INFORMATIZZ. B. DURANTE

La STORIA DELL'EMIGRAZIONE TRANSOCEANICA può essere studiata attraverso PRODOTTI LETTERARI di un certo rilievo e, per restare in ambito ligure occidentale, pure attraverso un efficace resoconto giornalistico del ponentino EDMONDO DE AMICIS quando con una discreta perizia emozionale, e senza eccessi retorici (comunque in maniera sempre inferiore a come ALEARDO ALEARDI affrontò il problema dell'EMIGRAZIONE INTERNA E GIROVAGA ed ancora la poetessa ADA NEGRI nuovamente quello degli SPOSTAMENTI TRANSOCEANICI) affronta la QUESTIONE DELL'EMIGRAZIONE in un resoconto della sua opera IN AMERICA di cui si fa seguire la sarcina di specifico interesse per l'argomento:
"...Ha fatto bene a venirci a trovare", dicevano toccandomi una spalla o stringendomi un braccio. "Venga a bere un bicchiere nelle nostre baracche", e mentre i più vicini parlavano, i lontani, immobili, sporgevano il viso per sentire e tenevan gli occhi fissi su di me, con una certa espressione di stupore, come se la presenza di quel concittadino arrivato di fresco dalla patria svegliasse in loro dei ricordi, dei pensieri nuovi e confusi; come se avessero qualche cosa nell'animo che avrebbero voluto ma che non osavano o non sapevano dirmi.
Passai qualche giorno tra di loro, girando di casa in casa. E intesi delle autobiografie meravigliose d'EMIGRATI passati per la trafila di cento mestieri - sguatteri, barcaroli, coristi, portinai, agricoltori -; d'altri che avevan corso AVVENTURE, di alcuni che arrivati in America miserabili e già vecchi, avevano con coraggio ricominciato la vita e creato una nuova famiglia. Parecchi anche mi fecero dei racconti drammatici di fughe da lontane colonie fallite, viaggi di centinaia di miglia a piedi, con le donne, i bambini, gli animali sotto il flagello di piogge implacabili o travolti da terribili uragani. Pochi, non pochissimi, erano riusciti a mettere insieme in dieci o quindici anni delle piccole PROPRIETA'... perché anche là, in quella che si chiama la terra delle avventure, la vince quasi sempre la volontà pertinace.
...Questi sono i ricordi che riportai dal mio viaggio in America. Toccar la questione economica dell'emigrazione non è mio ufficio, né qui sarebbe il luogo e l'occasione. Il fatto è questo: che l'emigrazione esiste e mentre le autorità discutono le migliaia di persone partono.
Vi è comunque un desiderio da esprimere, da cui nessuno può dissentire, ed è che il governo nostro faccia quanto è in potere suo perché questa vasta emigrazione, ch'egli non può prevenire e intralciare, proceda ordinata, sovvenuta di consiglio alla partenza, non ammontata su piroscafi come zovorra umana spregiata, protetta all' arrivo dagli abusi scellerati dei trafficanti della miseria, onde, se non altro, non si faccia sperpero di questo sangue che fugge dalle arterie della patria.
Questo è a desiderarsi, e non solo per ragione d'umanità, ma perché quando la storia dell' America pagherà solennemente il debito di gratitudine all'opera gigantesca dei coloni italiani, sarebbe troppo doloroso per la patria loro il ricordare di non aver fatto nulla per acquisire il diritto andarne altera. Ho detto: debito di gratitudine. E con questo sentimento, terminando, io mando un saluto a quei prodi lavoratori lontani che allargano con l'aratro i confini del mondo civile, e alle loro donne valorose, a cui l'abbandono della patria ha spezzato il cuore, ma non intiepidita la carità, né sfibrato il coraggio.
[ARCHIVIO FOTOGRAFICO MUSEO DELLA CANZONE DI VALLECROSIA]















EMIGRANTI
[POESIA DI ADA NEGRI]
Sul gelido registro del Notturno
Asilo, trema la tua mano grossa,
tracciando il nome: Paolo Gibilrossa,
muratore, lombardo. E taclturno
mi guardi, con quegli occhi così amari
nella faccia di bronzo; e attendi. Anch'io
scrivo, se vuoi, sotto il tuo nome il mio:
"Ada Negri, poeta". Ecco. Siam pari.
E questa casa, ch'è d'ognun, mi senti,
compagno?... è nostra.
Hai sonno. Hai freddo. E' lunge
la patria. Per l'angoscia che ti punge
più che pel freddo, forse, batti i denti.
La vecchia storia sempre nuova io tutta
leggo nei solchi e solchi che ti scavano
il volto, e nella dura orbita cava
degli occhi, ove ogni luce par distrutta.
Porti, nel sacco a spalla, ogni tuo bene;
ma raccolto sul petto aver vorresti
il tuo bambino, e dargli, se si desti
e pianga, un bacio, e il sangue delle vene!...
Non vedi?... Dalla porta spalancata
entrano, a gruppi, taciti fratelli.
Hanno donne per mano, hanno fardelli
sul dorso, hanno la fronte umiliata.
Tutti di qualche patria esuli figli
sono, e in cuore ne portan crocifisso
il rimpianto; e di notte, a buio fisso,
i lor fardelli sono i lor giacigli.
E tutti vanno e vanno, e dopo giorno
è sera, e dopo notte è l'alba, e lunge
la casa è sempre più; sol la raggiunge
il cuor, che sa la strada del ritorno.














Il 14 novembre 1812 nasceva a Verona il poeta ALEARDO (propr. Gaetano Maria) ALEARDI.
Studiò a Padova dove conobbe il PRATI col quale s'iniziò alla poesia e agli ideali del Risorgimento. Nel 1848 fu inviato da Manin a Parigi per sollecitare aiuti a Venezia; tornato in Italia, nel 1852 fu carcerato a Mantova e, prosciolto, nel 1859 fu di nuovo arrestato e inviato a Josephstadt, in Boemia. Liberato nel 1860, fu eletto deputato. Insegnante dal 1864 nell'Accademia di belle arti di Firenze, nel 1873 fu nominato senatore.
La sua fama di POETA di punta del SECONDO ROMANTICISMO LANGUIDO E SENTIMENTALE, dopo i primi tentativi, si affermò nel 1846 con le Lettere a Maria e crebbe con il patetico e alquanto lezioso idillio Raffaello e la Fornarina (1855) e ancor di più con in canti che, in certo modo partendo da Foscolo e precorrendo Carducci, evocano il passato storico e preistorico d'Italia: Le antiche città italiane marinare e commercianti (1856), le Prime storie (1857) e Un'ora della mia giovinezza (1858), ai Sette soldati (1861), al Canto politico (1862), ai Fuochi dell'Appennino (1864).
Di tutta la sua opera poetica il periodo della maggiore fortuna è segnato dalla raccolta in un volume di Canti (1864).
Seguì rapido il declino, con attacchi violenti della critica (Imbriani, Carducci) e con il venir meno di quel gusto della fierezza storica, velata di languore, che Aleardi aveva interpretato non senza un'acuta sensibilità ritmica e a tratti fantastica.
Morì a Verona il 17 luglio 1878.
La sua opera lirica più celebre resta comunque il poemetto il
MONTE CIRCELLO (624 versi endecasillabi) del 1856 che, per quanto privo delle valenze sociali che un tempo gli si vollero accreditare (in realtà vi si individuano la tematica tardo-romantica dei dolori e una certa vena fantastica che denuncia una sensibilità preparnassina) costituisce forse senza esplicità volontà dell'autore un DOCUMENTO sul significativo STAGIONALE PROCESSO MIGRATORIO di poveri lavoratori salariati nell'area fertile ma contaminata dalla malaria delle Paludi Pontine.
Sul MONTE CIRCELLO scrisse Aleardi: "roccia calcare in massima parte, onde si trae marmo ed alabastro, è collocato all'estremità occidentale delle Paludi Pontine. E' l' l'antico Capo di Circe".
Del poemetto sono soprattutto famosi i versi qui riportati (148-191) in cui il poeta descrive la tragica esistenza dei mietitori delle PALUDI PONTINE su cui ancora l'Aleardi ha lasciato la seguente nota poetico-documentaria:"Le Paludi Pontine compongono buona parte dell'Agro Romano, lunghe circa trenta miglia da Cisterna a Terracina; larghe meglio che venticinque da Sezze a Monte Circello. Secondo Plinio, ivi erano ventitrè citta, oltre a innumerevoli ville. Ora la mal'aria tiene spopolata quella vasta pianura, la quale in molte parti è feracissima. I soli Sabini e gli Abruzzesi, sfidandone le febbri mortali, ardiscono scendere dai loro monti per guadagnarsi un pane colà al tempo della mietitura. La miserabile condizione di que' mietitori è dipinta energicamente dalla risposta, che mentre io ero a Terracina, mi dicevan data a un viaggiatore. 'Come si vive costì?' chiese questi passando. A cui l'Abruzzese: "Signore, si muore'".



IL MONTE CIRCELLO
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Vedi la quella valle interminata
che lungo la toscana onda si spiega,
quasi tappeto di smeraldi adorno,
che de le molli deità marine
l'orma attenda odorosa? Essa è di venti
obliate cittadi il cimltero;
è la palude, che dal Ponto à nome.
Si placida s'allunga, e da sì dense
famiglie di vivaci erbe sorrisa,
che ti pare una Tempe, a cui sol manchi
i1 venturoso abitatore. E pure
tra i solchi rei de la Saturnia terra
cresce perenne una virtù funesta
che si chiama la Morte. - Allor che ne le
meste per tanta luce ore d'estate
il sole incombe assiduamente ai campi,
traggono a mille qui, come la dura
fame ne li consiglia, i mietitori;
ed àn figura di color che vanno
dolorosi all'esiglio; e già le brune
pupille il velenato acre contrista.
Qui non la nota d'amoroso augello
quell'anime consola, e non allegra
niuna canzone dei natali Abruzzi
le patetiche bande. Taciturni
falcian le messi di signori ignoti;
e quando la sudata opra è compita,
riedono taciturni; e sol talora
la passione dei ritorni addoppia
col domestico suon la cornamusa.
Ahi! ma non riedon tutti; e v'à chi siede
moribondo in un solco; e col supremo
sguardo ricerca d'un fedel parente
che la mercé de la sua vita arrechi
a la tremula madre, e la parola
del figliuol che non torna. E mentre muore
così solo e deserto, ode lontano
. i viatori, cui misura i passi
col domestico suon la cornamusa.
E allor che nei venturi anni discende
a cor le messi un orfanello, e sente
tremar sotto un manipolo la falce,
lagrima e pensa: Questa spiga forse
crebbe su le insepolte ossa paterne.
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