cultura barocca
ZAFFETTA

PUTTANA ERRANTE E LA ZAFFETTA

"LA ZAFFETTA è pure del Venier. Zaffetta vuol dire figlia di Zaffo, ò Birro; Zaffetta si può intendere ancora allegoricamente per una cortigiana che piglia e rubba quanto può a suoi amanti.
Il Venier dunque, per far vedere che era stato l'autore della , e che a torto si diceva nel mondo che Pietro Aretino ne era l'autore, fece questo poemetto della Zaffetta. In questo narra la vita di questa sciagurata, e come un suo amante, per vendicarsi della sua infedeltà, le fece dare il Trentuno( in pratica lo stupro collettivo o di gruppo).
La compositione è cosi sbrigliata per il costume come la Putana errante, e piena di sozzure che niente più. Lo stile è di buon sapore, ma sarebbe meglio non leggere cose tali, e lasciarle in un eterno oblio".


RACCOLTA DI RARISSIMI OPUSCOLI ITALIANI DEGLI XV E XVI SECOLI
II

LA ZAFFETTA
PARIGI
M D CCC LXI
[Paris, Imprimerie de Ch. Jouaust, rue Saint-Honoré, 338.]



LA ZAFFETTA

LA ZAFFETTA

Poi ch'ogni bestia in volgar e in latino,
Con giuditio di pecora ignorante,
Ciancia che il famosissimo Aretino
Habbi composta la Puttana Errante,
Per mentirli dov'entra il pane e 'l vino,
E per chiarir che un furfante è furfante,
Vengo a cantar si come la Zaffetta
Ne l'utriusque in Chioggia hebbe la stretta.

Che bisogna stupir, ò goffi, s'io
Hò in un tratto lo stil fatto famoso?
Un Aretin, mezz'huomo e mezzo Dio,
Mi presta il favor suo miracoloso.
Chi vuol in ciel balzar per chiamar Clio,
Vuol guarir in un dì dal mal francioso.
Invochi l'Aretin, vero profeta,
Chi si vuol far, come son io, poeta.

Non v'arrossite, bufalacci buoi,
A dir che il mastro di color che sanno,
Spenda a mio nome gl'alti studij suoi,
Come i pedanti a suoi scolari fanno?
Può far San Pier che non vi sia fra voi
Plebei tanto d'ingegno col malanno,
Che discerna l'urina da l'inchiostro,
E 'l priapesco uccel dal pater nostro?

Se l'Aretin la mia Puttana havesse
Composto, come dite, babuassi,
Credete voi ch'altro suon non tenesse
, Altri soprani et altri contrabassi?
Le rime sue parrebbono papesse,
Et i suoi versi parrebbon papassi;
E poi Pietro, al mio dir ferma colonna,
Mai non hà visto camiscia di donna.

Con giuditio di pecora ignorante,
Ma dir potrete: Ei t'ha fors'aiutato
A finir l'opra, acciò riesca eterna.
Dico di nò, perch'io non son sfacciato,
Com'è il ladron prosuntuoso Berna,
Che per haver l'Orlando sconcacato
Con rimaccie da banche e da taverna,
Il nome suo c'hà scarpellato sopra,
Come se del furfante fusse l'opra.

Con giuditio di pecora ignorante,
Ma torniam'a l'Errante e a le cicale,
Che in giudicar si menano l'agresto,
Et hanno nel cervello manco sale
Che non hà d'un infermo il pollo pesto
Io l'ho fatt'io col proprio naturale,
Et acciò vi chiarite presto presto,
Non havendo per hor'altra facenda,
De la Zaffetta canto la leggenda.

Per due cagion, Zaffetta, in stil divino
Vengo à cantar l'historia de tuoi fatti:
Una per dimostrar che l'Aretino
I versi de l'Errante non m'ha fatti;
L'altra, ch'in far piacer son si latino,
Ch'è forza contentar parecchi matti,
Che mi stringono à dir in nova foggia
Di quel trentun che ti fu fatto à Chioggia.

Con giuditio di pecora ignorante,
Dio sà, Signora, se mi dolse e duole
Il Trent'un vostro, perche v'amo e adoro.
Ma chi manca a gl'amici di parole,
Manco gli prestaria gli scudi d'oro.
Voi pur sapete s'un chiavar vi vuole,
Ch'ei pur vi chiava e nel fesso e nel foro.
Dunque che poss'io far, se vuole ogn'uno
Ch'io canti la novella del Trent'uno?

Con giuditio di pecora ignorante,
Angela mia, dovete ben sapere
Ch'ogni Diva hà il Trent'un el mal francese,
O tardi, o presto, ad ogni modo havere,
Che 'l veggia el sappia ogn'un chiaro e palese.
Circa al Trent'un, con poco dispiacere
Sete uscita d'affanni a vostre spese.
Hor venghin via le bolle, accioche vuoi
Non stiate più in pensier, co i fatti suoi.

Con giuditio di pecora ignorante,
Ecco, Signora Angela Zaffa, in tanto
Che 'l mal francese occulto scoprirete,
Di voi il Trent'un, qual Vangelista, canto;
E s'io punt'erro, mi correggerete,
Perche il fatto v'è noto tutto quanto;
E meglio tutto a mente lo sapete,
Che non sà la Zaffetta, al Trent'un corsa,
Cavar l'anima el cuore d'ogni borsa.

Con giuditio di pecora ignorante,
Puttane infami, che tanto sdegnate
Tener un gentil'huom per vostro amante,
D'un gentil'huomo un arlasso ascoltate
Fatto da una gentil porca galante,
Ch'hà privilegio fra le nominate,
Qual fra le vacche la Puttana Errante;
E finir senza dubio vi prometto,
Come ch'io hò, quel ch'hò da dirvi, detto.

Con giuditio di pecora ignorante,
Signor, sono in Venetia, gratia Dei,
Tre legioni o quattro di puttane,
Ruina de' patritij e de' plebei,
Parte in gran case, parte in carampane;
Ma fra tante migliaia un cinque o sei,
A forza di belletti e d'ambracane,
Cuopronsi sua bruttezza stomacosa,
Che le poltrone paion qualche cosa.

Fra queste poche ce n'è una sola
Che tiensi prima in la fottuta setta.
Non è la Grifa, non è la Bigola,
Che le parole profuma e belletta.
Aiutatemi a scioglier la parola;
Hà la sua altezza nome la Zaffetta,
Che si tien nata di sangue reale,
Poiche patrigno l'hà Borrin bestiale.

Conta talhor la sua genealogia,
E fassi figlia del Procuratore
Da cà Grimani, ch'a sua madre ria
Già fece a che l'è dentro, a che l'è fuore.
Ma vienmi humore ne la fantasia
Di cantar puntualmente in bel tenore
Il suo gran grado in omnibus, e come
S'hà guadagnato il puttanesco nome.

Nol vuò dir nò, perche de le puttane
Sempre giostran dal par, principio e fine.
Cominciano a ingrandirsi con un pane,
E con un pan finiscon le meschine.
Basta che la Zaffetta è in ambracane,
In seta e in or, con pompe alte e divine,
Non già per sua virtù, bellezza o gratia,
Ch'ella nascendo nacque in la disgratia.

Il caso del suo grande et alto stato,
Che i nostri gentil'huomini ogn'hor soia,
D'una tal sorte di corrivi è nato,
Che per morbezza, per gara e per foia,
Cercando hor l'uno, hor l'altro scioperato,
Con quest'Arpia, ch'a chi più l'ama annoia,
Gl'han dato senza merito e diletto
L'anima e i soldi, a lor marcio dispetto.

Perdonatemi, giovani; l'amore
Ch'io vi porto fa dirmi ciò ch'io dico.
Sapete ben che vi son servitore,
Non pur compagno, fratello et amico.
Poi ne la lingua io hò quel c'hò nel core;
L'hò detto, et hor di nuovo lo ridico:
Le vostre gare, e non gratia o bellezza,
Hanvi abbassati, e lei posta in altezza.

Hora ch'accade? la Zaffetta Diva,
Diciam bella, gratiosa e virtuosa,
Poich'ella del cervello e danar priva
Ciascun con la sua faccia artificiosa,
Fra l'incazzita sua gran comitiva,
Havea un amante, ch'è si gentil cosa,
Pieno di gentilezza e cortesia;
E se non fusse il ver, non lo diria.

Il gentil'huomo, che prodigo amante
S'era fatto di lei, per sorte rea,
Le stava sempre servitore innante,
Com'ella fusse non Zaffa, ma Dea.
Si che pensi ciascun se la furfante
Honestamente rubbava e chiedea.
Per Dio, ch'han più discrete e honeste mani
Cingari, marioi, giudei, marani.

Gran cosa è a dir che l'avaritia stringa
Una puttana si che un soldo, un bezzo,
Un guanto vecchio et un puntal di stringa,
E s'altra cosa c'è di minor prezzo,
Con parlar che tradisce, ti lusinga,
Ti rubba sempre, et hà talmente avvezzo
L'appettito al rapir, che nel bordello,
Ov'esse son, hor mandan questo, hor quello.

Il giovane gentil, che forte amava,
Pur che trovasse fede in la Zaffetta,
Lo spender da par suo meno curava,
Che un cavalier di correr la staffetta.
Ma non stè molto questa Zaffa brava,
Che un arlasso gli fè, come la setta
De le sporche poltrone ogn'hor far suole
A chi più dalle, a chi più ben le vuole.

Ogni cosa si può facil soffrire,
E servitù e danari non son niente.
Ma questo puttanesco, empio tradire,
È quel ch'uccide l'amorosa gente.
Credi sta notte con la Dea dormire,
E trovi un altro tuo luogotenente.
Brava e frappa a tua posta, ammazza e squarta,
Che a coda ritta è forza che ti parta.

Non fè il giovin gentil frappe o rumori,
Al corpo, al sangue, vacca, slandra, ladra,
Ne con spada o baston sfogò gl'amori,
Anzi doppo l'arlasso in mente quadra
Di vendicarsi, onde doppiò i favori
A la Signora, e dandole la quadra,
Più che mai la presenta e la corteggia,
Acciò che 'l suo pensier dentro non veggia.

Passati alquanti dì, comincia a dire
Il gentil'huom: Quando vogliam, Signora,
A Malamacco per solazzo gire,
Poiche d'andar a spasso hormai vien l'hora?
Con puttanesco e temerario ardire
Rispose la Signora Angela allora:
Al piacer vostro, tutta allegra e altiera,
Ma che torniamo a Venetia la sera.

Per l'ordin dar non fu zoppo ne tardo
L'amante da l'infame assassinato;
Ma con un dolce e piacevol riguardo
Doi gioven gentil'huomini hà chiamato:
Un manda a Chioggia, che la cena al tardo
In punto metta; e l'altro, spensierato,
Buon compagno al possibil e da bene,
Seco per gir con la Signora tiene.

Poiche quel giorno e l'hora e 'l punto venne
Che far le nozze dovea la novizza,
Preparossi una gondola solenne,
Che in due vuogate mezzo miglio sguizza;
La qual'a Malamacco il camin tenne,
Portando allegra l'Angelica chizza,
Che fea col suo moroso un gran contrasto,
Per voler gir, come sposa, sul trasto.

Come fu giunta questa meritrice
A Malamocco con riputatione,
Vezzosamente soghignando dice:
Evvi, ben mio, da far colatione?
E vedendo fumante una pernice,
Quella grappò con farne un sol boccone,
E in men che non si dice Ave Maria,
Tracannò gotti sei di malvasia.

Buon prò, Madonna, dice la brigata;
Et ella ride e l'amorosi soia,
E con quella sua gratia disgratiata,
Pettegolando sempre in bocca moia,
E a questo e a quel'hà la barba tirata,
Per favorirli, e con spiacevol noia
Conta le sue grandezze, e narra come
Di Zaffetta acquistò con l'opre il nome.

E facendole buon ciò ch'ella parla,
In gondola tornò la compagnia.
La cicalaccia riscaldata ciarla
Pur de le sue grandezze tuttavia.
In tanto a Chioggia cominciò avviarla
La barca instrutta in quel ch'a far havia.
Ell'attende al suo dir, che vuol trovare,
Fra doi giorni, una casa da suo pare.

Voglio, dicea la gloriosa alfana,
Che voi morosi mi facciati havere
Per sempre a fitto la cà Loredana,
Se non mi morirò di dispiacere.
Poi cominciò a cantar' una pavana,
Che già la casa parle di godere.
Vuol comprare spalliere e razzi eletti;
Vuol far di seta e d'or cinque o sei letti.

Poi entra a dir di certi cavedoni,
O capo fuochi, che dica il Petrarca.
Gli vuol d'argento, che sian belli e buoni.
Vuol sei massare, un ragazzo, una barca.
Vuol di contado le sue provisioni,
Sempre in caneva vin, farina in l'arca,
E al fin vuol tante cose la Borrina,
Che non n'hebbe mai tante una Regina.

Con questi suoi giardin, fatti a sua foggia,
Confirmati dal suo sagace amante,
Si ritrovò sua maiestade in Chioggia,
E sbigottì quando gl'apparse innante,
Dicendo: Mia persona non alloggia
Sta sera quì: và, barcaruolo, avante;
Gira, poltron, diss'ella; e piange e arrabbia,
Ma patienza al fin forz'è ch'ell'habbia.

Anima mia, speranza, figlia mia,
Caro sangue, ben mio, dolce mia vita,
Diceva il suo moroso in voce pia,
Da me non fate sta sera partita,
Acciò tutto, Angioletta, io vostro sia.
Con voi la robba mia non è partita.
Chiedete pur, non habbiate vergogna,
Che chi per voi brama di far non sogna.

Non potè allor tenersi la puttana
Di non ghignar, se ben havea cordoglio,
Quando sentì l'oblation che spiana
Di dare il tutto, e dice: Quest'io voglio:
Di restagno e velluto una sottana,
Di quelle che alle feste portar soglio.
Voglio una scuffia d'oro, e vuò domane
I vostri Pater nostri d'ambracane.

La sottana, la scuffia, i Pater nostri,
L'Ave Marie, i Salmi e l'Orationi
Haverete, pur ch'hora mi si mostri
Il vostro cuor privo d'afflittioni,
Rispose il gentil'huom: non de' par vostri
Amorosi di fava, arcicoglioni,
Che de le puttanaccie sopportate
Con mille villanie le bastonate.

Hor ella smonta, e non s'accorge havere
Dietro una barca, di fottenti piena.
Corse la turba in furia per vedere
La famosa Zaffetta d'humor piena,
Che adosso porta un mezzo profumiere.
Parla da ninfa, el passo muove appena.
Hora su questo, hora su quel s'appoggia,
E vuol parer l'Imperatrice a Chioggia.

Il suo moroso, che se n'avvedea,
Per farla andar più di se stessa altiera,
Con voce di stupor pian le dicea:
Voi sete di bellezza una lumiera.
Hor fuss'ella pur quì Venere Dea,
Che il mondo vederia ch'hà miglior ciera;
Poi soggiunge: Madonna, un de vostr'atti
Questi Chioggioti hormai fa venir matti.

Con queste soie e berte profumate,
Entrano i socij, con sua Signoria,
Dov'eran le vivande apparecchiate,
Come a gran gentil'huom si convenia;
Et havendosi ogn'un le man lavate,
A cena se n'entrò la compagnia,
Et in capo di tavola s'assetta
La puttana Illustrissima Zaffetta.

Silentio a mensa, quando l'odor vola
De gl'arrosti per tutto; ella si tace.
Con piene mani, piena bocca e gola
Sol dice: Questo è buon, questo mi piace;
E chi l'havesse chiesto una parola,
Non era per haver seco mai pace.
Mangia e bee senza freno, anzi divora;
Buon fu per me, ch'era a Venetia allora.

Venner l'ostriche al fin, che tante e tante
Ne tranguggiò su' altezza, che ciascuno
Gridò misericordia: ella d'avante
Le scorze have, ch'aprì tutto il comuno.
Ma che ciancie cont'io? Il suo largo amante,
Ch'hà tramato l'istoria del Trent'uno,
Piglia per man la Diva per diletto
Dicendo: Sangue mio, ch'andiamo in letto?

Andiam, rispose, con un'occhio chiuso
E l'altro aperto, l'Angiola assassina,
Ch'addormentata nel letto andò giuso,
Non sapendo s'ell'è sera o mattina.
Quel giovane gentil, che non er'uso
D'esser soià cosi da una facchina,
Anch'egli in un balen fessi spogliare,
Che vendicar si vuol, non vuol chiavare.

Pur trovandosi ritta la ventura,
Disse il Boccaccio, sendo buon fottente,
Havendol'ella volto per sciagura
Il volto del seder solennemente,
Ruppe due lancie, ciascuna più dura,
Poi al suo d'innanzi più che mai valente
Per dispreggio di lei venne a la colta,
E le fè quel serviggio un'altra volta.

Quella musica dolce in tuono grave,
In tenore, in soprano e in contra basso,
Che gl'havea messo di dietro la chiave
Nel suo B molle accettò per ispasso
Scacciato il sonno da la Signor'have,
Per cui sentia tutto il suo corpo lasso,
E rivolta a l'amico disse: Dammi,
Speranza, un bacio, e quella cosa fammi.

Ei, ch'hà presa la volpe et homai vuole
De le malitie sue punirla presto,
Rispose: Il corpo mi s'è mosso e duole,
Anima mia, hor che vorà dir questo?
Del letto uscì, e senza più parole
Il lume piglia, e và ratto, e par mesto.
Come la turba, che l'aspetta, il vide,
Dal gran diletto ismascellando ride.

Doppo le risa, si conchiude ch'uno
Gentil giovane vada a cominciare
Il meritato honorevol Trent'uno,
Col qual s'hà la Zaffetta a degradare.
Hora il buon socio senza indugio alcuno
In camer'entra, e cominciò a cantare
Col cazzo sodo in man et in un punto
Questa canzone allegro incontra appunto:

La vedovella, quando dorme sola,
Lamentasi di me, non hà raggione...
Quand'odo il suono d'una tal parola
La traditrice di tante persone,
Che più fuggir non può, s'ella non vola,
Ne capelli e ne gl'occhi le man pone,
Che ben s'accorge che 'l Trent'un vien via,
Per castigar la sua ribalderia.

Eccoti il socio, ch'hà in mano un ferale,
Che vuol veder pur la Zaffetta in viso;
Visto ch'ei l'hà, con bel parlar morale
Disse: Signora, io vengo a darvi aviso
Come sta notte un Trent'uno reale
Quel che v'adora vuol darvi improviso;
E prega, se non è qual meritate,
Che accettando il buon cuor li perdonate.

Quand'ella sente la festa annuntiarsi,
Al minacciar zaffesco a un tratto corre,
E vuol del sangue di colui satiarsi
Che la virginità l'ardiva torre.
Con puttanesco pianto a humiliarsi
Comincia poi, perch'è savia, e discorre
Che il gentil'huom secondo del Trent'uno
Chiavato hà dietro Borino et ogn'uno.

Dicea la Zaffa forsi a una Signora,
Ch'in Venetia ciascun la prima tiene,
Ch'è fanciullina el latte hà in bocca ancora;
A dar questo Trent'un non sarà bene.
Oh Dio! Dio mio! volete voi ch'io muora,
Magnifico Missier dolce e da bene?
Se sta notte salvate l'honor nostro,
Questo dritto e roverso è tutto vostro.

E i doi sessi squinterna, in cui le frappe
Qualcun che l'ama ogni virtù colloca.
Ma il Trent'un, che le tocca e coscie e chiappe,
Disse ch'ell'hà le carni di grue e d'occa,
Ricamata di broze, come cappe,
E nere, e schife in morbidezza poca.
Non puzza, nò, perche caccia i fetori
Della bocca e de i piè con mille odori.

Il giovin nuntio del Trent'un gentile,
Ch'a la libera vive per natura,
La conforta a far animo virile,
Talche la Zaffa strega entra in bravura,
E chiama un atto di persona vile
Chi vendetta di far con donna cura;
Ond'ei, ch'entrava in corso in stil giocondo,
Disse: Voltate in là, sporgete il tondo.

Voltossi in là col capo humile e basso
Sua Signoria, et ei, drizzato il stocco,
Dietro la porta gliel messe per spasso,
Non da lussuria, ma da un grizzol tocco.
E quì, Signori, è da notare un passo,
Per cui hà a Chioggia invidia Malamocco.
Non sò se è ben tacerlo o meglio il dirlo,
Ma serri gl'occhi chi non vuol udirlo.

Lo stocco di quel giovanotto amico,
Che per durezza somigliava a un sasso,
L'ostriche ch'ingiottì la Zaffa, dico,
Andavan vive pe 'l suo corpo a spasso,
A quello s'aggrappar con forte intrico.
Sentendo questo il gentil'huomo, un passo
Tirossi in dietro, e 'l stocco dischiavato,
D'ostriche il vidde tutto riccamato.

E cosi, com'egl'era, uscendo fuora,
Il miracolo a i suoi dimostrò chiaro.
Le risa che di ciò fur fatte alhora,
Non le raccontarebbe un calendaro;
E mentre le reliquie la Signora
Tenea scoperte, e facea pianto amaro,
Eccoti un pescator pazzo e bestiale,
Che grosso e lungo haveva il pastorale.

E senza dir: Ben mio, ne dar conforto,
La lancia in un momento assoda e arresta,
E con un guardo villanesco e torto
Le coscie l'apre, e incartola et assesta.
Gridò la Zaffa: Ah! cane, tu m'hai morto;
E su la sponda inchinando la testa,
Stette tanto in angoscia et in dolore,
Che venne un altro in cambio al pescatore.

Questo, quanto al chiavarla, parse a lei
Pur pescator, ma di natura pia,
E in ginocchioni se li lanciò a i piei,
Dicendo: Huom da ben, qual tu ti sia,
Se mi scampi di man de farisei,
Facendomi scampar per qualche via,
Queste gioie e catene vuò donarti,
E dieci e venti volte contentarti.

Non voglio gioie, non voglio catene:
Vuò fotter, disse Marcone alla pace;
E voltatala in giuso con le rene,
La balestra scarcò due volte in pace.
Doppo costui un barcaruol ne viene,
Che 'l chiavar di buon cuore più li piace,
Che la merenda non fa su la barca,
Se bee senz'acqua al boccal vin di Marca.

Mentre che 'l barcaruol facea i suoi fatti,
Ecco a la porta una question'appare,
De la camera dico, perche ratti
I Chioggioti son corsi per chiavare.
Come su i tetti di Gennaro i gatti
Corron con incazzito sgaolare;
E la Zaffa infelice ahime dicea,
E 'l gentil'huom di fuor le rispondea:

Signora mia, il mondo è fatto a scale.
Non sempre ride del ladro la moglie.
A Chioggia scende chi a Venetia sale,
Anco tal hor la volpe ben si coglie.
Voi rideste di me di carnevale,
Quando ch'io havea del vostr'amor le doglie:
Hor di quaresim'io rido di voi,
E cosi il gioco pari và fra noi.

Ah! crudel', ingrataccio, ov', ove sono
Le berte date a me, quando volevi
L'arrosto, che parendoti ogn'hor buono:
Dammelo, cara mammina, dicevi?
Signor mio caro, vi chiedo perdono,
E se mi concedesti ch'io mi levi
Questo Trent'un d'adosso, che m'accora,
Vi sarò sempre schiava e servitora.

Rispose il gentil'huom da lei tradito:
Adesso vien ampla commissione,
Che il voto vostro havrà ben esaudito.
State col cor contrito in oratione.
In questo, uno ch'havea, come un romito,
La conscienza senza discrezione,
Da traditor, da turco e da giudeo,
Gl'aprì con la sua chiave il culiseo.

Con un carbon stav'un, segnando al muro
Tutte le botte ch'eran date a lei;
E quando alle sei volte giunte furo,
Gridò colui con alta voce: E sei.
Sen vien un hortolan col pinco duro,
Dicendo: Tu la mia speranza sei;
E senz'altro proemio compì presto
La sua facenda, fatta in luogo honesto.

E sette, gli dicea quel del carbone.
Via spacciatevi, giovani, ch'hò fretta.
Tocca la volta ad un fante poltrone,
Non uso a mangiar carne di capretta.
Costui in modo adosso gli si pone,
Che vomitar fece la poveretta
Quel ch'ella il dì mangiò, poi cheto cheto
Gli pianta il suo gran ravano di dreto.

Numero otto già nel muro appare.
Ma quì ne vien' il buon, comincia adesso,
De la comedia il second'atto appare.
Esce fuora un facchin soffiando spesso,
Che vuole un porro di dietro piantare
A colei, ch'ogni cosa a sacco hà messo,
E sentì tal dolcezza il buon compagno,
Ch'hebbe a morir sul buco, come il ragno.

Levando in piè fece un salto da matto:
Bergem, bergem, gridando alla facchina.
Par giusto il gallo ch'il servitio hà fatto
Alla sua bella morosa gallina,
Che, smontato ch'egl'è, scotasi a un tratto,
Canta una volta, et a beccar camina:
Cosi il facchin, dello sborrar satollo,
A legar ritornò non sò che collo.

La Signora fottuta a capo basso
Piangeva ad alta voce si dolente,
Ch'havrebbe humiliato un Satanasso,
E un mulo 'n bizzarria fatto clemente.
Dicea: Deh! perche il petto non mi passo,
Acciò non senta cianciar fra la gente,
A San Marco, e a li Bari, da ciascuno,
Ch'io degnamente havuto habbia il Trent'uno?

Hor sarà pur contenta questa e quella,
Invidiosa di mia buona sorte.
Come il Venier lo sà, farà novella,
Perche aprir non le volsi un dì le porte.
Già già ogni barcaruol di me favella,
E parmi udir da i putti gridar forte,
Sul ponte di Rialto, acciò s'intenda:
Chi vuol della Zaffetta la legenda?

Le lamentation di Geremia,
Volea seguir, quando giunser doi frati,
Dicendole: Chi è quella brutta Arpia?
Vogliam, Signora, de vostri peccati
Fornir di confessarvi, acciò non sia
L'anima vostra scritta tra i dannati.
E l'uno e l'altro alla Zaffa divota
Cacciar dietro e d'innanzi una carota.

Ma che vad'io contando ad uno ad uno?
Eccoti che sforzata è pur la porta.
Chioggia è venuta a furor di comuno,
Per haver la sua parte de la torta.
E fatti in un mucciglio, ciascheduno
Per ben chiavarla il primo si conforta,
E d'adosso s'è tolto l'uno appena,
Che l'altro è corso a farla far di schena.

Havete visto là del Vener Santo,
Quando ch'ogni plebeo vuol confessarsi,
A star la turba su l'ali da canto,
Che al confessor il primo vuol lanciarsi?
Cosi, mentr'un la chiava, l'altro in tanto
Stà desto, e vuol con la diva attaccarsi.
Son sempre cinque o sei ch'hanno il piè mosso,
E vorria ognun saltarle il primo adosso.

Colui che col carbon segna le botte,
Si presto che segnar le può a fatica,
Sendo passata più che mezza notte,
Disse: Brigata, convien pur ch'io 'l dica:
Settanta nove lancie havete rotte
Contro la vostra gagliarda nemica,
Si che una botta sola a far ci resta,
E poi per tutti finit'è la festa.

L'ultima volta far volse un Piovano,
Che in chiavar monasteri ogn'altro passa,
Il qual fessi menar suo cazzo a mano,
Poi la rovescia sopra d'una cassa,
E gli lo mette in la vulva e ne l'ano;
Ma teneva il giotton la testa bassa,
Perche il fetor' ammorba il can gentile
De l'oglio humano e de l'onto sottile.

Un miro d'oglio e di butiro havea
In corpo la Zaffetta appena viva,
Il qual di dietro e d'innanzi piovea
Su i calcagni e su i piè con foggia schiva.
Onde il Piovan per il suo can chiedea
Di quelle carezzine come prima
Sua Signoria li suoi morosi cari
Di cervello, d'honor e di danari.

Ma perche il giorno ne viene a staffetta,
Il gentil'huom ch'annontiò il bel gioco
In camer'entra, e fuor caccia con fretta
Il Piovan goffo, gaglioffo e da poco;
Poi con una sua dolce predichetta
Riconforta l'afflitta Angiola un poco,
E le fa veder che 'l soverchio amore
È stata la caggion d'un tanto errore.

Havete, disse, voi persa la vita,
Per ottanta con gratia chiavature?
Hor sete voi la prima in ciò fornita?
Per tutto il mondo son delle sciagure.
C'havete obligo assai, sendone uscita
Sana per tutto, benche grosse e dure
Siano state le lancie ne la giostra,
Eterna gloria a la bravura vostra.

L'Angiola piange e dice: Oh! sventurata,
Come caminerai fra le persone?
La mia grandezza è in tutto rovinata.
Son io da trapolar con un Trentone?
Monaca mi vuò far per disperata,
Ne fin ch'io vivo vuò farmi al balcone.
E ciò dicendo il corpo le fa motto,
Ond'ella sospirando andò al condotto.

Nel render le borsette parse un frate,
Che di menestra scaricasse il ventre,
Et una leggion d'alme non nate
Convien che nella bocca al condott'entre,
In mandragore e in rane trasformate,
In scorpioni, in tarantole; e mentre
Il suo bisogno al cacator facea,
L'oglio favale per tutto correa.

Col suspiramus lachrymarum valle
Rivestissi levata dal condotto,
Pregando il gentil'huom, con basse spalle,
Che del Trent'uno suo non faccia motto.
Il da ben socio il giuramento dalle
Che dirà solamente che fur'otto,
E cosi de fottenti il pio collegio
Le fè la gratia, e diede il privileggio.

Poi trovossi una barca da meloni,
E piantatavi sù sua Signoria,
Fu menata a Venetia senza suoni
Che gl'havrian tratta la malinconia.
Rimasti a Chioggia, quei compagni buoni
Scrisser per ogni muro e in ogni via
Come l'Angiela Zaffa nel Trent'uno,
A i sei d'Aprile, habbia sfamato ognuno.

Hor la Zaffetta giunta in casa, a botta,
Subbia, chiama e biastema in voci ladre.
Di bastonar le massare barbotta,
Onde gl'aperse la riva sua madre,
E vedendo la figlia mal condotta,
Chiama Borrino, suo adottivo padre,
E serrando la riva su le scale,
Tramortì la puttana generale.

Posta nel letto, d'aceto rosato
Bagnati i polsi, e di fresc'acqua il viso,
Lo spirito mariol l'è ritornato;
E riguardando la sua madre in viso,
Disse: Quel traditor, che m'hà menato
A Chioggia, ch'egli sia bruciato e ucciso;
Dar m'hà fatto un Trent'uno il traditore.
Mio pare, io vuò che gli mangiate il cuore.

Quando la madre gl'alza i panni, e vede
Il suo quadro, e 'l suo tondo rosso, e rossa,
E l'uno e l'altro enfiato, certo crede
Fra due hore d'andarsene in la fossa,
E con gran pianto il suo barbiero chiede,
Qual venne presto, e stà in dubio se possa
Guarirla o nò, ma pur con certa untione
L'unge il seder, e frega il pettignone.

Lo stizzato bestial Borrin feroce,
Col pistolese in man, stringendo i denti,
In portico passeggia, e ad alta voce
Dice mille: Vuò farne mal contenti.
Fa su le dita il segno della croce,
Et su vi giura mille sacramenti
Che vuol far diventar sangue il suo rio:
Ah! mondo infame! oh! benedetto Dio!

Già per Venetia il Trent'un divulgato,
Della Zaffetta è pieno ogni bordello,
Ne pur un sol s'è in la città trovato
Che non esalti chi gl'ha dato quello.
In fine il buon compagno gran Donato,
E Lunardo da Pesar, buono e bello,
Han caro ogni suo mal, perch'ella impari
Con le soie a burlar con i suoi pari.

Venner da Chioggia a Venetia di botto
I mastri che punir la volser bene,
E per tutto notar numero otto,
Perche ottanta notar non si conviene,
Che gl'han promesso, e non gl'havrebbon rotto
Il privileggio ch'ella appresso tiene;
E ciascun che lo legge benedice
I mastri a castigar la meretrice.

La Zaffetta hà serrato ogni balcone,
E in casa stassi come fusse morta.
Il suo rio non fa più riputatione.
Non apriria al Principe la porta.
Non mangia ò dorme, e trista in un cantone
S'è posta al scuro, e mai non si conforta;
E quando che di Chioggia si ricorda,
Cade distesa al suol come balorda.

I Signor cinque e i capi de i sestieri,
A quali la querela andò volando,
Ridendo de carnefici cristieri,
Di far l'esecution vanno slungando;
Onde quei de la terra e i forastieri
Del ben merito suo vanno parlando,
Talche per tutt'Italia ognun già canta
Numero otto, idest numero ottanta.

L'Angiola stassi peggio che romita
In cordoglio, in silentio, sobria e casta.
Passar sei giorni, è quasi hormai guarita.
Altro non dice, co i sospir, che: Basta.
Già la vergogna gl'è di mente uscita.
Non sentendosi più ne i sessi guasta,
Più sfacciata di prima, ladra e ghiotta,
Sopra il balcon fa la Regina Isotta.

Forse che pensa diventar migliore,
Non soiar, non tradire e non rubbare?
Forse che pensa al suo perduto honore,
Ch'ogni puttana faria vergognare?
Ma pensa più che mai cavar' il core
A quelli che la corron a adorare,
E per una vestura in nuova foggia,
Vuol far la pace col Trent'un di Chioggia.

Io non hò mai parlato a la Zaffetta,
E l'havea per Signora alta e divina.
Ma il conte Urluco in cà di Vienna, letta
M'hà la ribalda sua vita assassina,
Ond'io tengo più buona e più perfetta
La mia Errante Elena Ballarina;
Hor se l'Errante è più da ben di lei,
Gran Dio Cupido, miserere mei.

Hor le puttane, ch'han l'arlasso inteso,
Si riserrorno sbigottite tutte,
Fra lor pensando s'hann'alcuno offeso,
E cacan di mangiar di quelle frutte;
E s'un cento ducati havesse speso,
Non mai di casa fuor l'havria condutte;
Ne a Lio, ne a la Zueca in barca vanno,
Tanta paura di quel Trent'un hanno.

Ma Dio volesse, puttane mie care,
Che l'esempio di lei vi fusse in core,
Che saria cosa santa il puttanare,
E si c'acquistaria spasso et honore.
Se qualche gentil'huom vi vuol chiavare,
Pensate de la Zaffa al dishonore,
Dicendo voi di sì l'osservereste,
E le vie d'ingrandirvi sarian queste.

S'un che v'ama, superbe corteggiane,
Trovasse in voi punto di cortesia,
Discretion in bocca e nelle mane,
E stimare colui che vi desia,
Con dire il vero ancuò come domane,
E non fole e menzogne tutta via,
Senza che le chiedeste, ei vi darebbe
L'anima el cuor, e poco gli parrebbe.

Saria pur un piacere a dire: Io amo
Una donna ch'hà caro il mio servire,
La qual vien pronta a me quando la chiamo,
Ne mi vuol ingannar ne far fallire,
E senza lite ogn'hor d'accordo siamo.
S'io le dò, piglia, e non ardisce dire:
Dammi, fammi, se non ti faccio o dico,
Ne la taglia mi pon, come nemico.

Saria ben un spilorzo e ben furfante,
Un che la sua morosa ogn'hor chiavasse,
El suo bisogno vedendol'innante,
Come la vita sua non l'aiutasse;
Ma gl'è il bordel l'essere vostro amante,
E credo che se l'oro un dì v'amasse,
Fallirebbe poi l'altro, come ha fatto
Per girvi dietro al cul questo e quel matto.

Un giunge in casa della sua Signora,
E giunto appena, vien via la massara
Per soldi, per sapon; ne vien poi fuora
La madre, che par proprio il cento para;
E tanto sfacciat'è la traditora,
Che uscir bisogna di natura avara.
Eccoti adosso al fin la Diva corsa,
Che bacia te, per baciar poi la borsa.

Cuor mio, ben mio, padre, vecchietto mio,
Se mi vuoi ben, comprami trenta braccia
Di raso, o d'ormesin, ch'oggi il vogl'io.
Ti bacia gl'occhi, la boca e la faccia,
Talche vi scapperia Domene Dio;
Ne giova a te che tu il cattivo faccia,
Perche il cotal, che ti si rizza, vuole
Che gli paghi co i fatti le parole.

E mentre ti svaliggia e a sacco mette:
Vien (dice) a dormir meco, e vien ben presto;
E per la stessa sera ti promette;
E tu, coglion, corri a mandarle il cesto.
Compri in persona mille novellette,
Che ti par che 'l tuo honor richieda questo,
E quel ch'hai tu comprato, un altro cena:
Tu stai di fuor, rodendo la catena.

Spasseggiato quattr'hore pien di stizza,
Presto corri a vestirti a la foresta.
Esci di casa, e vuoi l'infame chizza
Scannar, bruciar, con ira e con tempesta.
In tanto il tabernacol ti si rizza,
E a fischiar torni, e fai la voce mesta.
La massara al balcon dice: Messere,
Di quì a un poco lasciatevi vedere.

In questo mezo il martel, che lavora,
T'apre la borsa, e volano i presenti,
E al fin resti a dormir con la Signora,
Che ti squinterna mille sacramenti
Che non potè cenar con teco allora;
E tu dici fra te: Porca, ne menti.
Se vorà il ciel ch'io mi snamori mai,
Com'un huom s'assassina vederai.

La mattina ti levi e mandi il fante
Per la tua veste, e lasci in casa lei
Da stravestirvi e drappi, la furfante
Rubba ogni cosa con mani e con piei.
Mandi per essi, e datti lunghe tante,
Che biastemmiando e rinegando i Dei,
È forza che mai più non gli le chiegga,
Ma che d'altri ten facci e ti provegga.

Una scuffia che lasci per la notte
Più non si vede e più non si ritrova.
Una camicia tua de le più rotte
Ti toglie, come fusse bella e nova.
E per Dio! che ne i boschi e nelle grotte
Dove che i malandrini fan lor prova,
Con l'oro in man con più sicurtà vassi,
Che fra queste puttane, ohime! non fassi.

Al fin gl'arlassi et i danar mancati,
Et il tempo perduto, e 'l disonore,
E 'l viver sempre mai da disperati,
La raggion, l'ira, il dispetto, il dolore,
Con quel rancor che si sfratano i frati,
Esci di man del vil asino amore,
E la mente insensata fatta sana,
Corri a furor contro la tua puttana.

Gli levi tavolin, casse, spalliere,
Perche quelle compraro i tuoi danari.
Gli sfregi il volto più che volentiere,
El Trent'un le fai dar sin da i beccari,
Con bastonate e staffilate fiere,
A mano propria da i facchin preclari,
A le massare, a la ruffiana madre,
Con risa sin al ciel gustose e ladre.

Cose ordinarie son le romanzine.
Cosi le porte tutte impegolate.
Le vostre benemerite ruine
Son gl'amici perduti, sciagurate:
O poverette, o mendiche, o meschine,
O ladre, o brutte, o giotte, o scelerate,
Credete hora al Venier: mutate vita,
Se non il ponte a star seco v'invita.

Ma son ben pazzo ad esortarvi, e dire
Che diventiate gentili e divine.
Puttane, hò detto mal, mi vuò ridire:
Siate pur ladre, ribalde, assassine;
Non vi restate rubbare e tradire
Senza misericordia e senza fine,
Perche non v'è altro rimedio e via
Di cavarci di capo la pazzia.

S'elle fusser da ben, come v'hò detto,
Il dì dietro n'andremmo a l'hospitale.
Ognun si caverebbe il cuor dal petto,
Se vivesser le vacche a la reale.
Il farci ogn'hor morire di dispetto,
Et il trattarci ogn'hor peggio che male,
Et il farci fallire a grand'honore,
Si cava al fin del cul madonna, Amore.

Rubbate pur a due mani ad ognuno;
Accumulate pur gioie e catene,
Che la vecchiezza vi riduce in uno
Tutto quel che pompose hora vi tiene,
E peggio ancor l'ingordo et importuno
Mal francioso, che a un tempo v'intratiene,
Vi rubba in otto dì quel che rubbate
Ne la vostra fottuta e verde etate.

Ma sarebbe un piacer di paradiso,
Se 'l mal francese, ch'altr'è che la tossa,
La robba sol vi mangi all'improviso.
Mal cas'è che vi rode i nervi e l'ossa,
E poi le man, l'orecchie, gl'occhi e 'l viso,
Vi mangia il cuor, e v'invita a la fossa,
Che cosi vuole Dio, che 'l tempo aspetta,
Per far di vostr'infamie aspra vendetta.

Si che, Zaffetta mia, vivi a l'antica,
Cosi come hai vissuto, o vivi peggio.
Cosi tu, porca Errante, mia nemica,
Cosi, tutte puttane, perch'io veggio
Che ad uscirvi di man saria fatica,
Se voi sedeste in putanesco seggio
Con le virtù che già v'hò detto avante,
Sin a la morte ognun vi saria amante.

Una fra mille, millanta e migliara
Di puttane viventi a nostre spese
Hò conosciuta buona, bella e cara,
E da bene al possibile e cortese,
Che Giacoma chiamossi da Ferrara,
O vogliam dir Giacoma Ferrarese,
Che per esser da bene, bella e buona,
In questi giorni s'è morta in persona.

Altr'io non hò da dir che mi raccordi,
Se non ch'ognun tien lega di cicale,
Il mondo faria stanza di balordi,
Se non fusse lo spasso del dir male,
Il mangiar la lucanica co i tordi,
Con gl'aranci, col pevere e col sale.
Cosi il dir male al gusto human non spiace.
Datevi dunque, o mia Zaffetta, pace.

Se i Rè, se il Papa, se l'Imperatore
Sopportan che gli sia detto, Coglioni,
Del mio burlar non pigliate dolore;
E se 'l pigliate pur, Dio ve 'l perdoni.
Anch'io vuò la mia parte de l'honore.
Son gentil'huomo, atto a donar de doni.
Venni, e subiai per farvi riverenza,
Ma dal balcon mi fu data licenza.

La nostra Signoria con gratia degna,
E il Prencipe ciascun, che parlar vede,
Ode con modo e gentilezza degna,
E grand'è pur la Venetiana sede.
Ma vostra Altezza, per portar l'insegna
Delle puttane, esser maggior si crede
Che non è di San Marco il campanile;
Pure dato vi fu il Trent'un gentile.

IL FINE.



Trentone (gergalmente e in senso dialetale anche trentuno) = Termine antico e gergale = "Atto sessuale ripetuto più volte e con amanti diversi, in particolare stupro collettivo di una donna da cui Trentuniere = "Chi prende parte ad uno stupro collettivo" = BATTAGLIA, XXI, p. 313.



Venier, Maffeo <1550-1586> Notizie: Poeta e drammaturgo, nato a Venezia nel 1550 e morto ivi nel 1586. Fu verseggiatore in vernacolo ed antipetrarchista. Fu arcivescovo di Corfù. - Nome su edizioni: Maffeo Veniero; Maffio Veniero arcivescovo di Corfù.
Secondo l'SBN risulta autore o curatore delle seguenti opere custodite nelle biblioteche italiane:
Tasso, Torquato, Delle rime del s. Torquato Tasso parte quarta e quinta. Nuouamente stampate, In Genoua : ad instanza di Antonio Orero, 1586.
Venier, Maffeo, Canzone del reurendiss. Maffeo Veniero, nella morte di alcune monache inglesi. , In Casalmaggiore : appresso Antonio Guerrino, e compagni, 1589.
Venier, Maffeo, Canzone dell'illustrissimo mons. Maffio Veniero arcivescovo di Corfù sopra il monte dell'Alvernia, dove s. Francesco ricevette le stimmate. , In Venetia : appresso i Gioliti, 1589.
Venier, Maffeo, Canzone spirituale sopra il monte dell'Auernia, oue s. Francesco hebbe le stimmate di monsignor Maffio Veniero arciuescouo di Corfu. , In Fiorenza : nella stamperia de'Giunti, 1585.
Venier, Maffeo, Hidalba tragedia del sig. Maffio Veniero. ... , In Bologna : appresso Gio. Battista Bellagamba : ad instantia di Simon Parlasca, 1597 (In Bologna : appresso Gio. Battista Bellagamba : ad instantia di Simon Parlasca, 1597).
Venier, Maffeo Hidalba tragedia del sig. Maffio Veniero, In Venetia : appresso Andrea Muschio, 1596
[di quest'opera alla
C.B.A. su conserva un'edizione veneziana del 1623 per i tipi di Giorgio Valentini]





Venier, Lorenzo , Filosofo veneto, morto a Venezia nel 1527. Fu politico, avvocato, podestà e capitano a Rovigo - Nome su edizioni: Laurentius Venerius.Conclusiones disputande Rome per Laurentium Venerium filium olim clarissimi domini Marini sancti Marci procuratoris [1504?] - [60] c. ; 4. - Got.; rom. - Il v. dell'ultima c. e' bianco - Iniziali orn. xil. - La data presunta di pubblicazione si ricava da: E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, v. 4 p. 447 - Nel titolo ci sono dei segni di abbreviazione - Segn.: A6 B-N4 O6. - Impronta - i.a. s:is n-i: pepe (C) 1504 (Q) - Lingua di pubblicazione: lat. - Localizzazioni: Biblioteca Querini Stampalia - Venezia
In effetti si dedicò pure, nascostamente alla letteratura erotica scrivendo la Puttana Errante e La Zaffetta in cui, a scapito dell'Aretino cui erano state attribuite,
rivendica argutamente la paternità delle due oscene composizioni: l'opera da leggere con senso critico e da un pubblico non solo adulto ma preparato e qui leggibile integralmente trascritta e multimedializzata