DA RACCOLTA PRIVATA
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Nello Scudo di Rinaldo II come si legge a partire dal paragrafo 1 di questo mio saggio (ultime 5 righe) Aprosio inizia una dissertazione contro ogni forma di oscenità in pittura (e scultura) seguendo un discorso che rifugge decisamente dalla lassitudine dello Scudo di Rinaldo I e semmai, con il fare censorio della seconda parte della sua esistenza, si pone in sintonia con le postulazioni della
Grillaia: è persino inutile ribadire quante concause, non ultima il suo ruolo di vicario dell'Inquisizione, abbiano contribuito a siffatto cambiamento di rotta.
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Ed al proposito colpisce quanto il frate scrive dalla linea 4 di p. 449 adducendo molti meriti intellettuali ad una satira, invero datata ma che parzialmente riporta, del Vescovo Lorenzo Azzolini.
Lo scritto si propone alla stregua di una fustigazione avverso le oscenità nelle arti figurative.
Aprosio, titolare di una pinacoteca, mira a dare ogni adesione personale, sia come uomo probabilmente demotivato da certi eccessi nell'aggredire l'ostentata sensualità sia come censore ecclesiastico, alle conclusioni di una lunga disputa teologica in merito al cui vertice pone il carisma del gesuita Giovanni Rho.
L'agostiniano intemelio si sofferma comunque a discorrere soprattutto di dipinti profani congedando sulla scorta dell'Azzolini la riprovazione di possibili trasgressioni nella pittura delle chiese esaltandone la valenza, artistica in quanto anche sostenuta da vigoria morale, lasciandosi andare a celebrare due figurazioni del Cristo (una delle quali direttamente riguardante il suo più celebre ritratto appunto dovuto all'interlocutore).
Le ragioni di questo inciso possono esser molteplici, anche connesse magari a quei messaggi anche profani probabilmente veicolati dal gran suo quadro or ora qui citato, probabile figlio della sua terrena vanità: a mio opinabilissimo parere l'Aprosio che ha raccolto una pinacoteca di ritratti e, che cerca con qualche titubanza, di celebrare alcune opere pittoriche sacre della sua Ventimiglia cerca vieppiù d'uniformarsi alla normativa religiosa sulle pitture sacre cercando parimenti di deprimere qualche diceria sulla sua antica frequentazione di botteghe pittoriche non aliene da produzione poco convenevoli.
Una cosa è certa, come si evince dalla lettura del sommario della voce
IMAGINES nella posteriore BIBLIOTHECA CANONICA, JURIDICA... di L. Ferraris: attraverso tutto il XVII secolo si assiste ad un irrigidimento verso ogni forma di rappresentazione estranea a precisi parametri più devozionali e teologici che estetici, una casistica cui Aprosio, come religioso e censore ecclesiastico, deve uniformarsi.
Scorrendo quanto scritto dal Ferraris si evince come a monte della pittura sacra si sia sviluppata una ragnatela di condizionamenti da rispettare e far rispettare, senza le gloriose licenze già permesse dal Rinascimento.
Tutto risulta meditato e prefigurato, secondo postulazioni che diventano normativa inviolabile e che possono qui proporsi ed in cui di frequente ad un'asserzione segue una revisione e poi ancora un ripensamento.
Assodato che per IMAGINES si intendono DIPINTI DI VARIA TECNICA e/o SCULTURE assolutamente distinte da IDOLI, poichè questi raffigurano irrealtà cioè CHIMERE si propone subito la RAPPRESENTAZIONE DELLE SPECIFICHE PERSONE DELLA SANTISSIMA TRINITA': e il tutto nel rispetto della storia, venerando l'immagine non per qualche intrinseco potere come gli IDOLI ma come un viatico di comunicazione con le forme usuali con cui Dio si manifestò agli uomini (condannata risulta per esempio un'improbabile RAPPRESENTAZIONE DELLA TRINITA' POI FATTA DARE ALLE FIAMME DA PAPA URBANO VIII).
E così via, sempre nel rispetto delle Sacre Scritture e degli interpreti, assolutamente adeguandosi alla tipologia delle figurazioni tramandate, neppure violandone la fioggia degli abiti né attribuendo connotati impropri a Beati non acora fatti Santi, soprattutto rifuggendo da IMMAGINI SACRE CAPACI DI SUSCITARE EMOZIONI E SENSAZIONI DI LASCIVIA O SISTEMATE NELLE CHIESE SENZA IL CONSENSO DEI PARROCI.