GIUSEPPE PARINI (Bosisio 1729-Milano 1799), sopra effigiato in un ritratto della maturità, esordì con Alcune poesie di Ripano Pupilino (1752).
Nel 1754 fu ordinato sacerdote.
Precettore in casa Serbelloni, poi redattore della Gazzetta di Milano, insegnò al ginnasio di Brera.
Nel 1796 fece parte della municipalità di Milano, ma se ne ritirò poco dopo, sdegnato per gli atteggiamenti demagogici del nuovo governo.
Nel 1763 pubblicò Il Mattino, prima parte del Giorno, poema didascalico-satirico in endecasillabi sciolti, inteso a colpire il costume della società aristocratica milanese del tempo.
Nel 1765 uscì Il Mezzogiorno, mentre Il Vespro e La Notte, incompiuta quest'ultima, uscirono dopo la sua morte (1801).
Dal 1757 al 1795 compose le Odi, con intenti di educazione civile e morale.
Tra le più note sono da annoverare L'educazione, La caduta, Il dono, Il messaggio, Il pericolo, Alla musa ma di particolare significato filantropico, sia per finalità socio-sanitario-profilattiche che per valenza innotiva in campo giuridico, meritano una specifica menzione le odi La salubrità dell’aria (sulla necessità di offrire ai popoli ambienti sani, non paludosi e quindi non malarici), L’innesto del vaiolo (sulla nuova pratica inoculatoria avverso le epidemie di vaiolo), La vita rustica (sui pregi dell'esistenza agreste e sana, lontana dalle contaminazioni delle città) ed ancora Il bisogno (ode costruita in sintonia con le nuove idee illuministiche, capeggiate dal Beccaria, sulla riforma delle leggi penali, l'abolizione di tortura e l'opportunità del carcere rieducativo).
Tra le prose, sempre d'impegno civile merita una menzione particolare il Dialogo sopra la nobiltà (1757) ma non possono certo venir obliati il Discorso sopra la poesia (1761) e il Dei principi generali delle belle lettere applicati alle belle arti (scritti forse tra il 1773 e il 1775).
E’ altresì da rammentare il libretto per l’omonima opera teatrale di Mozart l’Ascanio in Alba
L'INNESTO DEL VAIUOLO LA SALUBRITÀ DELL'ARIA LA VITA RUSTICA IL BISOGNO
DIALOGO SOPRA LA NOBILTA'
PER UNA RIFORMA DEI LIBRI SCOLASTICI
"I precetti, a lungo andare, stancano la mente de' giovanetti e la disgustano dello studio: però conviene che siano pochi e facilmente comprensibili.
Quello proposto costituisce il frammento forse più significativo del Piano per la riforma dei libri elementari scolastici compilato da Giuseppe Parini nel 1774 ed approvato dalla corte imperiale e dal ministro Kaunitz il 24 gennaio 1775: si tratta quindi di pagine contemporanee ai Princìpi generali e particolari delle Belle Lettere rimasti inediti fino a tempi abbastanza recenti. Vedi comunque G. Parini, Poesie e Prose, con appendice di poeti satirici e didascalici del settecento, a cura di Lanfranco Carretti, Riccardo Ricciardi editore, Milano-Napoli, 1951.
"Analizzare i progressi dell'ISTRUZIONE negli ultimi due secoli costituisce un contributo importante onde fissare alcuni aspetti del progresso non solo civile degli Stati dell'Italia preunitaria e quindi della stessa dopo la conquista dell'unità.
AL DOTTORE
GIAMMARIA BICETTI DE' BUTTINONI
[Composta nel 1765 l'ode fu edita per la I volta nell'anno stesso in cui fu scritta: Milano, per i tipi del Galeazzi]
O Genovese ove ne vai? qual raggio
Brilla di speme su le audaci antenne?
Non temi oimè le penne
Non anco esperte degli ignoti venti?
Qual ti affida coraggio
All'intentato piano
De lo immenso oceano?
Senti le beffe dell'Europa, senti
Come deride i tuoi sperati eventi.
Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice,
Che natura ponesse all'uom confine
Di vaste acque marine,
Se gli diè mente onde lor freno imporre:
E dall'alta pendice
Insegnolli a guidare
I gran tronchi sul mare,
E in poderoso canape raccorre
I venti, onde su l'acque ardito scorre.
Così l'eroe nocchier pensa, ed abbatte
I paventati d'Ercole pilastri;
Saluta novelli astri;
E di nuove tempeste ode il ruggito.
Veggon le stupefatte
Genti dell'orbe ascoso
Lo stranier portentoso.
Ei riede; e mostra i suoi tesori ardito
All'Europa, che il beffa ancor sul lito.
Più dell'oro, bicetti, all'Uomo è cara
Questa del viver suo lunga speranza:
Più dell'oro possanza
Sopra gli animi umani ha la bellezza.
E pur la turba ignara
Or condanna il cimento,
Or resiste all'evento
Di chi 'l doppio tesor le reca; e sprezza
I novi mondi al prisco mondo avvezza.
Come biada orgogliosa in campo estivo,
Cresce di santi abbracciamenti il frutto.
Ringiovanisce tutto
Nell'aspetto de' figli il caro padre;
E dentro al cor giulivo
Contemplando la speme
De le sue ore estreme,
Già cultori apparecchia artieri e squadre
A la patria d'eroi famosa madre.
Crescete o pargoletti: un dì sarete
Tu forte appoggio de le patrie mura,
E tu soave cura,
E lusinghevol' esca ai casti cori.
Ma, oh dio, qual falce miete
De la ridente messe
Le sì dolci promesse?
O quai d'atroce grandine furori
Ne sfregiano il bel verde e i primi fiori?
Fra le tenere membra orribil siede
Tacito seme: e d'improvviso il desta
Una furia funesta
De la stirpe degli uomini flagello.
Urta al di dentro, e fiede
Con lièvito mortale;
E la macchina frale
O al tutto abbatte, o le rapisce il bello,
Quasi a statua d'eroe rival scarpello.
Tutti la furia indomita vorace
Tutti una volta assale ai più verd'anni:
E le strida e gli affanni
Dai tugurj conduce a' regj tetti;
E con la man rapace
Ne le tombe condensa
Prole d'uomini immensa.
Sfugge taluno è vero ai guardi infetti;
Ma palpitando peggior fato aspetti.
Oh miseri! che val di medic' arte
Nè studj oprar nè farmachi nè mani?
Tutti i sudor son vani
Quando il morbo nemico è su la porta;
E vigor gli comparte
De la sorpresa salma
La non perfetta calma.
Oh debil' arte, oh mal secura scorta,
Che il male attendi, e no 'l previeni accorta!
Già non l'attende in orïente il folto
Popol che noi chiamiam barbaro e rude;
Ma sagace delude
Il fiero inevitabile demòne.
Poichè il buon punto ha colto
Onde il mostro conquida,
Coraggioso lo sfida;
E lo astrigne ad usar ne la tenzone
L'armi, che ottuse tra le man gli pone.
Del regnante velen spontaneo elegge
Quel ch'è men tristo; e macolar ne suole
La ben amata prole,
Che non più recidiva in salvo torna.
Però d'umano gregge
Va Pechino coperto;
E di femmineo merto
Tesoreggia il Circasso, e i chiostri adorna
Ove la Dea di Cipri orba soggiorna.
O Montegù, qual peregrina nave,
Barbare terre misurando e mari,
E di popoli varj
Diseppellendo antiqui regni e vasti,
E a noi tornando grave
Di strana gemma e d'auro,
Portò sì gran tesauro,
Che a pareggiare non che a vincer basti
Quel, che tu dall'Eussino a noi recasti?
Rise l'Anglia la Francia Italia rise
Al rammentar del favoloso Innesto:
E il giudizio molesto
De la falsa ragione incontro alzosse.
In van l'effetto arrise
A le imprese tentate;
Chè la falsa pietate
Contro al suo bene e contro al ver si mosse,
E di lamento femminile armosse.
Ben fur preste a raccor gl'infausti doni
Che, attraversando l'oceàno aprico,
Lor condusse Americo;
E ad ambe man li trangugiaron pronte.
De' lacerati troni
Gli avanzi sanguinosi,
E i frutti velenosi
Strinser gioiendo; e da lo stesso fonte
De la vita succhiar spasimi ed onte.
Tal del folle mortal tale è la sorte:
Contra ragione or di natura abusa;
Or di ragion mal usa
Contra natura che i suoi don gli porge.
Questa a schifar la morte
Insegnò madre amante
A un popolo ignorante;
E il popol colto, che tropp'alto scorge,
Contro ai consigli di tal madre insorge.
Sempre il novo, ch'è grande, appar menzogna,
Mio Bicetti, al volgar debile ingegno:
Ma imperturbato il regno
De' saggi dietro all'utile s'ostina.
Minaccia nè vergogna
No 'l frena, no 'l rimove;
Prove accumula a prove;
Del popolare error l'idol rovina,
E la salute ai posteri destina.
Così l'Anglia la Francia Italia vide
Drappel di saggi contro al vulgo armarse.
Lor zelo indomit' arse,
E di popolo in popolo s'accese.
Contro all'armi omicide
Non più debole e nudo;
Ma sotto a certo scudo
Il tenero garzon cauto discese,
E il fato inesorabile sorprese.
Tu sull'orme di quelli ardito corri
Tu pur, Bicetti; e di combatter tenta
La pietà violenta
Che a le Insubriche madri il core implica.
L'umanità soccorri;
Spregia l'ingiusto soglio
Ove s'arman d'orgoglio
La superstizïon del ver nemica,
E l'ostinata folle scola antica.
Quanta parte maggior d'almi nipoti
Coltiverà nostri felici campi!
E quanta fia che avvampi
D'industria in pace o di coraggio in guerra!
Quanta i soavi moti
Propagherà d'amore,
E desterà il languore
Del pigro Imene, che infecondo or erra
Contro all'util comun di terra in terra!
Le giovinette con le man di rosa
Idalio mirto coglieranno un giorno:
All'alta quercia intorno
I giovinetti fronde coglieranno;
E a la tua chioma annosa,
Cui per doppio decoro
Già circonda l'alloro,
Intrecceran ghirlande, e canteranno:
Questi a morte ne tolse o a lungo danno.
Tale il nobile plettro infra le dita
Mi profeteggia armonïoso e dolce,
Nobil plettro che molce
Il duro sasso dell'umana mente;
E da lunge lo invita
Con lusinghevol suono
Verso il ver, verso il buono;
Nè mai con laude bestemmiò nocente
O il falso in trono o la viltà potente.
[L'ode venne letta dall'autore nella milanese Accademia dei Trasformati nel 1759 in occasione di una pubblica lettura cui venne dato per argomento una serie di dissertazioni sul tema dell'"aria"]
Oh beato terreno
Del vago Eupili mio,
Ecco al fin nel tuo seno
M'accogli; e del natìo
Aere mi circondi;
E il petto avido inondi.
Già nel polmon capace
Urta sè stesso e scende
Quest'etere vivace,
Che gli egri spirti accende,
E le forze rintegra,
E l'animo rallegra.
Però ch'austro scortese
Quì suoi vapor non mena:
E guarda il bel paese
Alta di monti schiena,
Cui sormontar non vale
Borea con rigid' ale.
Nè quì giaccion paludi,
Che dall'impuro letto
Mandino a i capi ignudi
Nuvol di morbi infetto:
E il meriggio a' bei colli
Asciuga i dorsi molli.
Pera colui che primo
A le triste ozïose
Acque e al fetido limo
La mia cittade espose;
E per lucro ebbe a vile
La salute civile.
Certo colui del fiume
Di Stige ora s'impaccia
Tra l'orribil bitume,
Onde alzando la faccia
Bestemmia il fango e l'acque,
Che radunar gli piacque.
Mira dipinti in viso
Di mortali pallori
Entro al mal nato riso
I languenti cultori;
E trema o cittadino,
Che a te il soffri vicino.
Io de' miei colli ameni
Nel bel clima innocente
Passerò i dì sereni
Tra la beata gente,
Che di fatiche onusta
È vegeta e robusta.
Quì con la mente sgombra,
Di pure linfe asterso,
Sotto ad una fresc' ombra
Celebrerò col verso
I villan vispi e sciolti
Sparsi per li ricolti;
E i membri non mai stanchi
Dietro al crescente pane;
E i baldanzosi fianchi
De le ardite villane;
E il bel volto giocondo
Fra il bruno e il rubicondo,
Dicendo: Oh fortunate
Genti, che in dolci tempre
Quest'aura respirate
Rotta e purgata sempre
Da venti fuggitivi
E da limpidi rivi.
Ben larga ancor natura
Fu a la città superba
Di cielo e d'aria pura:
Ma chi i bei doni or serba
Fra il lusso e l'avarizia
E la stolta pigrizia?
Ahi non bastò che intorno
Putridi stagni avesse;
Anzi a turbarne il giorno
Sotto a le mura stesse
Trasse gli scelerati
Rivi a marcir su i prati
E la comun salute
Sagrificossi al pasto
D'ambizïose mute,
Che poi con crudo fasto
Calchin per l'ampie strade
Il popolo che cade.
A voi il timo e il croco
E la menta selvaggia
L'aere per ogni loco
De' varj atomi irraggia,
Che con soavi e cari
Sensi pungon le nari.
Ma al piè de' gran palagi
Là il fimo alto fermenta;
E di sali malvagi
Ammorba l'aria lenta,
Che a stagnar si rimase
Tra le sublimi case.
Quivi i lari plebei
Da le spregiate crete
D'umor fracidi e rei
Versan fonti indiscrete;
Onde il vapor s'aggira;
E col fiato s'inspira.
Spenti animai, ridotti
Per le frequenti vie,
De gli aliti corrotti
Empion l'estivo die:
Spettacolo deforme
Del cittadin su l'orme!
Nè a pena cadde il sole
Che vaganti latrine
Con spalancate gole
Lustran ogni confine
De la città, che desta
Beve l'aura molesta.
Gridan le leggi è vero;
E Temi bieco guata:
Ma sol di sè pensiero
Ha l'inerzia privata.
Stolto! E mirar non vuoi
Ne' comun danni i tuoi?
Ma dove ahi corro e vago
Lontano da le belle
Colline e dal bel lago
E dalle villanelle,
A cui sì vivo e schietto
Aere ondeggiar fa il petto?
Va per negletta via
Ognor l'util cercando
La calda fantasìa,
Che sol felice è quando
L'utile unir può al vanto
Di lusinghevol canto.
[L'ode fu verisimilmente scritta nel 1758 se non poco prima: uscì nelle Rime degli Arcadi, Roma, Giunchi, 1780, vol.XIII, senza titolo e sotto il nome arcadico del Parini, cioè Darisbo Elidonio: presso alcuni editori venne adottato in alternativa il titolo Su la libertà campestre)
Perchè turbarmi l'anima,
O d'oro e d'onor brame,
Se del mio viver Atropo
Presso è a troncar lo stame?
E già per me si piega
Sul remo il nocchier brun
Colà donde si niega
Che più ritorni alcun?
Queste che ancor ne avanzano
Ore fugaci e meste,
Belle ci renda e amabili
La libertade agreste.
Quì Cerere ne manda
Le biade, e Bacco il vin:
Quì di fior s'inghirlanda
Bella innocenza il crin.
So che felice stimasi
Il possessor d'un'arca,
Che Pluto abbia propizio
Di gran tesoro carca:
Ma so ancor che al potente
Palpita oppresso il cor
Sotto la man sovente
Del gelato timor.
Me non nato a percotere
Le dure illustri porte
Nudo accorrà, ma libero
Il regno de la morte.
No, ricchezza nè onore
Con frode o con viltà
Il secol venditore
Mercar non mi vedrà.
Colli beati e placidi,
Che il vago Èupili mio
Cingete con dolcissimo
Insensibil pendìo,
Dal bel rapirmi sento,
Che natura vi diè;
Ed esule contento
A voi rivolgo il piè.
Già la quiete, a gli uomini
Sì sconosciuta, in seno
De le vostr'ombre apprestami
Caro albergo sereno:
E le cure e gli affanni
Quindi lunge volar
Scorgo, e gire i tiranni
Superbi ad agitar.
In van con cerchio orribile,
Quasi campo di biade,
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I lor palagi attorniano
Temute lance e spade;
Però ch'entro al lor petto
Penetra nondimen
Il trepido sospetto
Armato di velen.
Qual porteranno invidia
A me, che di fior cinto
Tra la famiglia rustica
A nessun giogo avvinto,
Come solea in Anfriso
Febo pastor, vivrò;
E sempre con un viso
La cetra sonerò!
Non fila d'oro nobili
D'illustre fabbro cura
Io scoterò, ma semplici
E care a la natura.
Quelle abbia il vate esperto
Nell'adulazïon
Chè la virtude e il merto
Daran legge al mio suon.
Inni dal petto supplice
Alzerò spesso a i cieli,
Sì che lontan si volgano
I turbini crudeli;
E da noi lunge avvampi
L'aspro sdegno guerrier;
Nè ci calpesti i campi
L'inimico destrier.
E, perchè a i numi il fulmine
Di man più facil cada,
Pingerò lor la misera
Sassonica contrada,
Che vide arse sue spiche
In un momento sol;
E gir mille fatiche
Col tetro fumo a vol.
E te villan sollecito,
Che per nov'orme il tralcio
Saprai guidar frenandolo
Col pieghevole salcio:
E te, che steril parte
Del tuo terren, di più
Render farai, con arte
Che ignota al padre fu:
Te co' miei carmi a i posteri
Farò passar felice:
Di te parlar più secoli
S'udirà la pendice.
E sotto l'alte piante
Vedransi a riverir
Le quete ossa compiante
I posteri venir.
Tale a me pur concedasi
Chiuder campi beati
Nel vostro almo ricovero
I giorni fortunati.
Ah quella è vera fama
D'uom che lasciar può quì
Lunga ancor di sè brama
Dopo l'ultimo dì!
AL SIG. WIRTZ
PRETORE PER LA REPUBBLICA ELVETICA
[L'ode venne composta nel 1766 e vi si riscontra l'evidente riflesso delle polemiche del tempo sulla giustizia, polemiche generate dalla stampa del Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Quando fu stampata a Milano per i tipi del Galeazzi l'ode recava il titolo di Canzone dedicata all'illustrissimo signor Don Pierantonio Wirtz de Rudens del Senato dell'illustrissima, e potentissima Repubblica di Untervalden, commissario reggente del contado di Locarno: nell'importante edizione del 1801-1804, nota come edizione Reina (Milano) dal titolo Opere di G. Parini per vari aspetti il titolo proposto era più emblematico in merito all'argomento trattato: Al signor Wirtz Pretore nel 1765 per la Repubblica Elvetica, il quale acquistossi lode singolare coll'amministrazione della giustizia criminale, e co' provvedimenti atti a prevenire i delitti]
Oh tiranno Signore
De' miseri mortali,
Oh male oh persuasore
Orribile di mali
Bisogno, e che non spezza
Tua indomita fierezza!
Di valli adamantini
Cinge i cor la virtude;
Ma tu gli urti e rovini;
E tutto a te si schiude.
Entri, e i nobili affetti
O strozzi od assoggetti.
Oltre corri, e fremente
Strappi Ragion dal soglio;
E il regno de la mente
Occupi pien d'orgoglio,
E ti poni a sedere
Tiranno del pensiere.
Con le folgori in mano
La legge alto minaccia;
Ma il periglio lontano
Non scolora la faccia
Di chi senza soccorso
Ha il tuo peso sul dorso.
Al misero mortale
Ogni lume s'ammorza:
Ver la scesa del male
Tu lo strascini a forza:
Ei di sè stesso in bando
Va giù precipitando.
Ahi l'infelice allora
I común patti rompe;
Ogni confine ignora;
Ne' beni altrui prorompe;
Mangia i rapiti pani
Con sanguinose mani.
Ma quali odo lamenti
E stridor di catene;
E ingegnosi strumenti
Veggo d'atroci pene
Là per quegli antri oscuri
Cinti d'orridi muri?
Colà Temide armata
Tien giudizj funesti
Su la turba affannata,
Che tu persuadesti
A romper gli altrui dritti
O padre di delitti.
Meco vieni al cospetto
Del nume che vi siede.
No non avrà dispetto
Che tu v'innoltri il piede.
Da lui con lieto volto
Anco il Bisogno è accolto.
O ministri di Temi
Le spade sospendete:
Da i pulpiti supremi
Quà l'orecchio volgete.
Chi è che pietà niega
Al Bisogno che prega?
Perdon, dic'ei, perdono
Ai miseri cruciati.
Io son l'autore io sono
De' lor primi peccati.
Sia contro a me diretta
La pubblica vendetta.
Ma quale a tai parole
Giudice si commove?
Qual dell'umana prole
A pietade si move?
Tu Wirtz uom saggio e giusto
Ne dai l'esempio augusto:
Tu cui sì spesso vinse
Dolor de gl'infelici,
Che il Bisogno sospinse
A por le rapitrici
Mani nell'altrui parte
O per forza o per arte:
E il carcere temuto
Lor lieto spalancasti:
E dando oro ed aiuto,
Generoso insegnasti
Come senza le pene
Il fallo si previene.
[Il Dialogo venne redatto nel 1757 per l'Accademia dei Trasformati e fu stampato per la prima volta dal Reina nelle Opere del Perini editate a Milano tra il 1801 e il 1804. Sono rimasti due redazioni di cui si riproduce qui la seconda che risulta preceduta dai seguenti versi (206-215 del saggio sopra l'uomo) di Alessandro Pope:"
Ben puoi tu forse per favor de' regi, e de le drude lor andar coperto di titoli, di croci e di cordoni. Ben può il tuo già da mille anni vantato sangue scendere a te d'una in un'altra Lucrezia; ma, se tu il tuo merto fondi sopra il merto de' padri, a me non conta se non quelli che fur grandi e dabbene. Ché se il tuo prisco sí, ma ignobil sangue scorse per vili petti, anco che scenda fin dal diluvio, vattene e racconta ch'è plebea la tua stirpe, e non mi scopri che sí gran tempo senza merti furo i padri tuoi" (cfr. G. Parini, Poesie e Prose, a cura di Lanfranco Carretti, in La letteratura italiana - Storia e testi, vol.48, Ricciardi, Milano-Napoli, 1951)]
Benché l'umana superbia sia discesa fino ne' sepolcri, d'oro e di velluto coperta, unta di preziosi aromi e di balsami, seco recando la distinzione de' luoghi perfino tra' cadaveri, pure un tratto, non so per quale accidente, s'abbatterono nella medesima sepoltura un Nobile ed un Poeta, e tennero questo ragionamento:
[NOBILE]: Fatt'in là mascalzone!
[POETA]: Ell'ha il torto, Eccellenza. Teme Ella forse che i suoi vermi non l'abbandonino per venire a me? Oh! le so dir io ch'e' vorrebbon fare il lauto banchetto sulle ossa spolpate d'un Poeta.
[NOBILE]: Miserabile! non sai tu chi io mi sono? Ora perché ardisci tu di starmi così fitto alle costole come tu fai?
[POETA]: Signore, s'io stovvi così accosto, incolpatene una mia depravazione d'olfatto, per la quale mi sono avezzo a' cattivi odori. Voi puzzate che è una maraviglia. Voi non olezzate già più muschio ed ambra, voi ora. Quanto son io obbligato a cotesti bachi che ora vi si raggirano per le intestina! essi destano effluvii così fattamente soavi che il mio naso ne disgrada a quello di Copronimo, che voi sapete quanto fosse squisito in fatto di porcherie.
[NOBILE]: Poltrone! Tu motteggi, eh? Se io ora do che rodere a' vermi, egli è perché in vita ero avezzo a dar mangiare a un centinaio di persone; dove tu, meschinaccio, non avevi con che far cantare un cieco: e perciò anche ora, se uno sciagurato di verme ti si accostasse, si morrebbe di fame.
[POETA]: Oh, oh, sibbene, Eccellenza! Io ricordomi ancora di quella turba di gnatoni e di parassiti, che vi s'affollavan dintorno. Oh, quante ballerine, quante spie, quanti barattieri, quanti buffoni, quanti ruffiani! Diavolo! perché m'è egli toccato di scender quaggiù vosco; ch'altrimenti io gli avrei annoverati tutti quanti nel vostro epitaffio?
[NOBILE]: Olà, chiudi cotesta succida bocca; o io chiamo il mio lacché, e ti fo bastonar di santa ragione.
[POETA]: Di grazia, Vostra Eccellenza non s'incomodi. Il vostro lacché sta ora qua sopra con gli altri servi e co' creditori facendo un panegirico de' vostri meriti, ch'è tutt'altra cosa che l'orazion funebre di quel frate pagato da' vostri figliuoli. Egli non vi darebbe orecchio, vedete, Eccellenza.
[NOBILE]: Linguaccia, tu se' tanto incallita nel dir male, che né manco i vermi ti possono rosicare.
[POETA]: Che Dio vi dia ogni bene: ora voi parlate propriamente da vostro pari. Voi dite ch'io dico male, perché anco quaggiù seguo pure a darvi dell'Eccellenza, eh? Quanto ho caro che voi siate morto! Ben si vede che questo era il punto in cui voi avevate a far giudizio. Or bene, io darovvi, con vostra buona pace, del Tu. Noi parremo due Consoli Romani che si parlino la loro lingua. Povero Tu! Tu se' stato seppellito insieme colla gloria del Campidoglio: bisogna pur venire quaggiù nelle sepolture chi ha caro di rivederti; oh! tu se' pure la snella e disinvolta parola!
[NOBILE]: Cospetto! se io non temessi di troppo avvilirmi teco, io non so chi mi tenesse dal batterti attraverso del ceffo questa trippa ch'ora m'esce del bellico che infradicia. Io dicoti, che tu se' una linguaccia, io.
[POETA]: Di grazia, Signore, fatelo, se il potete; ché voi non vi avvilirete punto. Questo è un luogo ove tutti riescono pari; e coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassù, una buona fiata che sien giunti qua, trovansi perfettamente appaiati a noi altra canaglia: non ècci altra differenza, se non che, chi più grasso ci giugne, così anco più vermi se 'l mangiano. Voi avete in oltre a sapere che quaggiù solo stassi ricoverata la verità. Quest'aria malinconica, che qui si respira fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che verità, e le parole, ch'escono di bocca, il sono pure.
[NOBILE]: Or bene, io t'ho còlto adunque, balordo: io dico adunque il vero, chiamandoti una linguaccia, un maldicente, dappoiché qui non si respira né si dice altro che verità.
[POETA]: Piano, Signore. Vi ricorda egli quanti giorni sieno che voi veniste quaggiù?
[NOBILE]: Sibbene, tre dì; e qualche ore dappoi ci giugnesti tu ancora.
[POETA]: Gli è vero. Fu per lo appunto il giorno che quegli sciocchi di là sopra, dopo avermi lasciato morir di fame, si credettero di beatificarmi, qua collocandomi in compagnia di Vostra Eccellenza.
[NOBILE]: Egli avevano ben ragione; se non che tu non meritavi cotesta beatitudine.
[POETA]: Or dite, nel momento che voi spiraste non vi fu tosto serrata la bocca?
[NOBILE]: Sì.
[POETA]: Non vi si radunò poi d'intorno un'esercito di mosche che ve la turarono vie più?
[NOBILE]: Che vuoi tu dire perciò?
[POETA]: Non veniste voi chiuso fra quattro assi?
[NOBILE]: Sì, e coperte di velluto, e guernite d'oro finissimo, e portato da quattro becchini e da assai gentiluomini con ricchissime vesti nere, colle mie arme dintorno, con mille torchi, che m'accompagnavano...
[POETA]: Via, codesto non importa. Non foste voi, così imprigionato, gittato quaggiù?
[NOBILE]: Sì, e, per ventura, cadendo si scommessero le assi, sì ch'io ne sdrucciolai fuora, e rimasimi quale or mi vedi.
[POETA]: Non vedete voi adunque che voi avete tuttavia in corpo l'aria di là sopra, ch'e' non ci fu verso ch'essa ne potesse uscire, tanto voi eravate ben chiuso da ogni banda?
[NOBILE]: E cotesto che ci fa egli?
[POETA]: Egli ci fa assai: conciossiaché l'aria, piena di verità, di quaggiù, non vi può entrare, e per conseguente non ne può uscire colle parole; laddove in me è seguito tutto il contrario. Io fui abbandonato alla discrezione del caso quand'io mi morii, e que' ladri de' becchini non m'ebbero punto di rispetto, concioffosseché io non fossi un cadavere Eccellenza: anzi, levatimi alcuni cenci ond'io era involto, quaggiù mi gittarono così gnudo com'io era nato. Voi vedete ora, che l'aria di colassù ben tosto si fu dileguata da' miei polmoni; e che in quel cambio ci scese quest'aria veritiera di questo luogo ov'ora insieme abitiamo; e staracci finché qualche topo non m'abbia tanto bucato i polmoni ch'essa non ci possa più capire.
[NOBILE]: Bestia! tu vuoi dunque conchiuder con ciò che tu solo dici il vero quaggiù, e ch'io dico la bugia?
[POETA]: Io non dico già questo, io. Voi ben sapete che, quando altri è ben persuaso che ciò ch'ei dice sia vero, non si può già dire ch'egli faccia bugia, sebbene egli dica il falso, non avendo egli animo d'ingannare altrui, comeché egli per un cattivo raziocinio inganni sé medesimo.
[NOBILE]: Mariuolo! tu fai bene a cercare di sgabellartene: ben sai che cosa importi il dare una mentita in sul viso ad un mio pari. Or via, poiché qui non ci resta altro che fare infino a tanto che questi vermi abbiano finito di rosicarci, io voglio pur darti retta: di' pure; in che cosa m'inganno io? Egli sarà però la prima volta che un tuo pari abbia ardito di dirmi ch'io m'ingannassi.
[POETA]: Signore, fatemi la cortesia di rispondere voi prima a me. Per qual ragione non volevate voi, dianzi, ch'io vi stessi vicino, a voi.
[NOBILE]: Non te 'l dissi io già? perché ciò non si conviene ad un pari tuo.
[POETA]: E che? vi pungevo io forse, v'assordavo io, vi mandavo io qualche tristo odore alle narici, vi dava io infine qualche disagio alla persona?
[NOBILE]: Benché cotesto fosse potuto essere per avventura, non è però per questo ch'io sommene doluto: ma solamente perché ciò non si conveniva.
[POETA]: Or perché non si conveniva egli ciò? Forse che non può l'uomo star vicino all'altr'uomo quando egli no 'l punga, non l'assordi, non gli mandi tristo odore alle narici, e finalmente non gli rechi verun disagio alla persona?
[NOBILE]: Sì certo ch'egli il può; ma quando l'altro sia suo pari.
[POETA]: E quand'egli no 'l sia?
[NOBILE]: Colui ch'è inferiore è tenuto a rispettar l'altro, che gli è superiore; e il non osare accostarsi è segno di rispetto; laddove il contrario è indizio di troppa famigliarità, come dianzi ti accennai.
[POETA]: Voi non potete pensar di meglio: ma ditemi, se il cielo vi faccia salvo, chi, di noi due, giudicate voi che sia tenuto a rispettar l'altro?
[NOBILE]: No 'l vedi tu da te medesimo, balordo? Tu dèi rispettar me.
[POETA]: Voi volete dire adunque che voi siete mio superiore. Non è egli 'l vero?
[NOBILE]: Sì certo.
[POETA]: E per qual ragione il siete voi? Sareste voi per avventura il Re?
[NOBILE]: Perché io son nobile, dove tu se' plebeo.
[POETA]: E che diacine d'animale è egli mai cotesto nobile? o perché dobbiam noi essere obbligati a rispettarlo? È egli uno elefante o una balena, che altri debba cedergli così grande spazio da occupare? O vuol egli forse dire un uomo pieno di virtù, e così benefico al genere umano, sicché l'altr'uomo sia forzato a portargli riverenza?
[NOBILE]: Oh! tu se' pure il grande scioccone. Uomo nobile non vuol dire niente di ciò; né per questo è ch'ei merita d'essere rispettato.
[POETA]: E perché adunque?
[NOBILE]: Perché egli ha avuto una nascita diversa dalla tua.
[POETA]: Oh poffare! voi mi fareste strabiliare. Affé, che voi mi pigliaste ora per un bambolo da contargli le fole della fata e dell'orco. Non son io forse stato generato e partorito alla stessa stessissima foggia che il foste voi? E che! vi moltiplicate voi forse per mezzo delle stampe, voi altri nobili?
[NOBILE]: Noi nasciamo come se' nato tu medesimo, se io ho a dirti 'l vero: ma il sangue che in noi è provenuto dai nostri maggiori è tutt'altra cosa che il tuo.
[POETA]: Dàlle! e voi seguite pure a infilzarmi maraviglie. Forseché il vostro sangue non è come il nostro fluido e vermiglio? È egli fatto alla foggia di quello degli Dei d'Omero?
[NOBILE]: Egli è anzi così, come il vostro, fluidissimo e vermiglissimo: ma tu ben sai che possa il nostro sangue sopra gli animi nostri.
[POETA]: Io non so nulla, io. Di grazia, che credete però voi che il vostro sangue possa sopra gli animi vostri?
[NOBILE]: Esso ci può più che non credi: esso rende i nostri spiriti svegliati, gentili e virtuosi; laddove il vostro li rende ottusi, zotici e viziosi.
[POETA]: E perché ciò?
[NOBILE]: Perché esso è disceso purissimo per insino a noi per li purissimi canali de' nostri antenati.
[POETA]: Se la cosa è come a voi pare, voi sarete adunque, voi altri Nobili, tutti quanti forniti d'animo svegliato, gentile e virtuoso.
[NOBILE]: Sì certamente.
[POETA]: Onde vien egli però che, quando io era colassù tra' viventi, a me pareva che una così gran parte di voi altri fosse ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda, accidiosa, ingrata, vendicativa e simili altre gentilezze? Forse che talora per qualche impensato avvenimento si è introdotta qualche parte del nostro sangue eterogeneo per entro a que' purissimi canali de' vostri antenati? Ed onde viene ancora, che tra noi altra plebe io ho veduto tante persone letterate, valorose, intraprendenti, liberali, gentili, magnanime e dabbene? Forse che qualche parte del vostro purissimo sangue vien talora, per qualche impensato avvenimento, ad introddursi negli oscuri canali di noi altra canaglia?
[NOBILE]: Io non ti saprei ben dire onde ciò procedesse; ma egli è pur certo che bisogna sempre dir bene de' nobili, perché bisogna rispettarli, se non per altro, almeno per l'antichità della nostra prosapia.
[POETA]: Deh, Signore, ditemi per vita vostra, quanti secoli prima della creazione cominciò egli mai la vostra prosapia?
[NOBILE]: Ah ah, tu mi fai ridere: pretenderesti tu forse, minchione, che ci avesse delle famiglie prima che nulla ci fosse?
[POETA]: Or bene; di che tempo credete voi che avesse cominciamento la vostra famiglia?
[NOBILE]: Dal tempo di Carlo Magno, cicala.
[POETA]: Olà, tu fammi dunque il cappello tu, scòstati da me tu.
[NOBILE]: Insolente! che linguaggio tieni tu ora con me? Tu mi faresti po' poi scappare la pazienza.
[POETA]: Olà! scòstati, ti dico io.
[NOBILE]: E perché?
[POETA]: Perché la mia famiglia è di gran lunga più antica della tua.
[NOBILE]: Taci là, buffone; e da chi presumeresti però tu d'esser disceso?
[POETA]: Da Adamo, vi dico io.
[NOBILE]: Oh, io l'ho detto che tu ci avverresti bene a fare il buffone. Io comincio quasi ad avere piacere d'essermi qui teco incontrato. Suvvia, fammi adunque il catalogo de' tuoi antenati.
[POETA]: Eh, pensate! La vorrebb'esser la favola dell'uccellino se io avessi ora a contarvi ogni cosa. Questi rospi che ora ci rodono non hanno mica tanta pazienza, sapete! Così fosse stato addentato il vostro primo ascendente dov'ora uno d'essi m'addenta; che voi non vi vantereste ora di così antica famiglia.
[NOBILE]: Ispàcciati; comincia prima da tuo padre, e va' via salendo. Come chiamavas'egli?
[POETA]: Il signor Giambattista, per servirvi.
[NOBILE]: E il tuo nonno?
[POETA]: Il mio nonno...
[NOBILE]: Or di'.
[POETA]: Zitto, aspettate ch'io lo rinvenga: il mio nonno...
[NOBILE]: Sbrigati, ti dico, in tua malora!
[POETA]: Il mio nonno chiamavasi messer Guasparri.
[NOBILE]: E il tuo bisavolo?
[POETA]: Oh questo, affé ch'io non me 'l ricordo, e gli altri assai meno: ricorderestivi voi i vostri?
[NOBILE]: Se io me li ricordo? Or senti: Rolando il primo, da Rolando il primo Adolfo, da Adolfo Bertrando, da Bertrando Gualtieri, da Gualtieri Rolando secondo, da Rolando secondo Agilulfo, da Agilulfo...
[POETA]: Deh, lasciate lasciate, ch'io son ben persuaso che voi vi ricordate ogni cosa. Cappita! voi siete fornito d'una sperticata memoria, voi. Egli si par bene che voi non abbiate studiato mai altro che la vostra genealogia.
[NOBILE]: Ora ti dài tu per vinto? mi concedi tu oggimai che io e gli altri nobili miei meritiamo d'esiggere rispetto e venerazione da voi altri plebei?
[POETA]: Io vi concedo che voi aveste di molta memoria voi e i vostri ascendenti; ma, se cotesto vi fa degni di riverenza, io non so perché io non debba dare dello Illustrissimo anco a colui che mostra le anticaglie, dappoiché egli si ricorda di tanti nomi quanti voi fate, e d'assai più ancora.
[NOBILE]: È egli però possibile, animale, che tu non ti avveda quanto celebri, quanto illustri, e quanto grandi uomini sieno stati questi miei avoli?
[POETA]: Io giurovi ch'io non ne ho udito mai favellare. Ma che hann'eglino però fatto cotesti sì celebri avoli vostri? Hanno eglino forse trovato la maniera del coltivare i campi; hanno eglino ridotti gli uomini selvaggi a vivere in compagnia? Hanno eglino forse trovato la religione, le leggi e le arti che sono necessarie alla vita umana? S'egli hanno fatto niente di questo, io confessovi sinceramente che cotesti vostri avoli meritavano d'essere rispettati da' loro contemporanei, e che noi ancora non possiamo a meno di non portar riverenza alla memoria loro. Or dite, che hanno eglino fatto?
[NOBILE]: Tu dèi sapere che que' primi de' nostri avoli prestarono de' grandi servigi a gli antichi nostri principi, aiutandoli nelle guerre ch'eglino intrapresero; e perciò furono da quelli beneficati insignemente e renduti ricchi sfondolati. Dopo questi, altri divenuti fieri per la loro potenza, riuscirono celebri fuorusciti, e segnalarono la loro vita faccendo stare al segno il loro Principe e la loro patria; altri si diedero per assoldati a condurre delle armate in servigio ora di questo or di quell'altro signore, e fecero un memorabile macello di gente d'ogni paese. Tu ben vedi che in simili circostanze, sia per timore d'essere perseguitati, sia che per le varie vicende s'erano scemate le loro facoltà, si ritirarono a vivere ne' loro feudi; ricoverati in certe loro ròcche sì ben fortificate, che gli orsi non vi si sarebbono potuti arrampicare; dove non ti potrei ben dire quanto fosse grande la loro potenza. Bastiti il dire che nelle colline ov'essi rifugiavano, non risonava mai altro che un continovo eco delle loro archibusate, e ch'egli erano dispotici padroni della vita e delle mogli de' loro vassalli. Ora intendi quanto grandi e quanto rispettabili uomaccioni fosser costoro, de' quali tenghiamo tuttavia i ritratti appesi nelle nostre sale.
[POETA]: Or via, voi avete detto abbastanza dello splendore e del merito de' vostri avi. Non andate, vi priego, più oltre, perché noi entreremmo forse in qualche ginepraio. Per altro voi fate il bell'onore alla vostra prosapia, attribuendo a' vostri ascendenti il merito che finora avete attribuito loro. Voi fate tutto il possibile per rivelare la loro vergogna e per isvergognare anche voi stesso, se fosse vero, come voi dite, che a voi dovesse discendere il merito de' vostri maggiori e che questi fossero stati i meriti loro. Io credo bene che tra' vostri antenati, così come tra' nobili che io ho conosciuti, vi saranno stati di quelli che meriterebbono d'essere imitati per l'eccellenza delle loro sociali virtù; ma siccome queste virtù non si curano di andare in volta a processione, così si saranno dimenticate insieme col nome di que' felici vostri antenati, che le hanno possedute.
[NOBILE]: Or ti rechi molto in sul serio tu, ora.
[POETA]: Finché voi non mi faceste vedere altro che vanità, io mi risi della leggerezza del vostro cervello; ma, dappoiché mi cominciate a scambiare i vizii per virtù, egli è pur forza che mi si ecciti la bile. Volete voi ora che noi torniamo a' nostri scherzi?
[NOBILE]: Sì, torniamoci pure, che il tuo discorso mi comincia oggimai a piacere; e quasi m'hai persuaso che questa Nobiltà non sia po' poi così gran cosa, come questi miei pari la fanno.
[POETA]: Rallegromene assai. Ben si vede che l'aria veritiera di questo nostro sepolcro comincia ora ad insinuarvisi ne' polmoni, cacciandone quella che voi ci avevate recato di colassù.
[NOBILE]: Sì, ma tu mi dèi concedere, nondimeno, che io merito onore da te in grazia della celebrità de' miei avi.
[POETA]: Or bene, io farovvi adunque quell'onore che fassi agli usurpatori, agli sgherri, a' masnadieri, a' violatori, a' sicarii, dappoiché cotesti vostri maggiori di cui m'avete parlato furono per lo appunto tali, se io ho a stare a detta di voi; sebbene io mi creda che voi ne abbiate avuti de' savii, de' giusti, degli umani, de' forti e de' magnanimi, de' quali non sono registrate le gesta nelle vostre genealogie perché appunto tali si furono e perché le sociali virtù non amano di andare in volta a processione. Non vi sembra egli giusto che, se voi avete ereditato i loro meriti, così ancora dobbiate ereditare i loro demeriti, a quella guisa appunto che chi adisce un'eredità assume con essa il carico de' debiti che sono annessi a quella? e che per ciò, se quelli furono onorati, siate onorato ancora voi, e, se quelli furono infami, siate infamato voi pure?
[NOBILE]: No certo, ché cotesto non mi parrebbe né convenevole né giusto.
[POETA]: E perché ciò?
[NOBILE]: Perché io non sono per verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui.
[POETA]: Per qual ragione?
[NOBILE]: Perché, non avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la pena.
[POETA]: Volpone! voi vorreste adunque godervi l'eredità, lasciando altrui i pesi, che le appartengono, eh! Voi vorreste adunque lasciare a' vostri avoli la viltà del loro primo essere, la malvagità delle azioni di molti di loro e la vergogna che ne dee nascere, serbando per voi lo splendore della loro fortuna, il merito delle loro virtù, e l'onore ch'eglino si sono acquistati con esse.
[NOBILE]: Tu m'hai così confuso, ch'io non so dove io m'abbia il capo. Io son rimasto oggimai come la cornacchia d'Esopo, senza pure una piuma dintorno. Se per questo, per cui io mi credeva di meritar tanto, io sono ora convinto di non meritar nulla, ond'è adunque che quelle bestie che vivevan con noi, facevanmi tante scappellate, così profondi inchini, davanmi tanti titoli e idolatravanmi sì fattamente ch'io mi credeva una divinità? e voi altri autori, e voi altri poeti, ne' vostri versi e nelle vostre dediche, mi contavate tante magnificenze dell'altezza della mia condizione, della grandezza de' miei natali, e il diavolo che vi porti, gramo e dolente ch'io mi sono rimasto!
[POETA]: Coraggio, Signore; ché voi siete giunto finalmente a mirare in viso la bella verità. Pochissimi sono coloro che veder la possono colassù tra' viventi; e qui solo tra queste tenebre ci aspetta a lasciarsi vedere tutta nuda com'ella è. Coraggio, Eccellenza.
[NOBILE]: Dammi del tu in tua malora, dammi del tu; ch'io trovomi alla fine perfettamente tuo eguale, se non anzi al disotto di te medesimo, dappoiché io non trovomi aver più nulla per cui mi paia di poter esiggere segni di rispetto e di riverenza di sorta alcuna.
[POETA]: Come! Credete voi forse che i titoli che vi si davano e gl'inchini che vi si facevano là sopra, fossero segnali d'ossequio e di venerazione, che altri avesse per voi? Oh, voi la sbagliate di molto, se ciò vi credete!
[NOBILE]: Che eran egli adunque? Starommi a vedere che io mi viveva ingannato anche in ciò.
[POETA]: Statemi bene ad udire. Saprestemi voi spiegare che cosa voglia dire Rispetto?
[NOBILE]: Egli significa, se io però so bene quello ch'io mi dica, certi cenni e certe parole che altri usa verso ad alcuno, da' quali questi comprende d'esser onorato e venerato da colui che li fa.
[POETA]: Voi v'ingannate. Il Rispetto non è altro che un certo sentimento dell'animo posto fra l'affetto e la meraviglia, che l'uomo pruova naturalmente al cospetto di colui ch'ei vede fornito d'eccellenti virtù morali o d'eccellenti doti dell'ingegno o del corpo. Questo sentimento per lo più stassi rinserrato nel cuore di chi lo prova; e talvolta ancora per una certa ridondanza prorompe di fuora ne' cenni o nelle parole.
[NOBILE]: E quegli inchini, che mi si facevano, e que' titoli che mi si davano, non provenivan egli forse da cotesto sentimento che tu di'?
[POETA]: Eh, zucche! Egli è passato in costume tra gli uomini che coloro che sono arrivati a un certo grado di fortuna, volendo pure per eccesso della loro ambizione slontanarsi dalla comune degli altri mortali, si sono assunti certi titoli vuoti di senso, ed hanno richiesto da coloro che avean bisogno di essi, certi determinati atteggiamenti da farsi alla loro presenza. I capi de' popoli sonosi prevaluti della vanità de' loro soggetti, ed hanno di questi segnali instituito un commerzio; per mezzo del quale i ricchi ambiziosi, cambiando i loro tesori, si comperano fumo, e vanno imbottando nebbia. Gli sciocchi poi i quali non pensano più là dànnosi a credere che coloro siensi comperati insieme co' titoli e colle distinzioni anche il merito, il quale non si compera altrimenti, ma si guadagna colle sole proprie virtuose azioni. I savii non cascano però a questa ragna; e sebbene per non andare a ritroso della moltitudine e comparir cinici o quacqueri impazzano co' pazzi, e non sono avari di certe parole e di certi gesti che voi altri richiedete e che la moltitudine vi concede; nondimeno in cuor loro pesano il rispetto e la stima sulla bilancia dell'orafo, e non la concedono se non a chi se la merita. Eglino fanno come il forestiere, il quale s'inchina agl'idoli della nazione ov'egli soggiorna, per pura urbanità; ma se ne ride poi e li beffeggia dentro di se medesimo. M'intendeste voi ora? Pensate voi ora che i vostri creditori, allora quando, chini come voti davanti un'immagine, pregavanvi della loro mercede, trammischiando ad ogni parola il titolo di Eccellenza, avessero punto di venerazione per voi? Egli vi davano anzi mille volte in cuor loro il titolo di prepotente e di frodatore. E i vostri famigliari, che udivano e vedevano le vostre sciocchezze e le vostre bizzarrie taciti e venerabundi, oh quanto si ridevano in cuor loro della vostra melensaggine e della vostra stravaganza: e i filosofi e gli altri uomini di lettere, che v'udivan decidere così francamente d'ogni cosa...
[NOBILE]: Deh! taci, te ne scongiuro; che mi par propio di morire la seconda volta, udendo quello che tu mi di', e pensando ch'io ho aspettato nella sepoltura a sgannarmi della mia pecoraggine e della mia bestiale vanità. Non ti par egli ch'io meriti compassione?
[POETA]: No, io; anzi da questo momento io comincio a provare per voi quel sentimento di rispetto e di stima ch'io vi diceva, considerandovi io per un uomo che conosce perfettamente la verità, che si ride della vanità e leggerezza di coloro che credonsi di meritar venerazione per lo sangue degli altri nelle lor vene disceso, che s'innalzano sopra gli altri uomini soltanto perché ricordansi i nomi di più numero de' loro antenati che gli altri non fanno; che vantano per merito loro le azioni malvage de' loro maggiori esiggendone rispetto; che usurpansi la mercede delle belle azioni non fatte né imitate da loro per veruna maniera, e che finalmente figuransi d'essersi comperati i meriti insieme co' titoli, ed assomigliansi a colui che credevasi di poter comperar per danari lo spirito divino.
[NOBILE]: Deh, amico, perché non ti conobbi io meglio, quand'io era colassù tra' vivi; ché io non avrei aspettato a riconoscermi così tardi.
[POETA]: Io ho tentato non poche volte di farvene accorgere, io, e con certe tronche parole, e con certi sorrisi, e con certe massime generali, gittate come alla ventura, e in mille altre fogge: ma voi, briaco di vanagloria, badavate a coloro che v'adulavano per mangiar pane, e non credevate che un plebeo potesse saper giudicare di nobiltà e di cavalleria assai meglio che voi non facevate.
[NOBILE]: Che volevi tu ch'io facessi, se tutto cospirava a far che s'abbarbicasse ognora più in me questa mia sciocca e ridicola prosunzione? Fa' tuo conto che, al mio primo uscir delle fasce, io non mi sentii sonare mai altro all'orecchio, se non che io era troppo differente dagli altri uomini, che io era cavaliere, che il cavaliere dee parlare, stare, moversi, chinarsi, non già secondo che l'affetto o la natura gl'ispira, ma come richiede l'etichetta e lo splendore della sua nascita. Così mi parlavano i genitori, egualmente vani che me: così i pedanti, che amavano di regnare in casa mia o di trattenermi ad onorar, com'egli dicevano, i loro collegi. Ma, prima che siemi impedito di parlar più teco, cavami, ti priego, anche di quest'altro dubbio. Egli mi pare che questa nobiltà, ch'io ho pur trovato essere un bel nulla, abbia contribuito sopra la terra a rendermi più contento della mia vita: saresti tu di parere ch'ella pur giovi alcuna cosa a render più felici gli uomini colassù?
[POETA]: Io non vi negherò già questo, quando la nobiltà sia colle ricchezze congiunta o colla virtù o col talento; perciocché anco i pregiudizii e le false opinioni degli uomini, qualora sieno a tuo favore, possono esserti di qualche uso e comodità. Le ricchezze, unite a quelle circostanze che voi chiamate nobiltà, fanno sì che voi vi potete servire di que' privilegi che co' titoli vi furono conferiti, e così pascervi colla vana ambizione di poter essere in luogo donde gli altri sieno esclusi, e simili altre bagattelle. Che se la nobiltà è congiunta colla virtù, avviene di questa come delle antiche medaglie, che, quantunque la loro patina non renda intrinsecamente più prezioso il metallo onde sono composte né migliore il disegno onde sono improntate, nondimeno, per una opinione di chi se ne diletta, riescono più care e pregiate. Ed io ho pur veduti alcuni dabbene cavalieri godersi del volgare pregiudizio in loro favore, per così aver campo di far parere più bella la loro modestia e di far riuscire più cari i loro meriti sotto a questa vernice dell'umana opinione; e, scambiando così i titoli e le riverenze co' beneficii e colle cortesie, mostrare la vera nobiltà dell'animo, e dar qualche corpo alla falsa, di cui finora teco parlai.
[NOBILE]: Io non posso oggimai più dir motto, conciossiaché i miei polmoni cominciano a sdrucirsi, e la lingua a corrompersi. Rispondimi a questo ancora. Credi tu che la nobiltà possa giovar qualche cosa, spogliata della virtù, della ricchezza e de' talenti?
[POETA]: Voi non vedeste mai il più meschino uomo, né il più miserabile, d'un uomo spogliato in sola nobiltà. Egli può dire, come dicea quel prete alla fante, che scandolezzavasi per la cherca: - Spogliami nudo, e vedrai ch'io paio appunto un uomo. - Conculcato da' ricchi, che in mezzo agli agi possono comperarsi i titoli quando vogliono, e si ridono della sterile nobiltà di lui; disdegnato da' sapienti, che compiangono in lui l'ignoranza, accompagnata colla miseria e colla superbia; sfuggito dagli artigiani, alla cui bottega egli non s'arrischia d'impiegare le mani; odiato dalle persone dabbene, che abbominano il suo ozio e la sua inettitudine. Finalmente congedato da coloro ch'erano una volta suoi pari, i quali non soffrono d'ammetterlo nelle loro assemblee così gretto e meschino, senz'oro, senza cocchi, senza servi, e cose altre simili che sono il sostegno e l'unico splendore della nobiltà, vien ridotto ad abitar tutto il giorno un caffè di scioperati, che il mostrano a dito e fannolo scopo de' loro motteggi e delle loro derisioni. Così il vano fasto della sua nobiltà è cangiato per lui in infamia; e per colmo della sua miseria e del suo ridicolo, gli restano tuttavia in mente e sulle labbra i nomi de' suoi antenati. A questa condizione si accosta qualunque nobile famiglia che decade dalla sua prima ricchezza e insieme dalla sua prima virtù; se la modestia o la filosofia non la sostiene.
[NOBILE]: Oimè! che in cotesta condizione io ho lasciato i miei figliuoli colassù; e tutto ciò per colpa...
[POETA]: Egli non può più parlare; la lingua gli si è infracidita. Riposatevi, Eccellenza, sul vostro letame. La lingua de' Poeti è sempre l'ultima a guastarsi. Beato voi, se colassù aveste trovato uno sì coraggioso che avesse ardito di trattarvi una sola volta da sciocco! Se io avessi a risuscitare, io per me, prima d'ogni altra cosa, desidererei d'esser uomo dabbene, in secondo luogo d'esser uomo sano, dipoi d'esser uomo d'ingegno, quindi d'esser uomo ricco, e finalmente, quando non mi restasse più nulla a desiderare, e mi fosse pur forza di desiderare alcuna cosa, potrebbe darsi che per istanchezza io mi gettassi a desiderar d'esser uomo nobile, in quel senso che questa voce è accettata presso la moltitudine.
di Giuseppe Parini
Acciocché poi sieno tali, fa d'uopo che dipendano da pochi principi generali sensibilmente applicabili alle diverse circostanze dell'operare, e che questi medesimi principi sieno, in un modo parimenti sensibile alla mente della gioventù, ricavati dalla natura ed esposti con un metodo pur sensibilmente relativo alla medesima.
Di questi precetti, fatti, per modo d'esprimersi, scaturire dall'animo e dall'interesse medesimo de' giovani, si deve far vedere l'applicazione, l'osservanza e l'effetto negli esemplari che propongono per lo studio e per l'imitazione.
Con tale scorta e con tale corroboramento si procede all'esercizio, col quale, succesivamente replicato, si acquista infine l'abituale attitudine del bene operare senza quasi badar più punto né a' precetti né agli esemplari.
Su queste e simili altre massime, che è superfluo di qui esporre
lungamente a V. E., stenderà la Commissione il libro elementare, che deve servire per le due classi chiamate ora comunemente d'umanità e di rettorica, avvertendo di ordinar le materie in modo che si passi dalle più facili alle più difficili.
Comprenderà questo libro tutti i precetti, così generali come particolari, che riguardano la prose e la poesia.
Avrà per titolo Gli elementi delle umane lettere. Sarà diviso in due parti, e la prima di queste in quattro libri.
Questa sarà preceduta da un breve discorso
generale sopra la natura, l'estensione, l’oggetto, l’origine, i progressi e la perfezione delle umane lettere; e per questo modo darassi
ai giovani un'idea sufficiente e necessaria della qualità e della importanza dello studio, che sono per fare.
Il primo libro di questa prima parte comincerà dalle idee generali sopra la
natura, il fine e l'applicazione del discorso, per mezzo delle
quali si poserà la prima base de’ precetti, che poi verranno in seguito.
Si passerà quindi a considerare il discorso puramente come una manifestazione improvvisa e naturale dei concetti e delle affezioni dell'animo; e di qui si trarranno, esaminando i suggerimenti della natura e del nostro interesse, i primi precetti generali che risguardano l'esposizione.
Si considererà poi il discorso manifestazione premeditata de' concetti e delle affezioni dell'animo; e con ciò si stabiliranno le avvertenze più esatte, che convengono e son ricercate nell'esposizione che si fa de' nostri sentimenti in iscritto o in qualsivoglia altro modo che supponga preparamento.
Perfino verrà considerato il discorso come una serie de' concetti ed affezioni dell'animo da esprimersi parlando; e per questo mezzo si faranno comprendere le qualità generali che deve avere il discorso per riguardo alla verità, alla giustezza ed al decoro.
Da questa dottrina risguardante generalmente il discorso si scenderà a trattarne più in particolare, esaminando e definendo e spiegando le parti che essenzialmente lo compongono, cioè la parte significativa ossia dizione, l'espressione ossia elocuzione, la sustanziale ossia sentenza.
Si parlerà della dizione in particolare, cioè della copia e della proprietà delle parole; de' generi, delle qualità e dell'uso loro; della composizione di queste nel discorso relativamente al genio della lingua, all'intelligenza, al comodo ed alla satisfazione dell'orecchio; delle parti e de' membri della composizione; de' mezzi d'acquistare la copia, l'uso e la buona composizione delle parole; della pronunciazione e del gesto, considerati come una parte della dizione; del modo d'acquistare la buona pronunciazione ed il gesto.
Poiché, in questo modo, si sarà trattato nel primo libro delle cose più facili, perché più esteriori nel discorso, si passerà a parlar singolarmente della parte espressiva di questo nel secondo libro, vale a dire dell'elocuzione.
Si tratterà delle parti e qualità generali di questa; e poi più particolarmente de' tropi, delle figure, dell'armonia in generale, del suono, del numero e della pronunciazione e de gesto, considerati come una parte dell'elocuzione; dello stile, de’ diversi generi di quello; della dizione e delle parti dell’elocuzione convenienti ai particolari generi dello stile; dell’applicazione de' particolari generi di questo; e finalmente del modo d'acquistar la buona elocuzione e lo stile.
Nel terzo libro si tratterà della parte sostanziale e più intrinseca del discorso e della composizione totale di questo.
Parlerassi adunque del1a sentenza e delle qualità generali della medesima; poi della sentenza, relativamente all'anima che comprende, ossia de' pensieri; quindi della sentenza, relativamente all'anima che appetisce, ossia degli affetti; delle diverse qualità degli uni e degli altri; del ritrovamento dei primi e dell'eccitamento de' secondi; della scelta e dell’applicazione d'amendue rispettivamente al soggetto fondamentale del discorso.
Quindi si procederà più oltre a trattare del soggetto e delle qualità generali e della scelta di questo; poscia del piano, ossia della disposizione del soggetto e della materia pertinente al discorso, e del modo e della facoltà di fare la buona disposizione; finalmente dell'applicazione da farsi del soggetto, del piano, sentenza, dell'elocuzione e della dizione alle circostanze di chi ascolta e di chi parla.
Il quarto libro tratterà di tutte le specie particolari di discorso in preparato o scritto, cominciando da quello che è più vicino al discorso improvviso e naturale, cioè la lettera, e salendo di mano in mano fino alla storia e alla orazione pubblica di cose pubbliche.
Nelle specie di discorso, di cui si tratterà in questo libro, si comprenderanno anche quelle che invalgono nel presente sistema di governo e di società, come memoriali, allegazioni, consulte, dispacci, editti e simili.
In questo libro similmente si applicheranno alle rispettive specie di componimenti i precetti generalmente esposto ne’ primi tre libri, e si faranno conoscere successivamente al proprio luogo i modelli migliori da imitarsi in ciascun genere dello scrivere in prosa.
La materia di questa prima parte è vasta e difficile, massimamente per esser destinata alla istruzione de' giovanetti non peranco iniziati nelle scienze; ma si studierà di porvi compenso colla precisione, colla brevità e colla popolarità dell'esposizione, oltre l’assistenza degli esempi, tolti dagli ottimi autori e collocati o citati opportunamente; e perfine è necessario che anche i precettori suppliscano qualche cosa colla loro abilità.
Nella seconda parte degli Elementi delle umane lettere si daranno i principi e le regole della poesia.
Quest'arte, che è la più bella, la più 1usinghiera e che può esser anche la più utile di tutte le altre sue sorelle, non merita d'esser trascurata nella prima istituzione della gioventù.
Non pertanto conviene trattarne in modo che sia accomodata alla capacità de' giovanetti, rendendo loro pienamente sensibile la natura dell'arte medesima, e con ciò ancora la giustezza e la importanza de' precetti.
Nello stesso tempo fa d'uopo avvertire che la poesia non è fatta per tutti; che l’immaginazione vivace della più fresca età si lascia facilmente divagare dietro agli allettamenti di quella, anche senza aver sortito dalla natura le doti
che bisognano per ben riuscirvi; e che, siccome la dottrina che la risguarda può esser di notabile profitto alla gioventù quando sia bene ed opportunamente presentata, così può esserle di grave nocumento quando si faccia il contrario.
Da ciò si può facilmente inferire che la poesia nelle prime scuole non dovrebb'esser forse un ammaestramento comune, e molto meno quotidiano; che dovrebbe esser insegnata a tutt'altro fine che quello d' obbligare gli scolari a perder il tempo preziosissimo dell' adolescenza nel comporre, generalmente con indicibile fatica e noia, de' pessimi versi latini o italiani; che questo fine dovrebbe essere quello soltanto di formar i teneri animi al gusto del vero, del bello, del nuovo, del delicato, del nobile, del grande, in un modo applicabile e vantaggioso alla perfezione dell'intelletto e della volontà, e particolarmente poi all'uso del parlare e dello scrivere eloquentemente anche in prosa.
In questo modo l'istruzione poetica si renderebbe assai utile nelle prime scuole; la comune degli studenti ne profitterebbe notabilmente; e que' pochi, in cui la natura facesse de' segnalati sforzi per condurli all'esercizio, potrebbon esser più facilmente riconoscinti e secondati discretamente, con vantaggio ed onore di loro medesimi e dell'arte.
Questi sono i sentimenti risguardanti la pubblica istruzione de' giovanetti nella poesia, che la Commissione subordina al superiore intendimento dell'E. V., ed a seconda de' quali si stenderanno i precetti della poetica nella seconda parte degli Elemernti delle umane lettere.
La seconda parte sarà, come la prima, divisa in quattro libri; e questi saranno preceduti da una breve, chiara e popolare introduzione, in cui si farà conoscere la natura, l'oggetto, l'origine, i progressi e la perfezione della poesia.
Si scenderà quindi ad esaminare il discorso poetico, e se ne stabilirà la natura e le qualità generali, che lo caratterizzano.
Dopo ciò, seguitando il metodo tenuto nella prima parte, significativa del discorso poetico, e qui di mano in mano proporzionatamente, si richiamerà la dottrina esposta nel primo libro della parte antecedente, applicando al discorso poetico tutto ciò che della dottrina medesima può a questo convenire.
Nello stesso tempo si farà successivamente sentire ciò che differenzia, costituisce e caratterizza il discorso poetico; e ciò si farà massimamente col concorso degli esempi prosaici e poetici in cose simili.
Si terminerà poi questo libro parlando delle qualità, che sono unicamente proprie del discorso poetico relativamente alla stessa parte significativa
e del verso, e delle diverse maniere di versi e di metri. Ma, siccome di questi si sarà mostrato il meccanismo nel fine delle grammatiche, così
qui se ne esaminerà soltanto la natura relativamente all'intenzione, all'uso ed all'effetto generale della poesia.
Nel secondo libro si tratterà della parte espressiva del discorso poetico.
E qui pure si procedera collo stesso metodo ed ordine tenuto nel secondo libro della prima parte; si applicherà proporzionatamente, come qui sopra si è detto, la dottrina colà esposta; si faranno sentire parimenti le differenze, che anche a questo riguardo caratterizzano il discorso poetico, e ciò ancora per mezzo dello stesso confronto degli esempi prosastici e poetici; finalmente si parlerà pure delle qualità che sono unicamente proprie del discorso poetico relativamente alla parte espressiva, e dell'uso del verso e de' metri al medesimo riguardo.
Il terzo libro sarà destinato a trattare della parte sostanziale del discorso poetico, ritenendo il metodo e l'ordine del terzo della prima parte; ed applicando, differenziando, confrontando, come si sarà
fatto ne' primi due di questa seconda.
Qui similmente si parlerà
delle qualita unicamente proprie del discorso poetico relativamente alla parte sostanziale, stendendosi con qualche maggior ampiezza sopra le diverse forme di quello e sopra l' invenzione e l' imitazione poetica.
Nel quarto libro si tratterà finalmente dei generi e delle specie diverse de' componimenti poetici, salendo colle idee e colle dottrine più facili e generali dall'epigramma e dal madrigale fino alla
tragedia ed al poema epico, e, all'occasione di ciascuna specie di componimenti, si faranno conoscere gli autori e le composizioni distinte in quella specie medesima.
L'esposizione fatta finora a V. E. de' primi disegni conceputi dalla Commissione rispettivamente al metodo de' libri elementari di grammatica e d'umane lettere, se non è un saggio abbastanza lodevole dell'abilita de' membri che la compongono, si spera almeno che sarà benignamente ricevuta come una prova dello zelo che gli anima ad ubbidire, il più presto e nel miglior modo che possono, all'E. V.
Si degni V. E. d'onorare la Commissione de' suoi rispettabili suggerimenti sopra le idee qui esposte, come anche di permetterle di farvi in séguito que' cambiamenti, che nell'atto dell'operare potessero sembrare opportuni. Con questa fiducia, la Commissione si accingerà sollecitamente al proseguimento dell'opera, rendendosi certa che 1'E. V. vorrà misurare colla vastità delle sue cognizioni e colla giustezza della sua mente il tempo che richiede il lavoro importante esteso e difficile, e che compromette l'onore della Commissione medesima in faccia al principe, al governo, al pubblico ed alla posterità".
Proprio sui parametri dello sviluppo dell'ISTRUZIONE si può infatti seguire il progresso delle idee, dei principi democratici, del crescente interesse dei governanti per i ceti meno abbienti.
Risulta chiaro che il diffondersi del DISPOTISMO ILLUMINATO, e più estesamente del pensiero ILLUMINISTICO, ha determinato in modo significativo la sublimazione del problema SCUOLA: al punto che risultano significativi alcuni eventi i quali concorrono a rendere più chiari i crescenti intendimenti per l'EDUCAZIONE DEI FANCIULLI e che sono ben simboleggiati, per esempio, dall'operosità intellettuale di un GIUSEPPE PARINI, in merito soprattutto al suo progetto PER UNA RIFORMA DEI LIBRI SCOLASTICI.
In ambito del Lombardo-Veneto, e, a seguire, dall'attività dell'educatore sabaudo MICHELE PONZA DA CAVOUR dai cui scritti e dalle cui polemiche, in merito alla stesura dei manuali scolastici si ricavano importanti linee guida per ricucire un globale, e sostanzialmente panitaliano, sforzo di organizzazione della ISTRUZIONE DEI FANCIULLI E DEI GIOVANI (VEDI QUI TESTO DIGITALIZZATO DEL PONZA SUL TEMA NEL CONTESTO DI UNA POLEMICA SUI LIBRI SCOLASTICI).
Ma è fondamentalmente in epoca risorgimentale e postrisorgimentale che la storia sociale italiana è percorsa non solo da una crescente attenzione sull'ISTITUZIONE SCOLASTICA ma altresì risulta coinvolta in un acceso e quanto mai significativo dibattito sui rapporti fra SCUOLA PUBBLICA e SCUOLA PRIVATA, dibattito quest'ultimo che, in maniera emblematica e quanto mai complessa, si identifica poi con quello sulla confessionalità o laicità della SCUOLA, il quale a sua volta rimanda ad un confronto ancora più sottile cioè quello tra fautori ed avversari di una SCUOLA LIBERALE E DEMOCRATICA, confronto che, per sua parte, rimanda ulteriormente alla formidabile discussione tra sostenitori e contestatori di un più generale sviluppo 1iberale e democratico del consorzio civile italiano.
Mentre i teorici di un liberalismo di derivazione empirico-anglosassone giudicano la libertà soprattutto quale non-impedimento e quindi evocatrice di un metodo capace d’assicurare un processo di autoequilibrazione in ogni settore vita, maggiore e più severa consapevolezza critica testimoniano i liberali di impostazione hegeliana, e in prima istanza il filosofo Bertrando Spaventa. Per costoro riconoscere la libertà d’insgnamento è riconoscere la sovranità della ragione nell'ordine del pensiero.
Il quesito storico sull'opportunità o meno di conferire a chicchessia la facoltà di creare e gestire Scuole si metabolizza quindi in quello di favorire il sorgere e lo sviluppo una SCUOLA libera all'interno, una SCUOLA in cui la libertà diviene il metodo stesso dell'insegnamento e dell'educazione.
Queste caratteristiche non possono essere proprie di una S. confessionale, la quale, come dirà qualche decennio piu tardi il grande pensatore di matrice posthegeliana e neoidealista Giovanni Gentile, “alle differenze individuali aggiunge nuove differenze, più salde perché sistemiche; spezza il genere umano, agli occhi dell'alunno, in due parti, l’una degli eletti e l'altra dei reprobi; tende a privare lo spirito della propria signoria e della propria responsabilità non solo morale ma anche intellettuale”. In una situazione storica , quella dell’Italia postrisorgimentale sembra, dunque, che l’unico potere capace di creare una SCUOLA aperta alle opposte esigenze culturali e quindi educative sia lo STATO.
In realtà -e sarà poi chiarito dalla critica più attenta- il punto di vista dei liberali di marca hegeliana, condiviso peraltro dai socialisti riformisti e dallo stesso Gaetano Salvemini, si basa sulla confusione fra società civile e stato e sopra la consequenziale incapacità di rendersi conto del fatto che lo STATO può avere a sua volta una “ideologia”, corrispondente a quella della classe dominante, di maniera che la SCUOLA diventa o continua a essere strumento di indottrinamento.
E che la SCUOLA ITALIANA abbia avuto, ben prima del fascismo, una sua ideologia (incentrata sui valori cardine di Dio, Patria e Famiglia) risulta indiscutibile anche se occorre precisare che tale, pur riduttiva, postulazione non deprime il significato fondamentalmente liberatore della lotta combattuta dalla borghesia italiana per sottrarre la SCUOLA all’egemonia della Chiesa.
La prima legge organica relativa alla SCUOLA, in tutti i suoi ordini e gradi, elaborata dallo stato italiano, risulta esser stata la L. 13-XI-1859, n. 3725 che prende il nome dal ministro del regno di Sardegna Gabrio Casati (stesa però da Achille Mauri e Angelo Fava).
Progettata per le esigenze dello STATO SABAUDO venne poi estesa, dopo l'unificazione, a tutta l'Italia. Nonostante l’ ampiezza (380 articoli divisi in 5 titoli) la stesura di tale legge richiese solo 4 mesi, atteso che ministro e collaboratori si valsero del vantaggio di operare in regime di pieni poteri a causa dello stato di guerra.
La legge Casati prevede l'obbligo per tutti i comuni di creare e mantenere la SCUOLA PRIMARIA, relativamente al corso infertore, tenendo conto da un lato dei bisogni dei loro abitanti e dall'altro delle loro facoltà (art. 317).
li corso inferiore risulta articolato in due classi: la prima classe puo (nell’evenienza che ne sussistano i mezzi) venire sdoppiata in una “prima inferiore”e ed in una “prima superiore” (in tal caso il “corso inferiore” conterebbe la durata di tre anni).
Limitatamente a questo “corso inferiore” la frequenza è obbligatoria.
L’ obbligo, tuttavia, potrà essere davvero fatto rispettare in forza della legge firmata dal ministro della sinistra Coppino, nel 1877.
La creazione del “corso superiore” di durata biennale risulta prevista solo nei centri maggiori e la sua frequenza non è invece obbligatoria.
Per quanto concerne la SCUOLA SECONDARIA lo schema risulta questo:
1-GINNASIO-LICEO, di complessivi otto anni (3+2+3);
2-SCUOLA TECNICA; triennale, che deve contemporaneamente fornire una preparazione professionale di modesto impegno e avviare alla frequenza dell'istituto tecnico;
ISTITUTO TECNICO (triennale, poi quadriennale) per ragionieri, geometri, agronomi, esperti industriali. L'ordine tecnico nasce come riservato a giovani socioculturalmente meno dotati di quelli destinati all'università, alle professioni libere e ai posti direzionali. Ben presto però la creazione di un corso “fisico-matematico” renderà fattibile ad alcuni di questi giovani l’iscrizione alle facolta di scienze, ingegneria, ad alcune SCUOLE SUPERIORI e alle SCUOLE MILITARI.
A riguardo dell’UNIVERSITA’, la legge Casati appare propensa a una ristrutturazione che sopprima le sedi carenti di popolazione studentesca.
Essa peraltro fa suo il carattere bivalente (scientifico e professionale) degli studi universitari; rifiuta il diritto degli atenei di autoamministrarsi ed autogestirsi didatticamente; minaccia inoltre di rimozione i docenti che parlino contro l'ordine religioso e morale o contro i principi posti a fondamento della costituzione civile dello stato (art. 106).
La legge Coppino (15-VII-1877, n. 3968), sostanziale ma importante integrazione della Casati, prevede la sostituzione, nei programmi per la SCUOLA PRIMARIA, dell'insegnamento della religione con quello delle “prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino”.
Successivamente la legge Orlando (8-VII-1904, n. 407) riduce a quattro gli anni di frequenza della SCUOLA PRIMARIA necessari per passare alle SECONDARIE e aggiunge un SESTO ANNO ai CINQUE di fatto eststenti creando così una vera e propria SCUOLA POPOLARE BIENNALE (V e VI classe).
La legge Daneo-Credaro (4-VI-1911 n. 487) attribuisce allo STATO le SCUOLE PRIMARIE dei comuni che non siano capoluoghi di provincia o di circondario. Tale iniziativa risulta importante in quanto garantisce l'intervento finanziario statale nelle zone depresse e migliora la condizione giuridica ed economica dei maestri.
La "RIFORMA GENTILE" (1923) consta di numerosi atti legislativi poi raccolti in testo unico.
La RIFORMA (i cui principi sono rintracciabili in scritti dello stesso Gentile, di Benedetto Croce, di
Lombardo Radice e perfino di Salvemini, a partire dagli inizi del secolo) risulta espressione dell'insofferenza della borghesia medio-alta per il processo di democratizzazione che, nonostante tutto, sta subendo la SCUOLA ITALIANA e, in particolare, il LICEO e l’UNIVERSITA’.
La democratizzazione interagirebbe infatti del livello medio e, conseguentemente, con il deterioramento della classe dirigente: è per siffatta ragione che viene quasi esasperato un retorico appello alla severità, alla selezione (tramite ESAME DI STATO) e l'aspirazione a fare della SCUOLA DI STATO una SCUOLA MODELLO per i pochi-ma-buoni, sì da lasciare, se mai e colpevolmente, all'iniziativa privata il compito di provvedere ai meno capaci ma, ovviamente, di agiata condizione [un discorso autonomo merita l'editoria scolastica ispirata, per ogni tipologia di scuola, ai programmi nazionalisti del fascismo ed alla valorizzazione dei concetti di Stato, Patria, Religione, Famiglia = troppo oneroso sarebbe qui proporre esempi esaustivi: ci si limita a far rilevare il caso del nuovo Dizionario della Lingua Italiana opera di Enrico Mestica
caratterizzato, pur tra pregi intrinseci, dall'esaltazione del fascismo e dalla sanzione della superiorità della lingua italiana a fronte delle altre e specialmente della lingua francese].
A livello di strutture meritano di essere ricordati:
1- la liquidazione della SCUOLA TECNICA e la sua sostituzione con una SCUOLA COMPLEMENTARE, poi corso di AVVIAMENTO PROFESSIONALE, triennale, facoltativo, che nel 1930 prenderà denominazione di AVVIAMENTO PROFESSIONALE;
2- la trasformazione della SCUOLA NORMALE per la formazione dei maestri, di sei anni, nell'ISTITUTO MAGISTRALE di sette anni, caratterizzato da un certo velleitarismo umanistico e dalla soppressione di fatto delle discipline professionali (pedagogia, didattica, psicologia, tirocinio);
3- la creazione di un ISTITUTO TECNICO INFERIORE quadriennale, quale la premessa all'ISTITUTO TECNICO SUPERIORE e al nuovo LICEO SCIENTIFICO (pure quadriennale).
Il R. D. 1°-VII-1933, n. 786 dispose quindi il passaggio allo STATO anche delle SCUOLE PRIMARIE che precedentemente erano state affidate al capoluoghi di provincia e di circondario.
La CARTA DELLA SCUOLA, approvata dal Gran Consiglio del fascismo su proposta del ministro Bottai il 15-II-1939, nonostante la ventilata e presunta istanza <>rivoluzionaria e antiborghese che pretende di attribuire alla definizione dell'attività scolastica quale servizio dovuto allo STATO, all'introduzione del lavoro manuale (destinata comunque a rimanere lettera morta) e all'attribuzione alla SCUOLA MEDIA della facoltà di orientare in modo vincolante i fanciulli nelle scelte ulteriori (questo appunto verrà presto accantonato con la scusa dello stato di guerra), si risolve in un aggravamento del carattere classista del sistema scolastico vigente. All'UNIFICAZIONE delle SCUOLE SECONDARIE INFERIORI (ginnasio, istituto tecnico, istituto magistrale) fanno da contraltare la sopravvivenza della SCUOLA DI AVVIAMENTO PROFESSIONALE e la creazione di una SCUOLA ARTIGIANA mirante a “non offrire, sia pure involontariamente, incentivo alla gioventù di spostare la propria condizione sociale” (Bottai).
Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale vede:
1- il rinnovamento dei programmi per la SCUOLA ELEMENTARE, una prima volta nel 1945 (D. Lt. 24-V-1945, n. 459) e una seconda nel 1955 (D. 14-VI-1955, n. 503);
2- la ristrutturazione della S. primaria in due cicli didanici in base al programmi del 1955 (L. 24-XII-1957, n. 1254); 3- il tentativo di varare un TERZO CICLO PRIMARIO o, più esattamente, un CICLO POSTELEMENTARE (circolare 10-IX-1955) mirante a risolvere il problema dell'obbligo scolastico per la maggioranza degli alunni nell'ambito di una struttura a carattere elementare e con minimo onere per lo STATO;
4- l'istituzione della SCUOLA MEDIA UNICA, con la relativa soppressione non solo della postelementare ma anche della SCUOLA DI AVVIAMENTO PROFESSIONALE (L. 31-XII-1962, n. 1859);
5- l'istituzione della SCUOLA MATERNA STATALE (L. 18-III-1968);
6- il riordinamento degli esami di stato, di maturita, di abilitazione e di licenza della SCUOLA MEDIA (D. 15-II-1969, n. 9);
7- la liberalizzazione dell'accesso all'UNIVERSITA’ per cui tale accesso e reso possibile anche ai provenienti dagli ISTITUTI TECNICI e dall'ISTITUTO MAGISTRALE (per questi ultimi e tuttavia previsto un quinto anno, propedeutico, da frequentarsi dopo il conseguimento del diploma L. 11-XII-1969, n. 910)".