Americo Vespucci nacque a Firenze il 9 marzo 1454, morì a Siviglia il 22 febbraio 1512.
LETTERA DI AMERIGO VESPUCCI
Magnifice Domine.
L'anno del Signore 1497 ai 10 di Maggio come di sopra dissi, partimmo dal porto di Calis [Cadice] quattro navi di conserva, e cominciammo nostra navigazione diritti alle Isole Fortunate che oggi si dicono della Gran Canaria, che sono situate nel mare Oceano, nel fine dello occidente abitato, poste nel terzo clima, sopra le quali si alza il polo del settentrione fuora del loro orizonte 27 gradi e mezzo, e distanno da questa città di Lisbona [dove fu scritto il presente Opuscolo: queste si legge nel Giuntini] 280 leghe per il vento infra mezzodì e libeccio; dove ci trattenemmo otto dì, provvedendoci d'acqua e legne e di altre cose necessarie.
[SECONDO VIAGGIO Quanto al secondo Viaggio e a quello, che in esso viddi più degno di memoria, è quello che quì segue.
[TERZO VIAGGIO Standomi di poi in Sibilia [Siviglia], riposandomi di tanti miei travagli, che in questi due viaggi fatti per il Serenissimo Re Fernando di castiglia nell'Indie Occidentali [queste parole son del Ramusio] avevo passati, e con volontà di tornare alla terra delle perle: quando la fortuna non contenta de' travagli, che non so come venisse in mente a questo Serenissimo re Don Manovello di Portogallo il volersi servire di me: e stando in Sibilia [Siviglia] fuori d'ogni pensamento di venire in Portogallo, mi venne un messaggiero con lettera di sua Real Corona, che mi pregava che io venissi a Lisbona a parlare con sua Altezza, promettendo farmi favore.
[QUARTO VIAGGIO Restami di dire le cose per me viste nel quarto Viaggio o Giornata; e per lo essere già straccato, et etiamo perchè questo quarto viaggio non si fornì secondo che io portavo il proposito (per una disgrazia che ci accadde nel golfo del mare Atlantico, come nel processo sotto brevità intenderà Vostra Magnificenza) m'ingegnerò d'essere breve.
In merito a questo scritto del vespucci annota il geografo Marmocchi, nella sua cura della trascrizione entro il testo da lui stesso intitolato Preambulo:
Era figlio di Anastasio e di Isabella Mini, di famiglia nobile.
Fu cosmografo ed esploratore al servizio del Portogallo e della Spagna, però prima era stato impiegato di Giannotto Berardi, il quale dirigeva a Siviglia la succursale dei banchieri italiani de' Medici.
Morto Berardi, nel 1495, diresse la succursale e allestì le navi per il secondo viaggio di Colombo, del quale fu sempre amico.
Nel 1499, come pilota d'Alfonso de Ojeda, giunse in Venezuela e in Colombia.
Forse fu lui che chiamò quella prima terra 'Venezuela', o piccola Venezia, dato che gli indigeni di Maracaibo costruivano le loro case nell'acqua.
In altri due viaggi arrivò in Brasile, costeggiando buona parte del Sudamerica, e fondando la prima fattoria portoghese.
Si naturalizzò spagnolo nel 1505, sposò María Cerezo; nello stesso anno il re Fernando lo nominò pilota maggiore.
La figura di Amerigo Vespucci è molto controversa, a causa delle sue lettere la cui autenticità è stata sovente messa in discussione: la Mundus Novus ("Nuovo Mondo") e la Lettera (o "Il quarto viaggio").
Alcuni sostengono che Vespucci abbia esagerato il suo ruolo e romanzato gli avvenimenti, altri che abbia contraffatto gli originali di altri viaggiatori dell'epoca.
In ogni caso fu la rapida diffusione delle lettere circolate a suo nome che indussero il cartografo Martin Waldseemüller a usare il genere femminile (America) del suo nome latinizzato (Americus Vespucius), per indicare il nuovo continente in una carta del mondo disegnata nel 1507 , contenuta nella Cosmographiae Introductio.
L'idea di Waldseemüller era che l'appellativo si riferisse all'attuale America meridionale, cioè alle terre toccate da Cristoforo Colombo e da Vespucci.
Le due lettere contestate parlano di quattro viaggi in America.
Le verifiche condotte a partire da fonti alternative ne confermano solo tre molti storici sono concordi nel ritenere che Vespucci non compì nessun viaggio nel 1497 (che secondo l'autore delle lettere sarebbe iniziato il 10 maggio dello stesso anno da Cadice ).
DELLE ISOLE NUOVAMENTE TROVATE IN QUATTRO SUOI VIAGGI
A PIERO SODERINI
GONFALONIERE DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE
[INDICE MODERNO
-DEDICATORIA AL SODERINI
-PRIMO VIAGGIO
-SECONDO VIAGGIO
-TERZO VIAGGIO
-QUARTO VIAGGIO
Dopo della umile reverenza e debite raccomandazioni, ec. potrà essere, che la Magnificenza Vostra e la usata vostra saviezza si maraviglieranno della mia temerità, che tanto assurdamente io mi muova a scrivere a Vostra Magnificenza la presente lettera tanto prolissa: sapendo, che di continuo Vostra Magnificenza sta occupata negli alti consigli e negosi sopra il buon reggimento di cotesta eccelsa Repubblica. E mi terrà non solo per presuntuoso, ed eziandio per ozioso in pormi a scrivere cose non convenienti al vostro stato nè dilettevoli, e con barbaro stile e fuori d'ogni ordine d'umanità, scritte nominatamente altre volte a Fernando re di Castiglia: ma la confidenza mia che tengo nelle vostre virtù e nella verità del mio scrivere (che son cose non si trovano scritte nè per li antichi nè per i moderni scrittori, come nel processo conoscerà Vostra Magnificenza) mi fa avere ardire.
La causa principale, che mosse a scrivervi, fu per la preghiera del presente apportatore, che si dice benvenuto Benvenuti nostro Fiorentino, molto servitore, secondo che si dimostra, di Vostra Magnificenza, e molto amico mio: il quale trovandosi qui in questa città di Lisbona, mi pregò che io facessi parte a Vostra magnificenza delle cose per me viste in diverse plaghe del mondo per virtù di quattro viaggi, che ho fatti in discoprire nuove terre (e due per comando del Re di Castiglia Don Ferrando VI, per il gran golfo del mare Oceano verso l'occidente; e l'altre due per mandato del poderoso Don Manovello, Re di Portogallo, verso l'austro): dicendomi, che Vostra Magnificenza ne piglierebbe piacere, e che in questo sperava gradimento; il perchè mi disposi a farlo; perché mi rendo conto che Vostra Magnificenza mi tiene nel numero de suoi servidori, ricordandomi come, nel tempo della nostra gioventù, vi ero amico, ora servidore, andando a udire i principi di grammatica sotto la buona vita e dottrina del venerabile religioso frate di San marco, fra Giorgio Antonio Vespucci, mio zio; i consigli e dottrina del quale piacesse a Dio che io avessi seguito, che, come dice il Petrarca: Io sarei altro uomo da quel che io sono .
Comunque sia, non mi dolgo; perchè sempre mi sono dilettato in cose virtuose; e ancora che queste mie frivoleZZe non siano convenienti alle virtù vostre, vi dirò, come disse Plinio a Mecenate [voleva dir Catullo a Cornelio Nipote]: Voi solevate in alcun tempo pigliare piacere delle mie ciancie. Ancora che Vostra Magnificenza stia del continuo occupata ne' pubblci negozi, alcuna ora piglierete di riposo per consumare un poco di tempo nelle cose ridicole o dilettevoli; e come il finocchio si costuma dare in cima alle dilettevoli vivande per disporle a miglior digestione, così potrete per discanso di tante vostre occupazioni comandare che vi siano lette queste mie lettere, perchè vi distolgano alcun poco dalla continua cura e assiduo pensamento delle cose pubbliche: e se sarò prolisso, scusatemi Magnifico Signor mio.
Vostra magnificenza saprà, come il motivo della venuta mia in questo Regno di Spagna fu per trafficare mercatanzie, e come seguissi in questo proposito circa di quattro anni [questi quattro anni incirca possono contarsi o dal 1490 al 1493, anno in cui Amerigo navigò col Colombo V. la Diss. Gius. Quest. I, o dal 1493 al 1497, quando egli cominciò le sue proprie navigazioni V. Ivi Quest. VII]: ne' quali viddi e conobbi i disvariati momenti della fortuna, e come promutava questi beni caduchi e transitori, e come un tempo tiene l'uomo nella sommità della ruota; e in altro tempo lo ributta da se, e lo priva de' beni si possono dir imprestati; di modo che ho conosciuto il continuo travaglio che l'uomo pone in acqustarli con sottomettersi a tanti disagi e pericoli, deliberai ritirarmi dalla mecatura e porre il mio fine in cosa più laudabile e ferma: che fu, che mi disposi di andare a vedere parte del mondo e le sue maraviglie.
E a questo mi si offerse luogo e tempo molto opportuno; che fu, che il Re Don Ferrando di Castiglia, avendo a mandare quattro navi a discoprire nuove terre verso l'occidente, fui eletto per Sua Altezza che io fussi in essa flotta per aiutare a discoprire.
Partimmo dal porto di Calis [Cadice] a dì 10 [il Giuntini scrive 20: ma l'antica lezione è buona egualmente] di Maggio 1497 e pigliammo nostro cammino per il gran golfo del mare Oceano; nel qual viaggio stemmo 18 mesi [il Giuntini scrive 17, come esige la partenza ai 10 Maggio 1497 e il ritorno al 15 Ottobre 1498. Or poichè il Giuntini lesse 20 Maggio e 25 Ottobre, sembra potersi inferire che il primo Traduttore di questo Viaggio prese dal suo MS: la cifra 2 per la cifra 1], e discoprimmo molta terra ferma e infinite isole (e gran parte di esse abitate), che dalli antichi scrittori non se ne parla di esse, credo perché non ne ebbono notizia; che se ben mi ricordo, in alcuno ho letto che teneva, che questo mare Oceano era mare senza gente; e di questa opinione fu dante, nostro poeta, nel XXVI capitolo dell'Inferno, dove finge la morte di Ulisse: nel qual viaggio vidi cose di molta maraviglia, come intenderà Vostra Magnificenza.
E di quì, fatte nostre orazioni, ci levammo e demmo le vele al vento, cominciando nostre navigazioni pel ponente, pigliando
Buttammo fuori nostri battelli, e calcati di gente e d'armi, fummo alla volta della terra: e prima che giugnessimo ad essa, avemmo vista di molte genti che andavano a lungo della spiaggia, di che ci rallegrammo molto, e la trovammo essere gente ignuda.
Mostrarono aver paura di noi, credo perchè ci vider vestiti e d'altra statura: tutti si ritrasseno ad un monte e con quanti segnali facemmo loro di pace e di amistà, non vollon venire a ragionamento con esso noi; di modo che già venendo la notte, e perchè le navi stavano surte in luogo pericoloso per stare in costa brava e senza difesa, risolvemmo l'altro giorno di levarci di quì, e andare a cercare d'alcun porto o seno, dove assicurassimo nostre navi.
E navigammo per il maestrale, che così correva la costa [maniera di dire assai frequente in questa Relazione, e più Spagnuola che Italiana: noi diciamo correr la fortuna il rischio ec., ma forse non si direbbe con Amerigo correr la costa, prolungar l'Isola, prolungar la terra ec. che vuol dire andar lungo la costa, l'Isola, la terra ec.] sempre a vista di terra, di continuo viaggio vedendo gente per la Spiaggia: tanto che, dipoi navigato due giorni, trovammo assai sicuro luogo per le navi, e ancorammo a mezza lega di terra, dove vedemmo moltissima gente; e questo giorno medesimo fummo a terra co' battelli, e saltammo in essa ben 40 uomini bene a ordine: e le genti di terra tuttavia si mostravano schifi di nostra conversazione, e non potevamo tanto assicurarli che venissero a parlar con noi; e questo giorno tanto travagliammo con dar loro delle cose nostre, come furono sonagli, specchi, cento palline e altre frasche, che alcuni di loro si assicurarono e vennero a trattare con noi; e fatto con loro buona amistà, venendo la notte, ci licenziammo da loro e tornammo alle navi: e l'altro giorno, come escì fuori l'alba, vedemmo che alla spiaggia stavano infinite genti e avevano con loro le loro donne e figliuoli.
Fummo a terra, e trovammo che tutte venivano caricate di loro mantenimenti, che son tali quali in suo luogo si dirà: e prima che giugnessimo in terra, molti di loro si gittorono a nuoto e ci vennero a ricevere un tiro di balestra nel mare (che sono grandissimi notatori) con tanta sicurtà come se avessino con esso noi trattato lungo tempo; e di questa loro sicurtà pigliammo piacere.
Quanto di lor vita e costumi conoscemmo, fu, che del tutto vanno ignudi sì gli uomini come le donne, senza coprire vergogna nessuna, non altrimenti che come usciron del ventre di lor madri.
Sono di mezzana statura, molto ben proporzionati.
Le lor carni sono di colore che pende in rosso, come pelo di lione; e credo che se eglino andassero vestiti, sarebbon bianchi come noi.
Non hanno pel corpo pelo alcuno, salvo lunghi capelli e neri, perchè hanno il viso largo, che voglion parere al tartaro [espressione Toscana quasi antiquata, che significa: quasi pajono Tartari. Ved. Vocab. della Crusca V. Volere § III; e ciò può dar lume a chi studia sulla prima origine degli Americani].
Non si lasciano crescere pelo nessuno nelle ciglia nè nelle palpebre nè in altra parte, salvo che in quelli del capo: chè tengono i peli per brutta cosa.
Sono molto leggieri delle loro persone nello andare e nel correre sì li uomini come le donne; che non fa stima una donna correre una lega o due, che molte volte le vedemmo, e in questo ponno moltissimo più di noi cristiani.
Nuotano fuora d'ogni credere, e meglio le donne che gli uomini; perchè li abbiamo trovati e visti molte volte due leghe dentro in mare, senza appoggio alcuno, andare notando.
Le loro armi sono archi e saette molto ben fabricati, salvo che non hanno ferro nè altro genere di metallo forte; e in luogo del ferro pongono denti di animali e di pesci, o un fuscello di legno forte, arsicciato nella punta.
Sono tiratori certi, che dove vogliono, danno; e in alcuna parte usano questi archi le donne: hanno anche altre arme, come lance tostate, e altri bastoni con capocchie benissimo lavorati.
Usano di guerra infra loro con gente che non sono di lor lingua, molto crudelmente senza perdonare la vita a nessuno se non per maggior pena.
Quando vanno alla guerra menan con loro le proprie deonne non perchperchè guerreggino ma perchè portino lor dietro il mantenimento: ed una donna porta addosso una carica, che non la porterebbe un uomo, trenta o quaranta leghe, che molte volte le vedemmo.
Non costumano capitano alcuno nè vanno con ordine, chè ognuno è signore di se; e la causa delle lor guerre non è per cupidità di regnare, nè di allargare i termini loro, nè per cupidigia disordinata, salvo che per una antica inimistà che per i tempi passati è surta infra loro: e domandati perché guerreggiavano, non ci sapevono dare altra ragione se non che la facevon per vendicare la morte de' loro antepassati e de' loro padri.
Questi non hanno nè re nè signore, nè ubbidiscono ad alcuno, ma vivono in lor propria libertà; e come si muovono per ire alla guerra,è, che quando i nemici hanno morto o preso alcuni di loro, si leva il suo parente più vecchio e va predicando per le strade che vadin con lui a vendicare la morte di quel tal parente suo, e così si muovono per compassione.
Non usano giustizia nè castigano il malfattore; nè il padre nè la madre non castigano i figliuoli; e per maraviglia o non mai vedemmo far questione infra loro.
Mostransi semplici nel parlare, e sono molto maliziosi e acuti in quello che loro torna conto.
Parlano poco e con bassa voce.
Usano i medesimi accenti come noi, perchè formano le parole o nel palato o nei denti o nelle labbra, salvo che usano altri nomi alle cose.
Molte sono le diversità delle lingue, che di cento in cento leghe trovammo mutamento di lingua, che non s'intendano l'una con l'altra.
Il modo del viver loro è molto barbaro; perchè non mangiano a ore certe ma tante volte quanto vogliono, ed è per essi indifferente che la voglia venga loro più a mezza notte che di giorno, che a tutte ore mangiano; e il lor mangiare è nel suolo senza tovaglia o altro panno alcuno, perchè tengono le lor vivande o in bacini di terra che essi fanno, o in mezze zucche.
Dormono in certe reti fatte di bambacia, molto grandi, sospese nella'aria: e ancora che questo lor dormire paia male, dico ch'è dolce dormire in esse, e meglio dormivamo in esse che nelle materasse.
Son gente pulita e netta de' lor corpi, per tanto continovo lavarsi come fanno: quando vuotano, con riverenze, il ventre, fanno ogni cosa per non essere veduti, e tanto quanto in questo, sono netti e schifi.
Nel fare acqua sono altrettanto sporci e senza vergogna; perchè stando parlando con noi, senza volgersi o vergognarsi, lasciano ire tal bruttezza, che in questo non hanno vergogna alcuna.
Non usano infra loro matrimoni; ciascuno piglia quante donne vuole; e quando le vuole repudiare, le repudia, senza che gli sia tenuto ad ingiuria, o alla donna vergogna: che in questo tanta libertà tiene la donna quanto l'uomo.
Non sono molto gelosi e fuori di misura lussuriosi; e molto più le donne che gli uomini, che si lascia per onestà dirvi l'artificio che le fanno per contentar loro disordinata lussuria.
Sono donne molto generative, e nelle loro pregnezze non ricusano travaglio alcuno; i loro parti son tanto leggieri, che partorito d'un dì, vanno fuora per tutto e massime a lavarsi a fiumi, e stanno sane come pesci.
Sono tanto disonorate e crude, che se si adirano co' loro mariti, subito fanno un artificio con che s'ammazzano la creatura nel ventre e si sconciano, e a questa cagione ammazzano infinite creature.
Son donne di gentil corpo, molto ben proporzionate chè non si vede ne' loro corpi cosa o membro mal fatto; e ancora che del tutto vadano ignude, sono donne in carne e della vergogna loro non si vede quella parte che può imaginare chi non l'ha vedute; che tutto cuoprono con le cosce, salvo quella parte a che natura non provvide, che è, onestamente parlando, il pettignone.
In conclusione non hanno vergogna delle lor vergogne, non altrimenti che noi non abbiamo di mostrare il naso e la bocca.
E' raro vedere le poppe cadute ad una donna, o per molto partorire il ventre caduto o altre grinze; che tutte paion che mai abbiano partorito.
Mostravansi molto desiderose di congiungersi con noi Cristiani.
In questa gente non conoscemmo che si facesse stima di legge alcuna, nè si posson dire Mori nè Giudei, e peggio che Gentili, perchè non vedemmo che facessino sacrificio alcuno, e neppure non avevano casa di orazione, onde la lor vita giudico esser Epicurea.
le loro abitazioni sono in comunità, e le loro case fatte ad uso di capanne [Giuntini ed altri lessero campane: sembra che abbia letto campane anche Errera, che copia il Viaggio: Hist. Gen. des. Voy., T. XLV, p. 248] ma fortemente fatte, e fabbricate con grandissimi arbori e coperte di foglie di palme, sicure delle tempeste e de' venti, e in alcuni luoghi, di tanta larghezza e lunghezza, che in una sola casa trovammo che stavano secento anime; e villaggi vedemmo solo di tredici case, dove stavano quattromila anime.
Di otto in dieci anni mutano i villaggi; e domandato perchè lo facevano, dissero per causa del suolo che di già per sudicezza era infetto e corrotto e che causava infermità ne' corpi loro; che ci parve buona ragione.
Le loro ricchezze sono penne di uccelli di più colori o pater nostrini che fanno d'ossi di pesci, o di pietre bianche o verdi, le quali si mettono per le gote e per le labbra e orecchie, e d'altre molte cose che noi in cosa alcuna non le stimiamo.
Non usano commerzio, nè comperano, nè vendono; in coclusione vivono e si contentano con quello che dà loro Natura.
Le ricchezze, che in questa nostra Europa e in altre parte usiamo, come oro, gioie, perle e altre divizie, non le tengono in conto nessuno, e ancora che nelle loro terre l'abbino, non travagliano per averle, nè le stimano.
Sono liberali nel dare, che è difficile vi neghino cosa alcuna, e per contrario liberi nel domandare.
Quando si mostrano vostri amici, per il maggior segno di amistà che vi dimostrano, è, che vi danno le donne loro e le loro figliuole, e si tiene per grandemente onorato quando un padre o una madre conducendovi una sua figliuola, ancora che sia giovanetta, dormiate con lei; e in questo usano ogni termine di amistà.
Quando muoiono, usano vari modi di esequie; e alcuni li seppelliscono con acqua e lor vivande al capo, pensando che abbiano a mangiare; non hanno nè usano cerimonie di lumi, nè di piangere.
Il alcuni altri luoghi usano il più barbaro e inumano seppellimento, che è, quando uno dolente o infermo sta quasi che nello ultimo passo della morte, i suoi parenti lo menano in un grande bosco, e attaccano una di quelle loro reti dove dormono, a due arbori, e dipoi lo mettono in essa e gli danzano intorno tutto un giorno, e venendo la notte, gli pongono al capezzale acqua con altre vivande che si possa mantenere quattro o sei giorni; e dipoi lo lasciano solo e tornansi alla popolazione; e se lo infermo si aiuta per se medesimo e mangia e beve, e viva e si torni alla popolazione, lo ricevono i suoi con cirimonia; ma pochi sono quelli che scampano, senza che più visitati, si muoiono, e quella è la loro sepoltura: e altri molti costumi hanno che per prolissità non si dicono.
Usanonelle loro infermitadi vari modi di medicine tanto differenti dalle nostre, che ci maravigliavamo. come alcuno scampava; che molte volte viddi che ad uno infermo di febbre, quando la era in augmento, lo bagnavano con molta acqua fredda dal capo ai pié; dipoi gli facevano un gran fuoco attorno, facendolo volgere e rivolgere altre due ore, tanto che lo straccavano e lo lasciavano dormire, e molti sanavano: con questo usano molto la dieta, che stanno tre dì senza mangiare; e così il cavarsi sangue, ma non del braccio, bensì delle cosce e de' lombi e delle polpe delle gambe.
Parimente provocano il vomito con loro erbe che si mettono nella bocca, e molti altri rimedii usano che sarebbe lungo a contargli.
Peccano molto nella flemma e nel sangue a causa delle loro vivande, che il forte sono radici di erbe e frutte e pesci: non hanno semente di grano nè d'altre biade, e al loro comune e mangiare usano una radice di una arbore, della quale fanno farina, ed è assai buona e la chiamano Kuca, e altre che le chiamano Cazabì e altre Ignamì [Linneo chiama questa pianta (Igname) Dioscorea oppositi folia, la cui radice si mangia o tagliata a pezzi e arrostita sotto la brace, ovvero, quando è di mediocre grossezza, si fa bollire, e serve qualche volta anche a farne del pane: Cook, T. I, p.92].
mangian poca carne, salvo che carne di uomo; che saprà vostra Magnificenza, che in questo sono tanto inumani, che trapassano ogni bestial costume; perchè si mangiano tutti i loro nimici che ammazzano o pigliano, sì femmine come maschi, con tanta efferità, che a dirlo pare cosa brutta; quanto più a vederlo? come mi accadde infinitissime volte e in molte parti vederlo: e si maravigliarono udendo dire a noi, che non ci mangiamo i nostri nimici; e questo credalo per certo Vostra Magnificenza.
Son tanti gli altri loro barbari costumi, che il fatto al dire vien meno: e perchè in questo quattro viaggi ho visto tante cose varie a' nostri costumi, mi disposi a scrivere uno zibaldone che chiamo QUATTRO GIORNATE (nel quale ho raccontato la maggior parte delle cose che io viddi, assai distintamente secondo mi ha portato il mio debole ingegno), il quale ancora non ho pubblicato, perchè sono di tanto mal gusto delle cose mie medesime, che non sento sapore in esse che ho scritto, ancora molti mi confortino a publicarlo: in esso si vedrà ogni cosa per minuto, ma non mi allargherò di più in questo capitolo; perchè nel processo della lettera verremo a molte altre cose che sono particolari; questo basti quanto allo universale.
In questo principio non vedemmo cosa di molta utilità nella terra, salvo alcuno indizio d'oro; credo che lo causava perchè non spevamo la lingua, che in quanto al sito e disposizione della terra non si può migliorare.
Risolvemmo di partirci e andare più innanzi, costeggiando di continuo la terra, nella quale facemmo molte scale, e avemmo ragionamenti con molta gente; e a l fine di certi giorni, fummo a tenere uno porto dove corremmo grandissimo pericolo, e piacque allo Spirito Santo salvarci, e fu in questo modo.
Fummo a terra in un porto, dove trovammo una popolazione fondata sopra l'acqua come a Venezia; erano circa quarantaquattro case ad uso di capanne, fondate sopra pali grossissimi, e tenevano le loro porte o entrate di case ad uso di ponti levatoi, e d'una casa si poteva correre per tutte, a causa de' ponti levatoi che gittavano di casa in casa; e come le genti di esse ci videro, mostrarono avere paura di noi e di subito alzarono tutti i ponti.
E stando a osservare questa maraviglia, vedemmo venire per il mare circa 22 canoe (che sono maniera di loro navili fabricati d'un solo arbore) le quali vennero alle volte de' nostri battelli, e come si maravigliassero gl'Indiani di nostre effigie e abiti, le tenner larghe da noi.
E stando così, facemmo loro segnali che venissero a noi, assicurandoli con ogni segno di amistà; e visto che non venivano, fummo a loro e non ci aspettarono, ma sì furono a terra e con cenni ci dissero, che aspettassimo e che subito tornerebbono; e furono dietro a un monte, e non tardarono molto: quando tornarono, menarono seco sedici fanciulle delle loro, e intrarono con esse nelle loro canoe e vennero a' battelli, e in ciaschedun battello ne misero quattro, che tanto ci maravigliammo di questo atto, quanto può pensare Vostra Magnificenza; e loro si misero con le loro canoe infra nostri battelli, venendo con noi parlando, dimodochè lo giudicammo segno di amistà.
E andando in questo, vedemmo venire molta gente notando per il mare, che venivano dalle case, e si appressavano a noi senza sospetto alcuno.
In questo si mostrarono alle porte delle case certe donne vecchie, dando grandissimi gridi e tirandosi i capelli, mostrando tristizia; per il che ci feciono sospettare, e ricorremmo ciascheduno all'arme: e in un subito le fanciulle che erano ne' battelli si gittarono in mare, e quelli delle canoe s'allontanarono da noi, e cominciarono con loro archi a saettarci, e quelli che veniano a nuoto ciascuno traeva una lancia di basso nell'acqua, più coperta che potevano: di modo che, conosciuto il tradimento, cominciammo non solo con loro a difenderci, ma aspramente a offendergli, e sconvolgemmo con li battelli molte delle loro almadie o canoe, che così le chiamano; facemmo strage, e tutti si gittarono a nuoto lasciando senza difesa le loro canoe con assai lor danno, e si furono nuotando a terra.
Morirono di loro circa 15 o 20 e molti restarono feriti, e de' nostri furono feriti cinque e tutti scamparono, grazia a Dio.
Pigliammo due delle fanciulle e tre uomini, e fummo alle lor case ed entrammo in esse, e in tutte altro non trovammo che due vecchie e uno infermo.
Togliemmo loro molte cose di poca valuta, e non volemmo ardere loro le case, perchè ci pareva carico di coscienza, e tornammo alli nostri battelli con cinque prigionieri e fummoci alle navi, e mettemmo a ciascuno de' presi un paio di ferri in piè, salvo che alle ragazze; e la notte vegnente si fuggirono le due fanciulle e uno degli uomini più sottilmente del mondo.
E l'altro giorno risolvemmo di uscire di questo porto e andare più innanzi.
Andando di continuo a lungo della costa, avemmo vista d'un'altra gente, che poteva star discosto da questa 80 leghe, e la trovammo molto differente di lingua e di costumi.
Stabilimmo di approdare e andammo con li battelli a terra, e vedemmo stare alla spiaggia grandissima gente, che potevano essere circa 4000 anime; e come fummo giunti a terra, non ci aspettarono, ma si missono a fuggire per i boschi abbandonando lor cose.
Saltammo in terra, e fummo per un cammino che andava al bosco, e in spazio d'un tiro di balestra trovammo le lor trabacche, dove avevano fatto grandissimi fuochi, e due stavano cocendo lor vivande e arrostendo di molti animali e pesci di varie sorte, dove vedemmo che arrostivano un certo animale che pareva un basilisco, salvo che non teneva ali, e nella apparenza era tanto brutto, che molto ci maravigliammo della sua fierezza.
Andammo così per le lor case ovvero trabacche, e trovammo molti di questi serpenti vivi, ed eran legati pe' piedi, e aveano una corda all'intorno del muso che non potevano aprire la bocca, come si fa a' cani corsi perché non mordino: erano di tanto fiero aspetto, che nessuno di noi ardiva di torne uno, pensando che eran velenosi.
Sono di grandezza di un cravetto e di lunghezza braccio uno e mezzo; hanno i piedi lunghi e grossi e armati con grosse unghie; hanno la pelle dura e sono di vari colori; il muso e faccia hanno di serpente, e dal naso si muove loro una cresta, come una sega, che passa loro per il mezzo delle schiene infino alla sommità della coda; in conclusione gli giudicammo serpi e venenosi; e se gli mangiavano [questo è il Serpente Tuana di cui si parla nel ramus. T.III, p.130, F e p. 131, A, B].
Trovammo che facevan pane di pesci piccoli che pigliavan dal mare, con dar prima loro un bollore, ammassarli e farne pasta di essi o pane, e gli arrostivano in sulla bracie; così gli mangiavano: provammolo e trovammo che era buono [Anche gli antichi Ictiofagi seccavano il pesce, ne facevan farina, e lo riducevano in pane; gli fu apprestata (a Nearco) una gran quantità di farina di pesci secchi...usano quelle genti il mangiar di pesci per cibo volgare, Tam. T. I, p. 271, B. Ai tempi nostri continua in quelle contrade lo stesso costume: in questo paese, scrive il barbosa, ....attendono molto al pescare, et pigliano di grandissimi pesci, li quali insolano...mangiano li pesci secchi, et anche li danno a mangiare alli cavalli, Ib., p. 295].
Avevano tante altre sorti di mangiari, e massime di frutte e radice, che sarebbe cosa lunga raccontarle per minuto.
E visto che la gente non rinveniva, risolvemmo non toccare nè torre loro cosa alcuna per per meglio assicurargli, e lasciammo loro nelle trabacche molte delle cose nostre in luogo che le potessino vedere, e tornammoci per la notte alle navi.
E l'altro giorno, come venne il dì, vedemmo alla spiaggia infinita gente, e fummo a terra: e ancora che di noi si mostrassero paurosi, tuttavolta si assicurarono a trattare con noi dandoci quanto loro domandavamo.
E mostrandosi molto amici nostri, ci dissero che queste erano le loro abitazioni, e che eran venuti quivi per fare pescheria, e ci pregarono che fussimo alle loro abitazioni e popolazioni, perchè ci volevano ricevere come amici, e si risolverono a tanta amistà a causa di due uomini che tenevamo con esso noi presi, perchè erano loro nimici; di modo che, vista tanta loro importunazione, fatto nostro consiglio, stabilimmo che 28 di noi Cristiani andassero con loro, bene a ordine e con fermo proposito, se necessario fusse, morire.
E dipoi che fummo stati qui quasi tre giorni, fummo con loro per terra dentro: e a tre leghe della spiaggia giungemmo ad un villaggio di assai gente e di poche case, perchè non eran più che nove; dove fummo ricevuti con tante e tante barbare cerimonie, che non basta la penna a scriverle, che furono con li balli e canti e pianti mescolati di allegrezza, e con molte vivande.
Qui stemmo la notte, dove ci offersono le loro donne, che non ci potevamo difendere da loro; e dopo essere stati qui la notte, e mezzo l'altro giorno, furono tanti i popoli che per maraviglia ci venivano a vedere, che erano senza numero; e li più vecchi ci pregavano che fussimo con loro ad altre popolazioni che erano più dentro in terra, mostrando di farci grandissimo onore; per onde decidemmo di andare, e non vi si può dire quanto onore ci feciono; e fummo in molti villaggi, tanto che stemmo nove giorni nel viaggio; di guisa che di già i nostri Cristiani che erano restati alle navi, nutrivano sospetto su di noi.
E stando 18 leghe dentro infra terra, deliberammo tornarcene alle navi; e al ritrono era tanta gente sì uomini come donne, che venner con noi infino al mare, che fu cosa mirabile; e se alcuni de' nostri si straccavano del cammino, ci portavano in loro reti molto riposatamente, e al passar de' fiumi, che sono molti e molto grandi con loro artificii ci passavano tanto sicuri, che non soffrivamo pericolo alcuno; e molti di loro venivano carichi delle cose che ci avevan date, che eran le lor reti per dormire, piumaggi molto ricchi, molti archi e frecce, infiniti pappagalli di vari colori: e altri portavano cpn loro carichi di loro mantenimenti e di animali: e per maggior maraviglia vi dirò, che per bene avventurato si teneva quello, che avendo a passare un'acqua, ci poteva portare addosso.
E giunti che fummo al mare, venuti li nostri battelli, entrammo in essi, ed era tanta la calca che loro facevano per entrare nelli battelli e venire a vedere le nostre navi, che ci maravigliavamo, e con li battelli menammo di essi quanti potemmo, e fummo alle navi; e tanti vennero a nuoto, che ci tenemmo per impacciati per vederci tanta gente nelle navi, che erano più di mille anime tutti nudi e senza arme; maravigliandosi delli nostri ordigni e artifici e grandezza delle navi: e con costoro ci accadde cosa ben da ridere, che fu, che risolvemmo di sparare alcune delle nostre artiglierie e quando venne fuori il tuono: la maggior parte di loro per paura si gittarono a nuoto, non altrimenti che si fanno li ranocchi che stanno alle prode, che vedendo cosa paurosa, si gittano nel pantano: tal fece quella gente; e quelli che rastarono sulle navi, stavano tanto timorosi che ce ne pentimmo di tal fatto; pure gli assicurammo con dire loro che con quelle armi ammazzavamo i nostri nimici.
E avendo riposato tutto il giorno nelle navi, dicemmo loro che se ne andassino, perchè volevamo partire la notte; e così si partirono da noi, e con molta amistà e amore se ne furono a terra.
In questa gente e in loro terra conobbi e viddi tanti de' loro costumi e lor modi di vivere, che non curo di allungarmi in essi; perchè sapra Vostra Magnificenza come in ciascuno delli miei viaggi ho notate le cose più maravigliose, e tutto ho ridotto in un volume in stilo di geografia, e le intitolo le QUATTRO GIORNATE: nella quale opera si contiene le cose per minuto; e per ancora non se n'è data fuora copia, perchè m'è necessario conferirla.
Questa terra è popolatissima, e di gente piena, e d'infiniti fiumi e animali, e pochi sono simili a' nostri, salvo lioni, lonze, cervi, porci, caprioli e daini, e questi ancora hanno alcuna difformità.
Non vi sono nè cavalli, nè muli, nè, con reverenza, asini, nè cani, nè di sorte alcuna bestiame pecorino nè vaccino; ma sono tanti gli altri animali, che vi si trovano ( e tutti sono selvatichi e di nessuno i paesani si servono per loro servizio) che non si posson contare.
Che diremo d'altri uccelli, che son tanti e di tante sorti e colori di penne, che è maraviglia vedergli?
La terra è molto amena e fruttuosa, piena di grandissime selve e boschi, e sempre sta verde che mai non perde foglia.
Le frutte son tante che sono fuora di numero, e difformi al tutto dalle nostre.
Questa terra sta dentro della torrida zona giustamente o sotto del parallelo, che descrive il tropico di Cancro, dove alza il polo dall'orizzonte 25 gradi, nel fine del secondo clima.
Vennerci a vedere molti popoli, e si maravigliavano delle nostre effigie e di nostra bianchezza, e ci domandarono donde venivamo, e davamo loro ad intendere che venivamo dal cielo, e che andavamo a vedere il mondo, e lo credevano.
In questa terra ponemmo Fonte di Battesimo e infinita gente si battezzò, e ci chiamavano in lor lingua Carabì, che vuol dire Uomini di gran Sapienza.
Partimmo di questo porto, e la provincia si dice Lariab, e navigammo a lungo della costa sempre a vista della terra tanto, che corremmo d'essa 870 leghe, tuttavia verso il maestrale, facendo per essa molte scale, e trattando con molta gente; e in molti luoghi comprammo oro, ma non molta quantità, che assai facemmo in discoprire la terra e di sapere che avevano oro.
Eravamo già stati tredici mesi nel viaggio, e di già i navili e gli ordegni erano molto consumati e gli uomini stanchi; risolvemmo di commune consiglio porre le nostre navi a monte, e rivolgerle per stopparle (che facevano molta acqua) e calefatarle e impeciarle di nuovo, e tronarcene per la volta di Spagna; e quando questo deliberammo, eravamo vicino ad un porto, il migliore del mondo, nel quale entrammo con le nostre navi; dove trovammo infinita gente la quale con molta amistà ci ricevè, e in terra facemmo un bastione con li nostri battelli e con tonelli e botte e nostre artiglierie, che giocavano per tutto; e discaricate e alleggiate nostre navi, le tirammo in terra e le racconciammo di tutto quello, che era necessario; e le genti di terra ci detter grandissimo aiuto, e di continuo ci provvedevano delle loro vivande (che in questo porto poche gustammo delle nostre) che ci feciono buon gioco, perchè avevamo il mantenimento per la tornata poco e tristo: dove stemmo 37 giorni, e andammo molte volte alle loro popolazioni, dove ci feciono grandissimo onore; e volendoci partire per nostro viaggio, ci feciono richiamo di come, certi tempi dell'anno, veniva per la via di mare in questa lor terra una gente molto crudele e loro nimica, e con tradimenti e con forza ammazzava molti di loro e se gli mangiava e alcuni facea schiavi e li portava presi alle sue case o terre, e che appena si potevano difendere da essa; facendoci segnali. che era gente d'isole, e poteva stare dentro in mare 100 leghe; e con tanta affezione ci dicevano questo, che lo credemmo loro e promettemmo loro di vendicargli di tanta ingiuria, e loro restarono molto allegri di questo e molti di loro si offersero di venir con esso noi; ma non li volemmo menare per molte cagioni, salvo che ne menammo sette, con condizione che si venisseno poi in canoè, perchè non ci volevamo obbligare a ricondurli a lor terra; e furono contenti, e così ci partimmo da queste gentilasciandoli molto amici nostri.
E riparate nostre navi, e navigando sette giorni alla volta del mare per il vento infra greco e levante, al capo delli sette giorni ci riscontrammo nelle isole, che eran molte, e alcune popolate e altre deserte; e approdammo ad una di esse (dove vedemmo molta gente)che la chiamavano Iti; e calcati i nostri battelli di buona gente e in ciascuno tre tiri di bombarde, fummo alla volta di terra, dove trovammo stare circa 400 uomini e molte donne e tutti ignudi come i passati.
Erano di buon corpo e ben parevano uomini bellicosi, perche erano armati di loro armi che sono archi, saette e lancie; e la maggior parte di loro avevano tavolaccine quadrate, e di modo se le ponevano, che non gl'impedivanoil trarre dell'arco; e come fummo a circa un tito d'arco da terra con li battelli, tutti saltarono nella acqua a tirarci saette e impedirci che non saltassimo in terra; e tutti erano dipinti i corpi loro di diversi colori e impiumati con penne; e ci dicevano le lingue [altra voce, che in questo significato è sconosciuta all'Italiano e allo Spagnuolo, sembra che qui voglia dire interpreti, turcimanni. Infatti ne dà la spiegazione il Ramusio, T. III, p. 152, B che dice: Il Capitan generale ordinò ad un Indiano...chiamato Giuliano, che era buona lingua o interpetre] che con noi erano, che quando così si mostravano dipinti e impiumati, davan segnale di voler combattere; e tanto perseverarono in contrastarci la terra, che fummo forzati a giocare con nostre artiglierie: e come sentirono il tuono e viddono de' loro cader morti alcuni, tutti si trassono alla terra; onde fatto nostro consiglio, decidemmo saltare in terra quarantadue di noi, e combatter con loro se ci aspettassero.
Così saltati in terra con nostre armi, loro si vennero a noi e combattemmo a circa d'un'ora, che poco potemmo più di loro, salvo che i nostri balestrieri e spingardieri ne amazzavano alcuno, e loro ferirono certi nostri: e questo era perchè non ci aspettavano nè al tiro di lancia nè di spada; e tanta forza ponemmo al fine, che venimmo al tiro delle spade; e come gustassino le nostre armi, si missono in fuga per monti e boschi, e ci lasciarono vincitori del campo con molti di loro morti e assai feriti; e per questo giorno non travagliammo altrimenti di dare loro dietro, perchè eramo molto affaticati, e ce ne tornammo alle navi con tanta allegrezza de' sette uomini che con noi eran venuti, che non capivano in loro.
E vendendo l'altro giorno, vedemmo venire per la terra un gran numero di gente, tuttavia con segnali di battaglia, sonando corni e altri vari strumenti che loro usano nelle guerre, e tutti dipinti e impiumati, che era cosa bene strana a vederli: il perchè tutte le navi fecion consiglio, e fu deliberato: poiché questa gente voleva con noi nimicizia, che fussimo a vederci con loro e di fare ogni cosa per farceli amici: in caso che non volessero questa nostra amistà, che gli trattassimo come nimici, e che quanti ne potessimo pigliare di loro, tutti fossero nostri schiavi.
E armatici, come meglior potevamo, fummo alla volta di terra e non ci impedirono il saltare in terra, credo per paura delle bombarde; e saltammo in terra 57 uomini in quattro squadre, ciascun capitano con la sua genete, e fummo alle mani con loro; e dopo una lunga battaglia, morti molti di loro, gli mettemmo in fuga, e seguimmo lor dietro fino a una borgata, avendo preso circa 250 di loro, e ardemmo la borgata e ce ne tornammo con vittoria e con 250 prigioni alle navi, lasciando di loro molti morti e feriti, e de' nostri non morì più che uno e 22 feriti, che tutti scamparono, Dio sia ringraziato.
Ordinammo nostra partita; e li sette uomini, che cinque ne eran feriti, presero una canoè dell'isola, e con sette prigioni che demmo loro, quattro uomini e tre donne, se ne tornarono a lor terra molto allegri, maravigliandosi delle nostre forze; e noi pure facemmo vela per Spagna con 222 prigioni schiavi, e giugnemmo nel porto di Calis [cadice] addì 15 di ottobre 1498, dove fummo ben ricevuti, e vendemmo nostri schiavi.
Questo è quello che mi accadde in questo mio primo viaggio di più notabile.
[fine del primo viaggio]
SEGUITO DELLA LETTERA
AL SODERINI]
Partimmo dal porto di Calis [Cadice] tre navi di conserva a dì 18 di maggio 1499, e cominciammo nostro cammino al diritto alle Isole del Capo Verde passando a vista della Isola di Gran Canaria; e tanto navigammo che fummo a vedere ad una isola che si dice l'Isola del Fuoco; e quì fatta nostra provvisione di acqua e di legne, pigliammo nostra navigazione per il libeccio, e in 44 giorni fummo ad approdare a una nuova terra, e la giudicammo essere terra ferma e continua con quella che di sopra si fa menzione, la quale è situata dentro della torrida zona e fuori della linea equinoziale dalla parte dello austro; sopra la quale alza il polo del meridione 5 gradi fuora d'ogni clima, e distà dalle dette isole per il vento libeccio, 500 leghe, e trovammo essere eguali i giorni con le notti, perchè fummo ad essa a dì 27 di giugno, quando il sole sta circa del tropico del Cancro; la qual terra trovammo essere tutta allagata e piena di grandissimi fiumi.
In questo principio non vedemmo gente alcuna; ancorammo le nostre navi, e buttammo fuori i nostri battelli; fummo con essi a terra, e come dico, la trovammo piena di grandissimi fiumi e allagata per i grandissimi fiumi che trovammo, e la assalimmo in molte parti per vedere se potessimo entrare per essa; e per le grandi acque che conducevano i fiumi, con quanto travaglio potemmo, non trovammo luogo che non fussi allagato.
vedemmo per i fiumi molti segnali di come la terra era popolata; e visto che per questa parte non ci potevamo entrare, risolvemmo tornarcene alle navi, e assalirla per altra parte; e salpammo nostre ancore, e navicammo infra levante e scirocco, costeggiando di continovo la terra, che così si correva, e in molte parti la assaltammo in spazio di 40 leghe, e tutto era tempo perduto.
Trovammo in questa costa che le correnti del mare erano di tanta forza, che non ci lasciavano navigare, e tutte correvano dallo scilocco al maestrale; di modo che, visto tanti inconvenienti per nostra navigazione, fatto nostro consiglio, stabilimmo rivolgere la navicazione alla parte del maestrale, e tanto navicammo a lungo della terra, che fummo a vedere un bellissimo porto, il quale era causato da una grande isola, che stava all'entrata, e dentro si faceva un grandissimo seno: e navicando per entrare in esso, prolungando la isola avemmo vista molta gente, e allegratici, vi dirizzammo nostre navi per ancorarle dove vedevamo la gente, che potevamo stare più al mare circa di quattro leghe.
E navicando in questo modo, avemmo vista d'una canoè che veniva con alto mare, nella quale era molta gente; e stabilimmo d'impadronircene, e facemmo la girata con nostre navi sopra essa con ordine che noi non la perdessimo; e navicando alla volta sua con fresco tempo, vedemmo che stavano fermi co' remi alzati, credo per maraviglia delle nostre navi.
E come videro, che noi ci andavamo appressando loro, messero i remi nell'acqua, e comnciarono a navicare alla volta di terra; e come in nostra compagnia veniva una carovella di 45 tonnelli, molto buona della vela, si pose a sopravvento della canoè, e quando le parve tempo d'arrivare sopra essa, allentò gli ordegni e venne alla volta sua e noi pure, e come la carovelletta pareggiava con lei e non la voleva investire, la passò, e poi rimase sotto vento; e come si videro a vantaggio, cominciarono a far forza co' remi per fuggire: e noi che trovammo i battelli per poppa già calcati di buona gente, pensammo che la piglierebbero, e travagliarono più di due ore; e infine se la carovelletta un'altra volta non tornava sopra essa la perdevamo.
E come si viddero stretti dalla carovella e dai battelli, tutti si gittarono al mare, che potevano essere 20 uomini, e distavano da terra circa 2 leghe; e seguendogli co' battelli, in tutto il giorno non ne potemmo pigliare più che due, che fu cosa ben fatta; gli altri tutti si furono a terra a salvamento, e nella canoè restarono 4 fanciulli, i quali non eran di lor generazione, che li traevano presi dall'altra terra, e li avevano castrati, chè tutti eran sanza membro virile e con la piaga fresca, di che molto ci maravigliammo; e messi nelle navi, ci dissero per segnali, che gli avevan castrati per mangiarseli, e sapemmo che costoro erano una gente, che si dicono Cannibali, molto efferati, che mangiano carne umana.
Fummo con le navi, menando con noi la canoè per poppa, alla volta di terra, e surgemmo a mezza lega; e come a terra vedessimo molta gente alla spiaggia, fummo co' battelli a terra, e conducemmo con esso noi i due uomini che pigliammo; e giunti in terra, tutta la gente si fuggì e si mise pe' boschi; e demmo la via ad uno degli uomini dandogli molti sonagli e dicendogli che dicesse che volevamo essere loro amici; il quale fece molto bene quello gli comandammo, e trasse seco tutte le genti, che potevano essere 400 uomini e molte donne, e tutti vennero senz'arme alcuna, dove stavamo con li battelli; e fatto con loro buona amistà, rendemmo loro l'altro preso, e mandammo alle navi per la loro canoè e la rendemmo loro.
Questa canoè era lunga 26 passi e larga due braccia e tutta di un solo arbore scavato e molto bene lavorata; e quando la ebbero condotta in un rio, e messala in luogo sicuro, tutti si fuggirono e non vollero più praticare con noi; che ci parve tutto barbaro atto, e gli giudicammo gente di poca fede e di mala condizione.
A costoro vedemmo alcun poco d'oro, che tenevano negli orecchi.
Partimmo di qui ed entrammo dentro nel seno di mare, dove trovammo tanta gente che fu maraviglia, con la quale facemmo in terra amistà, e fummo molti di noi con loro alle loro popolazioni molto sicuramente e ben ricevuti.
In questo luogo comprammo 150 perle (che ce le dettero per un sonaglio) e alcun poco d'oro che ce lo regalavano; e in questa terra trovammo che bevevano vino fatto di lor frutte e semente; ad uso di cervogia e bianco e vermiglio, e il migliore era detto di mirabolani, ed era molto buono, e mangiammo infiniti di essi che era il tempo loro; è molta buona frutta, saporosa al gusto e salutifera al corpo.
La terra è molto abbondosa de' loro mantenimenti, e la gente di buona conversazione e la più pacifica che abbiamo trovato infino a qui.
Stemmo in questo porto 17 giorni con molto piacere, e ogni giorno ci venivano a vedere nuovi popoli di dentro terra, maravigliandosi delle nostre effigie e bianchezza e de' nostri vestiti e arme, e della forma e grandezza delle navi.
Da questi visitatori avemmo nuove di come stava una gente più al ponente che loro; che erano loro nimici; che possedevano infinita copia di perle; e che quelle che ci mostravano, le avevano lor tolte nelle loro guerre; e ci dissero come le pescavano e in che modo nascevano, e li trovammo essere con verità, come udirà Vostra Magnificenza.
Partimmo di questo porto, e navicammo per la costa per la quale di continovo vedevamo fumate con gente alla spiaggia: e al capo di molti giorni fummo in un porto per racconciarvi una delle nostre navi che faceva molta acqua, dove trovammo essere molta gente, con la quale non potemmo nè per forza nè per amore aver conversazione alcuna; e quando andavamo a terra, ci vietava aspramente di sbarcare, e quando più non poteva si fuggiva per li boschi e non ci aspettava.
Conosciuti questi popoli tanto barbari ci partimmo di qui, e navicando avemmo vista di un'isola che distava nel mare 15 leghe da terra, e decidemmo di vedere se era popolata: trovammo in essa li più bestiali uomini e li più brutti che mai si vedesse, ed erano di questa sorte: aveano il gesto e viso brutti, e tutti tenevano le gote piene di dentro di un'erba verde che di continovo la rugumavano come bestie, che appena potevano parlare; e ciascuno teneva al collo due zucche secche, che l'una era piena di quella erba che tenevano in bocca e l'altra d'una farina bianca che pareva gesso in polvere; e di quando in quando con un fuso che avevano, immollandolo con la bocca, lo mettevano nella farina, dipoi se lo mettevano in bocca da tutte e due le bande delle gote, infarinandosi l'erba che tenevano in bocca, e questo facevano molto spesso: e maravigliati di tal cosa, non potevamo intendere questo secreto, nè a che fine così facevano [Quest'erba o era il Betel, o qualche foglia simile al betel, tanto stimato e di tanto uso nelle Indie Orientali; e la farina bianca come gesso erano nicchi d'ostriche calcinati: i Selvaggi l'adopravano appunto per dissetarsi (come poi se ne convinse il Vespucci), e l'impiegavano anche ad altri usi salubri. Si veda il Ramusio, T. I, p. 298 F, 329 D, 358 A e Cook T. I, p. 112 e 434, 436. Il Cacique e i principali non lasciavano di mettersi un'erba secca in bocca e qualche volta si mettevano una certa polvere. Ferdinando Colombo, p. 217].
Questa gente come ci viddero, vennero a noi tanto famigliarmente, come se avessimo avuto con loro amistà: andando con loro per la spiaggia parlando, e desiderosi di bere acqua fresca, ci feciono segni che non ne avevano, e offerivano invece di quella loro erba e farina ; di modo che stimammo per discrezione, che questa isola era povera d'acqua, e che per difendersi dalla sete tenevano quell'erba in bocca, e la farina per il medesimo fine.
Andammo per l'isola un dì e mezzo, senza che mai trovassimo acqua viva; e vedemmo, che l'acqua che bevevano era di rugiada, che cadeva di notte sopra certe foglie che parevano orecchi d'asino, ed empievansi d'acqua e di questa sola bevevano: era acqua ottima, e queste foglie non crescevano in molti luoghi.
Non avevano alcuna maniera di vivande nè radice come nella terra ferma, e la lor vita sostentavano con pesci che pigliavano nel mare, e di questi avevano grande abbondanza; ed erano grandissimi pescatori, e ci presentarono molte tortughe e molti gran pesci molto buoni; le lor donne non usavano tenere l'erba in bocca come gli uomini, ma tutte possedevano una zucca con acqua, e di di quella bevevano.
Non aveano villaggio nè di case nè di capanne, salvo che abitavano di basso in frascati, che li difendevano dal Sole e non dall'acqua, che credo poche volte vi pioveva in quell'Isola.
Quando stavano al mare pescando, tutti tenevano una foglia molto grande e di tal larghezza, che vi stavan di basso dentro all'ombra e la ficcavano in terra; e come il sole si volgeva, così volgevano la foglia e in questo modo si difendevano dal sole [La pianta che produce in Calicut il frutto Melapolanga, produce anche quattro o cinque foglie e ciascuna di queste copre un uomo dall'acqua e dal sole, Ramus, T. I, p.161, D. Anche il Conti parla delle foglie d'un albero che sono di lunghezza sei braccia e quasi altrettanto di larghezza...e nel tempo di pioggia si portano in capo per non si bagnare, dove che tre o quattro, distendendole, possono nel cammino star sotto coperti, Ib., p.339, C].
L'isola contiene molti animali di varie sorte, e bevono acqua di pantani.
E visto che non v'era nessuna cosa utile, ci partimmo e fummo ad un'altra isola, e trovammo che in essa abitava gente molto grande; fummo indi in terra per vedere se trovavamo acqua fresca, e non pensando che l'isola fusse popolata per non vedere gente: andando a lungo della spiaggia, vedemmo nella rena pedate di gente molto grandi, e giudicammo, se l'altre membra rispondessero alla misura, che sarebbono uomini grandissimi.
Giudicammo che l'isola per non essere piccola non poteva avere in se molta gente; e però andammo dentro per essa nove di noi, per vedere che gente era questa; e di poi che fummo iti per circa una lega, vedemmo in una valle cinque delle lor capanne che ci parevan disabitate, e fummo ad esse e trovammo solo cinque donne, due vecchie e tre fanciulle, di tanto alta statura che per maraviglia le guardavamo; e come ci viddero entrò loro tanta paura, che non ebbero animo a fuggire; e le due vecchie ci cominciarono con parole a convitare, portandoci molte cose da mangiare, e aducendoci in una capanna; ed erano di statura maggiori che uno grande uomo, che ben sarebbon grandi di corpo come fu Francesco degli Albizzi, ma di miglior proporzione; dimodoché stavamo tutti in proposito di torne le tre fanculle per forza, e per cosa maravigliosa trarle in Castiglia.
E stando in questi ragionamenti cominciarono a entrare per la porta della capanna ben 36 uomini molto maggiori che le donne: uomini tanto ben fatti, che era cosa maravigliosa a vedergli; i quali ci posero in tanta turbazione, che più tosto saremmo voluti essere alle navi che trovarci con tal gente.
Aveano archi grandissimi e frecce, e gran bastoni con capocchie, e parlavano in fra loro d'un suono come se volessero manometterci.
Vistoci in tal pericolo, facemmo vari consigli infra noi; alcuni dicevano che in casa si cominciasse a dare in loro, altri che al campo era migliore, e altri dicevano che non cominciassimo la quistione infino a tanto che vedessimo quello che volessero fare; e risolvemmo di uscir fuori della capanna e andarcene dissimulatamente al cammino delle navi, e così facemmo.
E preso il nostro cammino, ce ne tornammo alle navi; loro ci vennero dietro tuttavia a un tiro di pietra parlando in fra loro; credo che non men paura avevano di noi che noi di loro; perché qualunque volta ci riposavamo e loro parimente sostavano senza appressarsi a noi, tanto che giugnemmo alla spiaggia dove stavano i battelli aspettandoci, ed entrammo in essi: e come fummo lontani, loro saltarono e ci tirarono molte saette, ma allora aveamo poca paura di loro: sparammo loro due tiri di bombarda più per sapventarli che per far loro male, e tutti al tuono fuggirono al monte; e così ci partimmo da loro, che ci parve scampare d'una pericolosa giornata.
Andavano del tutto ignudi come gli altri.
Chiamo questa l'Isola de'Giganti a causa di lor grandezza; e andammo più innanzi prolungando la terra, nella quale ci accadde molte volte combattere con loro per non ci volere lasciare pigliare cosa alcuna di terra: e giacché stavamo di volontà di tornarcene in catiglia, perché eravamo stati nel mare circa un anno e ci restava poco mantenimento e il poco guastato a causa delli gran caldi che passammo (perché da che partimmo per l'isole del Capo Verde infino a quì, di continovo avevamo navicato per la torrida zona e due volte attraversato per la linea equinoziale, che come di sopra dissi, fummo fuora di essa 5 gradi dalla parte d'austro, e qui eramo in 15 gradi verso settentrione), essendo in questo consiglio, piacque allo Spirito Santo dare alcuno riposo a tanti nostri travagli, che fu, che andando cercando un porto per racconciare i nostri navili, fummo a dare con una gente la quale ci ricevette con molta amistà, e trovammo che possedevano grandissima quantità di perle orientali e assai buone; co' quali ci trattenemmo 47 giorni e comprammo da loro 119 marchi di perle con molta poca mercanzia, che credo non ci costarono il valore di 40 ducati, perché quello che demmo loro non furono se non sonagli e specchi e cento dieci palle e foglie di ottone; che per un sonaglio dava uno quante perle possedeva.
Da loro sapemmo come le pescavano, e dove, e ci dettero molte ostriche nelle quali nascevano. Comprammo un'ostrica nella quale erano di nascimento 130 perle, e altre di meno; queste delle 130 mi tolse la Regina, e l'altre mi guardai non le vedesse.
E ha da sapere Vostra Magnificenza, che se le perle non sono mature e da se non si spaccano, non mantengonsi perché si guastano presto, e di questo ne ho visto esperienza.
Quando sono mature, stanno dentro nella ostrica spiccate e messe nella carne, e queste son buone; quanto mal le tenevano, che la maggior parte erano roche [come trovasi in Dante il lume fioco per lume poco risplendente: così le perle roche d'Amerigo son forse quelle che mancano di lucentezza, o che son rotte et fesse come dice Ovidio: Ramus., T. III, p. 170, A] e mal forate! tuttavia valevano buoni danari, perché si vendeva il marco [nell'Edizion del valori il prezzo del marco è lasciato in bianco, forse perché il numero non potè leggersi nel Manoscritto]...e al capo di 47 giorni lasciammo la gente molto amica nostra.
Partimmoci, e per la necessità del mantenimento approdammo all'Isola d'Antiglia, che è quella che discoperse Cristofal Colombo più anni fà, dove facemmo molto mantenimento, e stemmo due mesi e 17 giorni; dove passammo molti pericoli e travagli con li medesimi Cristiani che in questa Isola stavano col Colombo (credo per invidia), che per non essere prolisso gli lascio di raccontare.
Partimmo dalla detta isola a dì 22 di aprile, e navigammo un mese e mezzo, ed entrammo di giorno nel porto di Calis [Cadice], che fu a dì 8 di giugno. Il mio secondo Viaggio. Dio Laudato.
[fine del secondo viaggio]
SEGUITO DELLA LETTERA
AL SODERINI]
Non fui cosigliato che andassi: ispedii il messaggiero dicendo che stavo male, e che quando stessi bene e che sua Altezza si volesse pure servire di me, che farei quanto mi comandasse.
E visto che non mi poteva avere, risolvè mandare per me Giuliano di Bartolommeo del Giocondo stante qui a Lisbona, con commissione che in ogni modo mi conducesse.
Venne il detto Giuliano a Sibilia [Siviglia], per la venuta e premura del quale fui forzato a andare ma fu tenuta a male la mia partenza da quanti mi conoscevano: perché mi partii di Castiglia, dove mi fu fatto onore, e il re mi teneva in buona vista; peggior fu che mi partii insalutato ospite: e appresentatomi innanzi a questo re, mostrò aver piacere di mia venuta e mi pregò che fussi in compagnia di tre sue navi, che stavano preste per andare a discoprire nuove terre, e come una preghiera d'u re è comando, ebbi a consentire quanto mi pregava: e partimmo di questo porto di Lisbona tre navi di conserva a dì 13 di maggio 1501; e pigliammo nostra via diritti all'isola di Gran Canaria, e passammo, senza posare, a vista di essa e di quì fummo costeggiando la costa d'Affrica per la parte occidentale: nella quale costa facemmo nostra pescheria a una sorta di pesci che si chiamano parchi [Questi pesci sono probabilmente della specie di quelli descritti da Quiros sotto nome di Pargos, cosa tanto più verisimile, quanto che appunto in lingua Spagnuola la reina di mare appellasi Pagrus, Cook, Viagg., T. VII, p.115; Sono pagros, scrive un Portoghese, che in Venezia voi chiamate Albari, Corvi: Ram., T. I, p.115 B]; dove ci trattenemmo tre giorni, e di quì fummo nella costa d'Etiopia ad un porto che si dice Beseneghe (che sta dentro la torrida zona) sopra il quale alza il polo del settentrione 14 gradi e mezzo, situato nel primo clima, dove stemmo 11 giorni pigliando acqua e legne; perché mia intenzione era di navigare verso l'Austro per il golfo Atlantico.
Partimmo da questo porto d'Etipia e navicammo ad una terra, che stava dal detto porto 700 leghe verso libeccio; e in quelli 97 giorni soffrimmo il maggior tempo, che mai provasse uomo che navica nel mare, per molti rovesci d'acqua, turbini, e tempeste, che ci dettono addosso, perché fummo in tempo molto contrario, a causa che il forte di nostra navicazione fu di continovo presso alla linea equinoziale (che nel mese di Giugno è inverno) e trovammo il dì con la notte esser eguale e trovammo l'ombra verso mezzodì di continovo.
Piacque a Dio mostrarci terra nuovae fu a dì 17 d'agosto, dove ancorammo a mezza lega, e buttammo fuora nostri battelli e fummo a vedere la terra se n'era abitata da gente e quale gente era: e trovammo essere abitata da gente che erano peggiori che animali: però Vostra magnificenza intenderà che in questo principio non vedemmo gente, ma ben conoscemmo ch'era popolata per molti segnali che in essa vedemmo.
Pigliammo la possessione di essa per questo Serenissimo re; la quale trovammo essere terra molto amena e verde e di buona apparenza.
Stava fuore della linea equinoziale verso l'austro 5 gradi, e per questo ci ritornammo alle navi, e perché avevamo gran necessità d'acqua e di legne, risolvemmo l'altro giorno di tornare a terra per provvederci del necessario; e stando in terra vedemmo delle genti nella sommità del monte che stavano mirando, e non ardivano discendere perchè erano ignudi e del medesimo colore e fazione che gli altri passati, scoperti per me per il re di castiglia [parole del Ramusio]; e stando con loro travagliando perchè venissero a parlare con esso noi, mai non li potemmo assicurare che non si fidarono di noi; e visto la loro ostinazione (e di già era tardi) ce ne tornammo alle navi, lasciando loro in terra molti sonagli e specchi e altre cose a vista loro; e come fummo lontani nel mare, discesero del monte e vennero per le cose che lasciammo loro, facendo di esse gran maraviglia, e per questo giorno non ci provvedemmo se non d'acqua.
L'altra mattina vedemmo dalle navi che le genti di terra facevan molte fumate e noi pensando che ci chiamassero, fummo a terra dove trovammo che erano venuti molti popoli e tuttavia stavano lontani da noi e ci accennavano che fussimo con loro per la terra di dentro: per onde si mossero due delli nostri Cristiani e domandare al capitano che desse loro licenza, chi si volevano mettere a pericolo di volere andare con loro in terra per vedere che gente erano e se avevano alcuna ricchezza o spezieria o drogheria; e tanto pregarono che il capitano fu contento; e messosi in ordine con molte cose da barattare, si partirono da noi con ordine che non stessero più di cinque giorni a tornare, perché tanto gli aspetteremmo; e presero lor cammino per la terra e noi per le navi aspettandogli, e quasi ogni giorno venivano genti alla spiaggia e mai non ci vollero parlare.
Il settimo giorno andammo in terra e trovammo, che avevano tratto con loro le lor donne, e come saltassimo in terra, gli uomini della terra mandarono molte delle lor donne a parlar con noi; e visto che non si rassicuravano, decimme di mandare a loro uno unomo de' nostri che fu' un giovane che molto faveva il bravo, e noi per assicurarlo entrammo ne' battelli e lui si fu per le donne: e come giunse a loro, gli fecero un gran cerchio intorno toccandolo, mirandolo e si maravigliavano.
E stando in questo, vedemmo venire una donna del monte, e portava un gran bastone nella mano; e come giunse ov'era il nostro cristiano, gli venne per addietro e alzato il bastone, gli dette così grande il colpo che lo distese morto in terra.
In un subito le altre donne lo presono pe' piedi e lo strascinarono pe' piedi verso il monte, e gli uomini saltarono verso la spiaggia e con loro archi e saette a saettarci, e posero la nostra gente in tanta paura (approdati con li battelli sopra le fatesce che erano in terra (fatesce: per quanto mi è noto, questa voce non è Italiana o Spagnuola: il Ramusio scrive secche, ma non so se le secche stiano in terra; il Giuntini con lunga circunlocuzione si accosta al Ramusio. Forse è questo un altro error di stampa nell'edizion del Valori]) che per le molte saette che ci mettevano nelli battelli; nessun credea ben fatto di pigliare l'arme; pure sparammo verso di loro quattro tiri di bombarda e non detter nel segno, salvo che udito il tuono, tutti fuggirono verso il monte dove stavano già le donne facendo pezzi del Cristiano, e ad un gran fuoco che avean fatto, lo stavano arrostendo a vista nostra, mostrando i molti pezzi e mangiandoseli; e gli uomini facendoci segnali con loro cenni di come avean morti gli due Cristiani e mangiatesili, il che ci rincrebbe molto.
Veggendo con li nostri occhi la crudeltà che facevan del morto, a tutti noi fu ingiuria intollerabile; e facendo proposito più di quaranta di noi di saltare in terra e vendicare tanto cruda morte e atto bestiale e inumano, il capitano maggiore non volle acconsentir; e si restarono impuniti per tanta ingiuria, e noi ci partimmo da loro con mala volontà e con molta vergogna nostra a causa del nostro capitano.
Partimmo da questo luogo e cominciammo nostra navigazione infra levante e scilocco, e così si costeggiava la terra e facemmo molte iscale, e mai trovammo gente che con esso noi volessero conversare.
E così navicammo tanto, che trovammo che la terra piegava verso libeccio; e come ebbemo passato un Capo, al quale ponemmo nome il Capo di sant'Agostino, cominciammo a navicare per libeccio.
Distà questo capo dalla predetta terra che vedemmo, dove ammazzarono i Cristiani, 130 leghe verso levante; ed è posto otto gradi fuori della linea equinoziale verso l'austro: e navicando, avemmo un giorno vista di molte genti che stavano alla spiaggia per vedere la maraviglia delle nostre navi: il perchè, come navicammo, fummo alla volta loro e ancorammo in buon luogo e fummo con li battelli a terra e trovammo la gente essere di miglior condizione che la passata; e ancorchè ci fosse travaglio di dimesticarla, tuttavia ce la facemmo amica e trattammo con essa lei.
In questo luogo stemmo cinque giorni, e quì trovammo la cassia fistola, molto grossa e verde, e secca in cima degli arbori [Valori, Ramusio e Bandini hanno canna fistula, Giuntini scrive caras fistulas, lezioni egualmente inintelleggibili. Mi sembra che debba leggersi cassia fistola, come ho corretto, della quale parla Ramusio, T. I, p. 282 C., ed anche il Vocab. della Crusca. Est autem, dice Du Cange, canna quod Graecis surigx dicitur, casiam Indicam ita vocantes quod ex cannis eruatur, Graecis Scriptoribus manna kalàmou Indikou dicta, Gloss. Med. et Inf. Lat., V, Canamellae. La rammenta anche Bacone nella sua Storia Naturale, vulgaris arundo, cassia fistula, calamus saccarites, Cent. VII, N. 656 e Pinkerton tra le Piante dell'Indostan = Geogr. Mod., T. IV, p. 507].
Risolvemmo in questo luogo torre un paio di uomini perchè ci mostrassino la lingua; e ne vennero tre, di loro volontà, per venire in Portogallo.
E di già straccato di tanto scrivere, saprà Vostra Magnificenza che partimo di questo porto sempre navicando per libeccio a vista di terra, fummo verso l'austro, che già stavamo fuora del Tropico di Capricorno, da dove il polo del merididione s'alzava sopra l'orizzonte 32 gradi; e di già avevamo perduto del tutto l'Orsa Minore, e la maggiore ci stava molto bassa e quasi ci si mostrava al fine dell'orizzonte, e ci reggevamo per le stelle dell'altro polo del meridione, le quali sono molte e molto maggiori e più lucenti che quelle di questo nostro polo: e della maggior parte di esse trassi le lor figure, e massime di quelle della prima e maggior magnitudine, con la dichiarazione de' lor diametri e semidiametri; come si potrà vedere nelle mie QUATTRO GIORNATE.
Corremmo di questa costa pel tratto di 750 leghe, le 150 dal Capo detto di Sant'Agostino verso il ponente e le 600 verso il libeccio.
E volendo raccontare le cose che in questa costa viddi e quello che passammo, non mi basterebbe altrettanti fogli; e in questa costa non vedemmo cose di utilità, salvo infiniti arbori diverzino e di cassia, e di quelli che generano la mirra, e altre maraviglie della natura che non si possono raccontare.
E di già essendo stati nel viaggio ben dieci mesi, e visto che in questa terra trovavamo cosa di miniera alcuna, decidemmo di dipartirci di essa e andarci a commettere al mare per altra parte: e fatto nostro consiglio, fu deliberato che si seguisse quella navicazione che mi paresse bene, e tutto fu rimesso in me il comando della flotta; e allora comandai che tutta la gente, e flotta si provvedessi d'acqua e di legne per sei mesi, che tanto giudicaronogli ufficiali delle navi che potevamo navicare con esse.
Fatte le nostre provvisioni in questa terra, cominciammo la nostra navigazione per il vento scilocco e fùa dì 13 febbraio quando già il sole s'andava appressando all'equinozio, e tornava verso questo nostro empisperio del settentrione; e tanto navicammo per questo vento e ci trovammo tanto alti, che il polo del meridione ci stava alto fuora del nostro orizzonte ben 52 gradi: e più non vedevamo nè le stelle nè dell'Orsa Minore nè della Maggiore Orsa: e di già stavamo discosto del porto di dove partimmo ben 500 leghe per scilocco; e questo fua dì 3 di aprile; e in questo giorno cominciò una burrascain mare tanto forzosa, che ci fece ammainare del tutto le nostre vele, e correvamo coll'albero nudo con molto vento [lo stesso avvenne a Lopez, Scrivano dei Portoghesi: il vento fu tanto che ci ruppe l'antenna pel mezzo, et alla Julia ruppe l'albero, et a tutti ci messe gran paura, che quel dì et la notte corremmo ad albero seccho. Ramus, T. I, p. 133. Ferdinando Colombo dice albero nudo, p. 18, t. Corremmo horribile fortuna per più volte ad arbor secco senza palmo di vela, dice Giovanni da Empoli, T. I, p. 145, C] che era libeccio con grandissimi mari, e l'aria molto procellosa e tanta era la tempesta che tutta la flotta stava con gran timore.
Le notti erano molto lunghe, che notte avemmo a dì 7 di aprile che fu di 13 ore, perchè il sole stava nel fine di Ariete e in questa regione era lo inverno, come ben può considerare Vostra Magnificenza.
E andando con questa burrasca, a dì 7 d'Aprile avemmo vista di nuova terra della quale corremmo circa venti leghe di costa e la trovammotutta selvaggia, e non vedemmo in essa porto alcuno nè gente: credo perchè tanto era il freddo, che nessuno della flotta vi poteva riparare nè sopportarlo; di modo che vistoci in tanto pericolo e in tanta burrasca che appena potevamo avere vista l'una nave dell'altra per i gran cavalloni che facevano e per la gran oscurità del tempo, che decidemmo col capitano maggiore fare segnale alla flotta di retrocedere, e lasciare la terra e tornarcene al cammino di Portogallo; e fu molto buon consiglio: che certo è che se tardavamo quella notte, tutti ci perdevamo; perchè come pigliammo il vento in poppa, e la notte e l'altro giorno sì vi ricrebbe tanta tempesta, che dubitammo di perderci, e facemmo peregrini, voti e altre cerimonie come è usanza de' marinari per tali tempi [Questo dì, scrive Lopez, si feciono molti boti (voti), et gittoronsi le sorti chi dovesse andare a visitar la divota chiesa di nostra dama di S. Maria di guadalupo = Ram., ib.].
Corremmo cinque giorni, e tuttavia ci venivamo appressando alla linea equinoziale e in aria e in mari più temperati, e piacque a Dio scamparci di tanto pericolo e nostra navigazione era per il vento infra il tramontano e greco; perchè nostra intenzione era andare a riconoscere la costa d'Etiopia, che stavamo discosto da essa 1300 leghe per il golfo del mare Atlantico e con la grazia di Dio addì 10 di maggio fummo in essa a una terra verso l'austro che si dice la Serra Liona, dove stemmo 15 giorni pigliando alcuna ricreazione, e partimmo da esse per Lisbona eramo all'occidente più di 300 leghe, ed entrammo in questo porto di Lisbona a dì 7 di settembre del 1502 a buon salvamento.
Dio ringraziato sia, con solo due navi, perchè l'altra ardemmo nella Sierra leona perchè non poteva più navicare; che stemmo in questo viaggio circa di 15 mesi, de' quali navigammo senza vedere la stella tramontana o l'Orsa Maggiore e Minore, che si dicono il corno, e ci reggemmo per le stelle dell'altro polo.
Questo è quanto Viddi in questo Viaggio, o Giornata; fatto per il Serenissimo re di Portogallo [Quest'ultime parole trovansi nel Ramusio].
[fine del terzo viaggio]
SEGUITO DELLA LETTERA
AL SODERINI]
Partimmo da questo porto di Lisbona sei navi di conserva con proposito di andare a scoprire una Isola verso l'oriente, che si dice Malacca, della quale si ha nuove esser molto ricca, e che è come il magazzino di tutte le navi che vengono dal mare Gangetico e del mare Indico, come è Calis [Cadice] ricetto di tutti i navili che passano da levante a ponente e da ponente a levante per la via di Caligut; e questa Malacca è più all'oriente che Caligut e molto più alta alla parte del mezzodì: perchè sappiamo che sta in paraggio di 3 gradi del polo Artico.
Partimmo addì 10 di maggio 1503 e fummo diritti all'Isole del Capo Verde, dove facemmo nostro carico e pigliammo ogni sorte di rinfrescamento: qui stèmmo tredici giorni, e poi partimmo a nostro viaggio navicando per il vento scilocco.
E come il nostro capitano maggiore fusse uomo presuntuoso e molto ostinato, volle andare a riconoscere la Sierra Liona, terra d'Etipia Australe, senza averne necessità alcuna se non per farsi vedere che era capitano di sei navi, contro alla volontà di tutti noi altri Capitani: e così navicando, quando fummo presso la detta terra, furono tante le scosse di pioggia che patimmo, e con esse il tempo contrario, che stando a vista di essa ben quattro giorni, mai non ci lasciò il mal tempo pigliar terra; di modo che fummo forzati di tornare a nostra navicazione vera e lasciare la detta Serra.
E navicando di qui al libeccio, che è vento infra mezzodì e ponente, quando avemmo percorso il tratto di ben 300 leghe di un mare stranamente agitato, stando di già fuora della linea equinoziale verso l'austro ben tre gradi, ci si discoperse una terra, che potevamo distare di essa 22 leghe, della quale ci maravigliammo e trovammo che era un'isola nel mezzo del mare, ed era molto alta cosa, ben maravigliosa della natura, perchè non avea più che due leghe in lungo e una in largo; la quale isola mai non fu abitata da gente alcuna, e fu la mala isola per tutta la flotta: perchè saprà Vostra Magnificenza, come per il mal consiglio e reggimento del nostro capitano maggiore, perdè qui sua nave; perchè dette con essa in uno scoglio e s'aperse la notte di San Lorenzo che è addì 10 di Agosto, e se ne fu in fondo, e non si salvò di essa cosa alcuna se non la gente.
era nave di 300 tonnelli, nella quale andava tutta la importanza della flotta; e come la flotta tutta travagliata in risarcirla, il capitano mi comandò che io fussi con la mia nave alla detta isola a cercare un buon porto dove potessero surgere tutte le navi; e come il mio battello calcato con nove miei marinai, fusse in aiuto e servigio di ligare le navi, non volle che lo prendessi, ma che andassi senza esso, dicendomi che me lo porterebbono all'Isola.
Partimmi dalla flotta come mi comandò, per l'isola senza battello e con meno la metà de' miei marinari, e fui alla detta isola, che distava di circa quattro leghe, nella quale trovai un buonissimo porto dove ben sicuramente potevano surgere tutte le navi; dove aspettai il mio capitano e la flotta ben otto giorni, e mai non vennero; di modo che stavamo molto mal contenti, e le genti che m'eran restate nella nave, avevano tanta paura che non li potevo consolare.
E stando così, l'ottavo giorno vedemmo venire una nave pel mare, e di paura che non ci potesse vedere, ci levammo con nostra nave e fummo ad essa, pensando che mi conducesse il mio battello e gente; e come fummo al pari con essa, dopo salutata ci disse come la Capitana si era ita in fondo e come la gente s'era salvata e che il mio battello e gente restava con la flotta, la quale s'era ita per quel mare avanti; lo che ci fu tanto grave tormento, quale può pensare Vostra magnificenza, per trovarci 1000 leghe discosto da Lisbona e in golfo e con poca gente: tuttavia facemmo viso alla fortuna, e andando tuttavia innanzi, tornammo all'isola e fornimmoci d'acqua e di legne con il battello della mia conserva: la quale isola trovammo disabitata e avea molte acque vive e dolci, infinitissimi arbori, ed era piena di tanti uccelli marini e terrestri, che eran senza numero ed eran tanto semplici, che si lasciavan pigliare con mano; e tanti ne pigliammo, che caricammo un battello di essi animali: nessuno altro animale non vedemmo, salvo topi grandi e ramarri con due code e alcune serpe: e fatta nostra provvisione, ci dipartimmo per il vento infra mezzodì e libeccio perchè aveamo un ordine del re che ci comandava, che qualunque delle navi si smarrisse o si perdesse le altre dovessero andarne in traccia rifacendo la via del viaggio passato.
Discoprimmo un porto che gli ponemmo nome la Baia di tutti i Santi [in un Tolomeo del 1520 si legge nella Tabula Terre Nove, aggiunta a quella di Tolomeo, Abbatia omnium Sanctorum, come leggesi nel Valori, e qui pur si leggeva, indizio della molta dottrina di quei copisti e di quelli stampatori]; e piacque a Dio di darci tanto buon tempo, in 17 giorni approdammo in esso che distava dall'isola ben 300 leghe, dove non trovammo nè il nostro capitano nè nessuna altra nave della flotta; nel qual porto aspettammo ben due mesi e quattro giorni; e visto che non veniva recapito alcuno, risolvemmo, la conserva e io, correr la costa, e naviagammo più innanzi 260 leghe: tanto che giugnemmo in un porto, dove stabilimmo fare una fortezza e la facemmo e lasciammo in essa 24 uomini Cristiani, che aveva la mia conserva ricolti dalla nave Capitana che s'era perduta; nel qual porto stemmo ben 5 mesi in fare la fortezza e caricar nostre navi di verzino, perchè non potevamo andare più innanzi a causa che non aveamo genti e mi mancava molti strumenti.
Fatto tutto questo, risolvemmo di tornarcene in Portogallo che ci stava per il vento infra greco e tramontano, e lasciammo gli 24 uomini, che restarono nella fortezza con mantenimento per sei mesi, con 12 bombarde e molte altre armi; e pacificammo tutta la gente di terra della quale non s'è fatto menzione in questo viaggio non perchè non vedessimo e praticassimo con infinita gente di essa; perchè fummo dentro terra ben 30 uomini e 40 leghe, dove viddi tante cose che le lascio di dire, riserbandole alle mie QUATTRO GIORNATE.
Questa terra sta fuora della linea equinoziale dalla parte dello austro 18 gradi, e fuora della situazione di Lisbona 57 gradi più all'occidente, secondo che mostravano i nostri strumenti.
E fatto tutto questo, ci licenziammo da' Cristiani e dalla terra, e cominciammo nostra navigazione al grecale tramontana, che è vento infra tramontana e greco, con proposito d'andare a dirittura con nostra navigazione a questa città di Lisbona, e in 77 giorni, dipoi tanti travagli e pericoli, entrammo in questo porto addì 18 di Giugno 1504, Dio laudato, dove fummo molto ben ricevuti e fuora d'ogni credere, perchè tutta la città ci faceva perduti: perchè le altre navi della flotta tutte s'eran perdute per la superbia e pazzia del nostro capitano, che così paga Dio la superbia.
E al presente mi ritrovo quì in Lisbona, e non so quello vorrà il Re fare di me, che molto desidero riposarmi.
Il presente apportatore, che è Benvenuto di Domenico Benvenuti, dirà a Vostra Magnificenza di mio essere, e di alcune cose che si sono lasciate di dire per prolissità perchè le ha viste e sentite.
Io sono ito stringendo la lettera quanto ho potuto; ed ho lasciato a dire molte cose naturali a causa di scansare prolissità.
Vostra Magnificenza mi perdoni, la quale supplico mi tenga nel numero de' suoi servidori, e vi raccomando Ser Antonio vespucci mio fratello e tutta la casa mia.
Resto pregando Dio che vi accresca i dì della vita e che s'alzi lo stato di cotesta eccelsa Repubblica e l'onore di Vostra Magnificenza ecc.
data in Lisbona addì 4 di Settembre 1504.
Servitore
Amerigo Vespucci in Lisbona
[fine del quarto ed ultimo viaggio]
"Questa relazione dei quattro Viaggi di Amerigo Vespucci, espertissimo nocchiero, dotto astronomo e cosmografo fiorentina, è quella stessa che ordinò e annotò il celebre padre Stanislao Canovai delle Scuole Pie, e che quell'uomo egregio accuratamente riscontrò e corresse sul codice Ricciardiano, nel Ramusio, nel Giunti, ed in un libretto senza data nè luogo di stampa, che chiamò Edizione del Valori, per esser appartenuto a Baccio valori, come la firma manoscritta sotto il frontespizio incontrastabilmente attesta..
Noi ne abbiamo ridotta migliore la lezione spogliandola degli spagnuolismi e dei latinismi dei quali l'originale abbonda, ma abbiamo in ciò deferito sempre alle indicazioni ed alle note del benemerito Scolopio".