SOPRA SI PUO' VEDERE COME ERA LA CITTA' ARGENTINA DI ROSARIO VERSO IL 1870: VEDI ORA UN ALTRO DETTAGLIO DELLA STESSA CITTA' APPARTENENTE ALLA PROVINCIA DI SANTA FE'
COLONIE AGRICOLE ARGENTINE ENTRO L'ANNO 1871
La colonia San Josè nell'Entre Rios [ha scritto N. Cuneo nel capitolo VII -qui ripreso- del suo volume sull'emigrazione italiana in Argentina] era stata fondata, nel 1857, dal generale Urquiza con cento svizzeri cattolici, ed aveva accolto nel 1859 circa venti famiglie italiane anche cattoliche, e nel 1860 aveva incorporato altri duecento coloni di varia nazionalità. Ad ogni famiglia furono concesse otto cuadras (13 ettari) di terra, materiale da costruzione, due vacche, due cavalli, quattrocento lire italiane per sementi nel primo anno, e viveri fino al primo raccolto. Con tali concessioni la colonia prosperò in modo che nel 1860 le famiglie ivi stabilite raggiunsero il numero di duecentotocinquanta, occupando il territorio di due leghe quadrate con una popolazione di millequattrocentoventun individui, dei quali. settecentosettantuno uomini e seicentosessanta donne, proprietari allora di quattromila pecore. Raccolsero in quell'anno settecento fanegas (quintali) di grano. Nel 1861 vi s'associarono altre famiglie quasi tutte di nostri connazionali. Nel 1870 la colonia conterà cinquecentotrentaquattro italiani. A tredici leghe da Santa Fé veniva fondata da Mariano Cabal nel 1868 la colonia Emilia. Situata sulla linea ferroviaria provinciale di Santa Fé, essa veniva a trovarsi in posizione critica, al di la delle frontiere e quindi alla merce degli Indi, protetti dalle dense brughiere del Rio Salado. A scongiurare tale pericolo, l'amministratore la stabilì nel centro stesso dei boschi senza curarsi di un terreno magnifico che si stendeva a mezza lega di là. Gli emigranti dovettero, quindi, affrontare l'affannoso lavoro del disboscamento, ed in quattro anni ognuno di loro riuscì appena a sgombrare quattro o sei cuadras rimanendo sempre il grave inconveniente delle radici.
I primi coloni della colonia Emilia furono italiani. L'anno dopo, in terra fertilissima, cosparsa di grandi boschi, di frequenti lagune, veniva fondata, dal Lambruschini, la colonia Cavour.
Provincia (133.007 km2; 3.068.765 ab. nel 1999; capoluogo Santa Fe ) dell'Argentina che si estende nel settore nordorientale del Paese su un territorio pianeggiante alla destra del Río Paraná , tra il Gran Chaco a N e la Pampa a S. Attraversata da numerosi fiumi (Paraná, Salado San Javier, Saladillo) e occupata da estese paludi e lagune, è caratterizzata da un clima temperato-umido, con precipitazioni oscillanti tra i 500 e i 1000 mm annui. Le risorse economiche principali sono l'agricoltura (cereali, canna da zucchero, cotone, tabacco, ortaggi, frutta, agrumi), l'allevamento bovino e suino e lo sfruttamento delle ingenti risorse forestali. Le industrie (alimentari, chimiche, della carta) sono ubicate nel capoluogo e nelle città di Rosario , Rafaela, Venado Tuerto , Reconquista , San Cristóbal, Esperanza , Santo Tomé, , San Jorge, Cañada de Gómez e Rufino.
1-colonia San Josè nell'Entre Rios
2-colonia Esperanza (Santa Fé)
3-colonia San Carlos (Santa Fé)
4-colonia San Jeronimo (Santa Fé)
5-colonie agricole valdesi
6-colonie patrocinate dal ligure G. B. Lavarello
7-colonie della provincia di Buenos Aires e dell'Entre Rios
8-principali sistemi di colonizzazione adottati in Argentina
9-colonie governative argentine
10-colonie erette da imprese private
11-colonie fondate dalla Compagnia Ferroviaria Centrale Argentina
12-colonie organizzate nel comprensorio della città di Rosario
La colonia Esperanza (Santa Fé) era stata fondata nel 1857 dall'apostolo della colonizzazione Araon Castellanos sopra un'estensione di trentadue miglia quadrate con trecentoquarantacinque famiglie italiane cui s'aggiunsero poche altre di origine svizzera e tedesca. A ciascuna fa assegnato un lotto di venti cuadras di terreno corrispondente a trentadue ettari. Nelle stesse condizioni, se pure in più ristretta proporzione, si trovava la colonia San Jeronimo fondata nel 1858.
La colonia San Carlos, fondata nello stesso anno ad otto leghe da Santa Fé, raccoglieva un certo numero esiguo d'Italiani, poiché i nostri diplomatici del tempo non ne parlano. Comprendeva trecentotrenta lotti di venti cuadras ciascuno (32 ettari) concessi dal Governo alla Casa Beck ed Herzog di Basilea.
Le colonie di Santa Fé avevano superato molte traversie. A don Araon Castellanos, che aveva già lottato contro ostacoli d'ogni sorta, erano giunti dall'Europa coloni ignoranti e così poveri da non avere che la forza di vivere d'elemosina. Il governatore della provincia don Tose Maria Cullen venne in soccorso del Castellanos e con la sua attività e col suo denaro tentò assicurare un buon esito all'impresa. Ma il buon volere dei due uomini era ben poca cosa quando si trattava di abbandonare in un deserto duecento famiglie senza iniziative, ed ignoranti di tutto, abbrutite da lunghe miserie, dall'abitudine di vivere da schiavi e dall'attendere sempre il pane dagli altri. Svizzeri e Tedeschi lottarono per quattro anni con la fame, e le razioni di farina che dava loro il Governo di Santa Fé non bastavano ad attendere il grano della patria d'adozione. Il Governo Argentino venne allora in soccorso delle autorità provinciali e distribuì
a quei coloni razioni di carne. Le vacche che dovevano essere loro assegnate secondo il contratto, erano così selvagge che fuggivano, e si lasciavano raggiungere solo dal lazo e dalle bola del gaucho argentino. Ma non solo con la fame dovettero lottare. Gli Indi, senza attaccarli, li tennero in continuo allarme; le locuste per tre anni di seguito divorarono erbe e spighe; la siccità assoluta si prolungava. Essendo sterile il campo, si dedicarono alla silvicoltura e tagliarono legna e fecero carbone. "E' un doloroso mistero" -scriveva il Mantegazza- "ma è legge inesorabile, che la natura non conceda quasi mai all'uomo la terra come un dono: egli deve conquistarla col sangue o fecondarla colle lagrime; deve seminarvi le proprie ossa e graffiarla più d'una volta colle unghie della disperazione per farla feconda".
Dopo tre anni di patimenti, il cielo diede acqua alla terra, le locuste scomparvero, e le prime messi raccolte confortarono quegli uomini che stavano già per darsi vinti.
Nel 1862 la colonia occupava una superficie di trentasei miglia quadrate, e contava circa trecento famiglie; milletrecento coloni, pochissimi Italiani, molti Svizzeri e molti Tedeschi; nel 1863 circa millecinquecentosessanta. Elevarono anche una chiesa protestante e nel 1864 questo gesto provocò l'intolleranza del clero cattolico argentino che cercò d'insinuare nella colonia il germe della dissoluzione. Qualche anno dopo, intorno al 1867, anche i pochi cattolici colà residenti elevarono la loro chiesa e assicurarono le rendite per la vita del curato. Così fu composto nel modo più semplice il
dissidio religioso.
La colonia San Jeronimo era situata poco distante da quella di Esperanza. E se raggiunse la prosperità di questa, non ebbe le sue peripezie, perché mentre ad Esperanza una moltitudine di famiglie povere ed arruolate da agenti ignoranti o troppo brutalmente speculatori moriva quasi di fame in mezzo ad un fertilissimo terreno, a San Jeronimo vennero liberamente uomini e famiglie portandovi lavoro ed un piccolo capitale, e qui non vi fu fame né disperazione. Il Perkins, che studiò profondamente la colonizzazione argentina, conobbe un pover'uomo che venne a San Jeronimo con le risorse limitate alle sue braccia robuste. Economo e laborioso, dopo quattro anni, comprava un terreno, possedeva una casetta, pochi bovi e pochi cavalli, ed era alla testa di un capitale di venticinque e trentamila lire.
La colonia San Carlos fondata, come s'è detto, da una casa di commercio di Basilea, aveva stipulato con i coloni un contratto secondo il quale il colono s'obbligava a pagare all'amministrazione il terzo del raccolto per cinque anni; trascorso questo tempo la terra diventava sua proprietà esclusiva. La famiglia svizzera Sigel, ad esempio, composta del marito, della moglie e di cinque figli, giunse nel 1859 a San Carlos dopo avere ricevuto un'anticipazione per le spese di viaggio e di primo impianto. Nello spazio di quattro anni questa famiglia pagò tutti i suoi debiti alla Compagnia, ed intorno al 1868 possedeva vasti campi seminati a granoturco e frumento.
Sorta d'emigrazione per sé stante è quella dei Valdesi al Plata. Prima dell'editto di emancipazione firmato da Carlo Alberto il 17 febbraio 1848 e concesso il 25 dello stesso mese, le frequenti persecuzioni li avevano sempre obbligati ad emigrare ed a fondare colonie in Calabria, nelle Puglie, nel Delfinato, in Provenza, in Germania ed al Capo di Buona Speranza. Dopo l'editto, parecchi Valdesi profittarono dell'emancipazione per discendere dalle loro montagne nelle città italiane, sopra tutto a Torino ed a Pinerolo. Ma le valli rimanevano sempre eccessivamente popolate, e bastava il cattivo raccolto perché la miseria affliggesse numerose famiglie. I Valdesi pensarono all'emigrazione in America non soltanto perché sapevano che gran parte di questo continente era ricca e disabitata, ma anche perché non vi si pagavano ancora tasse e non v'era servizio militare che toglieva all'agricoltura le braccia più robuste. Nizza, 'Marsiglia, Tolone, Lione, Parigi, Ginevra attiravano, di solito, ogni anno, buona parte della gioventù. Dopo lunghe esitazioni, tre famiglie, costituenti tutte insieme undici persone, partirono nel novembre 1856; parecchie altre le seguirono l'anno dopo: duecento persone circa. Sbarcarono nell'Uruguay e si stabilirono alla Florida. Essendo loro negata dal fanatismo degli abitanti la pratica del culto, interessarono il sacerdote Pendleton, cappellano della Legazione inglese a Montevideo, che s'occupo sempre dei Valdesi emigrati nell'America del Sud. Seguendo il suo consiglio, i coloni valdesi comprarono nel luglio 1858 dei vasti territori nel dipartimento di Colonia sulla riva sinistra del fiume Rosario….
L'esperienza aveva consigliato al Lavarello di collocare i connazionali ingaggiati in Italia non già in luoghi sconosciuti, ma in zone già utilizzate nelle quali il lavoro potesse corrispondere ad un rendimento certo. I primi emigranti italiani da lui condotti in Argentina non affrontarono, quindi, le drammatiche vicende subite
da Svizzeri e da Tedeschi, ma trassero invece profitto dall'esperienza degli errori e dei dolori di questi loro predecessori. La bontà, l'onestà, il galantomismo rendono questo armatore benemerito nella storia dell'emigrazione italiana. Dove il Lavarello conduce emigranti non si patisce la fame ma si lavora e si guadagna, rendendo frutti morali e materiali all'ospitale Argentina. Lavarello non tradisce né i suoi conterranei né il Mitre: conduce uomini esperti, quali il Mitre li pretende, in terre fertili, come ha promesso agli emigranti. Sono gli Italiani de1 Lavarello, difatti, che introducono in Santa Fé ed in Entre Rios l'allevamento del baco da seta nutrendolo con la foglia del ricino; che iniziano la coltivazione degli ortaggi e delle leguminose, e ne conservano per molti anni il monopolio.
Le prime colonie dell'Argentina, per quanto giovani, per quanto iniziate e cresciute in tempi difficilissimi, offrivano ai capitalisti dell'Europa ed a molti infelici proletari italiani una risorsa preziosa, un terreno ancora vergine d'industria e di speculazione. Non si tratta, diceva il Mantegazza, di una caccia all'uomo fatta da avidi speculatori, ma di una cosa serissima...:" Quand'io vedo partire per il Rio de la Plata, ogni anno, dall'Inghilterra, giovani educati, per impiegare colà i loro capitali nelle compere di terre e per l'allevamento delle pecore, certi di realizzare in un periodo di tempo non maggiore dei cinque o degli otto anni, una fortuna che loro assicura una vita agiata at home, devo pure riconoscere che la questione di colonizzare la Repubblica Argentina è molto seria e merita tutta la nostra attenzione ".
Per il buon prezzo delle sue terre e dei suoi bestiami l'Argentina procurava ai piccoli capitali vantaggi ben superiori a quelli offerti dall'Australia, dalla Nuova Zelanda e dal Capo di Buona Speranza.
Nella stessa provincia di Buenos Aires i terreni, pur essendo più cari che altrove, e nonostante che dal 1860 al 1868 avessero subito un notevole aumento, costavano da tre a dieci scellini l'acre. Una estensione di una lega di buone terre poteva dar pascolo copioso a venti o trenta mila montoni e costava sei scellini. Nell'Entre Rios, in un'estensione di più di seicento miglia, presso la città di Gualeguaychiù, c'era una vera colonia di campagnoli inglesi che s'erano dati all'allevamento dei montoni. Erano veri gentiluomini, con camicie di Olanda, che fumavano sigari avana, i quali con la flessibilità tutta propria della loro razza si facevano gauchos per una decina d'anni, indossavano chiripa e poncho, gettavano il lazo ai cavalli ed andavano, con le carabine, alla caccia dei giaguari e dei venados.
In Entre Rios il valore delle terre era minore che nella provincia di Buenos Aires, e vasti campi erano posseduti da persone che non avevano altri diritti di proprietà che quelli del lungo possesso; quei diritti, cioè, che la legge d'Australia definiva diritti degli squatters.
Gl'Italiani non si trovavano nella beata condizione degli Inglesi: non potevano, come questi, trasferire in Argentina un piccolo capitale, ma dovevano limitarsi ad offrire le loro braccia.
Il fallimento della Legione Anglo-Italiana; i cattivi risultati dati dai primi coloni della Esperanza; le pessime condizioni nelle quali versavano questa ed altre colonie a cagione dell'ignoranza e dell'inganno di certi agenti e di certi speculatori, avevano reso diffidente il Governo argentino. Per distribuire, secondo un criterio logico, gli emigranti al loro sbarco, era stata creata sin dal 1855 la Commissione Permanente e la Sociedad Protectora de la Emigracion. Ma solamente dopo un decennio, queste Società, resesi esatto conto delle difficoltà da superare e delle circostanze favorevoli da sfruttare, cominciarono a seguire un vero e proprio metodo e non s'affidarono più al caso.
Nella provincia di Buenos Aires la valorizzazione delle terre era favorita dalla costruzione delle ferrovie. Una legge -del 27 luglio 1866- costituiva in questa provincia numerosi centri agricoli nelle vicinanze delle stazioni ferroviarie situate a cento chilometri almeno dalla capitale, e quei proprietari che non avevano presa l'iniziativa di fondare una colonia furono espropriati. In tre anni si formarono così duecentocinquanta borgate, comprendenti una superficie coltivabile di 2.210.000 ettari. Secondo lo Handbook Mulhall (1885), il numero degli Italiani che nel 1865 lavoravano nelle colonie agricole della provincia di Buenos Aires era di 21.370.
Ma la tendenza dei lavoratori emigrati in questa provincia non fu quella di raggrupparsi in colonie come avvenne a Santa Fé. Ognuno si fissava da solo dove trovava maggiori vantaggi per comprare, affittare, associarsi al padrone del terreno, commerciare con i vicini, buoni consumatori dei suoi prodotti agricoli. Ciò accadeva, sopra tutto, perché, nella provincia di Buenos Aires, l'agricoltura
s'alternava con la pastorizia, ed anzi in certe zone era secondaria rispetto ad essa.
Quindi la legge del 1866 non avendo tenuto presente questa tendenza, né la tradizionale ricchezza della pastorizia nella quale erano investiti i maggiori capitali locali, i più importanti Istituti bancari della provincia se ne risentirono fatalmente. I pochi terreni appartenenti all'erario provinciale rimasero soggetti a pesi che ne impedirono l'acquisto ai coloni e, d'altra parte, le transazioni dello stesso erario erano tali che ogni idea di reazione, intesa nel senso d'applicare nuovamente la legge d'espropriazione ai terreni tenuti incolti era destinata a cadere per la necessità di dovere provvedere in primo luogo al servizio del debito provinciale.
Di solito gli immigranti agricoltori che arrivavano sprovvisti dei capitali necessari all'acquisto dei terreni si collocavano come braccianti con un salario mensile che variava secondo la località e la perizia loro. In genere, questo salario s'aggirava intorno ai trenta pesos oltre il vitto e l'alloggio.
Sicché, alla fine dell'anno agricolo, il contadino, se sobrio ed attivo, poteva possedere un piccolo capitale.
Il valore dei terreni nella provincia di Buenos Aires era variabile, e dipendeva in gran parte dalla qualità e profondità della terra che ne formava la superficie, dal genere di coltivazione possibile, dall'altitudine, dalla maggiore o minore distanza dai centri di popolazione e dalle stazioni ferroviarie, dall'abbondanza o scarsezza di acque.
Nella parte settentrionale della provincia di Buenos Aires la proprietà fondiaria era frazionata. La vicinanza di Buenos Aires ed i sicuri approdi fluviali sopra il Parana, l'assenza di vaste zone paludose, resero possibile un sufficiente popolamento di questa regione sin dall'inizio del movimento agricolo, ossia sin da quando, per il poco valore della proprietà fondiaria, per la mitezza delle imposte e del costo della vita, riuscì facile al colono ottenere col guadagno di una o di poche annate favorevoli una proprietà sufficientemente estesa. Ciò spiega oggi da un lato, il relativo benessere della vecchia popolazione agricola d'allora nel triangolo settentrionale della provincia platense: popolazione che ha visto centuplicare, nel corso di una generazione soltanto, i prezzi delle terre da essa in buona fede possedute.
Assai diverso invece era il quadro che presentava la regione centro-orientale della provincia, che per la vicinanza del mare e la bontà dei terreni avrebbe dovuto trovarsi in condizioni poco diverse da quelle del triangolo settentrionale. Invece qui la popolazione rimase scarsa; assai rari di numero erano i centri urbani, e lo svolgimento agricolo del paese fu, per molti anni, stazionario. Nella zona posta ad oriente del meridiano di Buenos Aires prevaleva assoluta la grande proprietà indivisa (estancia) con terreni destinati unicamente all'allevamento del bestiame. In queste estancias si praticavano colture con mano d'opera italiana, con fittavoli o giornalieri fissi. Queste coltivazioni si prefiggevano principalmente il miglioramento dei prati naturali ed erano quindi temporanee. Il numero dei proprietari italiani, tutti settentrionali, era relativamente piccolo. La terra veniva, di solito, affittata al connazionale che la utilizzava, seminandovi granoturco, patate, ortaggi, nelle vicinanze dei centri, e solo in via secondaria frumento e lino. In queste zone colonizzate e nelle vicinanze dei pueblos, gran parte del suolo era destinata a pascolo naturale, ed i campi erano di regola migliori nelle province di Cordoba, Santa Fé dove era più sviluppata la produzione dell'erba medica. L'elevatezza dei prezzi fondiari e la tendenza nei latifondisti a conservare l'estancia, rese difficile l'immigrazione stabile in questa zona.
Al Plata, ed è questa una qualità caratteristica della nostra
emigrazione i nostri s'adunano in città: nell'interno vanno per
obbligo, quando sono stati ingaggiati, quando, cioè, hanno sottoscritto impegno contrattuale; oppure quando lo Stato nel quale si recano non ha un capoluogo operoso ed attivo quale e Buenos Aires, che non subisce sino ad allora paragoni con le altre città della Repubblica Argentina. Questo spiega perché sia facile incontrare, prima del 1870, Italiani tanto in campagna quanto in città nei diversi Stati della Federazione, m'a non in quello di Buenos Aires quantunque costoro, quando sbarcano, facciano il possibile per restare. Quindi il Governo Federale, quando legifera in materia d'immigrazione o prende provvedimenti al riguardo, è posto dalle circostanze nella condizione di preoccuparsi molto più della popolazione degli altri Stati che non dello Stato di Buenos Aires. Perché questo attraeva gente da sé: quelli invece dovevano essere favoriti dall'attenzione e dalla propaganda del Governo. Chi sbarcava, difatti, (i due terzi almeno), attratto dal fascino della metropoli, cercava…di stabilirvisi rischiando, in tal modo, di far abbassare la media dei salari. Solo la necessità di percepire una mercede più alta li conduce fuori dalla città: mai il desiderio di abbandonarla.
La fondazione delle colonie s'intensifica, allora, nei dintorni estremi del bacino del Plata, ma non oltre. Tant'è vero che, delle trentaquattro colonie agricole promosse dal Governo argentino fra il 1856 ed il 1871, trentuno sorsero nelle province di Santa Fé e Cordoba e sole tre in quella di Entre Rios.
I principali sistemi di colonizzazione adottati in Argentina erano:
1) colonizzazione diretta dei Governi nazionali e provinciali;
2) imprese di colonizzazione che sottoponevano a colture, contrade perfettamente nuove oppure limitrofe ad altre zone colonizzate;
3) proprietari di grandi tenute nelle quali s'intensificava l'allevamento del bestiame;
4) colonizzazione esercitata da Opere Pie.
Il primo sistema di colonizzazione ufficiale ebbe esito sfavorevole per la abituale inettitudine di tutti gli Stati a gestire imprese economiche. Il Governo nazionale e quelli provinciali profusero fiumi di denaro senza riuscire a dare incremento alla prosperità del paese, sia perché le colonie si stabilivano spesso su terreni inadatti, sia perché i Governi vi inviavano persone incapaci invece degli immigrantes agricultores richiesti dalla legge.
La colonizzazione dovuta a grandi imprese riuscì meglio della prima, quantunque avesse implicato uno sciupio inconsiderato e
disumano di forze ed uno sfruttamento feroce della terra a causa dei prezzi fittizi e delle condizioni disastrose create agli agricoltori dall'aumento inverosimile del valore della terra. Il terzo sistema di colonizzazione fu subordinato generalmente non già al concetto di instaurare una coltura nuova sopra un terreno vergine, bensì a scopi zootecnici. Il disegno dei grandi proprietari, allevatori di bestiame, fu quello di far dissodare la loro terra per migliorare il pasto del bestiame.
La colonizzazione esercitata da Opere Pie è definita impropriamente, perché sotto questa denominazione si comprendevano piuttosto imprese coloniali israelite sorrette da larghi capitali di generosi fondatori. Venne iniziata in Argentina da uno Svizzero, il barone Maurizio Hirsch, che impiegò un capitale di cinquanta milioni di lire italiane d'allora, allo scopo di promuovere l'elargizione degli Israeliti d'Europa e d'Asia sottoposti a persecuzioni politiche ed a commerciali.
Nel 1861 il Governo di Santa Fé aveva fondata la colonia Santa Rosa; nel 1864 Guadalupe. Araon Castellanos, dopo Esperanza (1856), fondò, nel decennio seguente, altre sei colonie; cinque furono create nel '67; due nel '68; sette nel '69; tredici nel '70.
La colonia Guadalupe ad una lega dal porto di Santa Fé, fu fondata, a detta del Franceschini, dal Governatore Patrizio Cullen su una superficie di ottomila ettari con emigranti tedeschi provenienti dal Rio Grande do Sul. Ben presto fu popolata da Italiani. Le siccità prolungate e le piogge fuori stagione fecero perdere tempo prezioso. I coloni passarono ore d'angoscia, momenti terribili. Dopo otto anni, nel '72, Guadalupe era tutta cosparsa di ottimi frutteti.
La colonia Corondina fu inaugurata nel 1867. Dopo cinque anni contava centoventisette Italiani su duecentoventi persone.
Nel 1868, un'impresa privata, trasformava in Santa Fé, una tenuta in colonia vendendo ogni frazione di terreno al prezzo di duecentocinquanta pesos pagabili in quattro annate. Sorse, così, la colonia Las Tunas che, nell'evoluzione agricola dell'Argentina, rappresenta l'inizio della vendita diretta dei terreni agli emigranti anzi che alle imprese. Questo modo d'acquisto andò sempre più generalizzandosi, fino ad assumere la caratteristica attuale di quel contratto che consente di pagare, in ottanta o cento mensilità, il prezzo relativo d'ogni lotto. Originalmente svizzera, Las Tunas, dopo quattro anni contava già diciassette coloni italiani, proprietari di concessioni "fra cui -scrive il Parisi- non abbiamo potuto, fra tutti i nomi storpiati, che rilevare quelli di Manetti, Moruzzi e Luigi Sirro".
Nel 1870 Maurizio Franck seguendo l'esempio del Lambruschini suddivideva tre leghe quadrate di terreno che possedeva nelle vicinanze della città di Santa Fé, frazionandole in lotti di trentatre ettari ciascuno e fondo così la colonia Frank.
La colonia San Augustin, sorta nello stesso anno a sei leghe dalla capitale, contava, due anni dopo, duecento ottantadue Italiani su quattrocentotrentasei coloni sparsi in ottantasette famiglie. Gli altri erano Argentini (156) e Levantini (2).
Le colonie fondate dalla Compagnia Ferroviaria Centrale Argentina furono quattro: Canada de Gomez, Bernstadt, Carcarana e Tortugas.
Canada de Gomez, fondata nel 1870, ebbe come primi coloni gl'Italiani.
Bernstadt, creata nello stesso anno aveva duemila persone distinte in trecento ottantacinque famiglie.
Tortugas pessima colonia posta in terreno difficile e priva di comunicazioni, fu fondata nel 1871 con trentadue famiglie nostre sopra un totale di trecentoquattro famiglie coloniche.
L'anno prima, a nove leghe da Rosario, il banchiere argentino Carlo Casado, aveva fondato nel 1870, la fertilissima colonia di Candelaria.
Questa colonia aveva la particolarità del divieto assoluto dell'uso delle bibite alcoliche. Quivi regnò sempre pace ed ordine.
Nella città di Rosario, sin dal 1848, cioè sin dal suo nascere, aveva avuto prevalenza l'elemento italiano su tutta la collettività cosmopolita che costituì la sua compagine sociale. Nel 1858, su una popolazione totale di novecentosettantotto persone contava ottocentotrentasei Italiani che salirono alla cifra di 2940 nel 1871 ed a quasi seimila nel 1876.
E poiché fino dal 1871 l'Agenzia consolare di Santa Fé era stata annessa a quella di Rosario, la popolazione italiana delle due città, dei sobborghi e quintas (orti) condotti da connazionali, e delle quaranta colonie agricole attornianti la città, si calcolava da dodici a quindicimila anime.
L'emigrazione italiana verso questo centro d'affari era sempre stata crescente. Il nostro console in Rosario, Luigi Petich, volle nel 1870 fondare alcune colonie nelle vicinanze della città. Ad una di esse pose nome Nuova Italia, ed era situata sul Rio Parana a quattro leghe da Rosario, con quindici famiglie ed ottanta persone tutte italiane. All'altra diede nome Nuova Spagna. Ma tutte e due dovettero fondersi insieme e nessuna delle due divenne prosperosa come il Petich aveva sperato.
Nel 1870 veniva creata ancora la colonia Jesus Maria, la più fertile e la più importante del dipartimento Iriondo-Rosario. S'estendeva per cinque leghe lungo la costa del Rio Parana, ed in un campo dove due anni prima pascolavano solo gli armenti, nel 1872 si formò un villaggio fiorente con un tempio così bello che neppure Rosario ne possedeva uno simile. (Su 950 persone, componenti 180 famiglie agricole, 768 erano italiane, 130 argentine, 52 francesi).
Alcune di queste famiglie meritano speciale menzione. La famiglia Grasso giunta nel 1869 dal Piemonte a Montevideo, passò successivamente nella colonia Jesus Maria. Contrasse un debito coloniale ma riuscì a liberarsene; acquistò varie concessioni, fabbricò case, introdusse strumenti e macchine agricole e s'arricchì. Nel 1872 raccolse duecennto fanegas (circa 220 quintali) di granoturco e frumento di ottima qualità. La famiglia Pastore, pure piemontese, giunse alla colonia San Carlos, ove dimorò otto anno. Passò poi nel 1870, a Jesus Maria dove s'arricchì e dove attirò altri Italiani. Nel 1872 possedeva già alcune case, un mulino e diverse cuadras coltivate ad orto ed a frutteto. In quest'anno con semenza di venti fanegas di grano (22 quintali circa) ne raccolse trecento, nonostante la perdita di un terzo del raccolto guastato dalle piogge. Il mulino Pastore mosso da muli, macinava il grano per tutta la colonia.
La famiglia Fraire giunse nel 1868 anch'essa dal Piemonte; acquistò due concessioni nella colon di San Carlos dove rimase un anno e mezzo. Passò poi a Jesus Maria ove acquistò tre altre concessioni. Nel 1872 questa famiglia era proprietaria di due case, di una mascalcia, e di un podere. In quell'anno raccolse duecento fanegas di grano e trecento di granoturco.
La famiglia Colmeno era invece d'origine lombarda. Giacomo Colmeno arrivò a Santa Fé nel 1871 con passaggio gratuito. Andò subito alla colonia Corondina e nel giugno dello stesso anno a Jesus Maria. Ebbe anticipazioni dai proprietari e secondato dalla fortuna, raccolse in breve circa settecento fanegas di grano, seicento delle quali vendette in una sola volta al prezzo di quattro boliviani (16 lire) la fanega. Possedeva cinque concessioni, due ranchos, animali e macchine.
Alberdi è un paesello che dista pochi chilometri da Rosario, e nel quale i ricchi dell'industre città hanno costruite ville, alcuni per trascorrervi qualche mese d'estate ed altri per passarvi tutto l'anno. Fu fondato dall'italiano Puccio. Superiore ad ogni elogio fu la fabbrica di mattonelle che, iniziata da solerti e laboriosi Italiani (Pederzini Edoardo, Malagosi Vincenzo, Della Mora Pietro e Sante Civilotti) si è trasformata in un grandioso stabilimento industriale. Un nostro ricco connazionale, Guglielmo Malberti di Novara, garibaldino del 1866, fu l'anima della commissione edilizia di questo paesello. Un giorno Rosario distaccherà in Alberdi il club delle regate.
Nelle altre province dell'Argentina il movimento migratorio italiano fu più lento e si rese sensibile ed evidente solo immediatamente dopo il 1870. Se si eccettuano queste due province di Buenos Aires e Santa Fé, negli altri Stati dell'Argentina gli Italiani non vanno spontaneamente: perché quantunque vi siano in essi terreni fertilissimi, sono tuttavia troppo lontani dai porti di mare.
L'Italiano, al Plata, non s'amalgama con la popolazione locale e neppure desidera vivere da solo in mezzo ad estranei.
Egli emigra nella provincia di Buenos Aires od in quella di Santa Fé, perché qui risiedono molti altri suoi conterranei fra i quali egli si sente a suo agio, Italiano fra Italiani, ospite riguardoso in terra altrui, rispettoso e rispettato. Se si confronta, difatti, la fertilità del terreno di queste due province con quella delle altre, si vede subito e dopo il 1870 lo constaterà lo stesso Italiano che vi sarà condotto dalla corrente migratoria che l'emigrato avrebbe potuto trarre la stessa utilità anche dalla coltivazione dei campi che egli invece evita. Ma se per dannata ipotesi non vi fosse stato in Santa Fé ed in Buenos Aires neppure un connazionale, vi sarebbero rimasti sempre due porti: Buenos Aires e Rosario. E bastavano. Avrebbero consentito all'emigrante il contatto, l'uso comune della lingua, e il bisogno del traffico con altri Italiani che andavano e venivano.
E' questa la caratteristica dell'emigrazione italiana anteriore al '70; gli stessi esuli che si sono allontanati dalla patria in odio a certe leggi, a certi Governi, a certi uomini, a certe consuetudini che sono prettamente italiane, vivranno tutti lungo la costa, vicino al
mare, fra conterranei coi quali sono, per molteplici ragioni in disaccordo, ma contro i quali potranno sempre spiegarsi con un'invettiva nella lingua materna; sulla costa potranno sempre incontrare qualcuno che si sottometta a chiacchierare con loro di quei Governi, e di quei persecutori che li hanno resi fuorusciti ma non dimentichi della patria loro….
….L'Entre Rios, Cordoba, San Luis, Mendoza sono fertili quanto Santa Fé e Buenos Aires, hanno clima e temperatura ottimi, e creeranno, dopo il 1870, la fortuna di certi Italiani che resteranno memorandi, come figure, nella storia economica dell'Argentina ed in quella della nostra emigrazione.
Ma gl'Italiani vi si recheranno solamente dopo che un gruppo audace d'altri Italiani li abbia preceduti. Da allora in poi sopporteranno l'alea dell'esperimento e costituiranno, dopo il risultato felice, il nerbo dell'attività industriale ed agricola del paese. Prima di seguire un'incognita che può rendere o moltissimo o nulla, i nostri emigranti preferiscono limitarsi a guadagnare abbastanza e seguire l'esempio tracciato dai predecessori.
Anche in Santa Fé, gl'Italiani avevano avuto buon fiuto. Questa provincia era favorita dalla natura del suolo, del clima, delle facili comunicazioni con il Rio della Plata e con l'Atlantico, dalle ferrovie che l'univano alle province interne, ma possedeva anch'essa qualche colonia decaduta alla quale però i nostri non appartenevano.
Infatti nelle colonie più disgraziate, Estancia grande, Francesa, Inglesa, California, Eloysa, Gruetli, Varios Puntos, Hansa, Germania, non v'erano Italiani.
In quelle d'Esperanza, San Jeronimo, Las Tunas, Humboldt e Villa Urquiza, essi costituivano una minoranza. Nelle altre erano l'elemento preponderante.