informatizzazione curata da B. Durante

VERONICA FRANCO, veneziana, nata nel 1545, da Francesco e Paola Fracassa, visse appieno la stagione rinascimentale della POESIA AL FEMMINILE , celebrando senza falsi pudori eros e sensualità. Una donna, dunque, alunna di Venere e di Apollo, ispiratrice di forti e irripetibili sensazioni e sentimenti intensi, ma vivace ed attenta, abile e sagace nell'esprimere le proprie emozioni.
Fra i dati certi che la riguardano, si tramanda che ella iniziasse la sua professione giovanissima, avviatavi dalla madre, anch'ella cortigiana rinomata e sua maestra d'arte erotica. Sposò il dottore Paolo Panizza, da cui si separò a 18 anni. Fu anche madre, pare di sei figli.
Altre notizie certe riguardano il processo che subì da parte dell'Inquisizione, nel 1580, con l'accusa di avere avvinto a sé i propri amanti e di averli sottratti ai rispettivi doveri coniugali e civili, stregandoli con sortilegi e magie. È documentato che Veronica si autodifese brillantemente in dialetto veneto con accenti intensi e vibranti, che certamente colpirono l'uditorio, infatti ella fu prosciolta dall'accusa.
Certamente se oggi è possibile leggere i VERSI (QUI PROPOSTI NELL'INTEREZZA) della Franco, gran parte del merito spetta a Domenico Venier, stimato dai più illustri letterati del suo tempo, il quale aveva costituito nel suo salotto un vero e proprio cenacolo letterario di grande prestigio. Frequentato tra gli altri, da Giorgio Grandenigo, Celio Magno, Bernardo Tasso, Sperone Speroni. Tra il Venier e la Franco vi fu una fitta corrispondenza; l'epistolario fu pubblicato nel 1580 e ripubblicato dal Croce.
Nel 1591, il 22 luglio, Veronica sarebbe morta. Dal 1580, anno della pubblicazione dell'epistolario e del fatidico processo, fino al 1591 non vi sono documenti di una qualche attività, il che parrebbe accreditare l'ipotesi, non veritiera, che gli ultimi anni siano stati trascorsi in penitenza.
[Note biografiche a cura di Vittoria Caso].












VERONICA FRANCO
RIME
INDICE
DEDICATORIA
TERZE RIME
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
SONETTI
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
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AL SERENISSIMO PRENCIPE SIGNOR E PADRON MIO COLENDISSIMO IL SIGNOR DUCA DI MANTOVA E DI MONFERRATO VERONICA FRANCA
Se ben lontanissima corrispondenza e quasi disproporzionata proporzione si trova tra le chiarissime virtú dell'Altezza Vostra e 'l mio desiderio d'onorarla e degnamente servirla, sí che tutto quello ch'io potessi fare in questa impresa sarebbe men ch'ombra a paragon del vero; nondimeno in quello dove mi sono mancate le forze e i convenevoli concetti di celebrarla ed essaltarla, m'è sopravanzato l'animo d'esprimerle questo mio virtuoso se ben impossibile desiderio, in tanto che non mi sono potuta astenere ch'io non ne l'accertassi col debile testimonio di queste poche terze rime che le dedico, non in modo che trattino il singolar merito delle sue ricchissime doti, ché queste non cadano sotto la povertà del mio incapace stile, ma in maniera che dando al suo discreto giudizio alcun leggier gusto della mia bassa musa, con questa esperienzia quasi mostrando la mia insofficienza, perché poi mi vaglia per buona scusa s'io non ardisco por bocca nel cielo del suo inestimabil valore, debbano sotto l'autorità del suo gloriosissimo nome comparire nella presenzia del secolo, e liberamente appresentarsele con assoluta dependenza dall'arbitrio della Vostra Altezza. La quale, conoscendo in ciò la mia brama che non ha per fine altro che di scoprir a lei la prontezza di se stessa, gradirà, son certa, in questo minimo dono l'infinitudine dell'animo mio in riconoscer il suo merito, col tributo di quello che m'è concesso, poi ch'io non posso con quello che si converrebbe a lei. E per piú distinta significazion della mia devozione le porgo questo mio volume per man d'un mio ancor fanciullo figliuolo, quivi per adempier quest'officio da me mandato; il quale nel volto, e negli atti, e in ogni guisa d'inchinevole riverenza, meglio d'ogni altro esprimendo il mio medesimo core nella serenissima sua presenza, mi vaglia tanto piú a conciliarmi il favor della sua cortesissima grazia, in mercé della mia sviscerata osservanza e in sopplimento di quello ov'io non giungo col potere all'union degli effetti con la mia volontà, con la quale mi sono legata di perpetuo indissolubil nodo di umilissima servitú con la Sublimità Vostra.
Di Venezia, a' 15 di Novembre MDLXXV.

TERZE RIME
I
DEL MAGNIFICO MESSER MARCO VENIERO ALLA SIGNORA VERONICA FRANCA.
S'io v'amo al par de la mia propria vita,
donna crudel, e voi perché non date
in tanto amor al mio tormento aita?
E se invano mercé chieggio e pietate,
perch'almen con la morte quelle pene,
ch'io soffro per amarvi, non troncate?
So che remunerar non si conviene
mia fé cosí; ma quel mal, che ripara
a un maggior mal, vien riputato bene
piú d'ogni morte è la mia doglia amara,
e morir di man vostra, in questo stato,
grazia mi fia desiderata e cara.
Ma com'esser può mai che, dentro al lato
molle, il bianco gentil vostro bel petto
chiuda sí duro cor e sí spietato?
Com'esser può che quel leggiadro aspetto
voglie e pensier cosí crudi ricopra,
che 'l servir umil prendano in dispetto?
La gran bellezza a voi data di sopra
spender in morte di chi v'ama e in doglia,
qual potete peggior far di quest'opra?
Ciò da l'uman desir vostro si toglia,
e 'n sua vece vi penetri a la mente,
conforme a la beltà, pietosa voglia.
Cosí dentro e di fuor chiara e splendente
sarete d'ogni età vero ornamento,
non pur di questo secolo presente.
Pria che de' be' crin l'òr si faccia argento,
da custodir è quel che poi si perde,
chi 'l lascia in man del tempo, in un momento:
e se ben sète d'età fresca e verde,
nulla degli anni è piú veloce cosa,
sí ch'a tenervi dietro il pensier perde;
e mentre di qua giú nessun ben posa,
nasce e spar la beltà piú che baleno,
non che qual nata e secca a un tempo rosa.
Ma poi chi la pietà chiude nel seno,
col merto de la fama sua ravviva
le chiome bionde e 'l viso almo e sereno.
Dunque, per farvi al mondo eterna e diva,
amica di pietà verso chi v'ama,
siate di crudeltà nemica e schiva.
Oh, se vedeste in me l'ardente brama,
c'ho di servir voi sola a tutte l'ore,
con quel pensier ch'ognor vi chiede e brama;
se mi vedeste in mezzo 'l petto il core,
a me son certo che null'altro amante
pareggereste nel portarvi amore!
Ma guardatemi 'l cor fuor nel sembiante
pallido e mesto e nel mio venir solo,
dí e notte, con piè lasso e cor costante;
e conoscendo il mio soverchio duolo,
e come in lui convien ch'ognor trabbocchi
di pene cinto da infinito stuolo,
volgete a me pietosamente gli occhi,
a veder come presso e di lontano
quinci ognor empio Amor l'arco in me scocchi;
stendete a me la bella e bianca mano
a rinovar il colpo, e che in tal guisa
il sen piú m'apre e insieme il rende sano.
O beltà d'ogni essempio altro divisa,
di cui l'anima in farsi umil soggetta,
stando lieta, qua giú s'imparadisa!
Amor da que' begli occhi in me saetta
con tal dolcezza, che 'l mio espresso danno
via piú sempre mi giova e mi diletta.
Ben questi al chiaro sole invidia fanno,
ben ch'ancor Febo con diletto mira
le bellezze che tante in voi si stanno:
di queste vago Apollo arde e sospira,
e per virtú di tai luci gioconde
il suo saper in voi benigno inspira;
e mentre questo in gran copia v'infonde,
move la chiara voce al dolce canto,
ch'a' bei pensier de l'animo risponde.
La penna e 'l foglio in man prendete intanto,
e scrivete soavi e grate rime,
ch'ai poeti maggior tolgono il vanto.
O bella man, che con bell'arte esprime
sí leggiadri concetti, e le sue forme
dentro 'l mio cor felicemente imprime!
De l'antico valor segnando l'orme
questa ne va sí candida e gentile,
svegliando la virtú dove piú dorme;
né pur rinova il glorioso stile
del poetar sí celebre trascorso,
che non ebbe fin qui par né simíle;
ma de le menti afflitte alto soccorso
è quella man ne l'amorosa cura,
che quivi ha 'l suo rifugio e 'l suo ricorso.
Di viva neve man candida e pura,
che dolcemente il cor m'ardi e consumi
per miracol d'amor fuor di natura,
e voi, celesti e graziosi lumi,
ch'ardor e refrigerio in un mi sète,
e parer gli altrui rai fate ombre e fumi,
perch'a me 'l vostro aviso contendete?
e non piú tosto con pietosi modi
al mio soccorso, oimè, vi rivolgete?
Né però chieggio che disciolga i nodi,
che 'ntorno al cor m'ordío, la man sí vaga,
né che in alcuna parte men m'annodi;
non chiedo ch'entro al sen saldi la piaga
il bel guardo gentil, che in me l'impresse,
d'amor con arte lusinghiera e vaga:
da quelle mani e da le braccia stesse
esser bramo raccolto in cortesia,
e che 'l mio laccio stringan piú sempre esse;
bramo che quella vista umana e pia
si volga al mio diletto, e del bel viso
e de la bocca avara non mi sia.
Oh che grato e felice paradiso,
dal goder le bellezze in voi sí rade
non si trovar giamai, donna, diviso:
donna di vera ed unica beltade,
e di costumi adorna e di virtude,
con senil senno in giovenil etade!
Oh che dolce mirar le membra ignude,
e piú dolce languir in grembo a loro,
ch'or a torto mi son sí scarse e crude!
Prenderei con le mani il forbito oro
de le trecce, tirando de l'offesa,
pian piano, in mia vendetta il fin tesoro.
Quando giacete ne le piume stesa,
che soave assalirvi! e in quella guisa
levarvi ogni riparo, ogni difesa!
Venere in letto ai vezzi vi ravvisa,
a le delizie che 'n voi tante scopre
chi da pietà vi trova non divisa;
sí come nel compor de le dotte opre,
de le nove Castalie in voi sorelle
l'arte e l'ingegno a l'altrui vista s'opre.
E cosí 'l vanto avete tra le belle
di dotta, e tra le dotte di bellezza,
e d'ambo superate e queste e quelle;
e mentre l'uno e l'altro in voi s'apprezza,
d'ambo sarebbe l'onor vostro in tutto,
se la beltà non guastasse l'asprezza.
Ma se 'n voi la scienzia è d'alto frutto,
perché de la bellezza il pregio tanto
vien da la vostra crudeltà distrutto?
Accompagnate l'opra in ogni canto;
e come la virtú vostra ne giova,
la beltà non sia seme del mio pianto:
in tanto amor tanto dolor vi mova,
sí che di riparar ai tristi affanni
entriate meco in lodevole prova.
S'al tempo fa sí gloriosi inganni
la vostra musa, la beltà non faccia
a se medesma irreparabil danni.
A Febo è degno che si sodisfaccia
dal vostro ingegno, ma da la beltate
a Venere non meno si compiaccia:
le tante da lei grazie a voi donate
spender devete in buon uso, sí come
di quelle, che vi diede Apollo, fate:
con queste eternerete il vostro nome,
non men che con gli inchiostri; e lento e infermo
farete il tempo, e le sue forze dome.
Per la bocca di lei questo v'affermo:
non lasciate Ciprigna per seguire
Delio, né contra lei tentate schermo;
ché Febo se le inchina ad obedire,
né può far altrimenti, se ben poi
gran piacer tragge in ciò dal suo servire.
Cosí devete far ancora voi,
seguitando l'essempio di quel dio,
che v'infonde i concetti e i pensier suoi.
La bellezza adornate col cor pio,
sí che con la virtú ben s'accompagne,
lontan da ogni crudel empio desio:
queste in voi la pietà faccia compagne,
e in tanto vi rincresca, com'è degno,
d'un che de l'amor vostro ognora piagne.
E son quell'io, che umile a voi ne vegno,
cercando di placar con dolci preghi
la vostra crudeltate e 'l vostro sdegno:
mercé da voi, per Dio, non mi si nieghi,
donna bella e gentil, ma in tanta guerra
benigno il vostro aiuto a me si pieghi.
Cosí sarete senza par in terra.
II
RISPOSTA DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
S'esser del vostro amor potessi certa
per quel che mostran le parole e 'l volto,
che spesso tengon varia alma coperta;
se quel che tien la mente in sé raccolto
mostrasson le vestigie esterne in guisa
ch'altri non fosse spesso in frode còlto,
quella téma da me fôra divisa,
di cui quando perciò m'assicurassi,
semplice e sciocca, ne sarei derisa:
«a un luogo stesso per molte vie vassi»,
dice il proverbio; né sicuro è punto
rivolger dietro a l'apparenzie i passi.
Dal battuto camin non sia disgiunto
chiunque cerca gir a buona stanza,
pria che sia da la notte sopragiunto.
Non è dritto il sentier de la speranza,
che spesse volte, e le piú volte, falle
con falsi detti e con finta sembianza;
quello della certezza è destro calle,
che sempre mena a riposato albergo,
e refugio ha dal lato e da le spalle:
a questo gli occhi del mio pensier ergo,
e da parole e da vezzi delusa,
tutti i lor vani indizi lascio a tergo.
Questa con voi sia legitima scusa,
con la qual di non creder a parole,
né a vostri gesti, fuori esca d'accusa.
E se invero m'amate, assai mi duole
che con effetti non vi discopriate,
come chi veramente ama far suole:
mi duol che da l'un canto voi patiate
e da l'altro il desio, c'ho d'esser grata
al vostro vero amor, m'interrompiate.
Poi ch'io non crederò d'esser amata,
né 'l debbo creder, né ricompensarvi
per l'arra che fin qui m'avete data,
dagli effetti, signor, fate stimarvi:
con questi in prova venite, s'anch'io
il mio amor con effetti ho da mostrarvi;
ma s'avete di favole desio,
mentre anderete voi favoleggiando,
favoloso sarà l'accetto mio;
e di favole stanco e sazio, quando
l'amor mi mostrerete con effetto,
non men del mio v'andrò certificando.
Aperto il cor vi mostrerò nel petto,
allor che 'l vostro non mi celerete,
e sarà di piacervi il mio diletto;
e s'a Febo sí grata mi tenete
per lo compor, ne l'opere amorose
grata a Venere piú mi troverete.
Certe proprietati in me nascose
vi scovrirò d'infinita dolcezza,
che prosa o verso altrui mai non espose,
con questo, che mi diate la certezza
del vostro amor con altro che con lodi,
ch'esser da tai delusa io sono avezza:
piú mi giovi con fatti, e men mi lodi,
e, dov'è in ciò la vostra cortesia
soverchia, si comparta in altri modi.
Vi par che buono il mio discorso sia,
o ch'io m'inganni pur per aventura,
non bene esperta de la dritta via?
Signor, l'esser beffato è cosa dura,
massime ne l'amor; e chi nol crede,
ei stesso la ragion metta in figura.
Io son per caminar col vostro piede,
ed amerovvi indubitatamente,
sí com'al vostro merito richiede.
Se foco avrete in sen d'amor cocente,
io 'l sentirò, perch'accostata a voi
d'ardermi il cor egli sarà possente:
non si pònno schivar i colpi suoi,
e chi si sente amato da dovero
convien l'amante suo ridamar poi;
ma 'l dimostrar il bianco per lo nero
è un certo non so che, che spiace a tutti,
a quei ch'anco han giudicio non intiero.
Dunque da voi mi sian mostrati i frutti
del portatomi amor, ché de le fronde
dal piacer sono i vani uomini indutti.
Ben per quanto or da me vi si risponde,
avara non vorrei che mi stimaste,
ché tal vizio nel sen non mi s'asconde;
ma piaceríami che di me pensaste
che ne l'amar le mie voglie cortesi
si studian d'esser caute, se non caste:
né cosí tosto d'alcun uom compresi
che fosse valoroso e che m'amasse,
che 'l cambio con usura ancor gli resi.
Ma chi per questo poi s'argomentasse
di volermi ingannar, beffa se stesso;
e tale il potría dir, chi 'l domandasse.
E però quel che da voi cerco adesso
non è che con argento over con oro
il vostro amor voi mi facciate espresso:
perché si disconvien troppo al decoro
di chi non sia piú che venal far patto
con uom gentil per trarne anco un tesoro.
Di mia profession non è tal atto;
ma ben fuor di parole, io 'l dico chiaro,
voglio veder il vostro amor in fatto.
Voi ben sapete quel che m'è piú caro:
seguite in ciò com'io v'ho detto ancora,
ché mi sarete amante unico e raro.
De le virtuti il mio cor s'innamora,
e voi, che possedete di lor tanto,
ch'ogni piú bel saver con voi dimora,
non mi negate l'opra vostra intanto,
ché con tal mezzo vi vegga bramoso
d'acquistar meco d'amador il vanto:
siate in ciò diligente e studioso,
e per gradirmi ne la mia richiesta
non sia 'l gentil vostro ozio unqua ozioso.
A voi poca fatica sarà questa,
perch'al vostro valor ciascuna impresa,
per difficil che sia, facil vi resta.
E se sí picciol carico vi pesa,
pensate ch'alto vola il ferro e 'l sasso,
che sia sospinto da la fiamma accesa:
quel che la sua natura inchina al basso,
piú che con altro, col furor del foco
rivolge in su dal centro al cerchio il passo;
onde non ha 'l mio amor dentro a voi loco,
poi ch'ei non ha virtú di farvi fare
quel ch'anco senz'amor vi saría poco.
E poi da me volete farvi amare?
quasi credendo che, cosí d'un salto,
di voi mi debba a un tratto innamorare?
Per questo non mi glorio e non m'essalto;
ma, per contarvi il ver, volar senz'ale
vorreste, e in un momento andar troppo alto:
a la possa il desir abbiate eguale,
benché potreste agevolmente alzarvi
dov'altri con fatica ancor non sale.
Io bramo aver cagion vera d'amarvi,
e questa ne l'arbitrio vostro è posta,
sí che in ciò non potete lamentarvi.
Dal merto la mercé non fia discosta,
se mi darete quel che, benché vaglia
al mio giudicio assai, nulla a voi costa:
questo farà che voli e non pur saglia
il vostro premio meco a quell'altezza,
che la speranza col desire agguaglia.
E qual ella si sia, la mia bellezza,
quella che di lodar non sète stanco,
spenderò poscia in vostra contentezza:
dolcemente congiunta al vostro fianco,
le delizie d'amor farò gustarvi,
quand'egli è ben appreso al lato manco;
e 'n ciò potrei tal diletto recarvi,
che chiamar vi potreste per contento,
e d'avantaggio appresso innamorarvi.
Cosí dolce e gustevole divento,
quando mi trovo con persona in letto,
da cui amata e gradita mi sento,
che quel mio piacer vince ogni diletto,
sí che quel, che strettissimo parea,
nodo de l'altrui amor divien piú stretto.
Febo, che serve a l'amorosa dea,
e in dolce guiderdon da lei ottiene
quel che via piú che l'esser dio il bea,
a rivelar nel mio pensier ne viene
quei modi che con lui Venere adopra,
mentre in soavi abbracciamenti il tiene;
ond'io instrutta a questi so dar opra
sí ben nel letto, che d'Apollo a l'arte
questa ne va d'assai spazio di sopra,
e 'l mio cantar e 'l mio scriver in carte
s'oblía da chi mi prova in quella guisa,
ch'a' suoi seguaci Venere comparte.
S'avete del mio amor l'alma conquisa,
procurate d'avermi in dolce modo,
via piú che la mia penna non divisa.
Il valor vostro è quel tenace nodo
che me vi può tirar nel grembo, unita
via piú ch'affisso in fermo legno chiodo:
farvi signor vi può de la mia vita,
che tanto amar mostrate, la virtute,
che 'n voi per gran miracolo s'addita
Fate che sian da me di lei vedute
quell'opre ch'io desío, ché poi saranno
le mie dolcezze a pien da voi godute;
e le vostre da me si goderanno
per quello ch'un amor mutuo comporte,
dove i diletti senza noia s'hanno.
Aver cagion d'amarvi io bramo forte:
prendete quel partito che vi piace,
poi che in vostro voler tutta è la sorte.
Altro non voglio dir: restate in pace.
III
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Questa la tua fedel Franca ti scrive,
dolce, gentil, suo valoroso amante;
la qual, lunge da te, misera vive.
Non cosí tosto, oimè, volsi le piante
da la donzella d'Adria, ove 'l mio core
abita, ch'io mutai voglia e sembiante:
perduto de la vita ogni vigore,
pallida e lagrimosa ne l'aspetto,
mi fei grave soggiorno di dolore;
e, di languir lo spirito costretto,
de lo sparger gravosi afflitti lai,
e del pianger sol trassi alto diletto.
Oimè, ch'io 'l dico e 'l dirò sempre mai
che 'l viver senza voi m'è crudel morte,
e i piaceri mi son tormenti e guai.
Spesso, chiamando il caro nome forte,
Eco, mossa a pietà del mio lamento,
con voci tronche mi rispose e corte;
talor fermossi a mezzo corso intento
il sole e 'l cielo, e s'è la terra ancora
piegata al mio sí flebile concento;
da le loro spelunche uscite fuora,
piansero fin le tigri del mio pianto
e del martír che m'ancide e m'accora;
e Progne e Filomena il tristo canto
accompagnaron de le mie parole,
facendomi tenor dí e notte intanto.
Le fresche rose, i gigli e le viole
arse ha 'l vento de' caldi miei sospiri,
e impallidir pietoso ho visto il sole;
nel mover gli occhi in lagrimosi giri
fermarsi i fiumi, e 'l mar depose l'ire
per la dolce pietà de' miei martíri.
Oh quante volte le mie pene dire
l'aura e le mobil foglie ad ascoltare
si fermar queste e lasciò quella d'ire!
E finalmente non m'avien passare
per luogo ov'io non veggia apertamente
del mio duol fin le pietre lagrimare.
Vivo, se si può dir che quel ch'assente
da l'anima si trova viver possa;
vivo, ma in vita misera e dolente:
e l'ora piango e 'l dí ch'io fui rimossa
da la mia patria e dal mio amato bene,
per cui riduco in cenere quest'ossa.
Fortunato 'l mio nido, che ritiene
quello a cui sempre torno col pensiero,
da cui lunge mi vivo in tante pene!
Ben prego il picciol dio, bendato arciero,
che m'ha ferito 'l cor, tolto la vita,
mostrargli quanto amandolo ne pèro.
Oh quanto maledico la partita
ch'io feci, oimè, da voi, anima mia,
bench'a la mente ognor mi sète unita,
ma poi congiunta con la gelosia,
che, da voi lontan, m'arde a poco a poco
con la gelida sua fiamma atra e ria!
Le lagrime, ch'io verso, in parte il foco
spengono; e vivo sol de la speranza
di tosto rivedervi al dolce loco.
Subito giunta a la bramata stanza,
m'inchinerò con le ginocchia in terra
al mio Apollo in scienzia ed in sembianza;
e da lui vinta in amorosa guerra,
seguiròl di timor con alma cassa
per la via del valor ond'ei non erra.
Quest'è l'amante mio, ch'ogni altro passa
in sopportar gli affanni, e in fedeltate
ogni altro piú fedel dietro si lassa.
Ben vi ristorerò de le passate
noie, signor, per quanto è 'l poter mio,
giungendo a voi piacer, a me bontate,
troncando a me 'l martír, a voi 'l desio.
IV
D'INCERTO AUTORE ALLA SIGNORA VERONICA FRANCA
A voi la colpa, a me, donna, s'ascrive
il danno e 'l duol di quelle pene tante,
che 'l mio cor sente e 'l vostro stil descrive.
L'alto splendor di quelle luci sante
recando altrove, e 'l lor soave ardore,
ai colpi del mio amor foste un diamante.
Io vi pregai, dagli occhi il pianto fore
sparsi largo, e sospir gravi del petto:
non m'aiutò pietà, non valse amore.
Valse, via piú che 'l mio, l'altrui rispetto;
e benché umil mercé v'addimandai,
pur sol rimasi in solitario tetto.
D'ir altrove eleggeste, io sol restai,
com'a voi piacque ed a mia dura sorte
sí che invidia ai piú miseri portai.
E s'or avvien che a voi pentita apporte
alcun dolore 'l mio grave tormento,
in ciò degno è ch'amando io mi conforte.
Dunque per me del tutto non è spento
quel foco di pietà, ch'ove dimora
fa d'animo gentil chiaro argomento
Di voi, cui 'l ciel tanto ama e 'l mondo onora,
di bellezza e virtute unico vanto,
in cui le Grazie fan dolce dimora,
gran prezzo è ancor se nel corporeo manto,
dove star con Amor Venere suole,
virtú chiudete in ciel gradita tanto.
Se 'l vostro cor del mio dolor si duole,
s'egualmente risponde a' miei desiri,
oh vostre doti e mie venture sole!
Tra quanto Amor le penne aurate giri,
E non ha chi, com'io, dolce arda e sospire,
né tra quanto del sol la vista miri.
Dolc'è, quant'è piú grave, il mio languire,
se, qual nel vostro dir pietoso appare,
sentite del mio mal pena e martíre.
Che poi non mi cediate nell'amare,
esser non può, ché la mia fiamma ardente
nel gran regno amoroso non ha pare.
Troppo benigno a' miei desir consente
il ciel, se dal mio cor la fiamma mossa
vi scalda il ghiaccio della fredda mente.
In voi non cerco affetto d'egual possa,
quel ch'a far di duo uno, un di duo, viene,
e duo traffigge di una sol percossa.
Troppo del viver mio l'ore serene
forano, e tanto piú il mio ben intero,
quanto piú raro questo amando avviene:
quanto Amor men sostien sotto 'l suo impero
che 'n duo cor sia una fiamma egual partita,
tanto piú andrei de la mia sorte altero.
Sí come troppo è la mia speme ardita,
che sí audaci pensieri al cor m'invia,
per strada dal discorso non seguita:
da l'un canto il pensar sí com'io sia,
verso 'l vostro valor, di merto poco,
dal soverchio sperar l'alma desvía;
da l'altro Amor gentil ch'adegui invoco
la mia tanta con voi disagguaglianza,
e gridando mercé son fatto roco.
D'Amor, ch'a nullo amato per usanza
perdona amar, dove un bel petto serra
pensier cortesi, invoco la possanza:
quella, onde 'l ciel ei sol chiude e disserra,
e perch'a lui la terra è poco bassa,
gli spirti fuor de l'imo centro sferra,
prego che l'alma travagliata e lassa
sostenga; e se non ciò, vaglia pietate
là dove 'l vostro orgoglio non s'abbassa.
Di mercé sotto aspetto non mi date
lusingando martír, tanto piú ch'io
v'adoro; e quanto prima ritornate,
ch'al lato starvi ognor bramo e desío.
V
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Signor, la virtú vostra e 'l gran valore
e l'eloquenzia fu di tal potere,
che d'altrui man m'ha liberato il core;
il qual di breve spero ancor vedere
collocato entro 'l vostro gentil petto,
e regnar quivi, e far vostro volere.
Quel ch'amai piú, piú mi torna in dispetto,
né stimo piú beltà caduca e frale,
e mi pento che già n'ebbi diletto.
Misera me, ch'amai ombra mortale,
ch'anzi doveva odiar, e voi amare,
pien di virtú infinita ed immortale!
Tanto numer non ha di rena il mare,
quante volte di ciò piango: ch'amando
fral beltà, virtú eterna ebbi a sprezzare.
Il mio fallo confesso sospirando,
e vi prometto e giuro da dovero
mandar per la virtú la beltà in bando.
Per la vostra virtú languisco e pèro,
disciolto 'l cor da quell'empia catena,
onde mi avolse il dio picciolo arciero:
già seguí' 'l senso, or la ragion mi mena.
VI
RISPOSTA D'INCERTO AUTORE PER LE RIME
Contrari son tra lor ragion e amore,
e chi 'n amor aspetta antivedere,
di senso è privo e di ragion è fuore.
Tanto piú in prezzo è da doversi avere
vostro discorso, in cui avete eletto
voler in stima la virtú tenere;
e bench'io di lei sia privo in effetto,
con voi di possederla il desio vale,
sí che del buon voler premio n'aspetto:
e se 'l timor de l'esser mio m'assale,
poi mi fa contra i merti miei sperare,
ché s'elegge per ben un minor male.
Io non mi vanto per virtú d'andare
a segno che, l'amor vostro acquistando,
mi possa in tanto grado collocare;
ma so ch'un'alma valorosa, quando
trova uom che 'l falso aborre e segue il vero,
a lui si va con diletto accostando:
e tanto piú se dentro a un cor sincero
d'alta fé trova affezzion ripiena,
come nel mio, ch'un dí mostrarvi spero,
se 'l non poter le voglie non m'affrena.
VII
D'INCERTO AUTORE
Dunque l'alta beltà, ch'amica stella
con sí prodiga mano in voi dispensa,
d'amor tenete e di pietà rubella?
Quell'alma, in cui posando ricompensa
di molt'anni l'error la virtú stanca,
dar la morte a chi v'ama iniqua pensa?
Lasso, e che altro a far del tutto manca
orribile ed amara questa vita,
e rovinosa in strana oscura e manca,
se non che sia col mal voler unita
d'una bellezza al mondo senza eguale
la forza insuperabile, infinita?
Ma perché da l'inferno ancor non sale
Tesifone e Megera ai nostri danni,
se scende a noi dal ciel cotanto male?
Ben sei fanciul piú d'ingegno che d'anni,
Amor, e d'occhi e d'intelletto privo,
se 'l tuo regno abbandoni in tanti affanni.
Te, cui non ebbe di servir a schivo
Giove con tutta la celeste corte,
e ch'a Dite impiagar festi anco arrivo;
te, del cui arco il suon vien che riporte
spoglie d'innumerabili trofei,
contra chi piú resiste ognor piú forte;
te, cui soggetti son gli uomini e i dèi,
non so per qual destin, fugge e disprezza,
con la mia morte ne le man, costei.
Ma se contrario a quel che 'n ciel s'avezza,
ella sen va da le tue forze sciolta,
per privilegio de la sua bellezza,
a la tua stessa madre or ti rivolta,
ch'unico essempio di beltà fu tanto,
pur piagata da te piú d'una volta:
e s'a lei toglie la mia donna il vanto
d'ornamento e di grazie, a lei che giova
l'esserti madre poi da l'altro canto?
Se vinta da costei Venere è in prova,
e se Minerva in scienzia e in virtute
a costei molto inferior si trova,
tanto piú scegli le saette acute:
ché piú gloria ti fia di questa sola,
che di tutt'altre in tuo poter venute.
Per l'universo l'ali stendi, e vola
di cerchio in cerchio, Amor, e sí vedrai
che questa il pregio a tutte l'altre invola;
e s'al tuo imperio aggiunger la saprai,
quanto 'l tuo onor sovra i dèi tutti gío,
tanto maggior di te stesso verrai.
Benché lo sventurato in ciò son io,
ché, benché stata sia costei sicura
da l'armi ognor del faretrato dio,
non è stata però sempre sí dura,
che non abbia ad Amor dato ricetto
per pietà nel suo sen, non per paura.
Com'ad ubidiente umil soggetto,
ad Amor ansioso e di lei vago
l'adito aperse del suo gentil petto;
quinci 'l suo desir proprio a render pago,
al suo arbitrio d'Amor l'armi rivolse
qual le piacque a fermar solingo e vago:
sí che dovunque saettando colse
col doppio sol di quei celesti lumi,
a sé gran copia d'amadori accolse,
e con leggiadri e candidi costumi
dilettò 'l mondo in guisa che la gente
d'amor per lei vien ch'arda e si consumi.
Gran pregio, in sé tener unitamente
rara del corpo e singolar beltate
con la virtú perfetta de la mente:
di cosí doppio ardor l'alme infiammate
senton lor foco di tal gioia pieno,
che quanto egli è maggior, piú son beate
Anch'io lo 'ncendio, che mi strugge il seno,
sempre piú bramerei che 'n tale stato
s'augumentasse e non venisse meno,
s'io non fossi, né so per qual mio fato,
in mille espresse ed angosciose guise
da lei, miser, fuggito e disprezzato:
ché se 'l trovar l'altrui voglie divise
da le nostre in amor, è di tal doglia,
che restan le virtú del cor conquise,
quanto convien ch'io lagrimi e mi doglia
di vedermi aborrir con quello sdegno,
che di speme e di vita in un mi spoglia?
E s'io mi lagno, e se di pianto pregno
porto 'l cor, che 'l duol suo sfoga per gli occhi,
miser qual io d'Amor non ha 'l gran regno.
Non basta che Fortuna empia in me scocchi
tanti colpi, ch'altrui mai non aviene
che 'n questa vita un sí gran numer tocchi;
ché sospirar e pianger mi conviene
di ciò, che la mia donna, fuor d'ogni uso,
al mio strazio piú cruda ognor diviene;
e s'io, del pianto il viso smorto infuso,
del cielo e de le stelle mi richiamo,
ed or Amor, or lei gridando accuso,
che poss'io far se, in premio di quant'amo,
giunto da l'altrui orgoglio a tal mi veggo,
che la morte ancor sorda al mio mal chiamo?
E col pensier, ond'io vaneggio, or chieggo
d'Amor aita, ed or per altra strada
sempre invano al mio scempio, oimè, proveggo.
Ma poi che 'l ciel destina, e cosí vada,
che per sicura e dilettosa via,
dove 'l ben trovan gli altri, io pèra e cada,
sàziati del mio mal, fortuna ria;
poi, di me quando sarai stanca e sazia,
qual tuo gran pregio e qual acquisto fia?
E tu, Amor, dentro e fuor mi struggi e strazia,
ché tanto m'è 'l mio affanno di contento,
quant'ei l'orgoglio di madonna sazia
Ben ai successi de le cose intento,
di lei m'assale immoderata téma,
che 'n lei vendichi 'l cielo il mio tormento.
Questo fa in parte la mia gioia scema,
anzi, s'io voglio raccontar il vero,
son sempre oppresso da una doglia estrema:
che se meco madonna usasse impero,
gratissimo il servirla mi saría
con affetto di cor vivo e sincero;
ma che invece di spender signoria,
a dilettar la circostante turba
mi strazie sotto acerba tirannia,
questo m'afflige l'animo, e mi turba.
Né, per le mie querele e i miei lamenti,
l'opera incominciata ella disturba,
ma, quasi mar nei procellosi venti,
nel mio chieder mercé via piú s'adira,
e cela di pietà gli occhi suoi spenti:
da me torcendo altrove i lumi gira,
e gran materia è di sua crudeltate
quanto per me si lagrima e sospira.
O donna, pregio de la nostra etate,
anzi di tutti i secoli, se 'n voi
non guastasse l'orgoglio la beltate,
ond'avvien che 'l mio amor cosí v'annoi?
E s'a morir davanti non vi vengo,
ancora offesa vi chiamate poi:
quanto faccio, e di quanto ch'io m'astengo,
di me le vostre voglie a render paghe,
vi spiace, e merto di vostr'odio ottengo.
Ma perché 'l vostro sdegno ognor m'impiaghe,
dolci son di quel volto le percosse,
e de le vostre man candide e vaghe.
Qualunque affetto in voi giamai si mosse,
tutto fate con grazia: de' vostri atti
chiunque il dotto e buon maestro fosse.
Quai tenesse con voi natura patti,
ancor de l'ire vostre e de l'offese
tutti gli uomini restan sodisfatti.
Farvi perfetta a tutte prove intese
l'influsso donator d'ogni eccellenza,
e benigno la man verso voi stese:
quinci del ciel l'altissima potenza
si vede in molti effetti discordanti,
c'han di virtute in voi tutti apparenza.
Oh che dolci, oh che cari e bei sembianti,
ch'alte maniere quelle vostre sono,
da farvi i dèi venir qua giuso amanti!
E se, com'io pur volentier ragiono
de le grazie che 'l ciel tante in voi pose
con singolar, non piú veduto dono,
non mi teneste d'ogni parte ascose
quelle vostre divine e rare parti,
di che vostra persona si compose,
non faran sí angosciosi da me sparti
sospiri, né di lagrime vedresti
avampando, cor misero, innondarti.
Ma dond'avien che 'n me, lasso, si desti
la speme, che per prova intendo come
faccia sempre i miei dí piú gravi e mesti?
E pur chiamando di mia donna il nome,
vera, unica al mondo eccelsa dea,
convien ch'a lei mi volga, e ch'io la nome.
Deh, non mi siate cosí iniqua e rea,
che 'l mio mal sia 'l ben vostro, e che m'ancida
quella vostra beltà che gli altri bea!
Ma quell'Amor, che v'ha tolto in sua guida,
e che tien nel cor vostro il suo bel seggio,
la crudeltà per me da voi divida;
ch'io piangendo umilmente ancor vel chieggio.
VIII
RISPOSTA DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Ben vorrei fosse, come dite voi, .
ch'io vivessi d'Amor libera e franca, .
non còlta al laccio o punta ai dardi suoi; .
e se la forza in ciò d'assai mi manca.
da resister a l'armi di quel dio, .
che 'l cielo e 'l mondo e fin gli abissi stanca, .
ch'ei s'annidasse fora 'l desir mio.
dentro 'l mio cor, in modo ch'io 'l facessi.
non repugnante a quel che piú desío. .
Non che sovra lui regno aver volessi, .
ché folle a imaginarlo sol sarei, .
non che ch'un sí gran dio regger credessi; .
ma da lui conseguir in don vorrei.
che, innamorar convenendomi pure, .
fosse 'l farlo secondo i pensier miei. .
Ché se libere in ciò fosser mie cure, .
tal odierei, ch'adoro; e tal, ch'io sdegno, .
con voglie seguirei salde e mature. .
E poi ch'Amor anch'io biasmar convegno, .
imaginando non si trovería.
cosa piú ingiusta del suo iniquo regno. .
Egli dal proprio ben l'alme desvía; .
e mentre indietro pur da ciò ti tira, .
nel precipizio del tuo mal t'invia. .
E se 'l cor vostro in tanto affanno ei gira, .
credete che per me certo non meno.
sua colpa, si languisce e si sospira; .
e se voi del mio amor venite meno.
(nol so, ma 'l credo), anch'io d'un crudel angue.
soffro al cor gli aspri morsi e 'l rio veneno. .
Cosí, quanto per me da voi si langue.
vedete ristorato con vendetta.
de le mie carni e del mio infetto sangue. .
E se 'l mio mal vi spiace e non diletta, .
anch'io 'l vostro non bramo, e quel ch'io faccio.
contra voi 'l fo da l'altrui amor costretta; .
benché, s'oppressa inferma a morte giaccio, .
com'è ch'a voi recar io possa aita.
nel martír ch'entro grido e di fuor taccio? .
Voi, s'a lagnarvi il vostro duol v'invita.
meco, nel mio languir soverchio impietra.
e rende un sasso di stupor mia vita: .
via piú nel cor quella doglia penétra, .
che raggela le lagrime nel petto, .
e l'uom, qual Niobe, trasfigura in pietra. .
Il vostro duol si può chiamar diletto, .
poiché parlando meco il disfogate, .
del mio, ch'al centro il cor chiude, in rispetto. .
Io vi rispondo ancor, se mi parlate; .
ma le preghiere mie supplici il vento.
senza risposta ognor se l'ha portate, .
se pur ebbi mai tanto d'ardimento, .
che in voce o con inchiostro addimandassi.
qualche mercede al grave mio tormento. .
E cosí portar gli occhi umidi e bassi.
convengo, e converrò per lungo spazio, .
se morte al mio dolor non chiude i passi. .
Del mio amante non dico: ché 'l mio strazio.
è 'l dolce cibo, ond'ei mentre si pasce.
divien nel suo digiun manco ognor sazio.
E dal suo orgoglio pur sempre in me nasce.
novo desio d'appagar le sue voglie, .
ch'unqua non vien che riposar mi lasce; .
ma dal mio nodo Amor l'arretra e scioglie: .
forse con lui fa un'altra donna quello.
ch'egli fa meco; e qual dà, tal ritoglie. .
Cosí di quanto è 'l mio desir rubello.
ai desir vostri, a la medesma guisa.
ne riporto supplizio acerbo e fello. .
Fors'ancor voi del vostro amor conquisa.
altra donna sprezzate, e con la mente.
dal piacerle v'andate ognor divisa; .
e s'a lei sète ingrato e sconoscente, .
in suo giusto giudizio Amor decide.
ch'un'altra sí vi scempia e vi tormente. .
Fors'anco Amor del comun pianto ride, .
e per far lagrimar piú sempre il mondo, .
l'altrui desir discompagna e divide; .
e mentre che di ciò si fa giocondo, .
de le lagrime nostre il largo mare.
sempre piú si fa cupo e piú profondo: .
ché s'uom potesse a suo diletto amare, .
senza trovar contrarie voglie opposte, .
l'amoroso piacer non avría pare. .
E se tai leggi fur dal destin poste. .
perché ne la soverchia dilettanza.
al ben del cielo il mondan non s'accoste, .
tant'è piú 'l mio dolor, quant'ho in usanza.
d'innamorarmi e di provar amando.
quest'amata in amor disagguaglianza. .
Ben quanto a l'esser mio vo ripensando: .
veggo che la fortuna mi conduce.
ove la vita ognor meni affannando; .
e se potessi in ciò prender per duce.
quella ragion ch'or, da l'affetto vinta, .
d'Amor sotto l'imperio si riduce, .
sarebbe nel mio cor la fiamma estinta.
de l'altrui foco, e di quel fôra in vece.
del vostro l'alma ad infiammarsi accinta. .
E se l'ordine a me mutar non lece, .
s'a disfar o corregger quel non viene, .
ch'o ben o mal una volta il ciel fece, .
posso bramar che chi cinta mi tiene.
d'indegno laccio in libertà mi renda, .
sí ch'io mi doni a voi, come conviene; .
ma ch'altro in ciò fuor del desir io spenda, .
e questo ancor con non picciola noia, .
non è che piú da voi, signor, s'attenda. .
Ben sarebbe compita la mia gioia, .
s'io potessi cangiar nel vostro amore.
quel ch'in altrui con diletto m'annoia. .
A voi darei di buona voglia il core, .
e dandol, crederei riguadagnarlo.
nel merito del vostro alto valore: .
cosí verrei d'altrui mani empie a trarlo, .
e in luogo di conforto e di salute.
aventurosamente a ben locarlo. .
Anch'io so quanto val vostra virtute, .
e de le rare eccellenti vostr'opre.
molte sono da me state vedute. .
Chiaro il vostro valor mi si discopre, .
e s'io non vengo a dargli ricompensa, .
Amor non vuol che tanto ben adopre.
Com'io 'l potessi far, da me si pensa; .
e se, dov'al desio manca il potere, .
il buon animo i merti ricompensa, .
che v'acquietate meco è ben dovere: .
forse ch'a tempo di miglior ventura.
ve ne farò buon effetto vedere. .
Tra tanto l'esser certo di mia cura.
conforto sia ch'al vostro dolor giovi, .
e mi faccia stimar da voi non dura, .
fin che libera un giorno io mi ritrovi. .
IX.
D'INCERTO AUTORE.
Donna, la vostra lontananza è stata.
a me, vostro fedel servo ed amante, .
morte tanto crudel quanto insperata. .
Nel gentil vostro angelico sembiante.
abitar l'alma e 'l mio cor vago suole, .
e ne le luci sí leggiadre e sante: .
queste fur risplendente unico sole.
sovra i miei dí, senza, or triti e negri, .
e di quel pieni, ond'uom via piú si duole, .
come sono a me adesso orbati ed egri, .
in questa sepoltura de la vita, .
che non fia, senza voi, che si reintègri. .
Con voi l'anima mia s'è dipartita, .
anzi 'l mio spirto e l'anima voi sète, .
e tutta la virtú vitale unita: .
e s'uom morto parlar vien che si viete, .
non io, ma di me parla in cambio quella.
che ne le vostre man mia vita avete. .
Questa non pur vi scrive e vi favella, .
per miracol d'amor, in cotal guisa, .
che, ne l'esser io morto, in voi vive ella; .
ma stando dal cor vostro non divisa, .
vi susurra a l'orecchie di segreto, .
e 'l mio misero stato vi divisa. .
Né perciò del mio male altro ben mieto, .
se non ch'agli occhi vostri ei si figura.
con spettacolo a voi gioioso e leto; .
e mentre meco ognor v'innaspra e indura, .
superate ne l'essermi crudele.
le fiere mostruose a la natura. .
Lasso, ch'io spargo ai venti le querele, .
anzi è un percuoter d'onde a duro scoglio, .
quanto mai di voi pianga e mi querele. .
Mosso s'insuperbisce il vostro orgoglio.
sí come 'l mar a l'impeto de' venti, .
mentre a ragion con voi di voi mi doglio; .
ed or, per far piú gravi i miei tormenti, .
per levarmi 'l ristoro ch'io sentía.
nel formarvi propinquo i miei lamenti, .
n'andaste a volo per diversa via, .
quando men sospettava, a dimostrarvi.
in tutti i modi a me contraria e ria. .
Qual neve sotto 'l sol, piangendo sparvi.
con quest'orma di vita, e con quest'ombra.
vana e insufficiente a seguitarvi; .
anzi, da' miei sospir cacciata e sgombra, .
col vento, ch'a voi venne, si risolse, .
che spirando al bel sen fors'or v'ingombra. .
Empio destin, ch'altrove vi rivolse.
dal mirar lo mio strazio e quella pena, .
che infinita al mio cor per voi s'accolse! .
Troppo era la mia vita alta, serena, .
darvi in presenzia de la mia gran fede.
col vicin pianger mio certezza piena, .
e riceverne asprissima mercede.
di presenti minacce e di ripulse, .
contrario a quel ch'a la pietà si chiede. .
Ben certo allor benigno il ciel m'indolse; .
e troppo chiara ancor nel sommo sdegno.
la luce de' vostr'occhi a me rifulse. .
Di gustar quel piacer non era degno, .
ch'io sentía, nel vedervi, aspro e mortale.
far piú sempre 'l mio duol, con ogni ingegno: .
or lasso piango il mio passato male, .
quando a le mie d'amor gravi percosse.
non fu in dolcezza alcun diletto eguale. .
Amor d'acerbo colpo mi percosse, .
di quel che di piacer è in tutto privo, .
quando da me, madonna, vi rimosse. .
Dianzi fu 'l viver mio lieto e giulivo, .
ed or, a prova del mio mal cotanto, .
sento 'l mio ben, mentre di lui mi privo. .
Deh tornate a veder il mio gran pianto.
venite a rinovar l'aspre mie piaghe, .
senza lasciarmi respirar alquanto: .
di ciò contente fían mie voglie e paghe, .
che 'l mio duol, da voi fatto ancor maggiore, .
mirin da presso l'alme luci vaghe. .
A me fia d'alta gioia ogni dolore; .
e in gran pietà riceverà lo strazio, .
e in dolce aita ogni aspra offesa il core, .
pur ch'a noi ritorniate in breve spazio. .
X.
RISPOSTA DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA PER L'ISTESSE RIME.
In disparte da te sommene andata, .
per frastornarti da l'amarmi, avante.
ch'unqua mostrarmi a tanto amore ingrata: .
né mia colpa fia mai ch'alcun si vante.
giovato avermi in opre od in parole, .
senza mercede assai piú che bastante, .
ma s'uom, seguendo ciò che 'l suo cor vuole, .
di quel m'attristi, ond'ei via piú s'allegri, .
meco non merta, e mi sprezza, e non cole. .
Quei sí, che son d'amor meriti intègri, .
quando, per far a me cosa gradita, .
per me ti sono, i tuoi dí tristi, allegri! .
E nondimeno tu con infinita.
doglia sentisti che mai cose liete.
non m'incontrar dal tuo amor disunita. .
Che mi prendesti a l'amorosa rete, .
presa da un altro pria, vietò mia stella, .
non so se per mio affanno, o per quiete: .
basta che, fatta d'altro amante ancella, .
l'anima, ad altro oggetto intenta e fisa, .
rendersi ai tuoi desir convien rubella. .
Con tutto questo, e ch'al mio ben precisa.
la strada fosse, e fattomi divieto, .
dal tuo seguirmi poco men che uccisa, .
con giudicio amorevole e discreto.
tanto stimai 'l tuo amor senza misura, .
quanto piú al mio voler fosti indiscreto: .
e di te preso alcuna dolce cura, .
bench'a me tu temprasti amaro fele.
col tuo servirmi, in ciò non ti fui dura; .
e per te non avendo in bocca il mèle.
di quell'affetto ch'entro 'l sen raccoglio, .
che in altrui pro convien che si rivele, .
liberamente, come teco soglio, .
ti raccontai ch'altrove erano intenti.
i miei spirti, e mostraiti il mio cordoglio. .
Or, perché teco ad un non mi tormenti, .
tentando invan ch'a mio gran danno io sia.
pietosa a te, con tuoi dogliosi accenti, .
da te partimmi; e non potendo pia.
esserti, almen veridica t'apparvi: .
non rea, qual da te titol mi si dia. .
Quanto è 'l peggio talvolta il palesarvi.
effetti d'alma di pietate ingombra, .
dov'altri soglia male interpretarvi! .
Benché, se vaneggiando erra ed adombra.
il tuo pensier, che da ragion si tolse, .
seguendo Amor per via di lei disgombra.
non però quel ch'ad util tuo si vòlse.
da me, da cui 'l desir tuo si raffrena, .
che d'ir al precipizio i piè ti sciolse, .
a meritar alcun biasmo mi mena; .
anzi di quel ch'aiuto in ciò ti diede, .
la mia chiara pietà si rasserena: .
ché s'io mossi da te fuggendo 'l piede, .
fu perché le presenti mie repulse.
m'eran de la tua morte espressa fede. .
E quante volte fu che ti repulse.
da sé 'l mio sguardo, o ti mirò con sdegno, .
so che 'l gran duol del petto il cor t'evulse. .
Ch'io ti vedessi d'alta doglia pregno.
morirmi un dí davante, eccesso tale.
era a me sconvenevole ed indegno. .
Da l'altra parte, assai potev'io male.
risponder al tuo amor: non men che fosse.
il tentar di volar non avendo ale. .
E che far potev'io contra le posse.
di quell'arcier che, del tuo bene schivo, .
d'oro in te, in me di piombo il suo stral mosse? .
Ma d'òr prima anco al mio cor fece arrivo.
la sua saetta, stand'io ferma intanto, .
mirando incauta l'altrui volto divo. .
Quinci un lume, ch'al sol toglieva il vanto, .
m'abbagliò sí, che non fia che s'appaghe.
d'alcun ben altro mai l'anima tanto. .
E perch'errando 'l mio stil piú non vaghe, .
io partí' per disciôrti dal mio amore, .
con le mie piante a fuggir pronte e vaghe. .
So che la lontananza il suo furore.
mitiga; e quando tu, del viver sazio, .
pur vogli amando uscir di vita fuore, .
te, con quest'occhi, e me insieme non strazio. .
XI.
D'INCERTO AUTORE.
Invero una tu sei, Verona bella, .
poi che la mia Veronica gentile.
con l'unica bellezza sua t'abbella. .
Quella, a cui non fu mai pari o simíle.
d'Adria ninfa leggiadra, or col bel viso.
t'apporta a mezzo 'l verno un lieto aprile; .
anzi ti fa nel mondo un paradiso.
il sol del volto, e degli occhi le stelle, .
e 'l tranquillo seren del vago riso; .
ma l'intelletto, che sí chiaro dièlle.
il celeste Motor a sua sembianza, .
unito in lei con l'altre cose belle, .
quegli altri pregi in modo sopravanza, .
che l'uman veder nostro non perviene.
a mirar tal virtute in tal distanza. .
A pena l'occhio corporal sostiene.
lo splendor de la fronte, in cui mirando.
abbagliato e confuso ne diviene: .
questa la donna mia dolce girando, .
l'aria fa tutta sfavillar d'intorno, .
e pon le nubi e le tempeste in bando. .
Di rose e di viole il mondo adorno.
rende 'l lume del ciglio, con cui lieta.
primavera perpetua fa soggiorno. .
Oimè! qual empio influsso di pianeta, .
unica di quest'occhi e vera luce, .
subito mi t'asconde e mi ti vieta? .
Chi 'l nostro paradiso altrove adduce, .
Adria, meco perciò dogliosa e trista, .
ché 'n tenebre il dí nostro si riduce? .
Ogni altro oggetto, lasso me, m'attrista, .
or che del vago mio splendor celeste.
mi si contende la bramata vista. .
Ben del pensier con l'egre luci e meste.
scorgo Verona invidiosamente, .
che de' miei danni lieta si riveste.
Veggo, lasso, e rivolgo con la mente.
ne l'altrui gioia e ne l'altrui diletto.
via piú grave 'l mio danno espressamente. .
Adria, per costei fosti almo ricetto.
di tutto 'l ben ch'a noi dal ciel deriva, .
quant'ei ne suol piú dar sommo e perfetto: .
or di lei tosto indegnamente priva, .
per questa del tuo lido antica sponda.
torbido 'l mar risuona in ogni riva. .
Ben tanto piú si fa lieta e gioconda.
Verona, e di fiorito e dolce maggio, .
nel maggior nostro verno e ghiaccio, abonda. .
Quivi del mio bel sol l'amato raggio.
spiega le tante sue bellezze eterne, .
che d'ir al cielo insegnano il viaggio. .
Per virtú di tal lume in lei si scerne.
vestir le piante di novel colore, .
e giunger forza a le radici interne. .
L'aura soave e 'l prezioso odore.
che da le rose de la bocca spira.
questa figlia di Pallade e d'Amore, .
nutrimento vital per tutto inspira, .
sí ch'a quel refrigerio in un momento.
tutto risorge e rinasce e respira; .
e de la voce angelica il concento.
i fiumi affrena, e i monti ad udir move, .
e 'l ciel si ferma ad ascoltarla intento.
il ciel, che in Adria piange e ride altrove, .
là 've la dolce mia terrena dea.
grazia e dolcezza dal bel ciglio piove, .
e quel ricetto estremamente bea, .
dov'ella alberga, per destin felice.
d'un altro amante e per mia stella rea. .
Altri del mio penar buon frutto elice, .
del mio bel sol la luce altri si gode, .
ed io qui piango nudo ed infelice. .
Ma s'ella 'l mio dolor intende ed ode, .
perch'a levarmi l'affamato verme.
non vien dal cor, che sí 'l consuma e rode? .
E se non m'ode, o mie speranze inferme! .
poi che 'l ciel chiude a' miei sospir la strada, .
contra cui vano è quanto uom mai si scherme. .
Ma tu sí aventurosa alma contrada, .
ch'a pena un tanto ben capi e ricevi, .
qual chi confuso in gran dolcezza cada, .
d'Adria i diletti, a fuggir pronti e lievi, .
mira, e dal nostro danno accorta stima.
il volar de' tuoi dí fugaci e brevi. .
Or ti vedi riposta ad alta cima, .
né pensi forse come d'alto grado.
le cose eccelse la fortuna adima: .
stabil non è di qua giú 'l bene, e rado.
piú d'un momento dura, e 'l pianto e 'l duolo.
trova per mezzo l'allegrezza il guado. .
Ma pur felice aventuroso suolo, .
che quel momento al goder nostro dato.
possiedi un ben cosí perfetto e solo. .
Pian, poggio, fonte e bosco fortunato, .
ch'a un guardo, a un sol toccar del vago piede, .
forma prendete di celeste stato, .
l'alto e novo miracol, che 'n voi siede, .
a farvi basti, in tanto spazio, eterno.
tutto quel ben ch'al suo venir vi diede: .
sí che mai non v'offenda o ghiaccio o verno, .
ned altro influsso rio, ma sempre in voi.
sia la stagion de' fior lieta in eterno; .
pur che tosto colei ritorni a noi, .
al nido ov'ella nacque, che senz'essa.
mena tristi ed oscuri i giorni suoi. .
Deh torna, luce mia, del raggio impressa.
de la divinità, qui dove mai.
pianger la tua partita non si cessa. .
Tempo è di ritornar, madonna, omai.
a consolar de la vostr'alma vista.
di questa patria i desiosi rai,
a dar a la mia mente inferma e trista,
col dolce oggetto del bel vostro lume,
rimedio contra 'l duol che sí l'attrista:
e se troppo 'l mio cor di voi presume,
datemi in pena che del vago volto
da vicin lo splendor m'arda e consume;
né de' begli occhi altrove sia rivolto
il doppio sol, fin che 'n polve minuta
non mi vediate dal mio incendio vòlto;
e per farlo, affrettate la venuta.
XII
RISPOSTA DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Oh quanto per voi meglio si faría,
se quel che 'l cielo ingegno alto vi diede
riconosceste con piú cortesia,
sí ch'a impiegarlo in quel che piú si chiede
veniste, disdegnando il mondo frale,
che quei piú inganna, che gli tien piú fede:
e se lodaste pur cosa mortale,
lasciando quel ch'è sol del senso oggetto,
lodar quel ch'al giudicio ancor poi vale,
lodar d'Adria il felice almo ricetto,
che, benché sia terreno, ha forma vera
di cielo in terra a Dio caro e diletto:
questa materia del vostro ingegno era,
e non gir poetando vanamente,
obliando la via del ver primiera.
Senza discorrer poeticamente,
senza usar l'iperbolica figura,
ch'è pur troppo bugiarda apertamente,
si poteva impiegar la vostra cura
in lodando Vinegia, singolare
meraviglia e stupor de la natura.
Questa dominatrice alta del mare,
regal vergine pura, inviolata,
nel mondo senza essempio e senza pare,
questa da voi deveva esser lodata,
vostra patria gentile, in cui nasceste,
e dov'anch'io, la Dio mercé, son nata;
ma voi le meraviglie raccoglieste
d'altro paese; e de la mia persona,
quel ch'Amor cieco vi dettò, diceste.
Una invero è, qual dite voi, Verona,
per le qualità proprie di se stessa,
e non per quel che da voi si ragiona;
ma tanto piú Vinegia è bella d'essa,
quanto è piú bel del mondo il paradiso,
la cui beltà fu a Vinegia concessa.
In modo dal mondan tutto diviso,
fabricata è Vinegia sopra l'acque,
per sopranatural celeste aviso:
in questa il Re del cielo si compiacque
di fondar il sicuro, eterno nido
de la sua fé, ch'altrove oppressa giacque;
e pose a suo diletto in questo lido
tutto quel bel, tutta quella dolcezza,
che sia di maggior vanto e maggior grido.
Gioia non darsi altrove al mondo avezza
in tal copia in Vinegia il ciel ripose,
che chi non la conosce, non l'apprezza.
Questo al vostro giudicio non s'ascose.
che de le cose piú eccellenti ha gusto;
ma poi la benda agli occhi Amor vi pose:
dal costui foco il vostro cor combusto,
vi mandò agli occhi de la mente il fumo,
che vi fece veder falso e non giusto.
Ned io di me tai menzogne presumo,
quai voi spiegaste, ben con tai maniere,
che dal modo del dir diletto assumo;
ma non perciò conosco per non vere
le trascendenti lodi che mi date,
sí che mi son con noia di piacere.
Ma se pur tal di me concetto fate,
perch'al nido, ov'io nacqui, non si pensa
da voi, e 'n ciò perch'ognor nol lodate?
Perch'ad altr'opra il pensier si dispensa,
se per voi deve un loco esser lodato,
che dia al mio spirto posa e ricompensa?
Ricercando del ciel per ogni lato,
se ben discorre in molte parti il sole,
però vien l'oriente piú stimato:
perché quasi dal fonte Febo suole
quindi spiegar il suo divino raggio,
quando aprir ai mortali il giorno vuole;
cosí anch'io 'n questo e in ogni altro viaggio,
senza col sol però paragonarmi,
per mio oriente, alma Venezia, t'aggio.
Questa, se in piacer v'era dilettarmi,
dovevate lodar, e con tal modo
al mio usato soggiorno richiamarmi.
Lunge da lei, di nullo altro ben godo,
se non ch'io spero che la lontananza
dal mio vi scioglia o leghi a l'altrui nodo.
Continuando in cotal mia speranza,
prolungherò piú ch'io potrò 'l ritorno:
tal che m'amiate ha lo sdegno possanza!
Cosí vuol chi nel cor mi fa soggiorno:
amor di tal, che per vostra vendetta
forse non meno il mio riceve a scorno;
ma, come sia, non ritornerò in fretta.
XIII
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Non piú parole: ai fatti, in campo, a l'armi,
ch'io voglio, risoluta di morire,
da sí grave molestia liberarmi.
Non so se 'l mio «cartel» si debba dire,
in quanto do risposta provocata:
ma perché in rissa de' nomi venire?
Se vuoi, da te mi chiamo disfidata;
e se non, ti disfido; o in ogni via
la prendo, ed ogni occasion m'è grata.
Il campo o l'armi elegger a te stia,
ch'io prenderò quel che tu lascerai;
anzi pur ambo nel tuo arbitrio sia.
Tosto son certa che t'accorgerai
quanto ingrato e di fede mancatore
fosti, e quanto tradito a torto m'hai.
E se non cede l'ira al troppo amore,
con queste proprie mani, arditamente
ti trarrò fuor del petto il vivo core.
La falsa lingua, ch'in mio danno mente,
sterperò da radice, pria ben morsa
dentro 'l palato dal suo proprio dente;
e se mia vita in ciò non fia soccorsa,
pur disperata prenderò in diletto
d'esser al sangue in vendetta ricorsa;
poi col coltel medesmo il proprio petto,
de la tua occision sazia e contenta,
forse aprirò, pentita de l'effetto.
Or, mentre sono al vendicarmi intenta,
entra in steccato, amante empio e rubello,
e qualunque armi vuoi tosto appresenta.
Vuoi per campo il segreto albergo, quello
che de l'amare mie dolcezze tante
mi fu ministro insidioso e fello?
Or mi si para il mio letto davante,
ov'in grembo t'accolsi, e ch'ancor l'orme
serba dei corpi in sen l'un l'altro stante.
Per me in lui non si gode e non si dorme,
ma 'l lagrimar de la notte e del giorno
vien che in fiume di pianto mi trasforme.
Ma pur questo medesimo soggiorno,
che fu de le mie gioie amato nido,
dov'or sola in tormento e 'n duol soggiorno,
per campo eleggi, accioch'altrove il grido
non giunga, ma qui teco resti spento,
del tuo inganno ver' me, crudele infido:
qui vieni, e pien di pessimo talento,
accomodato al tristo officio porta
ferro acuto e da man ch'abbia ardimento.
Quell'arme, che da te mi sarà pòrta,
prenderò volontier, ma piú, se molto
tagli, e da offender sia ben salda e corta.
Dal petto ignudo ogni arnese sia tolto,
al fin ch'ei, disarmato a le ferite,
possa 'l valor mostrar dentro a sé accolto.
Altri non s'impedisca in questa lite,
ma da noi soli due, ad uscio chiuso,
rimosso ogni padrin, sia diffinita.
Quest'è d'arditi cavalier buon uso,
ch'attendon senza strepito a purgarsi,
se si senton l'onor di macchie infuso:
cosí o vengon soli ad accordarsi,
o se strada non trovano di pace,
pòn del sangue a vicenda saziarsi.
Di tal modo combatter a me piace,
e d'acerba vendetta al desir mio
questa maniera serve e sodisface.
Benché far del tuo sangue un largo rio
spero senz'alcun dubbio, anzi son certa,
senza una stilla spargerne sol io;
ma se da te mi sia la pace offerta?
se la via prendi, l'armi poste in terra,
a le risse d'amor del letto aperta?
Debbo continuar teco anco in guerra,
poi che chi non perdona altrui richiesto,
con nota di viltà trascorre ed erra?
Quando tu meco pur venissi a questo,
per aventura io non mi partirei
da quel ch'è convenevole ed onesto.
Forse nel letto ancor ti seguirei,
e quivi, teco guerreggiando stesa,
in alcun modo non ti cederei:
per soverchiar la tua sí indegna offesa
ti verrei sopra, e nel contrasto ardita,
scaldandoti ancor tu ne la difesa,
teco morrei d'egual colpo ferita.
O mie vane speranze, onde la sorte
crudel a pianger piú sempre m'invita!
Ma pur sostienti, cor sicuro e forte,
e con l'ultimo strazio di quell'empio
vendica mille tue con la sua morte;
poi con quel ferro ancor tronca il tuo scempio.
XIV
RISPOSTA D'INCERTO AUTORE
Non piú guerra, ma pace: e gli odi, l'ire,
e quanto fu di disparer tra noi,
si venga in amor doppio a convertire.
La mia causa io rimetto in tutto a voi,
con patto che, per fin de le contese,
amici piú che mai restiamo poi:
non mi basta che l'armi sian sospese,
ma, per stabilimento de la pace,
d'ogni parte si lievino l'offese.
Che nascesse tra noi rissa, mi spiace;
ma se lo sdegno in amor s'augumenta,
che tra noi si sdegnassimo, mi piace:
e se pur ragion vuol ch'io mi risenta
e vendicata sia l'ingiuria mia,
de la qual foste ognor ministra intenta,
voglio con l'armi de la cortesia
invincibil durar tanto a la pugna,
che conosciuto alfin vincitor sia.
Né questo da l'amor grande repugna,
anzi con queste e non mai con altre armi
ogni spirto magnanimo s'oppugna.
O se voleste incontra armata starmi,
se voleste tentar, con forza tale,
se possibil vi sia di superarmi,
fôra 'l mio stato a quel di Giove eguale;
forse troppo è la speranza ardita,
che studia di volar non avendo ale.
Somma felicità de la mia vita
sarebbe, in questo stato, che teneste
da nuocermi la mente disunita;
ma s'a l'opere mie ben attendeste,
cosí precipitosa ne lo sdegno
a ciascun passo meco non sareste.
L'ira è bensí de l'affezzion segno,
ma che attende a introdur nel nostro petto,
quanto può, l'odio con acuto ingegno;
cosí 'l languir, giacendo infermo in letto,
segno è di vita, perché l'uom ch'è morto
cosa alcuna patir non può in effetto:
ben per l'infermità vien altri scorto
a morir, e quant'è piú 'l mal possente,
al fin s'affretta in termine piú corto.
Del vostro sdegno súbito ed ardente,
s'è in voi punto ver'me d'amore, attendo
che siano tutte le reliquie spente.
E per questo talvolta anch'io m'accendo,
e non per ira, ma per dolor molto,
batto le man, vocifero e contendo:
vedermi del mio amor il premio tolto,
né questo pur, ma in altretanta pena
vederlomi in su gli occhi (oimè!) rivolto,
per disperazion questo mi mena
a quel che piú mi spiace; e pur l'eleggo,
poi che 'l preciso danno assai s'affrena.
Con la necessità mi volgo e reggo,
da poi che la ruina manifesta
de le speranze mie tutte preveggo;
ma non perciò nel cor sempre mi resta
di piacervi talento e di servirvi,
anzi in me piú tal brama ognor si desta.
La mia ragion verrei talvolta a dirvi,
ma perché so che romor ne sarebbe,
col silenzio m'ingegno d'obedirvi.
Non so, ma forse ch'a taluno increbbe
del viver nostro insieme; che 'l suo tòsco,
nel nostro dolce a spargerlo, pronto ebbe.
Insomma, dal mio canto non conosco
d'avervi offeso, se 'l mio amor estremo
meritar pena non m'ha fatto vosco;
ma seguite, crudel: questo mai scemo
non diverrà, ma nel mio cor profondo
vivo si serberà fino a l'estremo.
Vivrà di questo il mio pensier giocondo,
benché per tal cagion di pianto amaro,
di lamenti e sospiri e doglia abondo.
Ecco che nel duello mi preparo,
con l'armi del mio mal, de le mie pene,
de l'innocenzia mia sotto 'l riparo
Non so se 'l vostro orgoglio ne diviene
maggior, o se s'appiana, mentre mira
ch'io verso 'l pianto da le luci piene
ben talor l'umiltà estingue l'ira,
ma poi talor l'accende, onde quest'alma
tra speranza e timor dubbia si gira.
Ma d'armi tali pur sotto aspra salma,
mi rendo in campo a voi, madonna, vinto,
e nuda porgo a voi la destra palma.
Se non s'è l'odio nel cor vostro estinto,
mi sia da voi col preparato ferro
un mortal colpo in mezzo 'l petto spinto:
pur troppo armata, e so ben ch'io non erro,
contra me sète; ed io del seno ignudo
l'adito ai vostri colpi ancor non serro.
Quel dolce sguardo umanamente crudo
son l'armi ond'ancidete il tristo core,
in cui viva, bench'empia, ognor vi chiudo;
gli strali e 'l foco e 'l laccio son d'Amore
l'alte vostre bellezze, a me negate,
onde cresce 'l desio, la spome more.
Queste in mio danno, aspra guerriera, usate,
e quanto piú di lor sète gagliarda,
tanto piú pronta a le ferite siate.
Qual cosa dal ferirmi vi ritarda?
Forse vi giova che d'acerba fiamma,
senza morir, per voi languisca ed arda.
Lasso, ch'io mi distruggo a dramma a dramma,
né de la mia nemica il mio gran foco
punto il gelido petto accende o infiamma:
ella si prende i miei martíri in gioco,
misero me, ché pur a nòve piaghe
dentro 'l mio petto non si trova loco.
Di quella fronte e de le luci vaghe,
e del dolce parlar fur gli aspri colpi,
che 'n parte fer quell'empie voglie paghe.
Volete ch'io non pianga e non v'incolpi,
e di quanto in mio scempio avete fatto
di voi mi lodi, e non sol vi discolpi?
L'armi prendete ad impiagarmi ratto,
e 'l mio duol disgombrando con la morte,
fate degno di voi magnanimo atto.
A riconciliar l'irata sorte,
onde 'l ciel mi minaccia oltraggio e scorno,
pigliate in man la spada, ardita e forte.
Ecco che disarmato a voi ritorno,
e per finir il pianto a qualche strada,
ai vostri piedi umil mi volgo intorno:
del vostro sdegno la tagliente spada,
s'altro non giova, omai prendete in mano,
e sopra me ferendo altèra cada.
Ripetete pur via di mano in mano,
mentre dal segno alcun colpo non erra,
e che l'oggetto avete non lontano:
breve fatica queste membra atterra,
lacere e tronche d'amorosa doglia,
non punto accinte a contrastar in guerra;
e s'ancor ben potessi, non n'ho voglia,
ma di morirvi inanzi eleggo, pria
ch'alcun riparo in mia difesa toglia.
Potete, se vi piace, essermi ria;
e quando usar l'asprezza non vi piaccia,
potete, se vi piace, essermi pia.
Quanto a me, pur ch'a voi si sodisfaccia,
vi dono sopra me podestà franca,
legato piedi e mani e gambe e braccia;
e vi mando per fede carta bianca,
ch'abbiate del mio cor dominio vero,
sí che veruna parte non vi manca.
Del resto assai desío piú, che non spero,
né so se in via di straziar m'abbiate
fatto l'invito, o se pur da dovero.
Aspetterò che voi me n'accertiate.
XV
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Signor, ha molti giorni ch'io non fui
(come doveva) a farvi riverenza:
di che biasmata son forse d'altrui;
ma se da far se n'ha giusta sentenza,
le mie ragioni ascoltar pria si dènno
da me scritte, o formate a la presenza:
che, quanto dritte ed accettabili ènno,
non voglio ch'altri s'impedisca, e solo
giudicar lascerò dal vostro senno.
Con questo in tanti mali mi consolo,
che non sète men savio che cortese,
e che pietà sentite del mio duolo:
sí che s'alcun di questo mi riprese,
ch'a voi d'alquanto tempo io non sia stata,
prodotte avrete voi le mie difese.
Io so pur troppo che da la brigata
far mal giudizio de le cose s'usa,
senza aver la ragion prima ascoltata.
Signor, non solo io son degna di scusa,
ma che ciascun, c'ha gentil cor, m'ascolti
di tristo pianto con la faccia infusa.
Non posso non tener sempre rivolti
i sentimenti e l'animo e l'ingegno
ai gravosi martír dentro a me accolti,
sí ch'ora ch'a scusarmi con voi vegno,
entra la lingua a dir del mio dolore,
e di lui ragionar sempre convegno;
benché quest'è mia scusa, che l'amore
ch'io porto ad uom gentile a maraviglia
mi confonde la vita e toglie il core;
anzi pur dal girar de le sue ciglia
la mia vita depende e la mia morte,
e quindi gioia e duol l'anima piglia.
Permesso alfine ha la mia iniqua sorte
che 'n preda del suo amor m'abbandonassi,
di che fíen l'ore del mio viver corte;
ed ei, crudel, da me volgendo i passi,
quando piú bramo la sua compagnia,
fuor de la nostra comun patria vassi:
senza curar de la miseria mia,
a far l'instanti ferie altrove è gito,
ma d'avantaggio andò sei giorni pria;
di ch'è rimaso in me duolo infinito,
e 'l core e l'alma e 'l meglio di me tutto,
col mio amante, da me s'è dipartito.
Corpo dal pianto e dal dolor distrutto,
ne l'allegrezza senza sentimento,
rimasta son del languir preda in tutto:
quinci 'l passo impedito, e non pur lento,
ebbi a venir in quella vostra stanza,
secondo 'l mio devere e 'l mio talento,
peroché i membri avea senza possanza,
priva d'alma; e se in me di lei punto era,
dietro 'l mio ben n'andava per usanza.
Cosí passava il dí fino a la sera,
e le notti piú lunghe eran di quelle
ch'ad Alcmena Giunone fer provar fiera:
sovra le piume al mio posar rubelle,
non ritrovando requie nel martíre,
d'Amor, di lui doleami, e de le stelle.
Standomi senza lui volea morire:
spesso levai, e ricorsi agli inchiostri,
né confusa sapea che poi mi dire.
Ben prego sempre Amor che gli dimostri
le mie miserie e 'l suo gran fallo espresso,
oltre a tanti da me segni fuor mostri.
Certo da un canto e lungamente e spesso
egli m'ha scritto in questa sua partita,
ed ancor piú di quel che m'ha promesso:
col suo cortese scrivermi la vita
senza dubbio m'ha reso, ed io 'l ringrazio
con un pensier ch'a sperar ben m'invita.
Da l'altra parte intento a lo mio strazio,
poiché senza di sé mi lascia, io 'l veggo,
e ch'ei sta senza me sí lungo spazio.
Le sue lettre mandatemi ognor leggo,
e tenendole innanzi a lor rispondo,
e parte a la mia doglia in ciò proveggo
Alti sospir dal cor m'escon profondo
nel legger le sue carte e in far risposte,
piene di quel languir che in petto ascondo.
In ciò fur tutte dispensate e poste
l'ore; e del mio signor basciava in loco
le sue grate e dolcissime proposte.
Peggio che morta, in suon tremante e fioco
sempre chiamarlo lagrimando assente,
il mio sol rifugio era e 'l mio gioco:
e desiandol meco aver presente,
altrui noiosa, a me stessa molesta,
lassa languía del corpo e de la mente.
Come deveva over potea, con questa
oppressa dal martír gravosa spoglia,
venir da voi, meschina, inferma e mesta,
a crescer con la mia la vostra doglia,
e in cambio di parlar con buon discorso,
aver di pianger, piú che d'altro, voglia?
In quel vostro sí celebre concorso
d'uomini dotti e di giudicio eletto,
da cui vien ragionato e ben discorso,
come, senza poter formar un detto,
dovev'io ne la scola circostante
uom tal visitar egro infermo in letto?
Furono appresso le giornate sante,
ch'a questo officio m'impedir la via;
benché la cagion prima fu 'l mio amante,
a cui sempre pensar mi convenía,
e legger, e risponder, in ciò tutta
spendendo la già morta vita mia.
Ed ora a stato tal io son ridutta,
che s'ei doman non torna, com'io spero,
fia la mia carne in cenere distrutta.
Di rivederlo ognor bramosa pèro,
bench'ei tosto verrà, com'io son certa,
per quel ch'ei sempre m'ha narrato il vero:
de la promessa fé di lui s'accerta
con altre esperienzie la mia spene,
né qual dianzi ha da me doglia è sofferta.
Egli verrà, l'abbraccerò 'l mio bene:
stella benigna, ch'a me 'l guida, e ria
quella ond'ei senza me star sol sostiene.
Mi resta un poco di malinconia,
ch'egro è 'l mio colonello, ed io non posso
mancargli per amor e cortesia:
sí che, gran parte d'altro affar rimosso,
attendo a governarlo in stato tale,
ch'ei fôra senza me di vita scosso.
Per troppo amarmi ei giura di star male,
convenendo da me dipartir tosto,
e verso Creta andar quasi con l'ale.
Di ciò nel cor grand'affanno ei s'ha posto,
ed io non cesso ad ogni mio potere
di consolarlo a ciascun buon proposto.
Vorreil dal suo mal libero vedere,
perché tanto da lui mi sento amata,
e perch'ei langue fuor d'ogni dovere;
e come donna in questa patria nata,
vorrei ch'ov'ha di lui bisogno andasse,
e ch'opra a lei prestasse utile e grata:
le virtú del suo corpo afflitte e lasse,
per ch'ei ne gisse ov'altri in Creta il chiama,
grato mi fôra ch'ei ricuperasse.
Del suo nobil valor la chiara fama
fa che quivi ciascun l'ama e 'l desía,
e come esperto in guerreggiar il brama.
Dategli, venti, facile la via,
e perché fuor d'ogni molestia ei vada,
la dea d'amor propizia in mar gli sia:
sí che con l'onorata invitta spada
a la sua illustre immortal gloria ei faccia
con l'inimico sangue aperta strada.
Ciò fia ch'al mio voler ben sodisfaccia,
poi che, rimosso questo impedimento,
il mio amor sempre avrò ne le mie braccia.
E se costui perciò parte scontento,
ch'ad altro ho 'l core e l'anima donato,
rimediar non posso al suo tormento.
E che poss'io? Che s'egli è innamorato,
io similmente il mio signor dolce amo,
e 'l mio arbitrio di lui tutt'ho in man dato.
A lui servir e compiacer sol bramo,
valoroso, gentil, modesto e buono;
e fortunata del suo amor mi chiamo.
Lassa! che mentre di lui sol ragiono,
né presente l'amato aspetto veggio,
da novo aspro martír oppressa sono;
e pietra morta in viva pietra seggio
sopra del mio balcone, afflitta e smorta,
poi che 'l mio ben lontano esser m'aveggio.
A questa che da me scusa v'è pòrta
di non esser venuta a visitarvi,
priva di vita senza la mia scorta,
piacciavi, s'ella è buona, d'appigliarvi,
considerando ben voi questa parte,
senz'a quel ch'altri dice riportarvi.
E se le mie ragion confuse e sparte
senz'argomenti e senza stil v'ho addutto,
a dir la verità non richiede arte.
Bench'io non son senza un salvocondutto,
e senza da voi esserne invitata,
per tornar cosí presto a quel ridutto,
basta che quando vi sarò chiamata,
lascerò ogni altra cosa per venirvi;
né questo è poco a donna innamorata.
E stimerò che sia vero obedirvi
star pronta a quel che mi comanderete,
non venendo non chiesta ad impedirvi
Se con vostro cugin ne parlerete,
son certa ch'egli mi darà ragione
e voi medesmo ve n'accorgerete.
Gli altri amici son poi buone persone,
e senza costo voglion de l'altrui,
s'altri con loro a traficar si pone.
Forse che quanto tarda a scriver fui,
tanto son lunga in questa mia scrittura,
senza pensar chi la manda ed a cui.
Ma io son cosí larga di natura,
tal che tutta ricevo entro a me stessa
la virtú vostra e la viva figura:
questa mi siede in mezzo l'alma impressa,
come di mio signor effigie degna,
ch'onorar il cor mio giamai non cessa.
Cosí vostra mercé per sua mi tegna,
e per me inchini quella compagnia,
sin ch'a far questo a la presenzia io vegna;
benc'ho mutato in parte fantasia,
e in ciò ch'io mi ritoglio, o ch'io mi dono,
non sarà quel che tal crede che sia.
Questo dico, perché dar in man buono,
venendo, non vorrei di chi perduta
mi tenne del suo amor, che non ne sono:
cosí la sorte ora offende, ora aiuta.
XVI
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
D'ardito cavalier non è prodezza
(concedami che 'l vero a questa volta
io possa dir, la vostra gentilezza),
da cavalier non è, ch'abbia raccolta
ne l'animo suo invitto alta virtute,
e che a l'onor la mente abbia rivolta,
con armi insidiose e non vedute,
a chi piú disarmato men sospetta
dar gravi colpi di mortal ferute.
Men ch'agli altri ciò far poi se gli aspetta
contra le donne, da natura fatte
per l'uso che piú d'altro a l'uom diletta:
imbecilli di corpo, ed in nulla atte
non pur a offender gli altri, ma se stesse
dal difender col cor timido astratte.
Questo doveva far che s'astenesse
la vostra man da quell'aspre percosse,
ch'al mio feminil petto ignudo impresse.
Io non saprei già dir onde ciò fosse,
se non che fuor del lato mi traeste
l'armi vostre del sangue asperse e rosse.
Spogliata e sola e incauta mi coglieste,
debil d'animo, e in armi non esperta,
e robusto ed armato m'offendeste:
tanto ch'io stei per lungo spazio incerta
di mia salute; e fu per me tra tanto
passion infinita al cor sofferta.
Pur finalmente s'è stagnato il pianto,
e quella piaga acerba s'è saldata,
che da l'un mi passava a l'altro canto.
Quasi da pigro sonno or poi svegliata,
dal cansato periglio animo presi,
benché femina a molli opere nata;
e in man col ferro a essercitarmi appresi,
tanto ch'aver le donne agil natura,
non men che l'uomo, in armeggiando intesi:
perché 'n ciò posto ogni mia industria e cura,
mercé del ciel, mi veggo giunta a tale,
che piú d'offese altrui non ho paura.
E se voi dianzi mi trattaste male.
fu gran vostro diffetto, ed io dal dánno
grave n'ho tratto un ben che molto vale.
Cosí nei casi avversi i savi fanno,
che 'l lor utile espresso alfin cavare
da quel che nuoce da principio sanno;
e cosí ancor le medicine amare
rendon salute; e 'l ferro e 'l foco s'usa
le putrefatte piaghe a ben curare:
benché non serve a voi questa per scusa,
che m'offendeste non già per giovarmi,
e 'l fatto stesso parla e sí v'accusa.
Ed io, poi che 'l ciel vòlse liberarmi
da sí mortal periglio, ho sempre atteso
a l'essercizio nobile de l'armi,
sí ch'or, animo e forze avendo preso,
di provocarvi a rissa in campo ardisco,
con cor non poco a la vendetta acceso.
Non so se voi stimiate lieve risco
entrar con una donna in campo armato;
ma io, benché ingannata, v'avvertisco
che 'l mettersi con donne è da l'un lato
biasmo ad uom forte, ma da l'altro è poi
caso d'alta importanza riputato.
Quando armate ed esperte ancor siam noi,
render buon conto a ciascun uom potemo,
ché mani e piedi e core avem qual voi;
e se ben molli e delicate semo,
ancor tal uom, ch'è delicato, è forte;
e tal, ruvido ed aspro, è d'ardir scemo.
Di ciò non se ne son le donne accorte;
che se si risolvessero di farlo,
con voi pugnar porían fino a la morte.
E per farvi veder che 'l vero parlo,
tra tante donne incominciar voglio io,
porgendo essempio a lor di seguitarlo.
A voi, che contra tutte sète rio,
con qual'armi volete in man mi volgo,
con speme d'atterrarvi e con desio;
e le donne a difender tutte tolgo
contra di voi, che di lor sète schivo,
sí ch'a ragion io sola non mi dolgo.
Certo d'un gran piacer voi sète privo,
a non gustar di noi la gran dolcezza;
ed al mal uso in ciò la colpa ascrivo.
Data è dal ciel la feminil bellezza,
perch'ella sia felicitate in terra
di qualunque uom conosce gentilezza.
Ma dove 'l mio pensier trascorre ed erra
a ragionar de le cose d'amore,
or ch'io sono in procinto di far guerra,
Torno al mio intento, ond'era uscita fuore,
e vi disfido a singolar battaglia.
Cingetevi pur d'armi e di valore:
vi mostrerò quanto al vostro prevaglia
il sesso feminil; pigliate quali
volete armi, e di voi stesso vi caglia,
ch'io vi risponderò di colpi tali,
il campo a voi lasciando elegger anco,
ch'a questi forse non sentiste eguali.
Mal difender da me potrete il fianco,
e stran vi parrà forse, a offenderne uso,
da me vedervi oppresso in terra stanco:
cosí talor quell'uom resta deluso,
ch'ingiuria gli altri fuor d'ogni ragione,
non so se per natura, o per mal uso.
Vostra di questa rissa è la cagione,
ed a me per difesa e per vendetta
carico d'oppugnarvi ora s'impone.
Prendete pur de l'armi omai l'eletta,
ch'io non posso soffrir lunga dimora,
da lo sdegno de l'animo costretta.
La spada, che 'n man vostra rade e fôra,
de la lingua volgar veneziana,
s'a voi piace d'usar, piace a me ancora;
e se volete entrar ne la toscana,
scegliete voi la seria o la burlesca,
ché l'una e l'altra è a me facile e piana.
Io ho veduto in lingua selvaghesca
certa fattura vostra molto bella,
simile a la maniera pedantesca:
se voi volete usar o questa o quella,
ed aventar, come ne l'altre fate,
di queste in biasmo nostro le quadrella,
qual di lor piú vi piace, e voi pigliate,
ché di tutte ad un modo io mi contento.
avendole perciò tutte imparate.
Per contrastar con voi con ardimento,
in tutte queste ho molta industria speso:
se bene o male, io stessa mi contento;
e ciò sarà dagli altri ancora inteso,
e 'l saperete voi, che forse vinto
cadrete, e non vorreste avermi offeso.
Ma prima che si venga in tal procinto,
quasi per far al gioco una levata,
non col ferro tagliente ancora accinto,
de la vostra canzone, a me mandata,
il principio vorrei mi dichiaraste,
poi che l'opera a me vien indrizzata.
«Ver unica» e 'l restante mi chiamaste,
alludendo a Veronica mio nome,
ed al vostro discorso mi biasmaste;
ma al mio dizzionario io non so come
«unica» alcuna cosa propriamente
in mala parte ed in biasmar si nome.
Forse che si direbbe impropriamente,
ma l'anfibologia non quadra in cosa
qual mostrar voi volete espressamente.
Quella di cui la fama è gloriosa,
e che 'n bellezza od in valor eccelle,
senza par di gran lunga virtuosa,
«unica» a gran ragion vien che s'appelle;
e l'arte, a l'ironia non sottoposto,
scelto tra gli altri, un tal vocabol dièlle.
L'«unico» in lode e in pregio vien esposto
da chi s'intende; e chi parla altrimenti
dal senso del parlar sen va discosto.
Questo non è, signor, fallo d'accenti,
quello, in che s'inveisce, nominare
col titol de le cose più eccellenti.
O voi non mi voleste biasimare,
o in questo dir menzogna non sapeste.
Non parlo del dir bene e del lodare,
ché questo so che far non intendeste,
ma senz'esser offeso da me stato,
quel che vi corse a l'animo scriveste,
altrui volendo in ciò forse esser grato;
benché me non ingiuria, ma se stesso,
s'altri mi dice mal, non provocato.
E 'l voler oscurar il vero espresso
con le torbide macchie degli inchiostri
in buona civiltà non è permesso;
e spesso avien che 'l mal talento uom mostri,
giovando in quello onde più nuocer crede
essempi in me più d'una volta mostri,
sí come in questo caso ancor si vede,
ché voi, non v'accorgendo, mi lodate
di quel ch'al bene ed a la virtù chiede.
E se ben «meretrice» mi chiamate,
o volete inferir ch'io non vi sono,
o che ve n'èn tra tali di lodate.
Quanto le meretrici hanno di buono,
quanto di grazioso e di gentile,
esprime in me del parlar vostro il suono.
Se questo intese il vostro arguto stile,
di non farne romor io son contenta,
e d'inchinarmi a voi devota, umíle;
ma perch'al fin de la scrittura, intenta
stando, che voi mi biasimate trovo,
e ciò si tocca e non pur s'argomenta,
da questa intenzion io mi rimovo,
e in ogni modo question far voglio,
e partorir lo sdegno ch'entro covo.
Apparecchiate pur l'inchiostro e 'l foglio,
e fatemi saper senz'altro indugio
quali armi per combatter in man toglio.
Voi non avrete incontro a me rifugio,
ch'a tutte prove sono apparecchiata,
e impazientemente a l'opra indugio
o la favella giornalmente usata,
o qual vi piace idioma prendete,
ché 'n tutti quanti sono essercitata;
e se voi poi non mi risponderete,
di me dirò che gran paura abbiate,
se ben cosí valente vi tenete.
Ma perché alquanto manco dubitiate,
son contenta di far con voi la pace,
pur ch'una volta meco vi proviate:
fate voi quel che piú vi giova e piace.
XVII
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Questa la tua Veronica ti scrive,
signor ingrato e disleale amante,
di cui sempre in sospetto ella ne vive.
A te, perfido, noto è bene in quante
maniere del mio amor ti feci certo,
da me non mai espresse altrui davante.
Non niego già che 'n te non sia gran merto
di senno, di valor, di gentilezza,
e d'arti ingenue onde sei tanto esperto;
ma la mia grazia ancor, la mia bellezza,
quello che 'n se medesma ella si sia,
da molti spirti nobili s'apprezza.
Forse ch'è buona in ciò la sorte mia;
e forse ch'io non son priva di quello
ch'ad arder l'alme volontarie invia:
almen non ho d'ogni pietà rubello
il rigido pensier, né, qual tu, il core
in ogni parte insidioso e fello.
E pur contra ragion ti porto amore:
quel che tu meco far devresti al dritto,
teco 'l fo a torto, e so ch'è a farlo errore.
Tu non m'avresti in tanti giorni scritto,
che star t'avvenne di parlarmi privo,
mostrando esser di ciò mesto ed afflitto,
com'io cortesemente ora ti scrivo;
e se ben certo m'offendesti troppo,
teco legata in dolce nodo vivo,
il qual mentre scior tento, e piú l'ingroppo,
e sí come d'Amor disposto fue,
non trovo in via d'amarti alcun intoppo.
Ma pur furono ingrate l'opre tue,
poi che pensar ad altra donna osasti,
e limar versi de le lodi sue:
farlo celatamente ti pensasti,
ma io ti sopragiunsi a l'improviso,
quando manco di me tu dubitasti.
Ben ti vidi perciò turbar nel viso,
e per la forza de la conscienza
ne rimanesti timido e conquiso,
sí che gli occhi d'alzar in mia presenza
non ti bastò l'errante animo allora.
Ahi teco estrema fu mia pazienza!
Chiudesti 'l libro tu senza dimora,
ed io gli occhi devea con mie man trarti:
misera chi di tale s'innamora!
Io non ho perdonato per amarti
ad alcuna fatica, ad alcun danno,
sperando intieramente d'acquistarti:
e tu, falso, adoprando occulto inganno
per cogliermi al tuo laccio, or che mi tieni,
mi dai, d'amor in ricompensa, affanno.
Ben son di vezzi e di lusinghe pieni
i tuoi detti eloquenti, e con pia vista
sempre a strazio maggior, empio, mi meni.
D'odio e d'amor gran passion or mista
m'ingombra l'alma, e 'l torbido pensiero
agitando contamina e contrista:
e 'n te dal ciel quella vendetta spero,
ch'io non vorrei; ed infelicemente
d'alto sdegno e d'amor languisco e pèro.
Contra gli error si deve esser clemente,
che dimostrati a quel che gli commise,
sí com'è ragionevole, si pente.
Quel libro d'altrui lodi in sen si mise
questo importuno, acciò ch'io nol vedessi:
ahi contrarie in amor voglie divise!
D'ira tutta infiammata allor non cessi,
fin che di sen per forza non gliel tolsi,
e quel che v'era scritto entro non lessi.
Quanto 'l caso chiedea, teco mi dolsi,
amante ingrato; e 'l libro stretto in mano
altrove il piè da te fuggendo volsi,
bench'ir non ti potei tanto lontano,
ch'al lato non mi fosti, e non facesti
tue scuse, e 'l libro mi chiedesti invano.
Dimandereiti or ben quel che vedesti,
da farti pur alzar gli occhi a colei;
ma tu senz'esser chiesto mel dicesti:
piena dentro e di fuor di vizii rei,
forse perch'io di tal non sospettassi,
la ponesti davanti agli occhi miei:
agli occhi miei, che 'n tutto schivi e cassi
d'ogni altro lume, tengon te per sole,
benché spesso in gran tenebre gli lassi.
Dubito se fur vere le parole
che dicesti; né so di che, ma temo,
e dentro sospettando il cor si dole.
Di gelosia non ho 'l pensier mai scemo,
tal ch'avampando in freddo verno al ghiaccio,
nel mezzo de le fiamme aggelo e tremo;
e quanto piú di liberar procaccio
l'alma dal duolo, in maggior duol la invoglio,
e 'l mio mal dentro 'l grido e teco 'l taccio.
Pur romper il silenzio or teco voglio;
e perché t'amo e perch'altri il comanda,
teco fo quel che con altrui non soglio.
La buonasera in nome suo ti manda
per me 'l buono e cortese Lomellini,
e ti saluta e ti si raccomanda.
Tu hai, non so perché, buoni vicini,
che ti lodano e impètranoti il bene,
se ben per torta strada tu camini.
A questi d'obedir a me conviene,
e in quel ch'imposto m'han significarti,
questi versi di scriverti m'avviene.
Di costor gran cagion hai di lodarti,
bench'io convengo ancor per viva forza,
crudel, protervo e sempre ingrato, amarti.
Contra mia voglia scriverti mi sforza
Amor, che tutto il conceputo sdegno
cangia in dolce desio, non pur l'ammorza:
spinta da lui, mandarti ora convegno
queste mie carte, accioché tu le legga;
anzi sempre con l'alma a te ne vegno.
Ma perché in corpo ancor ti parli e vegga,
ch'a bocca la risposta tu mi porte
forz'è che con instanzia ti richiegga,
e che tu venghi in spazio d'ore corte.
XVIII
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Molto illustre signor, quel che iersera
ne recai mio capitolo a mostrarvi,
scritto di mia invenzion non era;
ma non per tanto di ringraziarvi
non cesso, ch'avvertita voi m'abbiate
che ch'io nol mandi a quell'amico parvi;
e vi so grado che mi consigliate
di quello c'ho da far, quando a voi vengo
perché i miei versi voi mi correggiate
Grand'obligazione al cielo tengo
ch'un vostro pari in protezzion m'abbia,
e piú da voi di quel ch'io merto ottengo
La gelosia, che dentro 'l cor m'arrabbia,
mi fece scriver quello ch'io non dissi;
ma fu del mio signor martello e rabbia.
Egli pria mi narrò quello ch'io scrissi,
e molte cose mi soggiunse appresso,
perché di lui 'n sospetto non venissi.
Non so quel che sia in fatto, ma confesso
ch'io mi sento morir da passione
di non averlo a ciascun'ora presso:
e questi versi scritti a tal cagione,
con scusa di mandargli quei saluti
di iersera, inviarli il cor dispone.
Prego la mercé vostra che m'aiuti
in racconciarli, e in far ch'a me ne venga
il mio amante e lo sdegno in pietà muti:
gli altri versi di ieri ella si tenga,
ch'io farò poi di lor quel ch'a lei piace;
e pur ch'umil l'amante mio divenga,
d'ogni altra avversità mi darò pace.
XIX
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Quel che ascoso nel cor tenni gran tempo
con doglia tal, ch'a la lingua contese
narrar le mie ragioni a miglior tempo;
quelle dolci d'amor amare offese,
che di scovrirle tanto altri val meno,
quanto ha piú di far ciò le voglie accese:
or che la piaga s'è saldata al seno
col rivoltar degli anni, onde le cose
mutan di qua giú stato e vengon meno,
vengo a narrar, poi che se ben noiose
a sentir furo, ne la rimembranza
or mi si volgon liete e dilettose.
Cosí spesso di far altri ha in usanza
dopo 'l corso periglio, e maggiormente
se d'uscirne fu scarsa la speranza.
Or sicura ho 'l pericolo a la mente,
quando da' be' vostr'occhi e dal bel volto
contra me spinse Amor la face ardente:
ed a piagarmi in mille guise vòlto,
dal fiume ancor de la vostra eloquenza
il foco del mio incendio avea raccolto.
L'abito vago e la gentil presenza,
la grazia e le maniere al mondo sole,
e de le virtú chiare l'eccellenza,
fur ne la vista mia lucido sole,
che m'abbagliar e m'arser di lontano,
sí ch'a tal segno andar Febo non suole.
Ben mi fec'io solecchio de la mano,
ma contra sí possente e fermo oggetto
ogni riparo mio fu frale e vano;
pur rimasi ferita in mezzo 'l petto,
sí che, perduto poscia ogni altro schermo,
arder del vostro amor fu 'l cor costretto:
e con l'animo in ciò costante e fermo
vi seguitai; ma mover non potea
il piede stretto d'assai nodi e infermo.
Tanta a me intorno guardia si facea,
che d'assai men dal cielo a Danae Giove
in pioggia d'oro in grembo non cadea.
Ma l'ali, che 'l pensier dispiega e move,
chi troncar mi potéo, se mi fu chiuso
al mio arbitrio l'andar co' piedi altrove?
Pronto lo spirto a voi venía per uso,
né tardava il suo volo, per trovarsi
del grave pianto mio bagnato e infuso.
E bench'al mio bisogno aiuti scarsi
fosser questi, vivendo mi mantenni,
come in necessità spesso suol farsi;
e cosí sobria in mia fame divenni,
ch'assai men che d'odor nel mio digiuno
sol di memoria il cor pascer convenni.
Cosí, senza trovar conforto alcuno,
la soverchia d'amor pena soffersi,
in stato miserabile importuno:
nel qual ciò che i tormenti miei diversi
far non poter, col tempo i miei pensieri
vari da quel ch'esser solean poi fersi.
Voi ve n'andaste a popoli stranieri
ed io rimasi in preda di quel foco,
che senza voi miei dí fea tristi e neri;
ma procedendo l'ore, a poco a poco
del bisogno convenni far virtute,
e dar ad altre cure entro a me loco.
Questa fu del mio mal vera salute:
cosí divenne alfin la mente sana
da le profonde mie gravi ferute:
il vostro andar in region lontana
saldò 'l colpo, benché la cicatrice
render non si potesse in tutto vana.
Forse stata sarei lieta e felice
nel potervi goder a mio talento,
e forse in ciò sarei stata infelice.
La gran sovrabondanza del contento
potría la somma gioia aver cangiato
in noioso e gravissimo tormento;
e se da me 'n disparte foste andato,
in tempo di mio tanto e di tal bene,
infinito il mio duol sarebbe stato.
Cosí non vòlse 'l ciel liete e serene
far l'ore mie, per non ridurmi tosto
in prova di piú acerbe e dure pene.
Ond'io di quanto fu da lui disposto
restar debbo contenta; e pur non posso
non desiar ch'avenisse l'opposto.
Da quel che sia 'l mio desiderio mosso
in questo stato, non so farne stima,
ché s'è da me quel primo amor rimosso.
Quanto cangiato in voi da quel di prima
veggo 'l bel volto! Oh in quanto breve corso
tutto rode qua giuso il tempo, e lima!
Di molta gente nel comun concorso
quante volte vi vidi e v'ascoltai,
e dal bel vostro sguardo ebbi soccorso!
E se ben il mio amor non vi mostrai,
o che 'l faceste a caso, o per qual sia
altra cagion, benigno vi trovai:
per ch'ora in una ed ora in altra via
di devoto parlar, con atto umano,
volgeste a me la fronte umile e pia;
e nel contar il ben del ciel sovrano,
v'affisaste a guardarmi, e mi stendeste,
or larghe or giunte, l'una e l'altra mano;
ed altre cose simili faceste,
ond'io tolsi a sperar che del mio amore
cautamente pietoso v'accorgeste.
Quinci s'accrebbe forte il mio dolore
di non poter al gusto d'ambo noi
goder la vita in gioia ed in dolzore.
Mesi ed anni trascorsero da poi,
ond'a me variar convenne stile,
com'ancor forse far convenne a voi.
Or vi miro non poco dissimíle
da quel che solevate esser davante,
de l'età vostra in sul fiorito aprile.
Oh che divino angelico sembiante,
quel vostro, atto a scaldar ogni cor era
d'agghiacciato e durissimo diamante!
Or, dopo cosí lieta primavera,
forma d'autunno, assai piú che d'estate,
varia vestite assai da la primiera.
E se ben in viril robusta etate,
l'oro de la lanugine in argento
rivolto, quasi vecchio vi mostrate;

benché punto nel viso non s'è spento
quel lume di beltà chiara e serena,
ch'abbaglia chi mirarvi ardisce intento.
Questa con la memoria mi rimena
del vostro aspetto a la prima figura,
ond'ebbi già per voi sí crudel pena;
e mentre 'l pensier mio stima e misura,
e pareggia l'effigie di quegli anni
con questa de l'età d'or piú matura,
di fuor sento scaldarmi il petto e i panni,
senza che però 'l cor dentro si mova,
per la memoria de' passati affanni.
In questo l'alma un certo affetto prova,
ch'io non so qual ei sia; se non che vosco
l'esser e 'l ragionar mi piace e giova;
e se 'l giudicio non ho sordo e losco,
quest'è de l'amicizia la presenza,
ch'al volto ed a la voce io la conosco.
Del mio passato amor da la potenza
queste faville in me sono rimaste.
piú temperate e di minor fervenza:
da queste accesa, le mie voglie caste
in quella guisa propria di voi formo,
che 'l santo amor a circonscriver baste.
In amicizia il folle amor trasformo,
e pensando a le vostre immense doti,
per imitarvi l'animo riformo;
e se 'n ciò i miei pensier vi fosser noti,
i moderati onesti miei desiri
non lascereste andar d'effetto vuoti.
Per cui convien ch'ognor brami e desiri
de le vostre virtú gustar il frutto,
e quando far nol posso, ne sospiri.
Ma se convien a voi cangiar ridutto,
e peregrin da noi gir in disparte,
non mi negate il favor vostro in tutto.
Basta che se ne porti una gran parte
seco la mia fortuna: in quel che resta
supplite con gli inchiostri e con le carte.
Non vi sia la fatica in ciò molesta,
poi che l'alma affannata, piú ch'altronde,
quinci gloriosa si può far di mesta.
Quando siate di là da le salse onde,
vi prego con scritture visitarmi
piene d'amor che grato corrisponde:
e volendo piú a pieno sodisfarmi,
questo potrete agevolmente farlo
con alcuna vostr'opera mandarmi.
E quand'io non sia degna d'impetrarlo,
per alcun vanto espresso che 'n me sia,
da la vostra bontà voglio sperarlo;
da la vostra infinita cortesia,
benché convien a l'amor ch'io vi porto
che da voi ricompensa mi si dia.
E facendo altrimenti, avreste il torto:
ond'io, per non far debil mia ragione,
del dever v'ammonisco, e non v'essorto
Si voglion certo amar quelle persone,
da le quai noi amati si sentimo:
cosí la buona civiltà dispone;
e tanto importa ad amar esser primo,
che se l'amato a ridamar non vola,
macchia ogni sua virtú d'oscuro limo.
Questo è che mi confida e mi consola:
che cader non vorrete in cotal fallo,
ch'ogni ornamento a la virtute invola.
Come bel fiore in lucido cristallo,
traspar ne le vestigie vostre esterne
lo spirto ch'altrui rado il ciel tal dàllo:
l'alma in voi nel sembiante si discerne,
che di vaghezza esterior contende
con le virtuti de la mente interne.
Ben chi è tal, se lo specchio inanzi prende,
dilettato dal ben che 'n lui fuor vede
a far simile al volto il senno attende;
e mentre move per tai scale il piede,
nel proporzionar tal di se stesso,
ogni condizion mortale eccede.
Beato voi, cui far questo è concesso
e cotanto alto già sète salito,
che nullo avete sopra, e pochi presso!
Ben quindi fate ognor cortese invito,
la man porgendo altrui, perché su monti,
di zelo pien di carità infinito;
ma tutti non han piè veloci e pronti,
sí come voi, in cosí ardua strada,
e voi 'l sapete, senza ch'io 'l racconti.
Ma però nulla in suo valor digrada
la vostra dignità, se in ciò s'abbassa
per sostener chi v'ama, che non cada.
Io, sol nel primo entrar già vinta e lassa,
il vostro aiuto di lontan sospiro
con occhi lagrimosi e fronte bassa:
volgete il guardo a me con dolce giro,
ed a la mia devozione atteso,
degnatemi d'alcun vostro sospiro.
Ciò ne la vostra assenza a me conteso
prego non sia, e del vostro ozio ancora
alcuno spazio a scrivermi sia speso
alcuna rara e minima dimora
in quest'uso per me da voi si spenda,
poi ch'a servirvi io son pronta ad ogni ora.
Dal mio canto, non fia mai che sospenda
il suo corso la penna, e che con l'alma
a compiacervi tutta non intenda.
E se non vi sarà gravosa salma
il legger le mie lettere, vedrete
che di scrivervi spesso avrò la palma:
questa con vostra man voi mi darete,
e de l'amor in amicizia vòlto,
dagli andamenti miei v'accorgerete.
Non tengo ad altro il mio pensier rivolto,
se non a farvi di mia fede certo,
e mostrarvi 'l mio cor simile al volto,
senza richieder da voi altro in merto,
se non che 'n grado il mio affetto accettiate,
a voi da me pien d'osservanzia offerto;
e che innanzi al partir mi concediate
ch'io vi parli e v'inchini; e quando poi
siate altrove, di me vi ricordiate,
perch'io 'l farò con usura con voi.
Del visitarne scrivendo, non parlo,
scambievolemente intra di noi,
ché ben son certa che verrete a farlo,
questo officio gentil meco pigliando,
che 'n alcun modo io non son per lasciarlo.
Né altro: di buon cor mi raccomando.
XX
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Questa quella Veronica vi scrive,
che per voi, non qual già libera e franca,
or d'infelice amor soggetta vive;
per voi rivolta da via dritta a manca,
uom ingrato, crudel, misera corre
dove 'l duol cresce e la speranza manca.
Con tutto questo non si sa disciorre
dal vostro amor, né puote, né desía,
e del suo mal la medicina aborre;
disposta o di trovar mente in voi pia,
o, del servirvi nell'acerba impresa,
giunger a morte intempestiva e ria.
Senza temer pericolo od offesa,
a la pioggia, al sereno, a l'aria oscura
vengo, da l'alma Citerea difesa,
per veder e toccar almen le mura
del traviato lontan vostro albergo,
per disperazion fatta sicura.
Per strada errando, gli occhi ai balconi ergo
de la camera vostra; e fuor del petto
sospiri e pianto d'ambo i lumi aspergo.
Di buio ciel sotto povero tetto,
de la sorte mi lagno empia e rubella,
e del mio mal ch'a voi porge diletto.
Senza veder con cui dolermi stella,
ne le tenebre fisi i lumi tengo,
che fûr duci d'Amor ne la via fella;
e poi ch'al terren vostro uscio pervengo,
porgo i miei preghi a l'ostinate porte,
né di basciar il limitar m'astengo.
- Deh siatemi in amor benigne scorte;
apritemi 'l sentier del mio ben chiuso,
del notturno mio error per uso accorte.
Di letal sonno e tu, custode, infuso,
desto al latrar de' tuoi vigili cani,
non far il prego mio vano e deluso:
deh, pietoso ad aprirmi usa le mani,
cosí i ceppi servili aspri dal piede
del continuo ti stian sciolti e lontani! -
Ma ch'è quel che da me, lassa, si chiede?
- Vattene in pace - il portinaio dice, -
ché le notti il signor qui non risiede;
ma del suo amor a far lieta e felice
un'altra donna, con lei dorme e giace,
e tu invan qui ti consumi, infelice.
Vattene, sconsolata; e s'aver pace
non puoi, pur con saldo animo sopporta
quel ch'al destino irrevocabil piace. -
Talor, per gran pietà di me, la porta
geme in suon roco, come quando è mossa,
nei cardini, a serrarsi o aprir, distorta;
ed io, quindi col piè debil rimossa,
ne le braccia di tal che m'accompagna
del viver cado poco men che scossa.
Il suo pianto dal mio non discompagna
quel mio fedel ch'è meco, e d'un tenore
meco del mio martír grida e si lagna.
Dure disagguaglianze in aspro amore,
poi ch'a chi m'odia corro dietro, e fuggo
da chi de l'amor mio languisce e more!
E cosí ad un me stessa ed altrui struggo,
e 'l sangue de le mie e l'altrui vene
col mio grave dolor consumo e suggo:
benché da l'altro canto le mie pene
forse consolan altra donna, e 'l pianto
con piacer del mio amante al cor perviene.
Ma chi puote esser mai spietato tanto,
che s'allegri, se pur non può dolersi,
lacero il sen vedermi in ogni canto?
Lassa, la notte e 'l dí far prose e versi
non cesso in varia forma, in vario stile,
sempre a un oggetto coi pensier conversi;
e s'ha quest'opre il mio signor a vile,
men mal è assai che se 'n mia onta e in strazio
leggerle con colei ha preso stile
Per me lieto non è di tempo spazio,
e di quel dond'a me si niega il gusto
altra si stanca, e fa 'l suo desir sazio.
Quant'è per me difficultoso, angusto,
quel ch'ad altri è camin facile e piano!
Colpa d'Amor iniquitoso, ingiusto.
Ma da la crudeltà se 'l gir lontano
ad uom nobil s'aspetta veramente,
e l'aver facil alma in petto umano;
se quanto altri è piú chiaro e piú splendente
per natura, per sangue e per fortuna.
chi l'ama ridamar deve egualmente;
voi 'n cui 'l ciel tutte le sue grazie aduna,
dovete aver pietà di me, che v'amo
sí che 'n questo non trovo eguale alcuna.
E quanto piú ne' miei sospir vi chiamo,
d'esser udita (a dir il vero) io merto,
e quanto piú con voi conversar bramo.
Non è d'ingegno indizio oscuro e incerto,
c'ha gusto de le cose piú eccellenti,
conoscer e stimar il vostro merto.
Deh sentite pietà de' miei tormenti,
se de le tigri non sète del sangue,
e se non vi nudrir l'idre e i serpenti.
Ne la mia faccia pallida ed essangue
fede acquistate de la pena cruda,
onde 'l mio cor innamorato langue.
Né anch'io d'orsa, che 'n cieco antro si chiuda,
nacqui; né l'erbe stesa mi nudriro,
come vil bestia, in su la terra ignuda;
ma tai del mio buon seme effetti usciro,
ch'alcun non ha da recarsi ad oltraggio,
se del suo amor io lagrimo e sospiro.
Ciò dir basti parlando con uom saggio,
ché far con voi per questa strada acquisto
nel mio pensiero intenzion non aggio;
ma del mio stato ingiurioso e tristo
cerco indurvi a pietà con le preghiere,
e di sospir col largo pianto misto.
Ch'al segno de le doti vostre altiere
alcun raro in me pregio non arrive,
questo ogni ragion porta, ogni dovere;
ma quel che dentro 'l petto Amor mi scrive
con lettre d'oro di sua man, leggete,
se 'l mio merto ha con voi radici vive.
L'obligo de l'amante vederete
d'esser grato a l'amor simile al mio,
se con occhio sottil v'attenderete.
Ma né con questo voglio acquistarvi io:
solo a l'alta pietà del mio martíre
farvi per cortesia benigno e pio.
Il mio continuo e misero languire,
l'amorose querele ond'io vi prego,
vi faccian del mio duol pietà sentire:
gran forza suol aver di donna prego
negli animi gentil ch'ancor non ame;
ed io, d'amor accesa, a voi mi piego.
Prima che 'l duol di me si sazii e sbrame,
e mi riduca in cenere quest'ossa,
date ristoro a le mie ardenti brame;
porgete alcun rimedio a la percossa,
che d'aspra angoscia versa un largo fonte?
e mi spolpa, e mi snerva, e mi disossa;
scemate il grave innaccessibil monte
di quei ch'amando voi sostengo affanni,
con voglie in tutti i casi a soffrir pronte;
movetevi a pietà de' miei verdi anni,
onde, da la virtú vostra sospinta,
cado d'Amor nei volontari inganni.
Ed a morir per voi sono anco accinta,
se d'utile e d'onor esser vi puote
che per voi resti la mia vita estinta.
Grato suono a l'orecchie mie percuote
che non sosterrà un uom sí valoroso
d'effetto far le mie speranze vuote.
Da l'aspetto sí dolce ed amoroso
non debbo sospettar di morte o pena,
né d'altro incontro a me grave e noioso.
Ma chi, fuor d'uso, a ben sperar mi mena?
Lassa, e pur so che sorge 'l nembo e nasce
sovente in mezzo a l'aria piú serena;
e cosí sotto un bel volto si pasce
spesso un cor empio degli altrui martíri,
qual che tra' fior vedersi angue non lasce.
Ma se 'n voi non han forza i miei sospiri,
a la nobiltà vostra, a la virtute,
volgete con giudicio i lenti giri.
Non debbo disperar di mia salute,
s'ai costumi gentil vostri ho rispetto,
ed a le mie profonde aspre ferute;
ma poi di quel che m'incontra, l'effetto
di tormento maggior, di maggior doglia,
mi dà certezza ognor, non pur sospetto:
benché d'umil trionfo indegna spoglia
fia la mia vita, se, per troppo amarvi,
dal vostro orgoglio avien che mi si toglia.
Ma s'al mio mal non puote altro piegarvi,
l'esser io tutta vostra mi conceda
ch'io possa almeno in tanto duol pregarvi
forse fia che l'orecchie e 'l cor vi fieda
il mio cordoglio, assai minore espresso
di quel ch'al ver perfetto si richieda.
Tanto a me di vigor non è concesso,
ch'esprimer di quel colpo il dolor vaglia,
ch'io porto ne le mie viscere impresso:
in dir sí com'Amor empio m'assaglia,
sí come oscura la mia vita ei renda,
lo stil debile a l'opra non s'agguaglia.
Da voi 'l mio mal nel mio amor si comprenda,
ch'è tanto quanto amabile voi sète;
e pia la vostra man ver'me si stenda:
quella, in aiuto, man non mi si viete,
che 'l nodo seppe ordire al duro laccio
de la gravosa mia tenace rete;
e 'l volto, onde qual neve al sol mi sfaccio,
che m'invaghío di sua bella figura,
soccorra a quel dolor ch'amando taccio.
D'alta virtú la divina fattura,
che 'n voi s'annida come in dolce stanza,
il cui splendor m'accende oltra misura,
l'animo di piegarvi abbia possanza,
sí che in tanto penar mi concediate
alcun sostegno di gentil speranza.
Non dico che di me v'innamoriate,
né che, com'io per voi son tutta fiamma,
d'un amor cambievole m'amiate:
del vostro foco ben picciola dramma
ristorar può quell'incendio crudele,
che s'io cerco ammorzarlo, e piú m'infiamma.
Amor, s'ho con voi merto, vi rivele;
e le parti, c'ho in me di voi non degne,
agli occhi vostri dolce offuschi e cele,
sí che prima ch'a morte amando io vegne,
quella mercé da voi mi si conceda,
che sgombri 'l pianto ond'ho le luci pregne.
Lassa, che s'un nemico a l'altro chieda
al suo bisogno aiuto, ei gli vien dato,
ché la virtú convien che gli odii ecceda;
ed io creder devrò ch'aspro ed ingrato
esser mi debba il mio signor diletto,
perch'ei sia forse d'altra innamorato?
Oimè! che, d'altra standosi nel letto,
me lascia raffreddar sola e scontenta,
colma d'affanni e piena di dispetto:
altra ei fa del suo amor lieta e contenta,
e del mio mal con lei fors'ancor ride,

che vanagloriosa ne diventa. Quanto per me si lagrima e si stride,
dolce concento è de le loro orecchie,
da cui 'l mio amor negletto si deride.
Cosí convien che sempre m'apparecchie
a soffrir nuovi di fortuna colpi,
e che 'n novello strazio alfin m'invecchie.
Né però avien che del mio affanno incolpi
chi piú devrei; ned in mercé mi valse
quanto in ciò piú credei che piú 'l discolpi.
Oimè, che troppo duro Amor m'assalse,
poi che per farmi di miseria essempio,
m'insidia ancor con sue speranze false.
Da un canto il certo mio danno contempio;
e perché 'l duol piú nuoccia meno atteso,
di speme al van desio conforme m'empio.
Non fosse almen da voi medesmo offeso
l'affetto uman del gentil vostro seno
ne l'essermi il soccorso, oimè, conteso.
D'ogni mia avversità mi duol via meno,
che di veder ch'a voi s'ascriva il fallo
di quanto in amar voi languisco e peno.
Ben sapete, crudel, che 'l mondo udràllo,
e con mia dolce ed amara vendetta
d'ogn'intorno la fama porteràllo.
Né cosí vola fuor d'arco saetta,
com'al mio essempio mosse fuggiranno
d'amarvi a gara l'altre donne in fretta;
e quanto del mio mal pietate avranno,
tanto, dal vostro orgoglio empio a schivarsi,
caute a l'esperienzia mia saranno
Oh che pregiata e nobil virtú, farsi
anco amar in paese sconosciuto
col benigno e pietoso altrui mostrarsi!
E quante volte è in tal caso avenuto
che de' meriti altrui senz'altro il grido
d'uom ignoto ave 'l cor arder potuto!
Ond'io, che di mie doti non mi fido,
pensando che voi sète uom degno e chiaro,

da me la speme in tutto non divido;
anzi, nel colmo del mio stato amaro
lusingando me stessa, attender voglio
al mio dolor da voi schermo e riparo,
poi che di grand'onor il mio cordoglio
esser vi può, se pronto a sovenirmi
sarete, mentre a voi di voi mi doglio:
se non, vedrete misera morirmi.
XXI
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Io dicea: - Mio cor, se ciò mi fanno
l'armi mie proprie, quelle, onde mi punge
la fortuna crudel, che mi faranno? -
S'io stessa, col fuggir dal mio ben lunge,
sento che 'l duol via piú mi s'avvicina,
che la partenza mia mel ricongiunge;
al mio languir contraria medicina
certo avrò preso al vaneggiar del core,
che per misera strada m'incamina.
Lassa, or mi pento del commesso errore,
anzi non mossi cosí tosto il passo
dal dolce loco ov'abita 'l mio amore,
ch'io dissi: - Oimè! dunque è pur ver ch'io lasso
quella terra e quell'acque, ove 'l mio sole
di splendor rende ogni altro lume casso? -
E se ridir potessi le parole,
che volgendomi indietro al caro suolo
dissi, qual chi lasciar ciò ch'ama suole,
vedrei gli augelli ancor con lento volo
seguirmi ad ascoltar il mio lamento,
alternando in pia voce il mio gran duolo;
vedrei qual già fermarsi a udirmi 'l vento,
e quetar le procelle, e i boschi e i sassi
moversi a la pietà del mio tormento.
Ma per troppo gridar afflitti e lassi
sono i miei spirti, onde già i pesci e l'onde
le mie miserie a meco pianger trassi.
Tanta rena non han d'Adria le sponde,
quante volte il suo nome allor chiamai,
com'or qui 'l chiamo, ov'Eco sol risponde.
Co' sospiri arsi e col pianto bagnai
l'amate spoglie, e di lui in vece accolte
al seno me le strinsi e le basciai,
dicendo: - O spoglie, che già foste avvolte
intorno a quelle membra, che da Marte
sembrano in forma di Narciso tolte,
se 'l ciel mi riconduce in quella parte
onde stolta partí', non sarà mai
che quinci 'l fermo piè volga in disparte. -
Non fu pietra né pianta, ov'io passai,
che non piangesse meco, e forse allora
non mi dicesse: - Folle! ove ne vai? -
Dal cerchio estremo, ove fan lor dimora
scintillando le stelle, certamente
meco pianger mostrar la notte ancora.
Ben vidi 'l sol levar chiaro e lucente;
ma perché gli occhi ad abbagliarmi e 'l core
un piú bel lume impresso avea la mente,
scarso del sol mi parve lo splendore;
o fu, forse, ch'udendo 'l mio gran pianto,
anch'ei si scolorí del mio dolore.
Oh com'è privo d'intelletto, e quanto
colui s'inganna, che nel patrio nido
viver può lieto col suo bene a canto,
e va cercando or l'uno or l'altro lido,
pensando forse che la lontananza
ai colpi sia d'Amor rifugio fido!
Fugga pur l'uom, se sa: la rimembranza
del caro obbietto sempre gli è d'intorno,
anzi porta in cor viva la sembianza.
S'io veggo l'alba a noi menar il giorno,
mirando i fiori e le vermiglie rose,
che le cingon la fronte e 'l crin adorno,
- Tal - dico, - è 'l mio bel viso, in cui ripose
tutti i suoi doni il cielo, e la natura
la sua eccellenza piú ch'altrove espose. -
Poi, quando scorgo per la notte oscura
accendersi là su cotante stelle,
Amor, ch'è meco, sí m'afferma e giura
che quelle luci in cielo eterne e belle
tante non son, quante virtú in colui
che poi crudo del sen l'alma mi svelle.
E per far i miei dí piú tristi e bui,
dal mio raggio lontan, sempre al cor vivo
ho 'l sole ardente, onde pria accesa fui:
al qual piangendo e sospirando scrivo.
XXII
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Poi ch'altrove il destino andar mi sforza
con quel duol di lasciarti, o mio bel nido,
ch'in me piú sempre poggia e si rinforza,
con quel duol che nel cor piangendo annido,
con la memoria sempre a te ritorno,
O mio patrio ricetto amico e fido:
e maledico l'infelice giorno,
che di lasciarti avennemi; e sospiro
la lentezza del pigro mio ritorno.
Dovunque gli occhi lagrimando giro,
lunge da te, mi sembra orror di morte
qualunque oggetto ancor ch'allegro miro.
Tutto quel che ristoro e gioia apporte,
per questi campi e per le piagge amene,
reca a me affanno e duol gravoso e forte.
L'apriche valli, d'aura e d'odor piene,
l'erbe, i rami, gli augei, le fresche fonti,
ch'escon da cristalline e pure vene,
l'ombrose selve, e i coltivati monti,
che da salir son dilettosi e piani,
e piú facili quant'uom piú su monti,
e tutto quel che con industri mani
qui l'arte e la natura e 'l ciel opraro,
sono per me deserti alpestri e strani.
Non può temprar alcun dolce l'amaro
ch'io sento de l'acerba dipartita,
ch'io fei dal natío suolo amato e caro:
quivi lasciai nel mio partir la vita,
ch'ai piè negletta del mio crudo amante
da me giace divisa e disunita.
E pur tra questi fiori e queste piante
la vo cercando, e di quell'empio l'orme.
ch'ovunque io vada ognor mi sta davante.
E par ch'io 'l vegga, e poi ch'ei si trasforme
or d'un abete, or d'un faggio, or d'un pino,
or d'un lauro, or d'un mirto in varie forme;
parmelo aver negli occhi da vicino,
e le mani a pigliarlo avide stendo,
e la bocca a basciarlo gli avicino:
in questo lo mio error veggio e comprendo,
ché, da l'imaginar e da la speme
delusa, un tronco o un sasso abbraccio e prendo.
Se cantando posar gioiosi insieme
duo augelletti sopra un ramo veggo,
con quel desio ch'Amor dolce al cor preme,
del mio misero stato, e piú m'aveggo
che col rimedio de la lontananza,
dov'altri non m'aita, invan proveggo.
Stan pur duo uccelli in lieta dilettanza,
godendo di quel bene unitamente,
ch'al lor desire agguaglia la speranza;
ne le selve e nei boschi Amor si sente,
dal consorzio degli uomini sbandito,
tra i bruti, i quai pur s'aman parimente;
un concorde voler al dolce invito
de la gioia d'amor le fiere tragge,
con affetto in duo cori egual partito;
per monti e valli e selve e lidi e piagge,
quinci e quindi congiunta in modo stretto
coppia sen va di due bestie selvagge:
e l'uom, dal cielo a dominar eletto
tutti gli altri animali de la terra,
dotato di ragione e d'intelletto;
l'uom che, se non vuol, rado o mai non erra,
fa, nei desir d'amor dolci, a se stesso
cosí continua abominosa guerra,
sí ch'a lui poi d'amar non è concesso,
senza trovar di repugnanti voglie
de la persona amata il core impresso.
In ciò contrario a le donne si voglie
piú ch'agli uomini 'l ciel; ch'amano senza
sentir quasi in amor altro che doglie.
Far non può de le donne resistenza
la natura sí molle ed imbecilla,
di Venere del figlio a la potenza;
picciol'aura conturba la tranquilla
feminil mente, e di tepido foco
l'alma semplice nostra arde e sfavilla.
E quanto avem di libertà piú poco,
tanto 'l cieco desir, che ne desvía,
di penetrarne al cor ritrova loco:
sí che ne muor la donna, o fuor di via
esce de la comun nostra strettezza,
e per picciolo error forte travía.
Quanto a la libertate è manco avezza,
tanto in furia maggior l'avien che saglia,
s'Amor quei nodi violento spezza;
né per poco vien mai che donna assaglia
per tirar il suo amante al suo desio,
ma ciascun mezzo prova quant'ei vaglia.
Cosí sforzata son di far anch'io
d'amor ne la difficile mia impresa,
per ottener il ben ch'amo e desío;
e se ben fatt'a me vien grande offesa,
nullo argomento usato in espugnarti,
amante ingrato, mi rincresce o pesa.
Per darti luogo, venni in queste parti,
ed al tuo arbitrio di te cassa vivo,
sperando in tal maniera d'acquistarti.
Qui, dov'è 'l prato verde e chiaro il rivo.
venni, e de le dolci onde al roco suono,
e degli uccelli al canto, e parlo e scrivo.
In luogo ameno e dilettevol sono,
ma non è quivi l'allegrezza mia,
se non quanto di te penso e ragiono;
anzi 'l pensar di te dagli occhi invia
lagrime amare, e de l'altrui piacere
sento piú farsi la mia sorte ria.
L'altrui gioie d'amor tante vedere
a le fiere, agli augelli, ai pesci darsi
mi fa nel mio dolor piú doglia avere:
non può l'invidia mia dentro celarsi,
ma con sospiri e pianto, e con lamenti,
vien per la bocca e gli occhi a disfogarsi.
Ben piú che degli altrui dolci contenti,
allargo 'l pianto e senza fin mi doglio
de l'acerba cagion de' miei tormenti;
ma poi d'ammollir tento un aspro scoglio,
che piú s'indura e piú s'impietra, quanto
piú mostro il sospiroso mio cordoglio,
e poi che 'l mio dolor ti giova tanto,
io mi vivrò, tra queste selve ombrose,
sol de la tua memoria e del mio pianto.
Qui farà l'ore mie liete e gioiose
veder che 'l prato, il poggio, il bosco e 'l fiume
dían ricetto a l'altrui gioie amorose;
veder per natural dolce costume
gli augei, le fiere e i pesci insieme amarsi
in modo che da l'uom non si costume;
e senza alcun sospetto insieme andarsi
liberamente ovunque Amor gli guide,
e l'uno in grembo a l'altro riposarsi.
Nulla il gran lor piacer toglie o divide,
ma sempre il sommo lor diletto cresce;
di che me, con duol mista, invidia uccide.
Ecco che fuor d'un antro, or ch'io parlo, esce
coppia felice di due dame snelle,
cui sempre star in un sol luogo incresce;
e là due rondinette unirsi anch'elle
veggo in un ramo verde. Ahi del mio amante
voglie contrarie al mio desir rubelle!
Dove parlan d'amor l'erbe e le piante,
dove i desir d'ognun sono concordi,
in quest'almo paese circostante
m'addusse Amor, perch'io piú mi ricordi,
ne la dolcezza de l'altrui venture,
dei pensieri d'uom crudel dai miei discordi
Né questo accresce sol le mie sventure,
per prova intender dai boschi e dai sassi
quanto sian meco acerbe le sue cure:
ché sempre avanti a la memoria stassi
quanto, per fuggir l'odio di colui,
da la patria gentil mi dilungassi;
da quell'Adria tranquilla e vaga, a cui
di ciò che in terra un paradiso adorni
non si pareggi alcun diletto altrui:
da quei d'intagli e marmo aurei soggiorni,
sopra de l'acque edificati in guisa,
ch'a tal mirar beltà queto il mar torni
e perciò l'onda dal furor divisa
quivi manda a irrigar l'alma cittade
del mar rema, in mezzo 'l mar assisa,
a' cui piè l'acqua giunta umile cade,
e per diverso e tortuoso calle
s'insinua a lei per infinite strade.
Quivi tributo il padre Ocean dàlle
d'ogni ricco tesoro, e 'l cielo amico
ciascun'altra a lei pon dopo le spalle:
sí che nel tempo novo o ne l'antico
non fu mai chi tentasse violarla
ch'al pensar sol confuse ogni nemico.
Tutto 'l mondo concorre a contemplarla,
come miracol unico in natura
piú bella a chi si ferma piú a mirarla,
e senza circondata esser di mura
piú d'ogni forte innaccessibil parte,
senza munizion forte e sicura.
Quanto per l'universo si comparte
d'utile e necessario a l'uman vitto,
da tutto l'universo si diparte;
ed a render recato a lei 'l suo dritto,
di quel che in lei non nasce, ella piú abonda
d'ogni loco al produr atto e prescritto,
sí ch'eterna abondanzia la circonda,
e di tutti i paesi fruttuosi
piú ricca è d'Adria l'arenosa sponda.
Altro che valli amene e colli ombrosi
sembrano d'Adria placida e tranquilla
i palagi ricchissimi e pomposi.
Il mar e 'l lito quivi arde e sfavilla
d'amor, che tra nereidi e semidei
quell'acque salse di dolcezza instilla.
Venere in cerchio ancor degli altri dèi
scende dal ciel su questa bella riva,
con l'alme Grazie in compagnia di lei.
E senza che piú avanti io la descriva,
per fortuna noiosa e violenta,
gran tempo son di lei rimasta priva:
per far la voglia altrui paga e contenta
io dipartí', sperando alfin quell'ira,
se non estinguer, far tepida e lenta.
Or che quanto si piange e si sospira
per me infelice è tutto sparso al vento,
ché 'l mio amante la vista altrove gira;
poi che 'l crudele ad altro oggetto è intento,
perché lontan da la mia patria amata
vo facendo piú grave il mio tormento?
Ma se t'ho follemente, Adria, lasciata,
del cor l'arsura alleviar pensando,
dal mio danno veder allontanata,
l'ardor piú tosto è in ciò gito avanzando,
e con la gelosia e col sospetto
s'è venuto piú sempre riscaldando.
L'altrui d'amor goduto a pien diletto
per questi campi, e 'l temer che compagna
l'empio, a me, non faccia altra del suo letto,
e de la patria mia celebre e magna
gli alti ornamenti e lo splendor superno,
qui 'l bosco odiar mi fanno e la campagna:
ad Adria col pensier devoto interno
ritorno e, lagrimando, espressamente
a prova del martír l'error mio scerno.
Ma se 'l suo fallo scema chi si pente,
d'esser da te partita mi pentisco,
o mio bel nido, e me ne sto dolente;
e da poi che non cessa il mio gran risco
per lontananza, il meglio è ch'io mi mora
del gran dolor che per amar soffrisco
senza miei danni aggiunger questo ancora,
di far da le mie cose a me piú care
per tanto spazio sí lunga dimora.
Perch'alfin mi risolvo di tornare,
e se non m'è contraria a pien la sorte,
se ben un'ora un secolo mi pare,
spero tornar in spazio d'ore corte.
XXIII
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Lungamente in gran dubbio sono stata
di quel che far a me s'appartenea,
da un certo uomo indiscreto provocata.
Nel pensier vane cose rivolgea
del far e del non far la mia vendetta,
né a qual partito accostarmi sapea;
alfin, la propria mia ragion negletta,
che 'l buon camin non sa prender né puote,
da la soverchia passion costretta,
vengo a voi per consiglio, a cui son note
le forme del duello e de l'onore,
per cui s'uccide il mondo e si percuote.
A voi, che guerrier sète di valore,
e ch'oltre a l'esser de la guerra esperto,
vostra mercede, mi portate amore,
per consiglio ricorro; e ben m'accerto
che mi sareste ancor non men d'aita,
per grazia vostra piú che per mio merto.
Ma io non voglio a quel dove m'invita
de la vendetta il gran desio voltarmi,
benché la via mi sia piana e spedita:
voglio, prima ch'io giunga al trar de l'armi,
il mio parer communicar con voi,
e con voi primamente consigliarmi;
e se determinato fia tra noi
che con gli effetti io debba risentirmi,
non sarò pigra a pigliar l'armi poi.
Ma saría forse un espresso avvilirmi,
far soggetto capace del mio sdegno
chi non merta in pensier pur mai venirmi:
un uom da nulla, e non sol vile, e indegno
che da seder si mova a lui pensando
qualunque ancor che pigro e rozzo ingegno.
E pur d'ira m'infiammo, rimembrando
la villania da lui fatta a se stesso,
di doverla a me far forse stimando.
Inescusabil fallo vien commesso
da chi dice d'alcun mal in sua assenza,
stanco ver sia quel che vien detto espresso:
perché in ciò l'uom dimostra gran temenza,
e par che 'n quella vece non ardisca
dir il medesmo ne l'altrui presenza.
Ma poi, se di menzogne si fornisca
e nel contaminar l'onore altrui,
con frode e infamia contra 'l ver supplisca,
ben certamente merita costui
cancellarsi del libro de' viventi,
sí che 'l suo nome ad un pèra con lui.
Oh, se le rane avesser unghia e denti,
come sarían, se drittamente addocchio,
talor piú de' leon fiere e mordenti!
Ma poi, per gracidar d'alcun ranocchio,
di gir non lascia a ber l'asino al fosso,
anzi drizza a quel suon l'orecchio e l'occhio.
Se un ser grillo, a dir mal per uso mosso,
de la sua buca standosi al riparo,
m'ha biasmato in mia assenzia, io che ne posso?
E se tratte a quel suon, quivi n'andaro
molte vespe e tafani, e per tenore
di quel suon roco in compagnia ruzzaro,
non patisce alcun danno in ciò 'l mio onore,
e quanto aspetta a me, piú tosto rido;
ma de l'altrui sciocchezza ho poi dolore.
D'una brutta cornacchia a l'aspro grido
trassero altri uccellacci da carogne
e di sterco l'empier la strozza e 'l nido.
Quest'è proprietà de le menzogne,
che quelli ancor che son malvagi e tristi
versan sopra l'autor biasmi e vergogne.
Del mio avversario fûr primieri acquisti
sparger detti, in mia assenza, di me falsi
da nulla verità coperti o misti.
Ad ira contra lui perciò non salsi,
ma m'allegrai, quando contra 'l suo dire
tacendo col mio ver chiaro prevalsi.
Ben poi via piú insolente divenire
nel mio silenzio il vidi; e quasi ch'io
d'averlo fatto tale posso dire.
Ma qual era in quel caso officio mio,
se non quel dirmi mal dopo le spalle
non curar punto, da un uom vile e rio?
Troppo al giudicio mio vien che s'avvalle
il pensier di chi segue tai diffetti,
c'hanno precipitoso e tetro il calle.
Raffrena, uom valoroso, i ciechi affetti,
e non voler opporti a ciascun'orma
de la malignitate ai falsi detti:
seguí de la virtú la dritta norma,
che, di se stessa paga, agli altrui errori
generosa non guarda, e par che dorma.
Cosí fec'io, che, d'ogni dritto fuori
infamiata e biasmata da un uom vile,
mi confortai co' miei pensier migliori:
e farei piú che mai ora il simíle,
se per la mia pazienzia quel villano
non discendesse a via peggiore stile.
Ma con armata e minacciosa mano
m'importuna, e mi sfida, e quasi sforza
il pensier di star queta a render vano.
Con l'acqua alfin ogni foco si smorza;
cosí la costui rabbia e l'arroganza
a quel ch'io men vorrei mi spinge a forza.
So ch'egli per natura e per usanza
è pessimo e vilissimo a volere
pugnar con una donna, di possanza
E quasi che non porta anco il devere,
ch'al provocar de l'armi io gli risponda,
non usa il ferro ignudo in man tenere.
Ma tanto piú d'audacia ei soprabonda,
quanto farmi paura piú si crede,
e con nuove insolenzie mi circonda.
Non so quel che in tal caso si richiede:
il parer vostro non mi sia negato,
ch'a lui son per prestar assenso e fede.
Io sono stata in procinto, da un lato,
di disfidarlo a singolar battaglia,
comunque piú gli piace, in campo armato.
Ma dubitai che di piastra e di maglia
ei proponesse grave vestimento,
e ferro che non punge e che non taglia.
So ch'egli è un asinaccio a questo intento
d'assicurarsi contra i colpi crudi,
dove vi sia di sangue spargimento:
del resto sovra 'l dorso se gli studi,
s'altri volesse ben con un martello,
come s'usa di far sopra le incudi.
Questo m'ha messo a partito il cervello,
ch'io non vorrei con sferza o con bastone
prender a castigar un uom sí fello.
Non so se in ciò potessi con ragione
rifiutar armi non micidiali,
ma solamente a bastonarsi buone:
so ch'ei diría ch'a lui si dènno tali,
e ch'io non debbo ricusarle, quando
d'ogni lato le cose vanno eguali.
Io sono andata a questo assai pensando,
ed ho discorso che s'io 'l disfidassi,
da l'insultar s'andría forse arretrando:
forse ch'ei volgerebbe altrove i passi,
e meco fuggiría d'entrar in prova,
perch'ancor col baston non l'amazzassi.
Ma s'ei temprate ha l'ossa a tutta prova
contra ogni copia di gran bastonate,
sí ch'altri a dargli stanco alfin si trova;
senz'aver le devute sue derrate,
rendermi stanca in guisa alfin potrebbe,
che l'armi avessi in mio affanno pigliate
E poi di me qual cosa si direbbe?
Ch'io non sia buona per un uom codardo,
cui con la verga un fanciul vincerebbe:
un che fa l'invincibile e 'l gagliardo
contra una donna che sopporta e tace,
senza pur minacciarlo con lo sguardo.
Dunque 'l debbo lasciar seguir in pace,
e sommettermi in guisa al suo talento,
ch'egli m'offenda come piú gli piace?
Quest'è strana maniera di tormento,
e tal ch'offese a non sopportar usa,
a questa men ch'ad altra atta mi sento.
Dunque sarò da sí vil uom delusa,
senza prender vendetta in parte alcuna
di quanto egli m'offende e sí m'accusa,
In questo punto il mio pensier s'aduna,
e per incaminarmi a buona strada
trovo scarsa e contraria la fortuna.
Ma s'io sto queta, e, come avien ch'accada
un giorno che passar quindi gli avenga,
incontra armata a ucciderlo gli vada?
Forse la sete fia che 'n tutto io spenga
di quel sangue maligno, e con diletto
senza contrasto alcun vittoria ottenga.
Dunque commetterò sí gran diffetto
di bruttar di quel sangue queste mani,
ch'è di malizia e di viltate infetto?
Cessin da me pensieri cosí strani.
Ma che farò? S'io taccio, mal; e poi
s'io faccio, peggio. Oh miei discorsi vani!
Datemi, signor mio, consiglio voi.
XXIV
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
Sovente occorre ch'altri il suo parere
dice, stimando fatte alcune cose,
che non successer, né fur punto vere.
Di queste, che pur son dubbie e nascose,
in noi un certo instinto la natura,
che tende al peggio ed al biasmarle, pose;
benché null'opra è di qua giú sicura,
e di quel che men par ch'avvenir possa
stíasi con piú sospetto e con paura.
Del mondo ingannator quest'è la possa,
che quel ch'e piú contrario al ver succeda,
per cagion torta, occoltamente mossa.
La ragion vuol ch'ogni ben di voi creda,
ma poi del verisimile l'effetto
fa che quel ch'io credei prima discreda.
Comunque sia, egli m'è stato detto:
se falso o ver, non importa ch'io dica
s'io son risolta o se n'ho alcun sospetto:
basta che mi tegniate per amica,
come infatti vi son, sí che in giovarvi
non sarei scarsa d'opra o di fatica.
Ed or ch'io mi conduco a ragionarvi
di quanto intenderete, a quel m'accosto,
che dè' chi fa profession d'amarvi.
Dunque a la mia presenza vi fu opposto
ch'una donna innocente abbiate offesa
con lingua acuta e con cor mal disposto;
e che, moltiplicando ne l'offesa,
quant'è colei piú stata paziente,
in voi l'ira si sia tanto piú accesa,
sí che, spinto da sdegno, impaziente
le man posto l'avreste adosso ancora,
se nol vietava alcun ch'era presente;
ma voi la minacciaste forte allora,
e giuraste voler tagliarle il viso,
osservando del farlo il tempo e l'ora.
Strano mi parve udir, d'un uom diviso
dai fecciosi costumi del vil volgo,
un cotal nuovo inaspettato aviso;
e mentre col pensiero a voi mi volgo,
de la virtute amico e de l'onesto,
la fede a quel che mi fu detto tolgo.
Da l'altra parte so quanto è molesto
lo spron de l'ira, e come spesso ei mena
a quel ch'è vergognoso ed inonesto;
né sempre la ragion, che i sensi affrena,
a stringer pronto in man si trova il morso,
e 'l gran soverchio rompe ogni catena.
Se per impeto d'ira il fallo è occorso,
non durate nel mal, ma conoscete
quanto fuor del dever siate trascorso.
Gli occhi del vostro senno rivolgete,
e quanto ingiuriar donne vi sia
disdicevole, voi stesso vedete.
Povero sesso, con fortuna ria
sempre prodotto, perch'ognor soggetto
e senza libertà sempre si stia!
Né però di noi fu certo il diffetto,
che se ben come l'uom non sem forzate,
come l'uom mente avemo ed intelletto
Né in forza corporal sta la virtute,
ma nel vigor de l'alma e de l'ingegno,
da cui tutte le cose son sapute;
e certa son che in ciò loco men degno
non han le donne, ma d'esser maggiori
degli uomini dato hanno piú d'un segno.
Ma se di voi si reputiam minori,
fors'è perché in modestia ed in sapere
di voi siamo piú facili e migliori.
E che sia 'l ver, voletelo vedere?
Che 'l piú savio ancor sia piú paziente
par ch'a la ragion quadri ed al devere:
del pazzo è proprio l'esser insolente,
ma quel sasso del pozzo il savio tragge,
ch'altri a gettarlo fu vano e imprudente
E cosí noi che siam di voi piú sagge,
per non contender vi portamo in spalla,
com'anco chi ha buon piè porta chi cagge.
Ma la copia degli uomini in ciò falla;
e la donna, perché non segua il male,
s'accomoda e sostien d'esser vassalla.
Ché se mostrar volesse quanto vale
in quanto a la ragion, de l'uom saría
di gran lunga maggiore, e non che eguale.
Ma l'umana progenie manchería,
se la donna, ostinata in sul duello,
foss'a l'uom, com'ei merta, acerba e ria.
Per non guastar il mondo, ch'è sí bello
per la specie di noi, la donna tace,
e si sommette a l'uom tiranno e fello,
che poi del regnar tanto si compiace,
sí come fanno 'l piú quei che non sanno
(ché 'l mondan peso a chi piú sa piú spiace)
che gli uomini perciò grand'onor fanno
a le donne, perché cessero a loro
l'imperio, e sempre a lor serbato l'hanno.
Quinci sete, ricami, argento ed oro,
gemme, porpora, e qual è di piú pregio
Si pon in adornarne alto tesoro;
e qual conviensi al nostro senno egregio,
non sol son ricchi i nostri adornamenti
d'ogni pomposo e piú prezzato fregio,
ma gli uomini a noi vengon riverenti,
e ne cedono 'l luogo in casa e in strada,
in ciò non punto tardi o negligenti.
Per questo anco è ch'a lor portar accada
berretta in testa, per trarla di noi
a qualunque dinanzi ei se ne vada;
e s'ancor son tra lor nimici poi,
non lascian d'onorar, sempre ch'occorre,
l'istesse donne de' nemici suoi.
Da questo argumentando si discorre
quanto l'offesa fatta al nostro sesso
la civiltà de l'uom gentile aborre.
Né ch'io parli cosí crediate adesso
con altro fin che di mostrarvi quanto
l'offender donne sia peccato espresso.
Informata ancor son da l'altro canto
chi sia colei di cui mi fu affermato
che ingiuriaste e minacciaste tanto:
certo questo non merita il suo stato,
e l'avervi 'l suo amore a tanti segni
in tante occasion manifestato.
Cessin l'offese omai, cessin gli sdegni,
e tanto piú che d'uom nato gentile
questi non sono portamenti degni;
ma è profession d'uom basso e vile
pugnar con chi non ha diffesa o schermo,
se non di ciance e d'ingegno sottile.
Perdonatemi in ciò, ch'io troppo affermo
le colpe vostre; poi ch'io non intendo
comprender voi, piú d'alcun altro, al fermo.
Ma quel ch'adesso vado discorrendo
è quanto ad onta sua colui s'inganni,
che vada con le donne contendendo;
perch'al sicur di lui son tutti i danni:
s'ei vince, mal; e peggio, se vien vinto;
il rischio è certo, e infiniti gli affanni.
Col viso di rossore infuso e tinto,
d'essere stato ogni uom d'onor s'accorge
di far ingiuria a donne unqua in procinto;
e quanto piú 'l valor viril risorge,
tanto piú l'armi fuor da l'ira tratte
vergognando al suo loco altri riporge,
e si pentisce de le cose fatte
in via che se potesse frastornarle,
le ridurría da l'esser primo intatte.
Ma poi che non può adietro ritornarle,
con dolci modi a l'offese ripara,
e quanto può, si sforza d'annullarle:
ritorna ancor l'amata al doppio cara
nel rifar de la pace; e per turbarsi,
piú d'ogni parte l'alma si rischiara.
Cosí nel ben vien a moltiplicarsi,
e cosí certa son che voi farete,
sí come suol da ogni par vostro farsi:
e colei certo offesa o non avete,
o se vinto da sdegno trascorreste,
l'error di voi non degno emenderete.
Ed io di ciò vi prego in fin di queste.
XXV
DELLA SIGNORA VERONICA FRANCA
In lode di Fumane, luogo dell'Illustrissimo Signor Conte Marc'Antonio della Torre, Preposto di Verona
Non vorrei da l'un canto esser mai stata
a quel bel loco, per dover partire,
come fei, non ben quivi anco arrivata.
Cosí gravoso il ben suol divenire,
che quant'egli è maggior, via maggior duolo
col dilungarsi in noi suol partorire:
tosto ne va 'l piacer trascorso a volo,
né ponendo in ragion l'util passato,
a la perdita mesti attendem solo.
E non vorrei però da l'altro lato
sí vago nido non aver veduto,
a la tranquillità soave e grato.
E se pari al desio non l'ho goduto.
quanto gustato piú, tanto piú caro,
il lasciarlo mi fôra dispiaciuto.
E pur, formando un pensier dolce amaro,
con la memoria a quei diletti torno,
che infiniti a me quivi si mostraro:
sempre davanti gli occhi ho 'l bel soggiorno,
da cui lontan col corpo, con la mente,
senza da me partirlo unqua, soggiorno;
ricrear tutta in me l'alma si sente,
mentre qua giú sí lieto paradiso
da dover contemplar le sta presente.
Da questo lo mio spirto non diviso
va ripetendo le bellezze eterne,
dal soverchio piacer vinto e conquiso.
E mentre le delizie avido scerne,
nel gioir di se stesso, afflige i sensi,
che non puon separati ancor goderne:
cosí, quando m'avien ch'amando pensi
a l'abitazion vaga e gentile,
tra gioia e duol convien che 'l cor dispensi.
In questo piglio in man pronta lo stile;
e per gradir al sentimento, fingo
quel loco quanto possi al ver simíle:
e se ben so ch'a impresa alta m'accingo,
tirata da la mia propria vaghezza,
senz'arte quel ch'io so disegno e pingo.
Oh che fiorita e feconda bellezza
quivi mostra e dispiega la natura,
raro altrove o non mai mostrarla avezza!
Certo è questa quell'unica fattura,
in cui, vinta se stessa, a tutte prove
ripose ogni sua industria, ogni sua cura.
Di tutto quel che piaccia al mondo e giove
favorevole il cielo a cotal opra,
maggior vanto eternamente piove.
Quivi 'l ciel manda il suo favor di sopra,
né men la terra in adornar tal parte
con gli altri, a gara, elementi s'adopra.
Vince l'imaginar d'ogni umana arte
la disposizion di tutto 'l bene,
ch'unito quivi intorno si comparte:
e pur di quell'altezza, ove perviene
l'eccellenza de l'arte in cose belle,
vestigie espresse il bel luogo ritiene.
Cosí determinarono le stelle
far quivi in dolci modi altrui palese
quanto puon destinar ed influir elle.
In questo avventuroso almo paese
l'ornamento del ciel si mostra in terra,
ch'a farlo un paradiso in lui discese.
Di lieti colli adorno cerchio serra
l'infinita beltà del vago piano,
dove Flora e Pomona alberga ed erra.
Quasi per gradi su di mano in mano
di fuor s'ascende 'l poggio da le spalle,
sempre al salir piú facile e piú piano;
quinci in giú per soave e destro calle
s'arriva a la pianura in pochi passi,
ch'è posta in forma di rotonda valle:
se non che in guisa rilevata stassi,
ch'è quasi, entro a quei colli, un minor colle,
che 'ntorno a lor si dispiani e s'abbassi,
sí che d'entrarvi a Febo non si tolle,
poco alzatosi fuor de l'oriente,
nel prato d'erbe rugiadoso e molle.
Entra 'l sol quanto entrar se gli consente
da un bosco d'alti pini e di cipressi,
pien d'ombre amiche al dí lungo e fervente;
e gode di veder quivi con essi
de la sua amata in corpo umano fronde,
già braccia e chiome, or verdi rami spessi,
tra' quai quanto piú penetra e s'asconde,
per la memoria, ch'anco entro 'l cor serba,
de l'amorose sue piaghe profonde.
De la ninfa la sorte cosí acerba
pietoso Apollo ai grati rami tira,
ed a quivi posar vago tra l'erba:
l'aria d'intorno ancor dolce sospira
di Dafne al caso, e spirto d'odor pieno,
le vaghe foglie ventilando, spira.
E 'l ciel, là piú ch'altrove mai sereno,
fa che d'ogni stagion la copia vuote
in quella terra il corno suo ripieno.
Quivi con l'urne non mai stanche o vuote
a portar l'acque son le ninfe pronte,
tai che 'l cristal sí chiaro esser non puote:
queste versando van da piú d'un fonte
le succinte e leggiadre abitatrici
di questo e quel vicin ben cólto monte;
ed a l'altre compagne cacciatrici,
che, dietro i cervi stanche, a rinfrescarsi
vanno le fronti angeliche beatrici,
co' bei liquidi argenti intorno sparsi
porgon dolce liquor da trar la sete,
e le candide membra da lavarsi.
Dai freschi rivi e da le fonti liete,
quasi scherzando, l'acque in vario corso
declinan verso 'l pian soavi e quete;
e poi che 'n lenta gara alquanto han corso,
per via diversa si raggiungon tutte
verso un bel prato, a lor dinanzi occorso;
e da natural arte a far instrutte
bello quel sito a maraviglia, vanno
per canali angustissimi ridutte.
Quivi entrate, a varcar poco spazio hanno
ch'a un fiorito amenissimo giardino
dolce tributo di se stesse dànno:
con man distesa e passo tardo e chino
dàn di se stesse le piú dolci e chiare
al giardinier ch'a l'uscio sta vicino.
Questi, com'a lui piace, le fa entrare
ch'obedienti a l'arte fan quel tanto
ch'altri accorto dispon che debban fare.
Non cede l'arte a la natura il vanto
ne l'artificio del giardin, ornato
d'alberi cólti e di sempre verde manto;
sovra 'l qual porge, alquanto rilevato
d'architettura un bel palagio tale,
qual fu di quel del Sol già poetato:
infinito tesor ben questo vale
per l'edificio proprio, e gli ornamenti,
che 'n ricchezza e in beltà non hanno eguale.
I fini marmi e i porfidi lucenti,
cornici, archi, colonne, intagli e fregi,
figure, prospettive, ori ed argenti,
quivi son di tal sorte e di tai pregi,
ch'a tal grado non giungono i palagi
che fer gli antichi imperadori e regi.
Ma le commodità di dentro e gli agi
son cosí molli, che gli altrui diletti
al par di questi sembrano disagi.
Per li celati d'òr vaghi ricetti,
sul pavimento, che qual gemma splende,
stan sopra aurati piè candidi letti.
Di sopra da ciascun d'intorno pende
di varia seta e d'òr porpora intesta,
che 'l contegno de' letti abbraccia e prende;
di coltre ricamata o d'altra vesta
di ricca tela ognun s'adorna e copre,
sí ch'a fornirlo ben nulla gli resta.
Di diversi disegni e diverse opre
su coverte e cortine in tutti i lati
vario e lungo artificio si discopre.
I dèi scender dal cielo innamorati
dietro le ninfe qui si veggon finti,
in diverse figure trasformati;
e d'amoroso affetto in vista tinti,
seguitar ansiosi il lor desio
dove dal caldo incendio son sospinti.
Qui trasformata in vacca si vede Io,
e cent'occhi serrar il suo custode,
al suon di quel, che poi l'uccise, dio.
Da l'altra parte Danae in sen si gode
vedersi piover Giove in nembo d'oro,
dov'altri piú la chiude e la custode;
il quale altrove, trasformato in toro,
porta Europa; ed altrove, aquila, piglia
Ganimede e 'l rapisce al sommo coro.
Di Licaon fatta orsa ancor la figlia,
mentre ucciderla il figlio ignota tenta,
assunta in cielo ad orsa s'assomiglia:
né pur orsa celeste ella diventa,
figurata di stelle in cotal segno,
ma 'l figlio in ciel l'altr'orsa rappresenta.
Quanto è possente il nostro umano ingegno,
che vive fa parer le cose finte
per forza di colori e di disegno!
Di seta e d'oro e varie lane tinte,
nei tapeti ch'adornan quelle stanze,
da l'imitar le cose vere èn vinte.
E perché nulla a desiar avanze,
ch'orni di Giove un'alta regia degna,
dove, lasciato 'l ciel, qua giuso ei stanze,
qualunque ebbe tra noi la sacra insegna,
ch'a quei con le sue man Dio stesso porge,
che d'esser suoi vicari in terra ei degna,
qualunque di pastor al grado sorge
de la chiesa divina, in espresso atto
nobilmente dipinto ivi si scorge:
quivi ciascun pontefice ritratto
piú che dal natural vivo si vede,
di tela, di colori e d'ombre fatto;
e com'a tanta maestà richiede,
da l'altre in parte eccelsa e separata
sí reverende imagini han lor sede.
Similmente, in maniera accomodata,
di quei l'effigie ancor son quivi, i quali
del ciel sostengon la felice entrata:
quanti mai fur nel mondo cardinali
quivi entro stan co' papi in compagnia,
e vescovi, e prelati altri assai tali.
Perché conforme al paradiso sia
quell'albergo divino, in sé ritiene
di gente i volti cosí santa e pia.
Di quel ch'al sacerdozio si conviene,
da l'essempio di molti espressi quivi,
in perfetta notizia si perviene:
questi, ancor morti, insegnar pònno ai vivi,
anzi in ciel vivon sí, che 'l loro nome
in terra sempre glorioso arrivi.
E perch'alcun io non distingua o nome,
di quelli intendo che furo innocenti,
e del demonio fer le forze dome.
Le costor fronti a mirar riverenti,
cosí pinte, ne fanno, e in noi pensieri
destano de le cose piú eccellenti:
seguendo l'orme lor, fan ch'altri speri,
che tien lo scettro de la casa vaga,
d'alzarsi al ciel per quei gradi primieri.
Questa de la sua vista ognuno appaga,
e sol de la memoria al cor m'imprime
colpi che 'nnaspran la già fatta piaga.
Di que' be' colli a le frondute cime
alzo 'l pensier, che, dal duol vinto e stanco,
fa che gli occhi piangendo a terra adime.
Standomi sul verron del marmo bianco,
dove 'l palagio alzato agguaglia il monte,
ricreata posava il braccio e 'l fianco:
qui piagner Filomena le triste onte
con la sorella sua dolce sentía,
da lor non cosí chiare altrove cónte:
da le fontane ad ascoltar venía
questo e quel ruscelletto, e mormorando
quasi con lor piangeva in compagnia.
Ben poscia a quel tenor dolce cantando
givan gli augelli per li verdi rami,
del loro amor le passion mostrando.
Oh che liete querele, oh che richiami
formavan contra 'l ciel, sí come suole
chi, benché ridamato, altrui forte ami!
Con voce piú che d'umane parole
par che sappian parlar quelli augelletti,
sí ch'ad udirli ancor fermano il sole.
Talor narrano poi gli alti diletti,
che spesso dagli amati abbracciamenti
prendon, de le lor vaghe al fianco stretti.
Di gran dolcezza il cielo e gli elementi,
per tal piacere e per molti altri assai,
quivi gioiscon placidi e contenti;
e rischiarando ognor piú Febo i rai,
la fiorita stagion vago rimena
di molti, non che d'un, perpetui mai.
D'arabi odor la terra e l'aria piena,
l'una piú sempre si rinverde e infiora,
l'altra ognor piú si tempra e rasserena.
Oh che grata e dolcissima dimora,
dove quanto di vago ognor piú miri,
tanto piú da veder ti resta ancora!
Dovunque altri la vista a mirar giri,
ne la beltà veduta oggetto trova,
che piú intente a guardar le luci tiri;
e nondimen, perch'ognor cosa nova
d'intorno appar, che l'animo desvía,
ad altra parte vien ch'indi le mova.
La bellezza del sito, alma, natía,
gli occhi fuor del palazzo a veder piega
quanto ivi ricca la natura sia;
ma poi di dentro tal lavor dispiega
l'arte, che la natura agguaglia e passa,
ch'ivi l'occhio, a mirar vòlto, s'impiega;
e mentre da un oggetto a l'altro passa,
l'un non gustato ben, da nòve brame
tirato, impaziente il preso lassa.
Cosí non trae, ma piú cresce la fame
d'assai vivande un prodigo convito,
che de l'una al pigliar l'altra si brame:
cosí ne la virtú de l'infinito,
senza mai saziarne, ci stanchiamo,
s'al sommo bene è 'l pensier nostro unito.
Questa insazietà grande proviamo
espressamente, allor che l'intelletto
divin, filosofando, contempliamo.
Lascia sempre di sé piú caldo affetto,
ne l'affannata mente, il ver supremo,
ond'ha perfezzion l'uom da l'oggetto;
benché l'affanno è tal, ch'ognor piú scemo
del mortal fango il nostro spirto face,
e d'ir al ciel gli dà penne a l'estremo.
Felice affanno, che ristora e piace
ne l'unir di quest'anima a quel vero,
che gli umani desir pon tutti in pace:
a quel che del suo eccelso magistero
mostrò grand'arte in queste alme contrade,
feconde del piacer celeste intiero.
Qui di là su tal grazia e favor cade,
ch'abonda al compartirsi in copia molta
la gioia in ogni parte e la beltade:
sí che mentre ad un lato ancor sol vòlta
gode la vista, in quel piú sempre scorge
nova maniera di vaghezza accolta,
né de l'una ben tosto ancor s'accorge,
che s'offre l'altra e, quasi pur mo' nata,
meraviglia e diletto insieme porge.
Del giardin vago è la sembianza grata,
e mentre in lui la maniera risguardi
d'ogni parte ben cólta e ben piantata,
lepri e conigli andar pronti e gagliardi
nel corso vedi; e mentre che t'incresce
d'esserti di tal vista accorto tardi,
ecco ch'altronde ancor vaga schiera esce
di cervi e capri e dame e d'altri tali,
onde la maraviglia e 'l piacer cresce
Ma poi tra quelle schiere d'animali
scopri distinto del giardino il piano
d'acque in angusti e limpidi canali,
e splender su per l'onde di lontano
vedi i pesci guizzando, che d'argento
sembra che nuotin d'una e d'altra mano.
E mentre l'occhio a vagheggiar è intento
il piacer vario del fiorito suolo,
piú sempre di mirar vago e contento,
di questo ramo in quel cantando a volo
gir vede copia d'augelletti snelli,
quai molti insieme, e qual vagando solo.
Quinci s'accorge che di fior novelli
e frutti antichi son quei rami carchi,
non pur di nidi d'infiniti augelli.
Senza che 'l guardo quinci e quindi varchi,
l'incontran d'ogni parte i piacer tutti,
in quest'officio non mai stanchi o parchi.
E se nel giardin visti in un ridutti
fiere, augei, pesci, rivi, arbori e foglie,
fior sempre novi, e d'ogni stagion frutti,
a mirar in disparte altri s'accoglie,
e come nel guardar talvolta occorre,
da la pianura a l'alto a mirar toglie,
ne la beltà de' vaghi colli incorre,
ch'a la vista, che s'alza, umili e piani
lietamente si vengono ad opporre.
Questi, dal bel palazzo non lontani,
sembra che per raccorlo in mezzo 'l seno
si stringan verso lui d'ambe le mani;
e 'ntanto spiegan tutto aperto e pieno
il grembo lor di dolcezze infinite,
che la vista bear possono a pieno.
Le pecorelle, a pascer l'erbe uscite,
biancheggian per li poggi, a cansar lievi,
per poco d'ombra timide e smarrite;
di questi monti son queste le nevi:
ché quindi 'l verno standosi ognor lunge
non vien giamai che 'l bel terreno aggrevi.
Quindi letizia e molto utile giunge
de le gregge bianchissime ai signori,
di quel che se ne tonde, e uccide, e munge.
Sparsi per l'ombre, siedono i pastori,
e le canne dispari a sonar posti,
cantan de' loro boscarecci amori;
e se i greggi talvolta erran discosti,
col fischio il caprar sorto gli richiama,
poi torna de la musa ai suoi proposti.
Talor la pastorella ivi, ch'egli ama,
de la fistola al suon mossa ne viene,
in modo che di lui cresce la brama:
fisse le luci avidamente ei tiene
ne le braccia e nel sen nudi, e nel viso,
e d'abbracciarla a pena si ritiene.
Ma poi quindi a guardar l'occhio diviso
tira l'udito suon d'un corno roco,
quando piú in quei pastori egli era fiso;
ed ecco, da color lontano un poco,
cani co' cacciator disposti in caccia,
ciascuno intento al suo ufficio e 'l suo loco.
Per folti arbusti un can quivi si caccia,
e per terra latrando un altro fiuta,
e de l'orme seguendo va la traccia,
e tanto corre in fretta e 'l luogo muta,
che d'una macchia fuor la lepre salta:
il bracco geme e in seguirla s'aiuta;
gridan le genti, e intorno ognun l'assalta
chi le spinge da tergo il veltro in fretta,
qual corre a la via bassa, e quale a l'alta.
E mentre qua e là ciascun s'affretta,
il tuo sguardo, ch'a lor dietro s'aggira,
s'incontra in piacer novo che 'l diletta:
però ch'altrove d'improviso mira
gente ch'al visco ed a le reti stese
schiera d'augelli accortamente tira.
In queste e quelle insidie non comprese
di quei c'han maggior prezzo a le gran mense
vengon tutte le sorti in copia prese.
A chi stender piú franco il volo pense,
piú facilmente incontra d'esser còlto
ne le non viste reti, ancor che dense.
Ma 'l tuo sguardo, che va d'intorno sciolto
da questa novità de l'uccellare,
vien da un altro piacer piú novo tolto:
perché dinanzi ad abbagliarlo appare
del sol un raggio, il qual mandan reflesso
l'acque d'un fonte cristalline e chiare.
E l'occhio, alquanto chiusosi in se stesso,
dopo quel vacillar s'apre, e ritorna
a guardar quivi dentro l'ombra presso;
e di smeraldi in fresca riva adorna,
di liquido cristal sopra un ruscello,
vede ch'altri a pescar lento soggiorna:
l'amo innescato tien sospeso in quello,
e con la canna in man fermato attende
che 'l pesce cada al morso acuto e fello.
Altri con reti in varia guisa il prende,
e con piè nudi da la sponda sceso,
frugando per le buche il laccio stende:
si lancia e scuote il pesce vivo e preso,
né cessa di saltar per fin che more,
tratto del fonte in un pratel disteso.
Vince di questo il soave sapore
quel di quant'altro mai stagno o palude
alberghi, o fondo salso o dolce umore.
Nulla di quel che in sé beato chiude
un terren paradiso, un ciel terrestre,
dal paese amenissimo s'esclude.
Di semicapri dèi turba silvestre
il fertile terren pianta e coltiva,
sotto influsso di stelle amiche e destre;
e quella che del capo al padre viva
uscío, de' boschi e de le cacce dea,
di questi monti ha in custodia l'oliva.
Quel che vivo nel ventre infante avea
la madre allor che 'l consiglio l'estinse
di Giunon fella, a lei contraria e rea,
che Giove tolto al proprio lato il cinse,
né fin che nove mesi fur finiti,
dal fianco, onde 'l nudriva, unqua il discinse,
qui gli olmi guarda, e le ben cólte viti;
le biade di Proserpina la madre,
Vertunno e Flora gli arbori graditi.
Mille, scese dal ciel, benigne squadre
d'eletti spirti infiorano il bel nido,
e 'l guardan da le cose infeste ed adre.
Dolce de' miei pensieri albergo fido,
pien d'aranci e di cedri, e lieto in guisa
che vince ogni concetto, ogni uman grido,
resta la mente mia vinta e conquisa,
che 'l ben in te con larga mano infuso
dal celeste Motor forma e divisa;
e come tu sei bel fuor d'uman uso,
cosí ne l'opra de l'imaginarti
riman l'ingegno inutile e confuso;
e se vaga pur vengo di lodarti,
come confusa son dentro, confondo
de le tue lodi l'ordine e le parti.
Ben quanto in questo assai mal corrispondo,
tanto ne la prontezza del desire
con grata rispondenza sovrabondo.
Vorrei, ma in parte non so alcuna, dire
le lodi del signor che ti possiede,
né stil uman poría tant'alto gire.
Com'ogni loco è cielo, ove Dio siede,
ma poi nel ciel, ch'è adorno a maraviglia,
espressamente ferma la sua sede,
cosí gran lode ogni soggiorno piglia
da quel signor, dovunque mai perviene,
che regge 'l mio voler con le sue ciglia;
ma pur il seggio suo proprio ei ritiene
in voi, perciò sommamente beate,
contrade soavissime ed amene:
per lui tante beltà vi furon date,
e senza lui de' vostri pregi intieri
sareste senza dubbio alcun private.
Gitene, colli, assai per questo alteri,
ch'avete grazia di servir a lui,
degno di mille mitre e mille imperi.
Quest'è il buon vostro regnator, per cui
vincon le vostre inusitate forme
tutto 'l diletto de' paesi altrui.
Per farsi incontra a le sue gentili orme
crescon l'erbette e i fior, ch'al suo toccarli
vien che nova beltà gli orni e riforme;
e l'onorate man presta a lavarli
dentro la stanza l'acqua dolce arriva,
e dietro vaga ognor par brame andarli.
Da questa una fontana si deriva
che d'ogn'intorno puro argento stilla
da vena di cristal corrente e viva.
Dentro 'l terren fecondo il cielo instilla
virtú che fa produr soavi frutti,
e l'aria salutifera e tranquilla:
il piacer sommo e 'l vero fin di tutti
è che 'l signor gli goda e gli divida,
ch'ad arbitrio di lui furon produtti.
Qualunque in verde ramo augel s'annida,
a lui canta, a lui vive, e s'a lui piace,
lieto sostien ancor ch'altri l'uccida;
qualunque in monte o in piano animal giace,
selvaggio errante, liberale dono
di se stesso a costui contento face
e le mandre, che quivi in copia sono,
e tutto quel che la terra produce,
son di lui molto piú ch'io non ragiono.
Qui la natura carca si riduce,
per dar del suo tesoro a lui tributo,
che da l'Indo e 'l Sabeo quivi traduce:
non fosse questo ben da lui goduto,
certo è che in tanta copia mai dal cielo
non fôra ad alcun altro pervenuto.
A costui cede il gran signor di Delo,
piú del suo chiaro, del valor il lume
cui nube non offusca od altro velo;
e di dolce eloquenzia il puro fiume
a lui dona di Giove il fedel messo,
ch'al cappello ed ai piè porta le piume.
A questo, a cui comandar è concesso
agli elementi che in quel suo soggiorno
oprano quanto è piú gradito ad esso,
andai, dal gran desio tirata, un giorno:
non per error di via, né ch'io passassi
quindi avante d'altronde al mio ritorno;
ma d'Adria mossi a quest'effetto i passi,
né interromper giamai vòlsi il viaggio,
perch'a l'andar via pessima trovassi.
Di questo mio signor cortese e saggio,
nel sentier aspro, mi fu grata scorta
de la virtute il sempiterno raggio:
da cosí chiaro e dolce lume scorta,
la strada, ch'al desio lunga sembrava,
al disagio parea commoda e corta.
La difficoltà grande superava
d'ogni altra cosa sol con la speranza,
che di veder uom sí gentil portava.
Alfin pur giunsi a la bramata stanza,
né potrei giamai dir sí com'io fossi
raccolta con gratissima sembianza.
A sí dolce spettacolo rimossi
tutti i miei gravi e torbidi pensieri,
che venner meco, allor che d'Adria mossi,
e tra mille gratissimi piaceri,
ristoro presi e mi riconfortai,
qual fa chi 'l suo ben gode e 'l meglio speri.
Ma poco al mio talento mi fermai
al loco da me dianzi raccontato,
di cui piú bello non si vide mai,
né con piú vago e splendido apparato
di vasi, e di famiglia bene instrutta,
che pronta al signor serve d'ogni lato,
e intorno a lui con ordine ridutta,
di varia età, di vario pelo mista,
vestita a un modo, corrisponde tutta.
Questa tra l'altre è ancor nobile vista,
veder d'intorno a sé ben divisata
d'onesta gente vaga e doppia lista
. Dunque, de le Fumane unica, amata
terra, ov'albergan le delizie, quante
ogni stanza real pòn far beata,
cedano Baie, e Pozzuol non si vante
ch'unite in loro han le vaghe Fumane
le grazie di là suso tutte quante.
Cose tutte eccellenti e sopraumane
dolci a la vista, al gusto, e gli altri sensi,
le piagge han grate agli occhi, al varcar piane.
E perch'al loco internamente io pensi,
quanto piú di lui parlo, e manco il lodo
e i miei desir di lui si fan piú intensi.
Volando col pensier, la lingua annodo.
SONETTI
I
Come talor dal ciel sotto umil tetto
Giove tra noi qua giú benigno scende,
e perché occhio terren dall'alt'oggetto
non resti vinto, umana forma prende;
cosí venne al mio povero ricetto,
senza pompa real ch'abbaglia e splende,
dal fato Enrico a tal dominio eletto,
ch'un sol mondo nol cape e nol comprende.
Benché sí sconosciuto, anch'al mio core
tal raggio impresse del divin suo merto,
che 'n me stestinse il natural vigore.
Di ch'ei, di tant'affetto non incerto,
l'imagin mia di smalt'e di colore
prese al partir con grat'animo aperto.
II
Prendi, re per virtú sommo e perfetto,
quel che la mano a porgerti si stende:
questo scolpito e colorato aspetto,
in cui 'l mio vivo e natural s'intende.
E s'a essempio sí basso e sí imperfetto
la tua vista beata non s'attende,
risguarda a la cagion, non a l'effetto.
Poca favilla ancor gran fiamma accende.
E come 'l tuo immortal divin valore,
in armi e in pace a mille prove esperto,
m'empío l'alma di nobile stupore,
cosí 'l desio, di donna in cor sofferto,
d'alzarti sopra 'l ciel dal mondo fore,
mira in quel mio sembiante espresso e certo.
III
A la tua ceda ogni regale insegna,
ché de le sacre leggi in man tenesti
cosí ben il governo, onde reggesti
di dotta gioventú scola sí degna.
Ad inchinarsi a te tutta ne vegna
d'Antenor la città, ch'a tanto ergesti
col tuo valor, ch'in terra un ciel la festi,
dove il ben senza noia eterno regna.
Tu di religion santa e verace
sei rilucente specchio, al cui bel raggio
ogni spirto gentil si strugge e sface,
che, da te fatto antiveduto e saggio,
dritto sen vola a la divina pace,
per destro e sicurissimo viaggio.
IV
La morte, ognor ne l'opre rie piú ardita,
con sanguinosa falce, in atto vile,
al fratel vostro, a voi caro e simíle,
troncò l'april de la sua età fiorita.
Empia, che con sí grave aspra ferita
spezzò 'l bel nodo a l'anima gentile,
che da conocchia d'òr puro e sottile
filava Cloto a cosí degna vita.
Benché son queste alfin gravose spoglie,
che chi prima le sgombra avvien che prima
de l'umane miserie esca e si spoglie.
Ma s'ogni mortal ben falso si stima,
vi consoli che 'l ciel lo spirto accoglie,
in guisa che i suoi merti al mondo esprima.
V
Traslata l'alma al suo natío terreno,
che di virtú tra noi fu sí feconda,
perché vena di lagrime profonda
sorge in voi da l'effetto egro terreno?
Or nel giardin del paradiso ameno,
senza seccarsi in lei né cader fronda
d'altri piú dolci pomi in copia abbonda
pregna d'altr'aura, il sol via piú sereno.
Soave di celeste ambrosia umore
pasce l'avventurosa sua radice,
non piú caduca in suo frutto, né in fiore;
ma se in sua sorte in ciel vera beatrice
l'acerbo di qua giú pervien dolore,
nel vostro amaro pianto è men felice.
VI
Deh, la pietà soverchia non v'offenda,
in vece del fratel pianger estinto,
dando in preda al martír voi stesso vinto
sí che dagli occhi un largo fiume scenda!
Non lasciate, signor, che 'l mondo intenda
che 'l vostro cor, di tal costanzia cinto
dal proprio danno suo sforzato e spinto,
per alcun caso al duol già mai si renda.
Benché se qui perdeste un fratel tale
che 'n terra di virtú somma e perfetta
o solo o nessun altro aveste eguale,
il racquistaste in ciel: quivi egli aspetta,
sazio che siate de la vita frale,
di sua man colocarvi in sedia eletta.
VII
Al nostro stato misero e dolente
lagrimar ad ognor ben si conviene
del mal sempre piú grave e piú presente
nel mondo, ch'è un varcar di pene in pene.
Ma s'allegrar già mai si dè' la mente,
cui de la vita l'aspro carcer tiene,
ciò guardando si faccia solamente
ch'a posar dai travagli un dí si viene.
D'ogni travaglio il termine è la morte;
e se non vien da l'uom morto sofferto
cosa ch'affanno o gioia al senso apporte,
giunti i suoi cari al fin del sentier erto
membri spesso, vivendo, e si conforte,
quando che sia di giungervi anch'ei certo.
VIII
Poiché dal mondo al ciel, suo proprio albergo,
qual lampo a l'apparir tosto sparito,
è il saggio e valoroso Estor salito,
quasi l'ali impennando al lieve tergo,
a te 'l ciglio devoto e la mente ergo,
Re celeste, invisibile, infinito,
e del suo gran valor, da noi partito,
le guance smorte lagrimando aspergo.
Deh! ripara, Signor, ai nostri danni,
la vita, a lui da morte acerba tolta,
del gran Francesco concedendo agli anni;
che con l'altro fratel la doglia accolta
mostra nel volto e nei lugubri panni,
e gli occhi a sé d'ogni uom pietosi volta.
IX
Del gran Francesco a la vita onorata
gli anni del suo fratello Estore morto
rendi, signor, per grazia e per conforto
de la famiglia sua mesta e turbata:
anzi in questo da te pur sia servata
del ciel la gloria in terra, ove mai scorto
non fu gran pregio da l'occaso a l'orto,
di quanto è di costui l'anima ornata.
Questi, che vive e spira, e vivrà ognora
per valor d'armi e somma cortesia
dopo la morte eternamente ancora,
lungo secol tra noi felice stia,
dove la sua virtute il mondo onora,
e te difende, alma Vinezia mia.
X
Se pur devea da morte essere estinto
di sí illustre famiglia un lume chiaro,
né schivato poteva esser, né vinto
de l'aspro influsso il grave colpo amaro,
ventura fu che 'n quel ch'è proprio instinto
di morte in torne il ben che n'è piú caro,
d'infinita virtú Francesco cinto
trovasse contra lei schermo e riparo.
Morto è 'l grand'Estor, ma di lui maggiore
vive Francesco, quel ch'a l'empio Scita
combattendo mostrò l'invitto core.
Questi con mano ti difese ardita,
Vinezia bella, e con supremo onore
l'opre sue degne a favorir t'invita.
XI
Mentre d'Estor vorrei pianger la morte,
ed al commun gran duol le note piglio
piú rispondenti e piú pietose e scorte,
nel suo da noi perpetuo acerbo essiglio,
vivo miro Francesco invitto e forte,
che con la spada pronto e col consiglio,
guerreggiando, sostenne da le porte
di Vinezia lontan l'alto periglio.
Questi, ch'è ancor colonna ben fondata
contra l'otoman impeto sí crudo,
di Marte con le man proprie innalzata,
nel dolor del fratel morto m'è scudo
con lieta gloria illustre, onde abbagliata
la vista d'ogni affetto abbasso e chiudo.
XII
Deh, qual d'Estor partí dal mondo tosto
lo spirto in suo valor pronto e gagliardo,
tanto piú da la morte stia discosto
il giovinetto e nobile Gherardo.
Questi trar di Francesco entro 'l cor posto
de l'altro fratel morto il crudel dardo
può col valor, che 'n suo fermo proposto
segue con piede giovenil non tardo.
La sua propria virtú specchia ed ammira,
ché col suo essempio in costui si rinova
Francesco, mentre il morto Estor sospira;
e 'n ciò conforto a la sua doglia trova,
e con la speme di veder respira
del costui seme alta progenie nova.
XIII
Dolce del vostro amor mi è indizio stato
che vertú sí perfetta e risplendente
di raccender in ciel le qua giú spente
luci di Daria abbiate in me stimato.
Ma poi ch'irrevocabil siede il fato,
né, per quanto altri pianga o si lamente,
del futuro si cangia unqua niente,
non ch'indietro tornar possa il passato;
forse util fia che rasciugate il rio
dagli occhi manda il cor che s'addolora,
o vi acquetate a quel che piace a Dio.
Certo che se celeste alma sí onora
l'uman lodar, tutto 'l mondo, non ch'io,
celebrería la sua memoria ognora.
XIV
D'alzarmi al ciel da questo stato indegno,
in ch'io mi trovo, e far formar parole
a un chiaro spirto ch'in su par che vole,
per farsi nido d'alta gloria pregno,
in me merto non è; ma se pur regno
e vivo in qualche stima, che console
la patria mia, questo è quel che far sòle
l'altrui bontà degna d'imperio e regno:
l'altrui bontà, che di queste ombre fore
cerca tirar me ancora in quel bel chiostro.
Dunque a voi debbo che, da voi diviso,
sendo gentil, mi fate sí d'onore
e m'illustrate col ben spesso inchiostro,
che già sa tutto e proprio è un paradiso.
XV
Ecco del tuo fallir degna mercede,
magnanima e vilissima reina:
come Fortuna ogni tua altezza inchina,
per le tue gravi colpe, or pur si vede.
Ecco d'Assiria l'onorata sede
di tanti regi a l'ultima ruina:
che 'l tempo faccia alfin crudel rapina
de le maggior grandezze, or pur si crede
Tu l'onor, tu l'impero, e tu la vita,
misera, perdi in un sol giorno, e colpa
sol di te stessa, e l'altrui gloria essalti.
Muzio n'ha gloria, e pregi eterni ed alti;
e mentre ei te d'ogni bruttezza incolpa,
acquista al nome suo loda infinita.