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Per un contributo alla STORIA DELLA STREGONERIA:
DALLE STREGHE DI TRIORA ALLE MALEFICHE FACITRICI DI VELENI,
FILTRI ED UNGUENTI |
La MAGIA e la STREGHERIA, nei loro intrecci coll'"Inquisizione", la "Signoria" ed il "Braccio armato della Legge Penale di Stato" hanno una storia radicata nel ponente ligure e fra alcune condanne "minori" (alcune al "bando" e quindi al temuto "esilio" erano in effetti assai relativamente minori dati gli estremi del "Diritto intermedio") l' ambiguità di relazioni fra "Inquisizione", "Braccio Secolare" e "Legge di Stato" si vede, oltre che nella tristemente celebre cinquecentesca vicenda delle STREGHE DI TRIORA e da altre vicende minori ben studiate da R. Masper), nel "territorio diocesano" di Ventimiglia, a cavallo tra Italia e Francia col seicentesco tragico evento di "Peirinetta Raibaudo" giustiziata come strega sul rogo dopo "impiccagione lenta", sfibrata dalle "torture": avrebbe praticato riti satanici [come una "Lamìa" e compiendo vari "malefici" ("d'amore", di "asservimento", del "sagittario", della consacrazione al Maligno, della "sterilità", dell' "avvelenamento" delle "malattie", dell' "impotenza maschile", dell' "odio", del "sonno" oltre la composizione di "fatture")] e il "volo stregonesco" dal luogo natio, di "Castellaro il Vecchio" presso Mentone, sin alla "valle nervina" coinvolgendo altre donne nel rito del "sabba": nonostante la difesa del suo "parroco" che la riteneva una povera pazza, il "giudice inquirente Cumis" fu implacabile carnefice.
Alle "STREGHE" in particolare era imputata la confezione di VELENI, FILTRI ed UNGUENTI atti a perpetrare le loro delittuose azioni.
Su veleni e tossicosi da sostanze perniciose un'autorità fu il medico forlivese G. Mercuriale (1530 - 1606 ): anche se, giova rammentarlo, molti progressi si fecero nella conoscenza dell'argomento in questo secolo, anche per l'opera di naturalisti empirici come il Pomet.
Al Mercuriale comunque giunse il grande messaggio scientifico-culturale del pensiero medico greco e romano attentissimo al campo dei Veleni e degli Antidoti: Mitridate VI Eupatore Dioniso il Grande, re del Ponto, nemico di Roma nel I sec.a.C. da cui fu sconfitto dopo 3 duri conflitti, fu per un celebrato esperto di Veleni [assimilandone piccole quantità in modo periodico avrebbe raggiunta l'assuefazione e quindi l'immunità, donde il nome di mitridatismo] e rimase famoso per aver ideato un Antidoto universale detto Mithridatium antidoton la cui formula sarebbe stata individuata da Pompeo Magno nell'archivio reale e interpretata dal liberto Pompeo Leneo; PLINIO nella Storia Naturale (XXIII, 149) ne diede una descrizione "antidoto composto da 2 noci secche, altrettanti fichi e 20 foglie di ruta, il tutto pestato ed amalgamato, con l'aggiunta di un granello di sale; a chi avesse preso questo antidoto a digiuno, nessun veleno avrebbe nuociuto durante tutta la giornata"> formula troppo elementare su cui tornò lo scienziato romano correggendosi nella stessa opera (lib.XXIX, 24) in cui, senza riportare la formula [perché evidentemente non ne era a conoscenza nella completezza], invece che di soli 4 ingredienti lo ritenne composto di 54 > ma l' Antidoto universale , oggetto di investigazioni di alchimisti, maghi e streghe nei secoli dell'età intermedia, rimase un enigma; per CELSO (V, 23,3) gli ingredienti sarebbero stati 36, per GALENO (XIV, 152-'54) 43: ne parlò Scribonio Largo Designaziano nel I sec.d.C. in una delle 471 ricette della sua De compositione medicamentorum.
. Sin al XVI sec., sulla scia della tradizione medica greco-romana, l'ANTIDOTO migliore fu considerato la triaca - teriaca , specifico contro il morso di serpenti velenosi ma poi realizzato in varie formule e a difesa contro le intossicazioni da vari tipi di veleno> la più antica teriaca nota e utilizzata da Antioco il Grande [re di Siria dal 223 al 187 a.C.], era registrata su una lapide del tempio-santuario, dell'isola di Cos nelle Sporadi meridionali, dedicato a Esculapio, dio greco della medicina e figlio di Apollo e Coronide, (Plinio, XX, 264: "[la ricetta è composta] di serpillo [specie di timo - Thymus serpyllum - coltivato per l'estrazione dell'olio di serpillo dalle proprietà carminative, che producono cioé l'espulsione di gas dall'apparato gastro-intestinale], due denari di peso (1 denario = g.4,55); opopanace [opòponaco: gommoresine ricavate da piante della famiglia delle Ombrellifere, con proprietà medicamentose destruenti, cioè capaci di liberare lo stomaco da qualche intasamento] e meo [ meum athamanticum usato in medicina antica per le proprietà toniche e diuretiche> pianta Ombrellifera], altrettanto di ciascuno; semi di trifoglio [genere Trifolium di Angiosperme Dicotiledoni della famiglia delle Leguminose, comprendente circa 300 specie di cui 60 presenti in Italia> dalle proprietà officinali utili per il sistema digestivo], un denario di peso; semi di anice [erba annua delle Ombrellifere con la proprietà medicamentosa di corroborare lo stomaco disturbato e di liberare dalle flatulenze], finocchio [della famiglia delle Ombrellifere conveniente per l'aggiustamento dello stomaco e l'eliminazione di gas intestinali], ami [grecismo: gli antichi ne conoscevano solo i semi e lo stesso Dioscoride (III, 62) nutriva delle incertezze sulla pianta, poi identificata col Trachyspermum ammi o Ammi copticum : stando a Plinio (XX, 164) avrebbe avuto la proprietà di far cessare coliche e flatulenze] e apio [con tal nome si indicano parecchie varietà delle Ombrellifere tra cui sedano, prezzemolo, anacio ma è facile che qui ci riferisca alla varietà nota fra gli antichi come apios : MATTIOLI, 462, studiando Dioscoride, cita l' apios quale pianta le cui radici e semi mescolati nel vino provocano diuresi e disintossicazione]; farina di ervo [leguminosa da cui si estraeva una farina detta ervina usata nella combinazione delle medicine], 12 denari. Si schiaccia il tutto e lo si passa al crivello, e utilizzando il miglior vino a disposizione si formano col composto delle pastiglie del peso di un vettoriato ( circa g. 2,27). Somministrarne una per volta in tre ciati (1 ciato = l. 0,045) di vino mescolato ad acqua"> la teriaca (un rimedio serio ma non miracoloso, che sedava le coliche e liberava l'organismo dalle tossine) rimase per millenni un antidoto apprezzato dalla farmacopea anche se se ne ebbero vari tipi, con formule in cui presero a comparire ingredienti animali: si va da Galeno (XIV, 1 sgg. e 82 sgg.) sino all'ultima teriaca citata dalla "Farmacopea" francese del 1884.
Lo speziale veneziano Giorgio Melichio, titolare della "Spetiaria allo Struzzo in Venezia" , nella pubblicazione Avertimenti nella compositioni de' medicamenti per uso della spetiaria del 1595) volendo insegnare ai colleghi il modo di realizzare i medicamenti, descrive la preparazione della TERIACA/TRICA con siffatte parole:
"Dirò però quel tanto che noi usiamo farla nell'inclita Città di Vinegia, giardino e publica piaza di tutta Europa: ornata di così periti & esperti Spetiali che sono anni ratione al mondo.Dirò hora quel tanto che s'ha avertito nella Theriaca fatta da me in Vinegia il presente anno ordinatamente.Fur preparati tutti i simplici necessarij per la composizione così della Theriaca come del Mithridato e fattone scelta furno messi in bellissimi vasi e riposti in luoco publico & molto ornato per tre continui giorni ad effetto che sian spettaculo a tutti e che ciascun potesse volendo esaminare le predette cose: & al quarto giorno, convocati gli Eccellenti Priori, e Consiglieri così di Medici, come di spetiali, e fatto diligente esamina de gli ingredienti, furno con molta diligenza tolti a peso secondo la descrizione presente di modo che non si prendeva cosa se non co'l giusto peso non variando ponto di più o meno.
Dopo si toglievano le cose a pestare grossamente e tutti si mettevano in un gran bacile così rotte e poi meschiate bene insieme si partivano in sei mortari & si davano a pestare perchè le cose umide s'unissero con le secche acciochè non s'attacassero nel mortaro se ben l'ontuosità della mirrha il facesse anco.
Primo fur contusi li trochisci di vipere; imperochè quando son ben preparati è la loro sostanza simile alla colla del carniccio difficili a pestarli: poi si aggiungono il pepe longo e poco dopo la cassia, il cinamono e rotti si rimetton nel bacile [in pratica di queste stesse piante, non sempre decifrabili oggi, parla anche il cinquecentesco medico veneto Zefiriele Bovio nel suo Melampigo... di cui qui si proporrà l'intiera opera scientifica in versione scaricabile].
Poi si rompe pestando l'irios, il costo, la gentiana,l'aristologia, il centaurio,il pentasilon, il meo, il phu, il stecado, il squinanto & il spigo; quali rotti si mischiatano con gli altri nel bacile.
Appresso si pestano li semi de i navoni, il pettosello,gli anisi, seseli, finocchio, thlaspi, ammi, dauco & l'amomo.
Et rotte furo aggionte con l'altre; avertendo che per ciascun ordine di cose che si pestavano aggiungevano nel mortaro un poco di mirrha a tal che nel pestar le cose le spetie non s'attenessero al fondo del mortaro imperochè l'ontuosità della mirrha tiene unite le cose eshalabili. Dopo si pesta il scordio, dittamo, marrobio,calamento, polio, chamepiteo, folio & hiperico.
La gomma e l'incenso si pestaranno in altro mortaro sole, acciò non s'attaccassero con l'altre spetie, come in altri con esperienza s'è visto.
Li trochisci scillini, e gli hedicroi insieme soli sian pesti e uniti all'altre spetie.
Le rose & zaffrano sian messe un poco al sole & dopo peste & gionte all'altre.
Il reupontico sia pesto & aggionte con l'altre.
La terra lemnia si trita senza fatica,l'agarico sia fregato al tamiso & così si facci in polvere. Le gomme saran ben contuse & dopo vi si aggionga del vin malvatico & stiano per una notte infuse & e il dì sequente con debita portion di detto vino sian passate per il staccio,il simil parimenti si fara nel succo di liquiritia & e de l'hipocistis:l'acatia si triturarà con li semi cioè che sia messa con essi nel triturarli, percioche l'orientale è si secca & arida che facilmente si pestrarà con li semi.
Il XVI sec. fu detto Secolo dei Veleni per l'uso che se ne faceva nei crimini e per la possibilità di trovare scampo: Stat. Crim. , II, 10.
Il timore di ingerire Veleni giunse al punto che "personaggi importanti volevano che i cibi e le bevande serviti loro fossero prima assaggiati da un'altra persona in loro presenza"> W. DURANT, Il Secolo d'oro , III, p.79 in Storia della civiltà , Edito-Service, Ginevra, 1957> l' autore riferisce che nel '500, per Roma e da Roma per tutta l'Italia rinascimentale, si sparse il terrore di un venenum atterminatum, un tossico che, insensibile a qualsiasi antidoto, agiva dopo un tempo così lungo da far perdere le tracce dell' omicida.
In questo Secolo dei Veleni si ricorreva ad ogni sotterfugio per somministrare i tossici: un espediente era quello di spalmare con sostanze velenifere le armi da taglio o da getto (usanza già menzionata da Plinio XXXII, 58: per avvelenare le punte delle lance molto spesso si usava il doricnio , genere di arbusti velenosi della famiglia delle Leguminose Papilionacee, di cui parla MATTIOLI, 548).
Contro le tossicosi, ma anche per le perfette cicatrizzazioni e contro i rischi di infezioni e cancrene delle ferite un esercito di alchimisti, sulla scorta di Plinio (XIX, 39 e 43; XXII, 48-49) e d' altri classici cercavano la leggendaria pianta del SILFIO della Cirenaica (già quasi estinto sotto Nerone) da cui si distillava il Làsere dai tempi di Andrea (III sec. a.C), medico del re d'Egitto Tolomeo IV Filopatore ritenuto cura di molti mali, quello che Plinio definì uno "tra i doni più straordinari della natura...[che] entra in moltissimi preparati medicinali": il Làsere di cui si disponeva nel XVI sec. era estratto dalla pianta del Laserpìzio ("Ombrellifere") di Siria, Parmenia, Media, Armenia (M. MONTIGIANO, Dioscoride Anazarbeo. Della materia medicinale, tradotto in lingua fiorentina, Firenze, 1546 o 1547, p.154) e, oltre a non essere facilmente reperibile, non aveva le qualità attribuitegli da Plinio, riferendosi egli a quello della Cirenaica (scrisse che il Làsere delle regioni orientali - estratto dal Laserpìzio del genere Ferula Asa foetida delle Ombrellifere - "è di qualità molto inferiore rispetto a quello della Cirenaica, e per di più spesso mescolato con gomma o sacopenio [gomma di ferulacea orientale ma anche di una specie italica], o fave tritate": e del resto in Italia delle 30 specie di Laserpìzio conosciute ne crescono 8 (importante soprattutto il Laserpizio sermontano [ma leggi anche Siler Montanum alias Seselis Massiliensis] di cui scrisse il medico Z.T.Bovio, ma senza le supposte proprietà citate da Plinio): fra gli attributi medicamentosi del Làsere ottenuto dal Laserpìzio o Silfio della Cirenaica (che non è di sicura interpretazione e per cui si è anche supposta l'identificazione con la Ferula tingitana ed a cui Catone, 156-7 attribuì alto valore terapeutico ) si attribuivano poteri cicatrizzanti e la qualità di antidoto sì forte da neutralizzare ogni veleno: possedere o realizzare tal prodotto avrebbe fatta la fortuna di qualsiasi alchimista, speziale o medico ed avrebbe risolto i problemi di intervento, che a volte imponevano l' amputazione dell'arto ferito ed avvelenato, per i Chirurghi.
Da quanto si è scritto si potrebbe pensare che il SILFIO, dalle prodigiose qualità terapeutiche, sia stata solo una leggenda proveniente dal passato remoto: se però, trattando della pianta Ippocrate, Galeno, Dioscoride, Apicio, Plinio Seniore e tanti altri medici ed eruditi, nel campo delle reciproche competenze, parlarono sempre in termini entusiastici, alludendo soprattutto alle straordinarie qualità medicamentose, un fondo di verità nella "leggenda" deve pur esservi stato. E, con probabilità, era ancor più che una leggenda da studiosi e scienziati, se Nerone ne pagò a prezzo elevatissimo l'ultima spedizione, che reclamò per sè alla vigilia dell'estinzione della pianta, e se, già da molto prima, il succo del Silfio veniva conservato, sotto stretta custodia, nel tesoro pubblico e nei templi.
Fatto certo è che il SILFIO, verso il I sec. d.C. scomparve nel nulla: esiste un solo modo per cercare di ricostruirne la struttura botanica, quello di visualizzarla sulle monete, i tetradrammi (come quello qui riprodotti) di CIRENE dove gli antichi incisori e zecchieri lo immortalarono nei suoi frutti, nei germogli e persino nelle dimensioni, che dovevano essere notevoli se la testa di un cavallo giungeva a malapena alla sua cima.
CIRENE (colonia greca fondata forse nel 631 da coloni dori originari di Tera [Santorini] sulle coste settentrionali dell'Africa, donde la regione fu poi detta Cirenaica), a dimostrazione della grande quantità di tali piante così fiorenti nel suo territorio da caratterizzarlo come ne fossero un "simbolo", scelse, per oltre tre secoli (631-300 a.C.) di utilizzare l'immagine della pianta come "marchio della propria identità nazionale": alla stessa maniera di come fecero un pò tutte le altre città stato e colonie greche> celebre e splendido il caso di RODI e della rappresentazione della rosa, caratteristica della pianta, sulle sue monete a decorrere dal tempo (411-407 a.C.) dell'unione (sinecismo) dei tre centri antichi dell'isola ("Lindos", "Jaliso" e "Camiro").
Gli STATUTI CRIMINALI GENOVESI del 1556 (qui proposti in altra voce quali testo scaricabile) nel c. 10 del lib, II citano pure sostanze velenose non letali, capaci di condurre alla follia: vi si ricorda pure l'abitudine di ricorrere agli intrugli delle streghe (nel senso di facitrici di VELENI che talora funzionavano all'istante ed a volte no e che più spesso funzionavano, fra lunghe agonie, soltanto per una "bizzarra e casuale" tossicità raggiunta dalla correlazione di intrugli vari). Gli Statuti menzionano pure la consuetudine, in particolare di nobili e dei cittadini più agiati, di prezzolare sicari - avvelenatori [detti anche untori] fra la servitù della parte avversa, affidando loro ogni compito, di procurarsi e somministrare il Veleno, anche in modi impensabili (non era casuale che si prezzolasse una serva del casato nemico, specie una donna di cucina, che potesse manipolare le stoviglie, spalmandone di tossico magari una in particolare, destinata alla vittima prescelta, aggirando il controllo dei saggiatori ufficiali che, anche per non alimentare intorno al banchetto un clima di tensione, esercitavano la supervisione in cucina, lontano dagli occhi padronali e da quelli dei convitati, e soprattutto - per evitare interminabili attese, tranne che in particolari momenti di crisi e sospetto d'attentati - non sondando il contenuto delle specifiche portate ma controllando la genuinità del pasto quando era ancora nel grande recipiente ove era stato preparato; anche se, giova dirlo, non mancarono casi in cui gli avvelenatori, per non fallire o dovendo colpire un nucleo intiero di famiglia, non si fecero scrupolo di "ungere" di veleno proprio la superficie della grande pentola in cui si era preparato il pasto per la globalità dei banchettanti: B. DAVANZATI, Opere (Firenze, 1852 - '53, 2 voll.) II, p.358: "Anna gli fece avvelenare la pentola" (negli Statuti si legge che molti delinquenti si servivano per i loro crimini di bambini e minori sì che mentre questi sarebbero stati salvaguardati contro le pene dall'età, loro, i mandanti, avrebbero potuto allontanare da sè i sospetti o scampare dalle massime accuse, d'ufficio e non).
L'indagine sui Veleni in uso nell'epoca comporterebbe una trattazione specifica
[per un approfondimento vedi l'interpretazione che su avvelenamento, sintomatologia, veleni e tossici, e quindi sulle tipologie di avvelenamento darà F. Puccinotti nelle sue celebri Lezioni di Medicina Legale]
ma per avere un'idea si possono citare:
La CICUTA che le streghe avrebbero poi usato come componente fondamentale del loro velenoso UNGUENTO,
il CORIANDOLO era usato in erboristeria ma era anche noto per esser ingrediente di filtri stregoneschi.
L'ERBA SARDONICA o SARDONIA causava come veleno delle convulsioni del RISO SARDONICO ma era anche utilizzata in certi giovevoli medicamenti.
Il GIUSQUIAMO veleno di estrazione vegetale, molto economico, popolare e tristemente diffuso (anche nell'Amleto di Shakespeare viene citato il giusquiamo come il veleno che il fratello del re di Danimarca e padre di Amleto avrebbe istillato nelle orecchie del congiunto per succedergli come Sovrano di Danimarca e sposarne la consorte).
Lo STRAMONIO od "erba delle streghe" in dosi massicce comportava alterazioni nervose, disturbi visivi, allucinazioni: lo stramonio è una pianta delle solanacee cui venne attribuito il soprannome d' "erba delle streghe o del diavolo", nei paesi anglosassoni ove si credeva che i suoi componenti alcaloidi servissero per gli incantesimi delle streghe causando, in occasione di carestie, sanguinose persecuzioni verso chi ne coltivasse anche piccole quantità nei propri orti: le foglie dello stramonio, originario della regione caspica ma diffuso allo stato spontaneo in tutta Europa, costituiscono la droga (stramonii folia) della Farmacopea ufficiale italiana contenente l'alcaloide josciamina, che nell'estrazione si trasforma in atropina, il cui uso in terapia si esplica quale calmante: in merito si propone qui la lettura del saggio, scaricabile, di S. MARSZALKOWICS, L'elemento tossicologico nella stregoneria e nel demonismo medievale in "Lavori di storia della medicina", 1936-7, Roma, ed.1938.
In particolare poi l'UNGUENTO DELLE STREGHE: sarebbe servito per partecipare alle riunioni magiche del SABBA.
Secondo i pochi autori che lo citano sarebbe stato composto da BELLADONNA, GIUSQUIAMO, CICUTA, canapa indiana, oppio.
Ben si capisce dagli ingrendienti che molte persone indagate, comprese le presunte STREGHE, non sapessero cosa rispondere e a volte pensassero realmente di aver intrattenuto relazioni col demonio.
Le sostanze stupefacenti contenute in questo UNGUENTO che tuttavia sarebbe stato assunto sotto forma di lavanda procuravano alterazioni della psiche e gravi stati allucinogeni da cui era esaltata la sfera erotica: sì che spesso le presunte orge altro non erano che esplosioni solitarie di erotismo paradossale: MANTA-SEMOLLI, s.v. Belladonna.
GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA, forse il più prestigioso esponente della MAGIA NATURALE, diede una sua interpretazione alternativa al tema dell'UNGUENTO STREGONESCO (di cui fra l'altro riprese una ulteriore "formula">vedi qui nella chiara traduzione di A. Zencovich (di cui, in merito resta fondamentale tutta l'opera A. ZENCOVICH, Donne, Diavoli e Streghe nella biblioteca di Padre Angelico Aprosio a Ventimiglia, Regione Liguria ed., 1998):
Benché queste cose siano quanto mai commiste di implicazioni demoniache, risulta tuttavia, a chi le osservi con attenzione, che esse possano accadere per forza di natura.
Riferirò quanto ho appreso dalle interessate: prendono grasso di bambini [il Nider nel Formicarius -testo complementare del celeberrimo Malleus Maleficarum o Maglio delle Streghe- riportò specificatamente le risultanze di processi tenuti a Berna] e lo fanno cuocere nell'acqua in un vaso di rame, lasciando addensare e quindi depositarsi ciò che resta della bollitura, poi lo raccolgono e se ne servono subito per l'uso. Insieme mescolano eleoselinum (specie di appio), ACONITO, foglie di pioppo e fuliggine.
Oppure, in un altro modo, prendono sium (gorgolestro), calamo aromatico, potentilla, sangue di pipistrello, solanum sonniferum (giusquiamo) e olio e mescolano le varie cose, facendo molta attenzione mentre le lavorano.
Poi si ungono tutte le parti del corpo, dopo averle strofinate fino ad arrossarle, affinché il calore vi sia richiamato, poiché qualche volta, sebbene di rado, può succedere che l'unguento si rapprenda a causa del freddo.
Per distendere la carne e fare aprire i pori della pelle aggiungono del grasso, ovvero il liquido oleoso che cola dal medesimo, perché l'effetto dei principi attivi penetri nel corpo e sia migliore e più forte: non dubito infatti che ciò abbia la sua importanza.
Così sembra loro di essere trasportate nell'aria in una notte di luna, tra convivi, musiche, tripudi e di giacere insieme a bei giovani cosa che desiderano più di tutte. Tanta è la forza dell'immaginazione e la qualit`'a delle impressioni che, in pratica, la parte del cervello sede della memoria ne viene saturata e, dal momento che loro stesse sono, per naturale inclinazione, assai disposte alla credulità, si formano la convinzione che le proprie facoltà si modifichino, dato che notte e giorno non pensano ad altro.
A ciò contribuisce il tatto di cibarsi soltanto di bietole, radici, castagne e legumi.
Mentre ero occupato a documentarmi con la maggiore accuratezza possibile per questo lavoro e non sapevo decidermi su quale opinione prendere, mi capitò tra le mani una vecchietta che spontaneamente si offrì, per breve tempo, di rispondere a proposito di quelle donne che, a somiglianza degli uccelli notturni che portano tale nome, sono chiamate streghe e suggono di notte il sangue dei neonati nelle culle. Essa diede ordine che tutti i testimoni presenti con me uscissero fuori della stanza.
Denudatasi completamente si strofinò con un certo unguento, mentre noi la osservavamo da una fessura della porta.
Soccombendo all'azione delle sostanze soporifere, cadde in un sonno profondo.
Allora noi, da fuori, spalanchiamo la porta, che sbatté forte; ma tanta era la forza del sonno che la donna aveva completamente perduto i sensi. Torniamo fuori; ormai l'effetto del farmaco diminuisce, quindi cessa. Risvegliata dal torpore, lei si mette a dire molte cose deliranti, sostenendo di avere attraversato mari e monti e dando false risposte. Noi diciamo che non è vero e lei insiste; le mostriamo la sua pelle arrossata e lei, ostinatamente, resiste ancora di più.
Ma ciò che penso a proposito di queste cose sarà meglio raccontarlo in altra sede. Riportiamo il discorso al nostro argomento: siamo stati finora fin troppo prolissi. Di un'unica cosa però ritengo opportuno dare avviso: che l'esperienza facilmente potrebbe fallire.
Questi effetti non si verificano ccn tutti allo stesso modo, ma piuttosto con i soggetti melancolici, di costituzione molto fredda, che patiscono il freddo e hanno il metabolismo basso: essi infatti percepiscono le cose che hanno visto nel sonno esattamente come se le avessero vissute, e come tali le riferiscono.
Come ancora scrive lo Zencovich (mai abbastanza lodato investigatore di siffatti argomenti): "di fronte alla controversa questione dei poteri delle malefiche, il Porta manteneva un atteggiamento alquanto disincantato di "curioso". Pur riconoscendo nelle loro imprese l'esistenza di un contenuto demoniaco e mostrando anzi, di accettare per buona la tesi che quelle donne avessero l'attitucline di succhiare nottetempo il sangue dei neonati, considerava tuttavia preminente il dato naturale del fenomeno, vale a dire l'effetto allucinogeno delle sostanze impiegate.
Alla stessa conclusione -faceva capire- sarebbe giunto chiunque avesse osservato il fenomeno in modo critico (intuens), senza lasciarsi suggestionare più del lecito dalle tenebrose implicazioni dell'oggetto. Ammetteva di essersi trovato, all'inizio, nell'incertezza del giudizio, ma l'esperimento di cui era stato testimone aveva risolto i suoi dubbi: la donna non si era mossa dalla stanza, non era stata caricata sulle spalle dal demonio".
L'inchiesta cinquecentesca sulle presunte STREGHE DI TRIORA (su cui parimenti si ritornerà in questa sede adducendo documentazione e riflessioni inedite) procedette fra continue contraddizioni e qualche condono di legge come quello per un'altra minore, una ragazza di 13 o 14 anni di Baiardo, tal Giovannetta Ozenda, che confessò d'aver partecipato ad una sorta di sabba e di aver appreso l'arte di "far la polvere, con quale queste malefiche attossicano le persone cioè di ROSPI ARROSTITI" (come riporta il Ferraironi (p. 73): stando alle indagini del Ginzburg (P.287) questa POLVERE DI ROSPO non sarebbe stata pura voce di fantasia ma uno fra i vari tipi di UNGUENTO STREGONESCO tenedo conto del fatto che nella pelle di rospo è contenuta la BUFOTENINA sostanza cui sono attribuite delle spiccate PROPRIETA' ALLUCINOGENE.
E' del resto certo da tempi immemorabili al ROSPO COMUNE (Bufo, bufo) (anfibio della famiglia dei Bufonidi del genere Bufo) la "medicina empirica" abbia riconosciuto le caratteristiche dell'"animale velenoso".
In effetti sia il maschio, di colore brunastro, col capo depresso, sia la femmina, lunga fino a 20 cm. e di dimensioni doppie del maschio, non hanno nell'apparato masticatorio organi di inoculazione di alcun veleno, alla maniera per esempio delle "vipere".
Tuttavia la pelle spessa e fortemente verrucosa presenta un grande numero di ghiandole cutanee in grado di secernere un veleno.
Questo [da cui nel 1934 è stata estratta la BUFOTENINA sostanza allucinogena, usata per provocare sperimentalmente forme di psicosi temporanee] entrerebbe per contatto nel circolo dell' eventuale aggressore o predatore: si tratta di una forma di "avvelenamento" ritenuto proprio della stregoneria ma in effetti diffuso nella medicina antica quando i farmaci o le pozioni erano somministrate sia in campo curativo che in ambito criminale sotto forma di unguenti [somministrazione da contatto] [da cui la diabolica leggende degli untori [di peste e altre malattie].
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Prof. Bartolomeo Durante |
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