essi a tribù celtiche, solcavano i mari verso le coste francesi e spagnole con navi aventi vele fatte di sottili pelli conciate con allume. Quanto ai Germani vestirono anch'essi con pelli e pellicce con le quali si confezionavano anche cappucci e copricapi mantenendovi spesso la testa dell'animale che aveva fornito la pelle. Secondo Kobert, che ha compiuto particolari studi sulle materie concianti, i Germani lavoravano pelli di animali di molte specie, anche di grossa taglia, e sapevano ripulirle, raschiarle e depilarle accuratamente, trattandole con una pasta contenente delle ceneri di vegetali.
Per quanto siano rari i riferimenti letterari del primo Medio Evo nei quali si accenna alla concia delle pelli ed alla loro lavorazione, possiamo dire che sono abbastanza numerosi i resti di oggetti di cuoio giunti fino a noi, i quali ci consentono di risalire ai metodi della loro preparazione. Non mancano poi lontane notizie sulla costituzione di associazioni di mestiere, non ultime quelle relative ai lavoratori delle pelli. Ma è ovvio che nel fare queste considerazioni non dobbiamo porre la nostra attenzione soltanto a ciò che riguarda il nostro paese. Ci sembra interessante fare almeno un accenno a quanto avveniva in quei secoli al di là delle Alpi e, almeno per esemplificare, riferirci al territorio germanico Divise in una molteplicità di stirpi, le popolazioni germaniche, il cui primo contatto certo con la storia ci è noto attraverso le testimonianze di Giulio Cesare e di Tacito, erano dedite generalmente a rudimentali attività agricole, alla pastorizia e alla caccia ed erano prive di una unità politico-statale: erano costituite da gruppi essenzialmente familiari e tribali, di solito uniti solo per scopi bellici. L'unità basilare era la sippe sulla cui base si crearono successivamente forme associative sempre più ampie, dalle quali scaturì un processo di gerarchizzazione. Tra queste comunità emersero gruppi aristocratici i quali fornirono i capi di queste embrionali associazioni.
Alla fine del IV secolo si ebbe l'assestamento territoriale definitivo, fino a quel momento impedito dalla penetrazione romana. Seguì nel 375 l'irruzione degli Unni ed il successivo assestamento che preluse all'opera di unificazione intrapresa da Carlo Magno all'inizio dell'800 mediante una grandiosa opera di riorganizzazione amministrativa. Fino a quel momento si può dire che per quanto concerne l'artigianato tutto o quasi tutto era rimasto fermo alle condizioni del VI secolo, epoca nella quale si trova per la prima volta citata, tra altre cose, l'arte conciaria nella legge burgunda.
Sappiamo che i conciatori, durante l'estate, dovevano dedicarsi solo ai lavori agricoli, per cui molte pelli restavano a lungo inutilizzate per ottenerne dei manufatti e perciò venivano in grande quantità ridotte a concime per incrementare le colture agricole. Tra le incombenze dei conciatori v'era anche quella di utilizzare, durante l'inverno, i ritagli ed altri cascami di pelle per ricavarne la colla. Tra le prescrizioni del famoso Capitulare de Villis di Carlo Magno ve ne sono alcune riguardanti la provvista di copricapi di cuoio, di selle, di scudi, di finimenti per cavalli e mezzi di trasporto, mentre altre disposizioni proibivano la sostituzione di tini di legno con otri di pelle.
La costituzione di corporazioni di conciatori d'oltralpe si ebbe molto per tempo, ma comunque dopo la fine del periodo carolingio. Una gilda fu creata a Gand nel 938, una a Strasburgo nel 982, una a Namur nel 1104, una a Magdeburgo nel 1150, una a Worms nel 1233; ma altre ne sorsero in altri luoghi: possiamo ricordare quelle istituite in Francia tra il X ed il XIII secolo, a Rouen nel 938, a Mulhouse nel 1297, a Pont-Audemer nel 1093 e più tardi, nel 1345, a Parigi, dove i Tanneurs, Corroyeurs et Sueurs ebbero approvati i propri statuti da Filippo VI di Valois. Ma su questo argomento torneremo più avanti.
In Italia le corporazioni furono fondate in epoca alquanto antica e molti documenti relativi alle loro norme sono gelosamente conservati in archivi e biblioteche. Tra questi documenti alcuni riguardano le associazioni di conciatori e di lavoranti delle pelli; ma ognuno può capire che in una trattazione come questa non è possibile descrivere dettagliatamente quanto avvenne in ogni luogo della penisola. Ci limiteremo perciò a considerare gli avvenimenti relativi solo ad alcuni luoghi, la cui descrizione può offrire un panorama abbastanza significativo di quanto, in modo più o meno simile, si svolse in altri centri d'una certa importanza per la vita economica del paese.
Cominciamo con Venezia, che specialmente nei secoli del Medio Evo fu quell'importante centro commerciale ed industriale che tutti conoscono. Nella città veneta le associazioni di mestiere sorsero abbastanza presto e tra i primissimi gruppi di cui la remota Cronaca Altinate ci tramanda il ricordo troviamo citati i sellatores, ossia i sellai, detti in dialetto veneto seleri.
Non erano ancora uniti in corporazione vera e propria ma ovviamente si occupavano della confezione di oggetti di cuoio e soprattutto di selle; è probabile che in quel tempo dovessero esistere ed operare anche altre categorie trattanti questa materia, in particolare per i lavori inerenti la marineria, per confezionare guarnizioni per alberi da vela e per i remi, per gli otri e per le corregge di vario genere e simili.
Il primo statuto, o, come si diceva a Venezia, la prima Mariegola dei conciatori venne stabilito il 19 novembre 1271 e fu intitolato Capitulare Conciatorum Pellium vel Curaminum. In questo importante documento, scritto in latino, oltre alle norme generali di ordine etico e sulla struttura dell'organismo, si trovano prescrizioni di carattere tecnico. Per esempio si stabiliva che il cuoio non doveva prepararsi con pelli di cavallo o di asino. Il concamentum, ossia le materie concianti da impiegarsi erano la foglia di sommacco e la corteccia di rovere, mentre era proibito l'uso di folia cocta vale a dire di foglie di sommacco bollite. Per la concia minerale era prescritto l'allume di rocca, ma con l'esclusione di tipi poco puri come per esempio quello proveniente dall'isola di Vulcano. Molte delle norme di questo antico capitolare saranno ripetute nei successivi statuti scritti in lingua volgare. In quello del XIV secolo ora conservato al Museo Correr si confermava tra l'altro la localizzazione delle concerie, prevalentemente stabilite nei paraggi della Giudecca.
Che l'arte conciaria veneziana godesse già allora di un buon prestigio si può capire dal fatto che proprio alla Giudecca, dove tra il XIII ed il XIV secolo s'eran create alcune società tra capitalisti e lavoratori specializzati, con vennero ad apprendere l'arte dei forestieri ("ad discendum artem corii"), i quali finirono per esercitarla in proprio fissando qui la propria dimora.
Interessante e notevole appare il fatto che le autorità si preoccuparono, fin dai primordi, di tutelare la salute pubblica vietando alle concerie di scaricare sostanze inquinanti nelle acque pubbliche. Questo divieto era già stato chiaramente specificato nel più antico statuto del 1271, ma veniva ribadito in quello successivo nel quale si diceva che "niun ardisca tegnir tina alcuna in la qual sia acqua, dentro la pelle, sora canal, né scarnar né rader né lavar pele greze, né alcuna cosa de lume sora el detto canal ecc.". E in un capitolo del 18 agosto 1366 si precisava ancora di non scolare "sora il canal davanti, né dar ogio over far pelle o cuori negri né tina alcuna tegnir sopra el ditto canal".
Il cuoio veniva in buona parte esportato ma a Venezia serviva a rifornire le varie arti dei caleghèri e zavatèri (calzolai e ciabattini) dei bolzèri (fabbricanti di valigie) dei vaginèri (vaginai, fabbricanti di foderi per spade e pugnali) dei cuoridoro (fabbricanti di cuoi dorati per tappezzerie).
A proposito dei cuoi dorati ricordiamo che fin dai tempi remotissimi i Veneziani esercitarono l'arte di dorare le pelli ed i cuoi. Gli artigiani di questa categoria erano uniti nella Mariegola dei Cuoridoro. Di cuoi dorati Venezia faceva un gran traffico col Levante e con la Spagna, guadagnando somme cospicue poiché questi manufatti erano largamente usati per tappezzare pareti delle stanze, per coprire seggiole, cofani, libri ed altri simili oggetti. Naturalmente la maggior parte delle pelli era destinata ai calzolai; ma dell'attività di costoro e della loro svariata produzione tratteremo più avanti.
Particolare categoria di artigiani veneziani era quella dei varoteri, ossia dei conciatori di pelli di vaio, i quali furono riuniti in una corporazione indipendente ed ebbero il loro primo statuto corporativo il 7 giugno 1311. Ad essi era riservata esclusivamente la concia di alcune pelli, tra le quali quelle di volpi, martore, faine, ermellini ed altre simili che avevano il loro mercato ogni sabato in Piazza San Marco.
In altri centri veneti di terraferma, molto prima del loro passaggio sotto la Serenissima, s'era affermata la conceria: citiamo Vicenza dove la produzione dei pelliparii, ossia dei conciatori e dei cerdones o calzolai, era fiorente in epoca precedente il XIV secolo. Qui, nel 1409 si costituì, tra l'altro, una robusta Fratalia teutonicorum, organismo nel quale confluivano diversi tedeschi esercitanti alcune arti, tra le quali quella della conceria.
Anche altri centri veneti di terraferma, come Verona, Bassano del Grappa ed Arzignano svolgevano attivi lavori in questo campo e li vedremo svilupparsi gagliardamente nei secoli seguenti. Fuori dal Veneto fu importante l'attività che si svolgeva a Torino dove nel secolo XIV furono raccolti gli statuti di varie corporazioni, compresa quella dei conciatori, in un volume che fu detto Codice delle catene perché era incatenato ad uno scanno nella Casa del Comune.
Anche in questo documento emerge la preoccupazione delle autorità già espressa a Venezia ed altrove, di non inquinare le acque pubbliche con i bagni di scarico delle concerie e di altri laboratori, vietando di riversarle nelle cosiddette doire, cioè quei piccoli corsi d'acqua che un tempo scorrevano quasi costantemente al centro delle strade acciottolate dei centri abitati."' A Torino i conciatori, fin dal Medio Evo, erano riuniti in un solo borgo, in cui ora si trova l'attuale via Lagrange, ma che allora era denominata Via dei Conciatori, nella quale erano in funzione diversi laboratori. Nella città piemontese la corporazione fu detta Università dei Coriatori e fu posta sotto la protezione di Sant'Orso.
In Piemonte dov'erano attive altre concerie ad Asti, ad Aosta ed altrove, le materie prime per estrarre concianti erano quasi esclusivamente le cortecce di rovere e di sughero ch'erano dette rusca. Altro estratto conciante si otteneva dalla scorza di pino, denominata passera, mentre più raramente s'impiegavano la vallonea, le foglie di sommacco o di mirto e le galle di quercia colà chiamate galle di Piemonte. Nei centri piemontesi era molto sviluppata la fabbricazione dei marocchini, quantunque parecchia merce di questo genere venisse importata da Adrianopoli, da Cipro, dalla Persia e da altri paesi del Medio Oriente; si trattava di pelli per lo più tinte con coloranti estratti dalle bucce di melograno, dalla curcuma, dal kermes e dall'indaco.
Trattando una STORIA DELLA CONCIA bisogna rammentare che erano diverse le città italiane ove si praticava l'arte conciaria: tra queste oltre a Milano, Mantova, Bologna, Ferrara, Napoli, Parma, merita una citazione anche GENOVA dove furono emanati statuti delle corporazioni: in particolare per STUDIARE la presenza di CONCIATORI e LAVORANTI DI PELLI E CUOIO in Liguria vale soprattutto la pena di analizzare con cura, nel PONENTE DI LIGURIA, gli antichissimi STATUTI DI APRICALE.
A Firenze, dove tra le arti, ordinate in un primo tempo, a quanto pare, fin dall'inizio del 1100, e che, secondo le cronache di Dino Compagni, negli Ordinamenti di Giustizia del 1292 erano dodici maggiori e dodici minori, si poteva contare anche su quella dei lavoratori del cuoio, avente sede presso la Loggia dell'Orcagna. Lo statuto fiorentino del 1355 che riguarda questa categoria di artigiani è tuttora conservato nell'Archivio di Stato di quella città, ma fu purtroppo gravemente danneggiato dalla disastrosa piena dell'Arno. A Firenze comunque si sa che commerciavano nel settore del cuoio alcune prestigiose famiglie di famosi mercanti, tra i quali i Peruzzi ed i Bardi ed anche i Medici, prima di divenire protagonisti della vita politica.
Sulla tecnica conciaria medievale esercitata in varie parti d'Italia possiamo riferirci più o meno a quanto si faceva a Venezia, basandoci su alcune norme fissate nel più vecchio degli statuti corporativi e ricordando anzitutto che in un primo tempo le pelli da sottoporre a lavorazione erano solo di due tipi, e cioè quelle di montone dette moltoline e quelle di capretto denominate beccune.
Informazioni abbastanza dettagliate si leggono nello statuto del 1401 che però sostanzialmente ripete quanto era stato fissato nei precedenti capitolari. Si prescriveva di eseguire, prima della concia, una raschiatura, lavatura, pulitura ad opera dello scorzèr che poi passava le pelli nel calcinaio nel quale dovevano rimanere per uno o due giorni. Dopo scolatura si rimettevano nel calcinaio per altri otto giorni o più, secondo la stagione, trascorsi i quali, deposte sul cavalletto si spelavano accuratamente. Quindi si gettavano nel canale tenendovele per quattro o cinque ore, si estraevano e sgocciolavano ed ognuna veniva poi cucita a forma di otre, lasciandovi un'apertura per introdurvi l'estratto conciante. Chiusa l'apertura si passava alla prima concia ponendo le pelli in un tino contenente una soluzione di estratto di vallonea entro il quale il materiale si teneva in movimento per quattro o cinque ore." Dopo estrazione si ponevano le pelli su cavalletti, indi si sottoponevano ad opportune lavature poi ad esposizione sul galàro ove si cospargevano di vallonea sfarinata in polvere fine, e qui restavano per circa tre mesi o più. Passavano quindi per un certo tempo a stagionare in una soffitta asciutta e finalmente erano giudicate pronte per entrare in commercio.
Qui abbiamo riassunto un po' succintamente le prescrizioni dello statuto, ma in realtà esse sono più dettagliate e, a volte, in altre operazioni di concia vegetale s'impiegavano fino a ventiquattro mesi.
Ora non tratteremo a lungo di ciò che avveniva in quegli anni anche fuori d'Italia, tuttavia daremo qualche notizia di alcuni avvenimenti accaduti in altri paesi europei. In Germania, come si è già ricordato, tra le prime società di lavoranti delle pelli vi furono quella di Magdeburgo sorta nel 1150 e quella di Worms risalente al 1233; seguì, a quanto ci risulta, quella berlinese, denominata degli Schuster, ossia del calzolai, del 1284. A queste seguirono quelle di Offenbach del 1388 e quella di Colonia del 1356, i cui iscritti erano specializzati nella concia all'allume per fare cuoio bianco. In alcune corporazioni tedesche esistevano delle curiose consuetudini, come per esempio quella di imporre agli artigiani in cerca di lavoro di portare un grembiule di cuoio, anche se questo non era necessario durante il loro eventuale lavoro.
In Baviera i conciatori dovevano provvedersi di pelli solo acquistandole all'ingrosso e non al minuto, mentre ciò era consentito solo ai maestri calzolai, secondo un editto del 1290 ribadito nel 1297.
In molte città che non erano dei veri e propri centri dell'arte conciaria, i conciapelli ed i calzolai erano riuniti in un'unica corporazione. A Brema questa unione era in vigore fin dal 1388.
Precise norme esistevano in certi luoghi sul noviziato e sul periodo del lavoro ambulante dei garzoni, così come sul perfezionamento dei lavori degli apprendisti presso i maestri. Il tempo dell'apprendistato era fissato generalmente in tre anni e così pure il periodo del lavoro ambulante; ma se gli aspiranti erano figli di maestri conciatori la durata era di sei anni. Novizi ed apprendisti vivevano per lo più presso i maestri e dovevano partecipare ai lavori di casa. Questi garzoni, finché non trovavano occupazione nel loro luogo d'origine o in altra città, potevano essere ospitati in particolari alloggi che ogni categoria artigiana organizzava anche in comunità con altre; qui i maestri in cerca di apprendisti potevano andare ad assumerli impegnandosi ad ospitarli in modo appropriato. Qualora un aspirante non avesse trovato lavoro la corporazione gli somministrava una sovvenzione. Altri usi relativi ai garzoni conciatori sono citati in alcune canzoni popolari tedesche. In Austria le prime notizie sulle corporazioni di conciatori risalgono al 1220 e precisamente all'anno in cui fu fondata quella di Freisach in Carinzia; a questa ne seguirono altre numerose, tra le quali quella di Vienna, dove già nel 1330 esisteva una Lederstrasse, ossia una Via del Cuoio. Gli statuti più antichi che si conoscono dell'arte conciaria viennese portano la data del 1435.