cultura barocca

SOLLECITATIO AD TURPIA

A.Prosperi (Tribunali della coscienza..., Einaudi, Torino, 1996, cap.XXV e XXVI) tratta il problema di relazioni peccaminose tra preti e donne penitenti e dimostra che il problema delle Confessioni fu più complesso di quanto si creda.
Egli in particolare cita un’istruzione del cardinal Millino al vicario arcivescovile di Genova per cui, pur giudicandosi al solito le “donne mutevoli di carattere, ingannatrici, false ed imbroglione oltre che superficiali e corruttibili”, era da accogliere la testimonianza delle donne contro gli ormai troppi preti accusati di "SOLLICITATIO AD TURPIA" doveva esser accolta dal tribunale.
SOLLICITATIO AD TURPIA (dal latino = "PROVOCAZIONE A COSE OSCENE") è un'espressione del diritto canonico della chiesa cattolica che si riferisce alla situazione in cui un chierico (presbitero o vescovo) usa la circostanza del sacramento della riconciliazione per provocare il o la penitente ad alcun tipo di pratica sessuale. La chiesa lo ha considerato sempre una cosa gravissima, al punto che il Codice di Diritto Canonico commina la pena della scomunica latae sententiae a chi lo pratica.
Nell'epca di Aprosio in merito al reato di
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[vedi qui la digitalizzazione integrale con indici della voce]

ci si avvaleva di molti testi: ed un testo esaustivo era considerata questa pubblicazione del teologo domenicano F. Potestà da cui è stata recuperata la precedente voce digitalizzata. Un problema per le donne (al di là del semplice ma rigido invito a valersi solo di confessori morigerati ed anziani) era però quello di non esporsi in tribunale ed in ciò concorrevano ugualmente le leggi dello Stato e della Chiesa. Gli “Statuti Criminali genovesi del 1556” (lib.II, capo 68) ritenevano infamante per ogni donna di buona reputazione recarsi in Curia anche solo come testimone (si accettavano testimonianze segrete in casa a funzionari demandati dallo Stato). La cosa -per quanto oggi sembri strano- era piú complessa nel caso di lunghe confessioni in chiesa: la donna stuprata poteva sempre sperare, dai tribunali laici, una qualche compensazione e, per le donne umili, una forma accettabile era quella del Matrimonio riparatore. Ma la donna insidiata da un prete doveva temere pericoli sottili, dall’infamia pubblica -quasi inevitabile- all’ostilità del fronte compatto del clero mirante a salvaguardare la propria immagine, ai sospetti del regime patriarcale di cui ella costituiva un anello nello stesso tempo fragile ed importante. Non a caso il pensatore genovese di primo Seicento Andrea Spinola, negativamente impressionato da ripetute e interminabili confessioni di una “gentildonna” scrisse: “[importa] assaissimo al buon governo che le nostre donne qui della città siano pie e devote sì, ma non scrupolose a segno, che scordatesi della cura della casa perdino la lor libertà moderata e ragionevole, con pregiudicio de’ mariti e della Repubblica, della quale esse sono gran parte” (A.SPINOLA, Scritti scelti, a c. di C.Bitossi, Genova, 1981, p.245)> preoccupava lo Spinola, pur sempre uomo di uno stato oligarchico e patriarcale strutturato secondo alleanze di famiglie, l’influenzabilità delle donne e il pericolo, tramite esse, dell’incunearsi d’un potere alternativo e disgregante (non escluso quello di Pontefice e Chiesa> v. i contrasti tra Braccio civile e criminale, Braccio secolare ed Inquisizione) in questo sistema di alleanze. Il frate genovese Girolamo Trimarchi (...De confessario abutente sacramento poenitentiae tractatus unicus..., Genova, per il Calenzani ed il Farroni, 1636) proibì a donne nobili e fanciulle di denunziare personalmente la sollicitatio a commettere reati sessuali col confessore ma stabilì che si ascoltassero nella loro dimora affidando ad onesto confessore la denunzia (per iscritto, secondo altri trattati ed alcuni consigli inquisitoriali). Per le donne questi meccanismi confessionali rappresentarono un certo progresso che però urtò a lungo contro il corporativismo del clero e l’omertà (nonostante gli avvertimenti di Vescovi e S. Uffizio) oltre che contro la macchinosità dei procedimenti che pur qualche volta causarono al confessore reo severe punizioni, non esclusa l’“abiura”.