cultura barocca
PELLEGRINAGGI

I SEGNI DELLA FEDE E DELLA MORTE
(Patologie di massa, sanità laica e religiosa: "PELLEGRINAGGI DEVOZIONALI DELLA GUARIGIONE" nel Ponente ligure tra i secoli XIV e XIX)

Come si evince dal titolo stesso, questo contributo ha una giustificazione epocale che trae la sua ragion d'essere proprio nel XVII secolo, quel secolo del barocco che, per alcuni aspetti, si può definire centripeto rispetto alla sequenza delle riflessioni che seguiranno. Nelle celebrazioni in essere, la fine del Millennio è collegata facilmente alle sanzioni spirituali del Giubileo cattolico sì che per una specie di sinergia i due straordinari momenti sembrano speculari. Ciò non è, o perlomeno non è compiutamente nella sostanza storica. E parimenti il Giubileo non può essere soltanto la replicazione cerimoniosa, ed a volte persino stereotipata, di quelle grandi manifestazioni di fede che furono, soprattutto fra '200 e '300, i Pellegrinaggi nei Luoghi Santi, Roma, Gerusalemme o S.Giacomo di Compostela che fossero. Il Giubileo deve essere il pensamento critico di tutto un complesso di atteggiamenti fideistici, un complesso di cui il Pellegrinaggio votivo costituì davvero momento storico-culturale eclatante ma -e questo è importante- non fu l'attimo conclusivo ed estremo in cui si esaurirono tutte le sublimazioni del cattolicesimo. E pur riducendo l'indagine critica alle espressioni popolari di fede si nota quasi subito -seppur dopo una lettura non superficiale- che nemmeno queste manifestazioni di peregrinazione votiva possono essere ricondotte alla sola cifra del "Viaggio ai Luoghi cardine della Cristianità". Il Pellegrinaggio votivo fu un fenomeno variamente sfaccettato che assunse indubbiamente coloriture straordinarie in occasione degli eventi giubilari e nel contesto storico di grandi vittorie -anche storico-politiche oltre che spirituali- della Cristianità ma che tuttavia seguì una variabile tanto estesa di espressioni formali e sostanziali che sarebbe improprio ed anche ingiusto costringerle tutte nello spazio ecumenico del "Viaggio Santo". Per certi aspetti, in Liguria, proprio il '600 -travolto da grandi paure collettive -per la peste, per le invasioni dei pirati turcheschi, per le guerre rovinose e le tante carestie- risultò al centro di questa diversa valutazione del pellegrinaggio. Nel XVII secolo -nel Ponente ligure come in tante altre contrade italiane- si assistette per esempio ad una nuova intitolazione di antiche chiese: di modo che spesso un S.Rocco -protettore delle genti contro la peste e le epidemie- finì per surrogare patroni di più antica tradizione come S.Vincenzo. Allo stessa maniera un S.Giacomo -in parte taumaturgo ed in parte culturalmente connesso alla nuova cultura del pellegrinaggio- sostituì, nella nominazione di alcuni edifici di culto, il "vecchio" S. Cristoforo che pure, come protettore dei viandanti e, a suo tempo, dei cavalieri Templari "custodi" degli stessi viandanti, aveva avuto un sostanziale "momento di gloria" sì da conferire patronato ad ospizi, chiese e "cappelle di via", cioè ai fattori strumentali e in qualche modo trainanti, perchè assolutamente necessari, del complesso apparato dei grandi viaggi nella sacralità. Similmente nel '600 sorsero molti santuari, mariani e non, nel contesto di una diversa tradizione votiva processionale. Senza che il viaggio estremo, quello in Terrasanta, perdesse la sua funzione carismatica e significante, dal '600 la Peregrinatio fidei fu restituita, anche per evidenti ragioni storiche, a quella dimensione primigenia, formale ed effettuale, che era diventata in apparenza una variante. Il "grande viaggio della fede" era stato un fenomeno epocale, storicamente iscritto ai registri storici del XIII-XIV secolo: esso non inaugurava però una peculiare espressione religiosa. Antecedentemente, all'epoca della civiltà medievale e curtense, quella degli spazi chiusi e degli scambi interrotti, la manifestazione coreografica della fede non aveva affatto ignorata la cifra della Peregrinatio. Questa però era mediamente orchestrata, da secoli, sulla topografia angusta della villa e della pieve, della chiesa di valle a fronte dell'impianto demico, del sito sacrale, eretto in qualche modo a santuario, cui era attribuita una particolare valenza. Molto spesso questo pellegrinaggio locale spaziava su minime aree geografiche e tante volte era finalizzato a scopi non così altamente spirituali come avrebbe poi suggerito la filosofia del "Viaggio di fede" dal XIII secolo. Era però un pellegrinaggio -per così dire- alla portata di tutti, a tal punto ramificato da non lasciare, a volte, tracce architettoniche o documentarie. Esso avveniva da sempre e per sempre sarebbe avvenuto. In uno dei casi più emblematici si trattava dei "Pellegrinaggi di fede per la guarigione". Essi avvenivano da epoche lontane -erano nati ancor prima dei vagiti della civiltà cristiana- ma da questa tali esperienze religiose acquisirono una dimensione organica ed una motivazione catechistica che finivano per interpretare a livelli superiori la primaria esperienza taumaturgica. I "Pellegrinaggi per la guarigione", così intimamente collegati alla tradizione culturale italiana, sono stati abbastanza relegati nel limbo del secondario dalla asfissiante ricerca dei grandi percorsi del sacro. Eppure quella stessa sacralità che esternavano i "Pellegrini di Terrsanta" -come genericamente si definivano i viandanti di fede del '200 anche se avevano per meta, ad esempio, la sola Roma- era propria, per secolari vicissitudini, del credo dei "Pellegrinaggi della guarigione". Per quanto possa sembrare strano l'iridescente barocco costituì una fucina di recupero istituzionale di questa sorta di micropellegrinaggi di fede. Dopo la definitiva perdita della Palestina -e quindi di tutto l'Oriente- saldamente in mano all'Islam ed ai Turchi, il "Pellegrinaggio verso la Terrasanta" decadde a fenomeno di recupero archeologico o a sublimazione mistica di poche esperienze elette, talora guidate da drammatica visione missionaria. Il tornare in Europa, soprattutto nell'Europa cattolica e mediterranea, di peste e invasori islamici -espressioni storiche esorcizzate nella fantasia parareligiosa sin ai limiti della premonizione apocalittica- rinvigorì contestualmente la ricerca di approdi facili, di santuari prossimi ai borghi abitati, lontani da terre deserte ed abitate da predoni. Spaventata -giustamente- e titubante difronte ad eventi impensati nel medioevo -come lo scisma luterano- la popolazione, specie nelle sue frange più semplici, scoprì o meglio incentivò le mai dismesse espressioni di "Pellegrinaggio per lo star bene ed il guarire". Ed ecco allora in tutto il Ponente ligure quel trionfante spettacolo di frequentazione popolare di quelle chiese, cappelle e santuari a volte costruiti ex novo ma spesso eretti su siti in cui la tradizione -si dica pure una tradizione che affondava in vari aspetti delle antiche fedi precristiane- aveva individuato la persistenza di aree sacrali taumaturgiche o apotropaiche. Il brillante Giovanni Meriana, autore dei migliori e più estesi contributi sui "Santuari Liguri"(1) ha anche affrontato il tema di quelli connessi all'acqua lustrale e taumaturgica. All'interno delle specifiche storie di numerosi santuari liguri lo studioso ha poi costruito uno schema interpretativo che lo ha appunto guidato -in sintonia con parecchi altri studiosi- a progettare un meccanismo di interazioni fra i siti eletti onde erigervi edifici cristiani ed i relitti, mai sopiti, di una spiritualità pagana connessa al culto dei boschi e dei luci, delle zone solitarie e rocciose, soprattutto di quelle "fonti terapeutiche" che ai tempi dell'Impero romano, pur essendo un prestito della religione celtica delle Matres, costituivano una vigorosa alternativa, di forte ascendenza popolare, alla molle religione di stato. (2) Il Meriana sempre lucidissimo, sulla soglia di un'affermazione quasi scontata, l'ha poi, con sorpresa di chi legge, demotivata quasi di colpo, determinando -con un procedimento linguistico e logico che recupera le procedure dalla fisica e dalla chimica- un'accelerazione dell'entropia. Non entro nelle ragioni dello studioso, di cui non sembrano mai disconoscibili nè la competenza nè la serietà. Credo tuttavia che non sia irrilegioso affermare quanto è tradizionalmente sostenuto dall'etnologia comparata: non penso che coniugare col cristianesimo delle origini una lotta al paganesimo che spesso fu sconsacrazione nell'apostolato ma che finì per essere anche assimilazione nella liturgia risulti blasfemo. Senza ricorrere al magistero di Gregorio Penco (3) una semplice indagine comparativa che proceda da Gregorio Magno ai movimenti monastici benedettini e giunga sin al XII-XIII secolo suggerisce su un piano geografico estesissimo le sovrapposizioni cultuali di fatto documentabili fra stazioni pagane ed aree religiose cristiane: e di ciò si son fatti carico -con esauriente documentazione- vari studiosi moderni(4). Peraltro lo stesso Meriana nel passo citato elenca con intelligente minuzia quei santuari che a suo dire potrebbero esser stati connessi con una sottile continuità dell'universale religione delle acque. E metodicamente elenca, nel genovesato, i santuari dell'Acquasanta di Voltri, della Madonna dell'Acqua in Valbrevenna, delle Tre Fontane di Montoggio, della chiesa di Apparizione, a N.S. del Bosco a Lumarzo,a Montallegro. Cita quindi nell'area di La Spezia, Nostra Signora dell'Acquasanta a Marola e quindi nel savonese segnala la Madonna della Misericordia ed il santuario del Deserto. Per quanto poi concerne il Ponente ligure menziona ancora Nostra Signora della Neve a Triora, la Madonna dell'Acquasanta a Dolcedo, la Madonna dei Fanghi a Pieve di Teco ed inoltre Nostra Signora dell'Acquasanta a Montalto Ligure. Rassegna che sarebbe stata interessante e utile per sorreggere l'assunto che il Meriana non ha poi fatto suo. Assunto che peraltro avrebbe tratto ulteriore energia da una ancor più esaustiva inchiesta sul Ponente estremo di Liguria tenendo conto, per esempio, che il Santuario di Nostra Signora delle Grazie ad Isolabona fu storicamente connesso alla fruizione d'una fonte termale, detta "Gonteri", che l'Assunta di Castelvittorio di val Nervia fu chiesa romanica benedettina eretta ad Lacum Putidum nei pressi d'una base termale in cui si riconobbero evidenti tracce di frequentazione cultuale romana, che ancora la "chiesa della Rota" -parte sostanziale dell'annesso ospedale per pellegrini del XIII secolo- fu edificata non lungi da un'altra meno nota fonte termale (5). Tutto ciò senza menzionare altri casi evidenti del Ponente Ligure: e tenendo sempre fermo il rilevante significato di continuità cultuale tra mondo celto-ligure fortemente romanizzato ed ambiente cristiano-medievale che, come ha dimostrato padre Avena Benoit, in vari modi -anche sotto il profilo archeologico- si legge, neppur lontano dal terminale di val Nervia, nella chiesa brigasca di Nostra Signora delle Fontane(6). Sulla linea di un riconoscimento -fortunatamente effettuale ai giorni nostri- di quella spiritualità metastorica che si coniuga con un anelito sostanziale verso il divino, non sembra affatto irriverente ammettere che, nell'interminabile succedersi di culture e tradizioni spirituali, nella coreografia cristiano-cattolica ligure siano filtrate innocue positure delle religioni preesistenti. Del resto in vari casi quegli edifici religiosi erano accompagnati da un ospizio, da un elementare luogo di cura. Sarebbe davvero risultato illogico ed impopolare che la gerarchia ecclesiastica negasse all'opinione pubblica quanto era bagaglio di una tradizione che comunque non nuoceva, del buon senso e soprattutto di un'elementare, ma solida, tradizione curativa popolare: che cioè fosse vantaggioso curarsi con acque cui, peraltro, indagini biochimiche contemporanee -come nel caso della fonte ad Lacum Putidum- hanno riconosciuto sostanziali potenzialità terapeutiche. Eludendo comunque queste dissertazioni sulla genesi di siffatte chiese -disquisizioni che corrono troppo spesso il rischio d'apparire inutili esercizi d'ermeneutica- è sostanziale il fatto -confortato da indagine storica ed approfondamento etnografico- che la cultura popolare e una ritualità cattolica fortemente marcata di folklore, nei secoli scorsi, hanno individuato in tali luoghi di culto dei veri e propri "Santuari della guarigione". E questo -in modo eclatante- si scopre specialmente nel XVII secolo, tanto nella rivisitazione architettonica delle chiese che del loro significato ideologico e spirituale: basti per ciò l'esempio di "Nostra Signora della Muta di Dolceacqua", già parte di una struttura conventuale benedettina di matrice novaliciense, nel XVII secolo trasformata dagli Agostiniani, cui ne era passato il controllo, in un "Santuario della guarigione" collegato ad una miracolosa sorgente terapeutica di cui avanzano tuttora resti significativi (vedi I SCHEDA CRITICA a fine del presente saggio). Queste chiese e santuari, che vivevano in simbiosi con sorgenti ed acque termali, erano e, in parte sono, "segni della fede" eretti, ampliati, abbelliti, ornati di ex voto in concomitanza con grandi manifestazioni patologiche, soprattutto con le due principali cause storiche di panico e mortalità di massa: la peste bubbonica per quanto concerne il periodo che va dal XIV al XVII secolo ed il colera relativamente al XVIII e XIX secolo. Nella continuazione di questo lavoro -sul prossimo numero- pubblicando (con le dovute integrazioni critiche) il manoscritto inedito di un medico-ricercatore operante tra Ventimiglia e Perinaldo a cavallo del '700 e del primo '800 si avrà direttamente occasione di leggere il peso attribuito dalla scienza di quel tempo ad una pur elementare idroterapia. Era una forma di cura che la povera gente poteva esercitare quasi soltanto presso questi luoghi di culto. Ben sapendo quanto fosse importante per difendersi dal colera bere (e comunque utilizzare per vari scopi, comprese le abluzioni) acqua pura come quella che sgorgava presso le fonti di siffatte chiese, è ben evidente -come si evince dalla lettura del manoscritto appena citato- che davvero, non solo secondo l'opinione della gente comune ma anche per il giudizio di medici ancora in possesso di armi limitate contro il colera, quelle chiese meritassero, alternativamente, gli appellativi di "Santuari della guarigione" e di "Segni della fede". Per quanto possa sembrare prosaico, ci perdoni il Meriana che ha spesso slanci di autentica spiritualità e d'un invidiabile convincimento, le processioni a siffatti simulacri della speranza erano periodicamente sancite da grandi tributi d'affetto orchestrati sì dalla liturgia ma in massima parte permeati di umanissimo pragmatismo: la ricerca dell'estremo bene terreno, il "guarire" o, comunque, lo "stare in apprezzabile salute". Anche se, per postazione ideologica e pregiudizio intellettuale, piace talora illudersi su straordinari, collettivi slanci esclusivamente fideistici, la massa fu mediamente spinta, come in minor misura lo è tuttora, a questi pellegrinaggi verso "Santuari della guarigione" dalla giustificata, compassionevole volontà di guarire o comunque dissipare da sè o dal corpo dei propri cari il lugubre "segno della morte": e per guarire bisognava sì credere e pregare, ma non bastava, bisognava soprattutto bere l'"acqua miracolosa" dei "Santuari della guarigione"(7).

I SEGNI DELLA MORTE
Ogni epoca ha avuto i suoi "Segni della fede", i fari di quella speranza, che è poi parte ineliminabile della fede. Purtroppo ogni epoca -anche la nostra- ha avuto -ed ha- i suoi "Segni di morte": a volte sono risultati degni di bolge dantesche, con l'accumulo di cadaveri putrescenti e insepolti, in altre circostanze son stati pietosamente mascherati in qualche appassita bellezza, come nel caso della madre di Lucia, la bimba falciata dalla peste nei Promessi Sposi. La sostanza non cambia: piccoli o grandi che fossero quei "Segni di morte" portavano alla disperazione, alla follia delle coscienze. Contro di essi si poteva combattere solo appellandosi, quando i medici -come quasi sempre accadeva- erano impotenti, a un simulacro da venerare, a un'acqua da bere, ad un "Santuario" presso cui altri erano guariti -o così si diceva, credeva o sperava- od ancora ad un uomo straordinariamente caritatatevole, quasi sempre un religioso destinato a diventare santo, morendo della morte da cui aveva salvato altri: e questa non è solo figura letteraria, in maniera speculare -ma nella realtà- al manzoniano Fra Cristoforo, che concilia corpi e spiriti col volto segnato dalla morte, si oppone l'ottocentesco Padre Santo di Camporosso che tra i colerosi del porto di Genova correva instancabile, lui che per tutti era un "segno della fede" che guarisce ma che, fingendo di ignorarlo, a sua volta portava ormai un "marchio di morte". Un elenco ragionato dei "segni della morte" che contraddistinsero le grandi patologia dal XIV secolo sin all''800 può essere un modo per recuperare la drammatica di vittime impotenti di fronte al male e contestualmente scoprire la gran forza che ad esse conferiva la possibilità d'accedere entro un meccanismo liturgico alla fruizione di qualche "Santuario della Guarigione". A proposito della prima, ma non unica epidemia di peste bubbonica, quella del 1347-1348 (nel '49 a differenza che per il Piemonte non era più attestata nel Ponente ligure) la mancanza di drammatiche relazioni entro documenti originali fu dovuta al fatto che le autorità, fra incomprensione e paura, non vollero sollevare il panico sulle popolazioni già depresse da gravi eventi ambientali e bellici. Tra le varie calamità che precedettero la peste bubbonica, si menziona nel 1230 una siccità di otto mesi che rovinò i raccolti e fu causa di grave carestia. Nel 1330 si ebbero piogge e alluvioni sì che molti campi furono spazzati via dalle inondazioni e le sementi andarono disperse. Nel 1339 sopraggiunse un'invasione di locuste, probabilmente arrivate dalle coste africane sulla scia di una stagione ventosa: un certo recupero pareva avvenire se di colpo le piogge del 1345-6 non avessero aggravata la situazione. Poco prima della peste del 1348, secondo documenti letti da G. Rossi, si sarebbe manifestato per queste contrade un indecifrabile morbo epidemico che dapprima colpì i gallinacei per poi falcidiare i bambini piccoli ed i lattanti: esistono dati insufficienti per stabilire la correlazione dell'epidemia, forse generata da un morbo aviare trasmissibile all' uomo. Notizie più precise riguardano la morte nera di poco oltre metà '300, quella che Hecker ed Heser han dimostrato esser stata la prima manifestazione di peste bubbonica in Europa e che sarebbe stata portata dai Tartari in Crimea e successivamente dai ratti, che infestavano le navi genovesi, nell'Occidente europeo. Approdata a Messina la malattia si estese all' Italia (ove morì presumibilmente più di un terzo della popolazione) e quindi giunse in Francia e Provenza, donde penetrò nelle valli del Ponente ligure. Le manifestazioni cliniche, per la concezione che nell'epoca si aveva della malattia risultavano sconvolgenti agli occhi dei medici incapaci -per limiti culturali e diagnostici- di qualsiasi terapia: si ricorse ai salassi, all'assunzione di erbe e pozioni erroneamente ritenute profilattiche , in particolare i medici per non essere contagiati visitavano i malati tenendo davanti alla bocca una spugna imbevuta di aceto, espediente ritenuto, naturalmente a torto, di una qualche utilità contro le incomprensibili esalazioni pestilenziali. Generalmente in 2 - 5 giorni sopraggiungeva in quanti eran stati contagiati, o dalle pulci del ratto o da individui malati per via di ectoparassiti, una febbre altissima, quasi concomitante alla comparsa di linfonodi: la violenta reazione infiammatoria, susseguente al processo di fusione dei linfonodi, generava la formazione di un "bubbone", frequentemente localizzato in sede inguinale e capace di raggiungere la dimensione di un'arancia. Gli appestati se per cause naturali non resistevano al morbo, conseguendo poi una buona immunità (dai pochi che ebbero tale ventura derivarono poi i "monatti" di manzoniana memoria) eran destinati alla morte, che giungeva dopo un periodo di gran sete e disidratazione, spesso congiunte ad uno stato stuporale o confusionale. La peste del '48 doveva esser stata terribile se dopo dieci anni ancora gran parte del territorio agricolo del contado intemelio era in crisi: secondo alcuni interpreti il morbo sarebbe stato introdotto dalla Provenza mentre altri, tenendo conto dei commerci centralizzati sul porto canale di Nervia, ipotizzano un contagio portato, come nel caso di Marsiglia, da qualche nave genovese, sì da sostenere non senza fondamento che il Male sia risalito per le vie del Sale e la valle del Nervia fin nel Basso Piemonte dove peraltro si manifestò un anno più tardi che nel resto d'Italia, verso il pieno '49. Dal martirologio trecentesco, che il Rossi scoprì nella cattedrale ventimigliese, si apprende che l' epidemia dapprima era giunta nella valle (1347) e successivamente in Ventimiglia (20 aprile 1348) e quindi nelle sue ville, dove si sarebbe conclusa un anno dopo (1349) rispetto a Dolceacqua, Pigna ed altri borghi: in assenza di barriere sanitarie la diffusione del morbo procedeva quindi sulle linee commerciali e questa anticipazione di contagio in val Nervia sembrerebbe da collegare all'intensità di mercanti da terre lontane che vi giungevano, in numero superiore che a Ventimiglia città murata, procedendo per la via di sublitorale o risalendovi dopo esser giunti per mare all'approdo di Nervia. Negli agri vallivi, a differenza che a Ventimiglia e nell'area marinara di Bordighera, si viveva soprattutto di agricoltura e zootecnia; le terre inaridirono presto perché la popolazione temeva, lavorandole, di esporsi al contagio: divennero deserte anche le bandite dei pastori, si arrestò la transumanza, molti animali rimasti senza cure o morirono o, fuggendo, ritornarono allo stato selvatico. La peste a Dolceacqua dovette peraltro avere esiti terrificanti: Girolamo Rossi pubblicò nel testo originale latino l' unico documento davvero importante sull'epidemia in val Nervia: era una "Sentenza arbitrale tra Ruffino vescovo intemelio, i canonici della cattedrale e la comunità di Dolceacqua" (25 settembre 1358) motivata dalla risoluzione di controversie fiscali (il Vescovo non percepiva da anni il censo o decime dovute dalla comunità alla Cattedrale ed aveva interdetto dal culto abitanti di Dolceacqua: questi al contrario adducevano l'impossibilità di corrispondere il dovuto per la gravissima situazione socioeconomca che persisteva ancora 10 anni dopo la fine dell' epidemia). Il notaio Vivaldo Rubia, nel palazzo episcopale di Ventimiglia, alla presenza del Vescovo, dei Sindaci e Procuratori di Dolceacqua oltre che di testimoni di rango, redasse dopo il vespro la conclusione pacifica della vertenza. Per descrivere la grave situazione del borgo egli annotò "...dal giorno della mortalità portata dalla peste, che devastò grandemente le terre tutte del mondo ed in particolare i luoghi di Dolceacqua nell' intiero anno 1348.....ed anche a riguardo delle guerre e delle liti che, durante il persistere della controversia [col Vescovo], sorsero tra detti uomini di Dolceacqua sì da favorire il nemico che fomentava le discordie, di modo che detti uomini diminuirono in numero ed in beni, poiché a ragione della loro miseria e povertà non furono in grado di versare il reddito dovuto [al Vescovo] né possono versarlo ora e tantomeno potranno in futuro pagare i menzionati seicento quartini di frumento, mentre gli stessi uomini di Dolceacqua, per la miseria e la mancanza di gente nei campi e per l'aridità delle terre che coltivano, le quali peraltro danno pochi frutti se non e spesso alcun frutto, a malapena sono in grado di sostenere se stessi ed il vitto dei congiunti...". Non esiste la necessità di commentare questo quadro disastroso di morbo e carestia: lo stesso Vescovo di fronte ad inoppugnabili testimonianze dovette ridimensionare la pretesa di decime che da secoli la sua chiesa raccoglieva nel territorio dolceacquino. Egli rinunciò ad esigere il frumento di produzione locale [300 mine] ed accettò il pagamento delle decime secondo un nuovo canone, per cui ad ogni "mina" venne dato il valore di un fiorino d' oro. Concordate le parti in Dolceacqua fu salvato il patrimonio delle sementi (dato il rincaro del grano conveniva versare denaro liquido secondo il valore teorico che il prodotto aveva prima della pestilenza): gli abitanti del borgo poterono così rientrare nella Cristianità, essendo stato tolto l'interdetto, sì da cominciare a rivivere i sacramenti e l'ordinaria vita socio-comunitaria degli Ordinamenti ecclesiastici. I Francescani acquisirono grandi meriti pei soccorsi portati alle popolazioni derelitte sia di Ventimiglia che dei centri rurali delle ville come dell'entroterra e vennero presto gratificati di gran seguito e varie donazioni: il Rossi sostenne al riguardo che grazie a ciò essi avrebbero potuto erigere in Ventimiglia una più ampia casa conventuale anche se a parere di ricercatori più moderni si va sostenendo che con quei donativi i Frati minori avessero semmai ristrutturata la Casa in cui già vivevano ed in cui risulterebbero ancora visibili facies di interventi architettonici di rammodernamento. La II metà del 1300, come testimoniano il calo demografico e l' abbandono di alcuni siti, fu caratterizzata da altre grandi paure che condizionarono vari atteggiamenti culturali. Al primo posto, fra i terrori estranei ai contagi ed alla lebbra, nel medioevo e nell'età intermedia si collocava il timore delle carestie e della fame; documento utile risulta al riguardo una pergamena contenente una sentenza di concordato fra Imperiale Doria ed i Procuratori del Comune dolceacquino del 31 maggio 1364. Oltre a varie norme conciliatrici, che permettono di intuire come addirittura 15 anni dopo la grande peste se ne dovessero riparare i danni ambientali , si legge che il Doria era tenuto a concedere libertà di commercio ai suoi sudditi con la sola eccezione del tempo di carestia. Per intendere giuridicamente il concetto di carestia il notaio e cancelliere Raffaele di Casanova precisò "che si giudica carestia ogni volta che una mina di grano costa in detta terra di Dolceacqua due fiorini d'oro o più di tal prezzo". In poche parole si apprende che il Signore aveva facoltà di interdire le attività commerciali solo in ragione di emergenze assolute: contestualmente si nota che Dolceacqua in tempi normali produceva beni per commercio ed autoconsumo. Nel documento si ricordò la consuetudine signorile di rinchiudere nei magazzeni del castello il vino e le vettovaglie in casi di assedio o carestia: fermo restando l'obbligo, appena finita l'emergenza, di restituire subito i beni ai legittimi proprietari. Dopo il "terrore di pesti e fame" veniva quella "delle malattie contagiose ed endemiche". Fra le patologie endemiche la lebbra, dovuta ad ingestione di cereali di bassa qualità ed a pessime condizioni esistenziali ed ambientali, aveva iniziato a regredire in Europa proprio da questo periodo, anche se l'esistenza a Ventimiglia di un hospitalis per leprosi intitolato a S. Lazzaro e l' ordinanza delle autorità di Dolceacqua che i lebbrosi sian separati dal popolo affermano che il vecchio terrore per il morbo fosse ancora vivissimo. L'impaludamento del porto canale sul Nervia e sul Roia, il proliferare di canneti selvatici (come nell'area di Bordighera ma anche alle foci di Nervia e Roia, specie nel sito dei "Paschei" area dell'attuale casa comunale di Ventimiglia ed ancora non lungi dalla chiesa vallecrosina di S.Rocco, nell'area bonificata solo a metà '700 detta di "Piazza d'armi") l'ignoranza delle tecniche romane sulle arginature di acque fluviali avevano determinato la riproduzione della zanzara anofele. Sia la malaria maligna (terzana continua) che la benigna (duplicis o triplicis) vennero citate fra le cause di morte, anche se a volte si alluse solo ad "inspiegabili febbri": le comunità non furono tuttavia molto spaventate da questo pericolo, anche se le norme pubbliche ribadivano l'utilità di canalizzare le acque e prosciugare i luoghi paludosi. L'ergotismo o "fuoco di S.Antonio" nel XIII-XIV sec. risultava assai temuto: il male dipendeva da un'alimentazione di farina di segale e di sorgo contaminata dal fungo simbiante della Claviceps Purpurea. Le manifestazioni dell'ergotismo erano così gravi da sgomentare chiunque: sia nella forma convulsiva con terribili dolori che in quella cancrenosa, con necrosi di volto e arti. La presenza di monaci antoniani nell'estremo Ponente ligure coincise con l'evoluzione colturale della segala (XII - XV sec.): questo Ordine preposto alla cura del "male ardente" fu spesso favorito dai patrizi locali (non si dimentichi che la parrocchiale di Dolceacqua è evoluzione di una cappella feudale dedicata a S.Antonio dai Signori del luogo e che i Conti intemeli eran votati a S. Antonio ed avevano lo stemma araldico della lotta contro l'ergotismo). I frati antoniani godevano di alcuni previlegi per la loro attività terapeutica: la concessione più vistosa era la libertà di circolazione pei loro maiali, segnati con il "tau" antoniano o con l'orecchio mozzato. Lo sviluppo dell'allevamento dei maiali in queste terre fu collegato proprio con l'influsso locale delle precettorie antoniane. Il grasso suino costituiva infatti l'elemento base di tutti gli unguenti usati contro le irritazioni erpetiche e cancrenose dell'ergotismo (anche se i religiosi di questo Ordine, a differenza d'altri monaci, caldeggiavano l'abluzione in acque terapeutiche o termali da quella celebre di Lago Pigo a Pigna in alta valle del Nervia, utile contro dermatosi e dermatiti, a quelle di altre numerosi sorgenti, compresa la fonte solforosa che sorgeva non lontano dall' ospedale di N.S. della Rota tra Bordighera ed Ospedaletti). Diversa è a questione a riguardo delle grandi epidemie di peste bubbonica tra XVI e XVII secc. in Liguria. Nel 1564 un terremoto aveva minato Ventimiglia ed il suo territorio. Poco dopo si sparse per la Liguria la peste del 1579/'80 (destinata a un "tragico ritorno" a metà '600) che fece solo a Genova diecine di migliaia di vittime nonostante l'opera di medici che si accostavano ai malati indossando una sorta di tuta protettiva con un bizzarro casco provvisto di una sorta di filtro riempito di sostanze aromatiche, ritenuto erroneamente di una qualche efficacia contro i miasmi pestilenziali. Il Capitanato di Ventimiglia rimase immune dal contagio per la solerzia degli Ufficiali di Sanità ai cui ordini erano le guardie armate ai rastrelli, o cavalli di frisia, disposti su tutte le vie d'accesso e transito onde controllare i viandanti e verificare se fossero o no in possesso delle necessarie lettere patenti, i documenti che attestavano la loro provenienza ed il loro stato di salute. Chi non fosse trovato in possesso di queste certificazioni o non potesse dar prova alternativa del proprio buono stato di salute veniva istradato nel "lazzareto" per la quarantena o in mancanza di questa struttura, peraltro non comune, era rinchiuso in un qualche edificio preposto alla custodia ed alla sorveglianza dei sospetti. Peraltro in tempo di pestilenza, alla minuziosità dei controlli, corrispondeva una notevole severità dei provvedimenti, di modo che quanti cercavano di sfuggire al controllo delle guardie dei rastrelli potevano esser subito passati per le armi e mediamente uccisi ad archibugiate onde evitare qualsiasi contatto fisico: il fuoco appiccato ai poveri resti -compreso l'eventuale bagaglio- avrebbe poi purificato l'ambiente da ogni possibile, ulteriore relazione di causa-effetto con il contagio. In occasione di questa pestilenza del XVI secolo i risultati positivi della profilassi furono in stretto rapporto con la positiva collaborazione fra i vari Stati coinvolti: ed al proposito con le autorità del Capitanato di Ventimiglia, importante emanazione di frontiera della Signoria genovese, collaborarono strettamente, ancor più dei Savoia, i Doria di Dolceacqua ed i Grimaldi di Monaco. Tuttavia, nonostante queste funzionali previdenze, per il comprensibile timore della peste -che viste le tragiche, pregresse esperienze aveva ormai edificato nelle coscienze un vero e proprio teorema degli orrori- la popolazione di tutto l'agro intemelio abbandonò la linea costiera con grave detrimento per le colture, specie nella buona piana nervina: tutti temevano i contagiati di peste che effettivamente, di notte e per via mare, cercavano, anche a costo della vita, di sfuggire all'internamento sbarcando sulle zone meno custodite della spiaggia. Il 26-IV-1580 il Signore di Monaco, Onorato Grimaldi scrisse preoccupato agli Ufficiali di Sanità intemeli che "...quelli di Nizza tengano il male nascosto per conto delli vicini e che sotterrano li morti di notte....". Lo stesso Signore invitava gli Ufficiali di Ventimiglia a star ben attenti a quanto arrivasse dal mare, magari rovesciato o gettato da navi in corsa od in fuga: il suo consiglio era quello di raccogliere con lunghe pertiche il materiale portato a riva dal mare e di non toccarlo assolutamente con le mani ma di provvedere immediatamente a bruciarlo. Le cose non peggiorarono a metà '600 (1656/1657) quando una seconda temibile epidemia di peste, che ancora prostrò Genova e gran parte della Liguria, lasciò immune il territorio del Capitanato di Ventimiglia: nemmeno in questa circostanza però si potè frenare la paura collettiva e la conseguente fuga della gente dai luoghi più esposti, con indubbi danni per la vita di relazione, il commercio e la cura dei campi. A livello popolare la causalità delle malattie, specie delle malattie inspiegate ed ispiegabili e tuttavia iridescenti proprio perchè di conclamata epidemicità, si caricò gradualmente di valenze magiche e di un bagaglio di superstizione che affondava le radici colte nella cultura dell'aretalogia greco-romana e di una medicina popolare antica in base alla quale, con vari espedienti (anche non privi di fondamento come il lavaggio nelle acque termali) si guariva da determinate malattie ma per cui, talora, la malattia era punizione divina per una colpa propria o della famiglia. Da qui, specie nei paesi mediterranei, si sviluppò, a livello di cultura popolare la consuetudine di nascondere, ad opera della famiglia stessa, la malattia di un congiunto, come effetto della malvagità di un demone o di un dio pagano divenuto demone per effetto della cristianizzazione od ancora quale artificio di magia nera praticata da streghe, fattucchiere o masche, specie in caso di patologia inspiegabile come una forma epidemica [ma anche di impotenza a procreare, di tendenza ad abortire, di disturbo mentale specie se conclamato nella forma temibile della melanconia/ melancolia, che era poi la depressione ma che si ritenne a lungo effetto di malefici] od un cancro, la malattia che, per elezione, demoni e streghe avrebbero scatenato contro le loro vittime. Per questa ragione, dopo la graduale scomparsa della lebbra, l'avvento nel XVI di una nuova malattia, la sifilide, seppur per mortalità e forza di contagio neppur lontanamente paragonabile alla peste, finì per acquisire nel giudizio di molti la cifra di una punizione divina (od in altri casi -la distinzione teologicamente parlando resta però minima- l'eziologia di una esplosione di forze demoniache) per i peccati degli uomini. Non si dimentichi peraltro che il '500, se da un lato rappresentò il trionfo del Rinascimento e delle energie creative dell'intelletto umano, sotto un'altra prosettiva comportò il seme della degenerazione e della putredine preannunciate, nelle ricorrenti visioni apocalittiche dei mistici, dalle lotte di religione fra cristiani e dai reiterati conflitti fra due sovrani cattolici, come Carlo V re di Spagna ed Imperatore e Francesco I di Francia che, nell'ottica ecumenica del cattolicesimo romano più ortodosso, avrebbero dovuto costituire un antemurale contro i Turchi e non al contrario favorire, con uno scisma politico che affiancava apertamente la spaccatura religiosa, l'avvento degli infedeli contro una Cristianità mutilata. Il nome "sifilide" (malattia che col suo dirompente "arrivo" in Europa quasi sconvolse i teoremi della medicina ufficiale) deriva dal poema dell'autore italiano Gerolamo Fracastoro cioè Syphilis seu de morbo gallico, Padova, 1530: "Morbo gallico italianizzato in 'Mal franzese' altra denominazione ritendensosi l'infezione introdotta i Europa dagli esploratori francesi delle Americhe: per ragioni pressoché identiche fu anche detta 'Mal napoletano': si cita poi anche la denominazione di 'lue'". La variabilità del nome, che alludeva spesso alla provenienza, era dovuta appunto al fatto che, per quanto si può dedurre dalle prime notizie storiche, la malattia sembrerebbe esser stata importata dalle Americhe e, addirittura, si ritennero responsabili della primitiva diffusione gli equipaggi di Cristoforo Colombo. Il contagio dipende dal batterio Treponema pallidum e la malattia può esser trasmessa alla prole. In effetti essa ha avuto larga diffusione soprattutto nel XIX sec. con conseguenze devastanti fino all'introduzione in terapia degli arsenobenzoli e quindi dei sali di bismuto ed infine della penicillina. Tuttavia anche dalla metà del '500, in Liguria come in tutta Europa, gli effetti della malattia diventarono oggetto di grave preoccupazione della Sanità pubblica. La ragione dipendeva sia dalla patologia complessa, latente e ripugnante del morbo (che effettivamente rimandava a giudizi di possessioni diaboliche tanto che, nell'iconografia cattolica e protestante, alla strega, al mago come al presunto "untore" si conferirono spesso i tratti del sifilitico) sia dal fatto che, vieppiù si diffondeva, sempre maggiormente appariva come una maledizione per le cresciute colpe della lussuria sia ancora per il motivo che, non avendo una storia clinica pregressa, i rimedi elaborati risultavano di volta in volta inutili se non dannosi (9). La peste (che in Liguria come in tutta Italia lasciò tracce iconografiche popolari-religiose a testimonianza di un incubo secolare) non tornò dopo le rovine fatte tra XVI e XVII secolo: questo fu un consistente vantaggio per l'incremento demografico del territorio compreso fra Marsiglia e Genova, senza escludere tutto il Basso Piemonte. Ma i problemi epidemici e le emergenze sanitarie non cessarono: presto la peste venne surrogata da altre pericolose forme di contagio. In particolare, tra '700 ed '800, si segnalò, per il tributo di vittime umane, il colera, una malattia epidemica caratteristica dei paesi asiatici, il cui agente eziologico è il Vibro cholerae asiatique, bacillo dalla forma a virgola. Il contagio avviene attraverso l'alimentazione e dopo un breve periodo di incubazione (3-5 giorni) la malattia si scatena attraverso distinte manifestazioni patologiche (disturbi gastro-intestinali, ipotensione, ipotermia, crampi muscolari, altissima disidratazione) sino ad esiti frequentemente mortali. Il colera fu un incubo per la Liguria nel XVIII secolo e per tutto il XIX : e contro esso non si conoscevano difese efficienti. Quando il pericolo si fece imminente vari Commissariati locali di Sanità (gli organi di pubblica profilassi istituiti dal Regno Sabaudo dal 1814 padrone della Liguria) promulgarono precise ordinanze. Per quanto concerne il Ponente ligure si legge: "La malattia chiamata Collera morbus comparsa la prima volta in Silla nel 1817 sulle rive del Gange ed avanzata d'indi in appresso verso l'Europa, donde minaccia ora d'invadere la nostra bella Penisola è un di quelle malattie contagiose, che con i mezzi della Polizia Sanitaria, si può tenere andarne immune, per i provvedimenti più efficaci, che ha ordinato di porre in opera il Paterno animo di S.M. il Re nostro Signore; pur nel caso che Dio non voglia, d'una qualche manifestazione d'un tal morbo, siccome tende a dilattarsi, ed a cogliere un maggiore, o minore numero d'individui, secondo le disposizioni più o meno salubri della località e degli abitanti così si facciamo con dovere di far noto quanto segue; ben persuasi che l'uomo dabbene e l'uomo religioso, che nutre in cuore nobili sentimenti d'amor Patrio s'assoggetterà ben volentieri all'incomodo delle regole sanitarie, non per temere soltanto delle pene che la legge stabilisce ["R.D. del 1831"], ma per onore, per spirito di dedizione, per la tema di farsi autori della disgrazia degli amici, dei congionti, di coloro in una parola, per cui egli esporrebbe generosamente la vita, dove li vedesse in pericolo. A preservarsi dal Collera morbus conviene prima di tutto evitare le azioni predisponenti al medesimo. Tali sono l'intemperanza d'ogni genere di cibi, o di bevande, e specialmente l'ubbriachezza, le vestimenta troppo leggiere, la sucidezza del corpo, il libertinaggio, il troppo faticare, le veglie protrate, la tristizia, la paura. Conviene non dormire all'aria, specialmente di notte, non usare alimenti pingui difficili a digerirsi, che fermentano facilmente, tali sono... le frutta immature, le bevande, che non hanno finita la loro fermentazione, od acide, o corrotte. S'eviterà l'aria umida, e fredda, quando si è in sudore specialmente. Non si dovranno mangiare frutta immature, né abusare delle matture, come pure delle cose acri come sarebbero l'aglio, cipolla, pepe e simili. Dovrà ognuno mantenere la nettezza, la ventilazione della propria Casa. S'ordina la maggiore polizia possibile in tutti i luoghi abitati, l'allontanamento dai medesimi di tutte le immondizie, e sozzure, che ammorbando l'aria divengono potenti germi d'infessione, e predispongono facilmente a ricevere il morbo contaggioso minacciando serie punizioni ai contravventori. Tutti i viaggiatori, ed i stessi nativi di codesto Comune [il documento riguarda il borgo di Vallecrosia ma è simile nella forma e nella sostanza a quelli promulgati dalle altre municipalità] che trovansi in oggi assenti se vorranno penetrare a Vallecrosia, deggiono in prima provare mercè dei documenti a tale scopo chiesti dalle relative leggi Sanitarie, o di aver subito la loro quarantina, se provengano da Paese infetto, o vero che arrivano da Regione pienamente libera dal morbo. Nessuno potrà perciò essere ricoverato negli alberghi, o case private, senza un permesso speciale della Commissione. Coloro che sono destinati a girare per il paese durante la notte, che dovranno eseguire gli ordini, che dalla Commissione, le verranno imposti. Conchiuderemo col ricordare, che gli uomini inutilmente veglierebbero alla Custodia dei luoghi, se Dio medesimo non gli costodisse. Commissione locale di Sanità /Vallecrosia agosto 1835". Ma il colera rimase in agguato ed ancora nel 1884 il Prefetto di Porto Maurizio inviò ai Sindaci della Provincia le sue ordinanze concernenti i provvedimenti contro il morbo: tra tante rigorose osservazioni meritano un cenno gli inviti a vegliare in modo speciale sulle carni porcine, su tonni, stoccafissi, baccalà, ed altri pesci conservati i quali presentino un'alterazione qualsiasi. Eppure, in un manoscritto di un medico-filosofo del tempo, erano state raccolte tante ricette per affrontare i "segni della morte" che il colera portava con sè: l'opera che, come preannunciato, completerà questo lavoro come sua "Appendice Documentaria" sul prossimo numero è così piena di riferimenti critici, formule, riflessioni di varia natura, registrazioni di atti pubblci sulle varie apparizioni del colera che non si è potuta unire a questa parte del lavoro anche per non dover riassumere o ridurre alcuna parte. Essa costituisce uno spaccato sulla realtà medica di XVIII-XIX secolo alla cui interezza non si può rinunciare sia perché analizza in loco le patologie sia perchè non è dissertazione solo cattedratica che non accetta i suggerimenti della medicina popolare e rigetta nel superstiziosamente vano gli slanci vitali e fideistici di quanti cercavano la vita, anche rischiando il contagio, nelle processioni verso i "Santuari della Guarigione", i "Segni della Fede" allora più ambiti e manifesti o forse, semplicemente, gli unici in cui credere davvero. E proprio a tal proposito -in sintonia perlatro con la prospettiva di inquadramento che ha inizializzato questa indagine- giova ricordare che in tale manoscritto vien citato (come un dato di fatto, senza particolari coinvolgimenti emozionali ma anche senza spocchioso e aristocratico disprezzo per le fragilità dell'ignoranza) un "Santuario della guarigione" (propriamente detto "Patronato contro il cholera morbo") di non antica tradizione ma particolarmente venerato nel XIX secolo. I cortei devozionali all'ormai purtroppo abbandonata e sconsacrata "Chiesa della S.Croce", nel territorio di S.Biagio, su una dorsale della valle del Crosa, provenivano, ai primi del XIX secolo un pò da tutti i paesi del circondario e quindi, verso la metà dell'800, sarebbero addirittura procedute un pò da tutto il territorio di costa, tra Ventimiglia e Bordighera. Il documento, al punto attuale delle indagini, non ha rivelato il motivo di tanta credenza popolare: non vi si parla di guarigioni taumaturgiche ma solo di una fede assoluta nella protezione della Croce, una fede sublimata probabilmente dalla speranza o forse ancora, ma è ipotesi da sussurrare soltanto, dal fatto che la storia religiosa del S. Croce, più correttamente chiamato "Cima della Crovairola", affonda addirittura nella notte dei tempi quale retaggio di più culture, quale area devozionale ove, nel nome della pietà, si intersecarono, attraverso il lento sovrapporsi di secoli e costumanze spirituali, i sogni e le aspettative di una moltitudine di generazioni (vedi qui: II SCHEDA CRITICA)


I SCHEDA CRITICA
IL CONVENTO DI S. MARIA DI DOLCEACQUA
(LE ORIGINI)

Nell'XI sec. un monaco di s. Pietro di Novalesa avrebbe celebrato in una sua Cronaca l'epopea dei monaci di S. Benedetto che, dal cenobio del Moncenisio, si sarebbero sparsi sulle regioni colpite dai Saraceni a recarvi conforto. Quei monaci, fra XI e XII sec., seguendo vie liguri-romane, erano giunti in val Nervia: vi portarono nuove tecniche artigianali e l'olivicoltura. I nobili locali non furono alieni da concessioni: molte carte dell'abbazia son scomparse ma è sopravvissuta la Bolla di Eugenio III (9-II-1151) con cui a Novalesa si confermarono possessi tra Italia e Francia, in Piemonte, Liguria e Lombardo-Veneto (la pergamena rimanda a un atto più antico di Innocenzo II, del periodo fra 1130 e 1143). Tra i possessi abbaziali si legge che in episcopatu Vigintimiliensi i Benedettini tenevano una ecclesiam sancte Marie Dulcisaque. I Benedettini avevano ricevuto il Priorato di Dolceacqua per donazione feudale e lo indicavano con un toponimo latino prossimo all'attuale: i codici principali riportano Dulcisaque: C.M.CIPOLLA, Monumenta Novaliciensa Vetustiora I, Roma 1898, Acta, app.VI = IAFFE', Regesta Pontif. Roman.,I ed. n. 6625, II ed. n. 9549. Il toponimo è in rapporto col dial. Douzaga-Dousaga=doc. del 1186-7, già in Arch.Reale di Torino, Inventario Oneglia, Maro, Prelà, mazzo 31, n.1. In età carolingia l'abbazia di Novalesa, fondata il 30-I-726 dal franco Abbone, godeva splendore come luogo di spiritualità e centro di cultura. A rendere famoso il monastero avevano concorso abati come Eldrado e Frodoino e il fatto che il cenobio sorgeva su un ganglio di traffico alpino, fra regni di Franchi e Longobardi. Nel sec. VIII facevano capo a Novalesa terre e Priorati o monasteri minori: erano diffusi perlopiù in territorio francese stendendosi dalla Casa Madre a Digione e Besançon per giungere, attraverso Vienne e Grenoble, alle case della valle del Rodano ed ai possessi di Marsiglia e Tolone. Fra VIII e IX sec. si spostò l'asse del dominio abbaziale verso la pianura italica: il processo fu imponente dal 926, in seguito all'invasione saracena, quando i monaci si trasferirono a Breme. Dopo i saccheggi la Casa Madre fu ricostruita e, fra X-XI sec., conseguì splendore con l'ampliamento dei possessi italiani, specie nella valle del Tanaro, a compensazione delle perdite in area francese (le cappelle minori del cenobio susino vennero affrescate da un ignoto pittore lombardo mentre la chiesa madre fu ingrandita su nuovo disegno archittetonico). Gli abati acquisirono nuovi Priorati costieri che, come quello dolceacquino, sostituendo i perduti insediamenti navali di Marsiglia e Tolone. A riguardo del Priorato di Dolceacqua per assenza di fonti è arduo identificare il potere che favorì i Benedettini: varie case nobiliari, tra cui il potente casato della Marca Arduinica, rinvigorirono i contadi, resi deserti dalle scorrerie, con lasciti ad Ordini monastici. Così fu per l'abbazia di San Onorato che via, via nell' XI sec. ottenne S.Michele di Ventimiglia e Seborga, terre presso Perinaldo e mulini con campi a coltura lungo il Roia. Anche il Vescovo Tommaso, secondo uno spirito di cooperazione tra Diocesi e monachesimo, lasciò ai frati altre terre, a Carnolese presso Mentone. Il 4-VII-1049 Adelaide di Susa aveva lasciato al monastero genovese di S. Stefano: l'erede della Marca Arduinica cedeva un terreno, coi connotati della Curtis Regia o bene diretto fondiario feudale, a un ordine monastico vigoroso perché lo rinvigorisse: Villaregia era vicina a "Capo Don" e questo era quasi certamente stato, prima che insediamento monastico e paleocristiano, una stazione stradale romana, a guardia delle vie di mare, costa e monte. Adelaide fu prodiga anche verso i Novaliciensi (Cipolla,II, doc. LXX) ma risulta impossibile dire se abbia donato loro l'agro dolceacquino. In linea comparativa con Villaregia si può affermare che la chiesa conventuale novaliciense di S.Maria di Dolceacqua fosse sorta su un'area di antichi insediamenti, tipologicamente vicina alla Curtis Regia longobarda od alla Villa Regia dei Franchi: l'indagine topografica ed archeologica ha comqunque qui identificate le sovrastrutture della corte rustica signorile come sorgenti, campi e rovine, terre ortive e seminative, strade di comunicazione e gangli viari (ed a proposito di questo insediamento dei Benedettini della Novalesa nel ponente ligure è da ricordare la devozione che essi alimentarono in Ventimiglia per S. Secondo). Il tempo ha però stravolto l'architettura del Convento di S.Maria e già nel secolo scorso G. Rossi (Storia del Marchesato di Dolceacqua e dei comuni della val Nervia, Bordighera, 1903, passim) non ritenne di poterne approfondire le vicende: diede solo una scorsa alle ricerche di Carlo Cipolla, che aveva decifrato le carte di Novalesa, né svolse sondaggi sul campo. I resti della chiesa erano ormai risultato di modificazioni del corpo originario dell' XI-XII sec. mentre la chiesa denota tracce di edilizia di tardo XII sec. solo nelle strutture inferiori. Per disegnare la topografia del complesso, senza indagini archeologiche, bisogna rifarsi a dati generali e fonti conservate nella biblioteca-archivio di Novalesa o in rogiti dei notai antichi che lavorarono a Dolceacqua: dopo la Bolla del 1151, la chiesa di S.Maria fu citata in qualche atto privato. Secondo un rogito del notaio di Amandolesio (L.BALLETTO, Atti rogati a Ventimiglia da Giovanni di Amandolesio dal 1258 al 1264 in Collana Storica Archeologica della Liguria Occidentale, XXXIII, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1985) actum in Dulci Aqua il 12-III-1263 aveva due proprietà in morga de Villatalla; a fine secolo divenne nota quale Sancta Maria Motae o de Mota: il nome comparve il 14-V-1293 in atti del notaio Giorgio Bonsignore che accennò ad una terra Sanctae Mariae Motae. I beni dei conti stavano passando al popolo grasso, a mercanti arricchiti o all'aristocrazia di Genova: nel 1230 Fulcone de Castello aveva preso dominio, acquisendola dal Conte Oberto dei Ventimiglia, della rocca di Podium Rainaldi (Perinaldo) e della "villa del Gionco". Lanfranco Burbonino acquistò nel 1255 dai feudatari intemeli metà del luogo e del castello di Dolceacqua: ammiraglio della flotta genovese sarebbe caduto in disgrazia nel 1270 per non aver dato battaglia ai Veneziani a Trapani e, onde pagare una grave multa, svendette i beni di val Nervia (latifondista fu poi Desiderato Visconti che il 6-I-1256 acquistò i beni rimasti indivisi in Dolceacqua). I diritti passarono, tra XII e XIII sec., al Comune di Dolceacqua uscito indenne dagli scontri fra Guelfi e Ghibellini. Il Comune fu citato la prima volta in un atto del di Amandolesio in [BALLETTO cit.] il 29-VIII-1262: era una conferma di Lanfranco Burbonino delle convenzioni fra il Conte Manuele ed i consoli locali Raimondo mulinarius, Roberto Bonanato, Enrico ferrarius e Bonipar de Villa. Non era stato facile per Dolceacqua scuotere il sistema feudale, per quanto in aperta crisi, e nel 1232 il conte Oberto, volendo riaffermare diritti fiscali, fomentò una rivolta contro il Comune di Dolceacqua anche se, in difficoltà per gli eventi, fu obbligato, onde rientrare nel castello , a sottoscrivere altre convenzioni. Nella Storia del Marchesato di Dolceacqua G. Rossi aveva sostenuto che la falda collinare, ove sorge la chiesa conventuale e da cui si domina il castello, fosse stata organizzata con terrapieni, catapulte e ordigni sì da assalire le forze comitali nel fondovalle e dominare il castrum. Terrazzamenti , in linea con lo sperone del castello, sono riscontrabili a fianco della portigliola che dà accesso ad un vano, con volta a botte, alterato da interventi murari recenti, dove si individua ancora, fra archi e nicchie, edilizia di XII-XIII secolo. Se è arduo collegare il terrazzamento agli eventi del 1232, è semplice connettere il toponimo Mota al concetto di assemblea popolare in opposizione alla nobiltà feudale: ciò non preclude l'opinione che il consesso sia avvenuto in un sistema fortificato in osmosi col monastero favorevole all'esperienza guelfa (Rezasco, 640 in BATTAGLIA, U.T.E.T.; sarebbe stato insicuro lo spazio del Parlamento ordinario in Plano Dulcisaque). Da un atto del notaio di Amandolesio (1263, in BALLETTO, cit.) si sa dell'esistenza di una Confraternita dello Spirito Santo o Conflaria, che partecipava alla politica in senso avverso ai Conti; era un'associazione religiosa di mutuo soccorso per uomini e donne appartenenti al popolo grasso di mercanti e artigiani: contribuivano alla vita sociale con doni in natura ad agosto (cereali, grano,avena, segale) ed in ottobre (vino-castagne). La Confraternita era presieduta da Priori mentre i Massari amministravano denari e lasciti, per aiutare i bisognosi, e custodivano i prodotti nei magazzini societari (le celebrazioni sociali, "di fraternità", si tenevano con banchetti nelle feste di Pentecoste e ai primi d'agosto). L' associazione, benché pacifica, si era inserita nella lotta antifeudale portando il contributo di spiccato associazionismo. Il successo dell'impresa ebbe tal rinomanza che il nome dell'assemblea popolare divenne un toponimo ed alla chiesa di S.Maria fu attribuito l' appellativo divenendo S.Maria dell'Assemblea del popolo: alla chiesa conventuale di Dolceacqua poi si attribuirono qualità curative e nel XV sec. la "Beata Vergine sarebbe stata denominata della Muta per il fatto d'aver restituita la favella ad una muta fanciulla" forse Caracosa figlia di Enrichetto Doria, moglie di Ceba Doria dei Signori di Oneglia e madre di Andrea Doria ammiraglio, "Restauratore" della Signoria dopo l'occupazione dei Grimaldi [però in un rogito di Giorgio Bonsignore (14-V-1293) era già comparso il toponimo "Terra Sanctae Mariae de Mota" e altre volte si sarebbe letto questo nome nei documenti ben prima della vicenda di Caracosa: la favola in realtà fu quasi certamente pianificata dai Doria perché Enrichetto era stato definito "pagano" avendo rapito ai Benedettini il convento per impossessarsi delle sue terre (l'espediente miracolistico riavvicinò quindi ai Doria il popolo: Sommario di alcuni miracoli operati dalla Beatissima Vergine della Muta di Dolceacqua, Marchesato degli Eccell. Signori Doria, Diocesi di Ventimiglia, in Carmagnola, per Buggio Cayre, 1687 = Caffaro, 18-19 maggio 1898). Nel '500 Motta (dial. mòta) pareva inspiegabile anche se già aveva una storia europea: derivava dal lat. volgare motta, *mutta da *mut, "sporgenza", voce del sostrato mediterraneo accostato al lat. movita. Di stesso tipo sono il francese mota, "altura, rialzo" ed il francese antico mote, "fortezza costruita su un' altura"(sec.XII): così è per il tedesco Gemote e l'inglese moot. In vari toponimi, come per S.Maria della Mota , si assiste alla convivenza dei significati di "assemblea" con quelli di "fortilizio": Motta San Giovanni, Motta Santa Lucia e S.Maria di La Motta sede di un priorato novaliciense ed ora frazione di Pancalieri. G. Rossi (Storia del Marchesato cit., p. 24,n.2) scoprì in un rogito del notaio Andrea da Cairo in Genova che il Signore di Dolceacqua Enrichetto Doria, raggiunto con "qualche espediente" un non facile accordo colle famiglie del luogo, aveva ottenuto con rescritto favorevole di Papa Nicolò V (18-III-1446, A.S.Genova, filza S, f. 117) che l'impoverita cappella del Castello, intitolata a S. Antonio, fosse potenziata assimilando quella Beatae Mariae de la Mota: l'avrebbe rilevata dal Priorato di S.Pietro di Vasco di Pagno, benedettino e novaliciense cui, per la decadenza della Casa Madre, era stata affidata l'amministrazione del subpriorato di Dolceacqua. Nel XV sec in luogo della chiesa romanica di S. Giorgio, ormai disagevole per il popolo e la Signoria, venne istituita la nuova Parrocchiale di S.Antonio (che inglobò ed estese le valenze della cappella gentilizia) il cui campanile risulta strutturato su un'arcaica torre della cinta delle mura [l'interno è affrescato in gusto barocco anche si vi si trovano altre gemme pittoriche: tra l'altro si segnala, di Ludovico Brea, il Polittico di S.Devota del 1515, realizzato per lascito di Francesca Grimaldi vedova di Luca Doria Signore di Dolceacqua. Costei, con testamento ricco di impegni filantropici e benefici, aveva sancita la somma di 25 scudi affinché il pittore nizzardo L. Brea (ca. 1450/ 1522 o '23) di primigenia formazione provenzale (per influsso delle scuole del Duranti e del Mirailhet) completasse (prima del S. Giorgio di Montalto Ligure, ultima sua opera) questo lavoro di Dolceacqua ravvivato dalle ultime energie dell'artista e privo dei limiti manieristici della sua produzione conclusiva: a prescindere da qualche indolenza formale non decisiva e mai greve, il polittico di S. Devota emette segnali artistici densi di spiritualità e sostenuti dal vigore della migliore produzione del Brea]. Imperiale Doria avrebbe poi affidato il Convento agli Agostiniani Scalzi della Porta Carbonara di Genova. Il 29-VI-1623 i Consoli del Comune, con voto del Parlamento , ratificarono tal donazione: i Consoli Stefano Barone e G.B. Salvatore precisarono nel documento la speranza che il monastero riprosperasse. L'Ordine agostiniano concentrò le iniziative per restaurare il convento ampliando l'edificio sì da sfruttare l'impianto della prima casa monastica: le trasformazioni furono consistenti e per ottenere spazi nuovi si sopraelevarono le strutture. Fu quindi ingrandto il chiostro di cui affiora, coperta da terra e vegetazione, la vecchia pavimentazione: il rifornimento idrico arrivava ad una fontana (si vedono ruderi nel perimetro claustrale) resa impermeabile con frammenti ceramici che canalizzavano l'acqua. Gli Agostiniani si dedicarono alla propaganda, all'apostolato e alla repressione delle devianze religiose più che alla cura dei campi: erano ben visti dai potenti sia perché patrocinavano l'equilibrio dei rapporti socio-politici sia in quanto illustravano la zona colla loro cultura , prestando istruzione ai giovani meritevoli e sottraendo alle amministrazioni il compito di mantenere pubbliche scuole. L'erudito seicentesco D. A. Gandolfo, agostiniano ma del cenobio della Consolazione in Ventimiglia e contestualmente secondo bibliotecario dell'Aprosiana, fu portavoce della diffusione del culto per S.Maria di Dolceacqua e tra i presunti miracoli accreditò la novella che un giovane Doria, affetto da rachitismo, fosse stato graziato dalla Genitrice del Cristo, cui venne consacrato dalla madre: allo scopo di divulgare la devozione verso la chiesa gli Agostiniani fecero incidere medaglioni commemorativi in rame per le festività della Vergine [ un esemplare fu visto da G. Rossi nella collezione di A. Arroscio e già alla fine dell''800 essi erano rarità da antiquari: v'era effigiata la Vergine col bimbo in braccio, recante uno scettro con la scritta "Effigie miracolosa della Vergine S.S. della Muta"]. Dal'600 a metà '700 -come scrive G. Rossi- il Convento ebbe rinomanza sì che il marchese Bartolomeo Doria, stanco sotto il peso degli impegni di Stato, testò di ritirarvisi, dopo aver abdicato per il figlio Carlo Emanuele (6-I-1686). Gli Agostiniani, grazie all'appoggio finanziario di Vicari ed Inquisitori, eressero infine una bella chiesa barocca, di cui sopravvive una cappella mentre ne è crollato il corpo centrale, sotto cui è una nicchia con sepolture, manomesse da tempo, tuttora da scandagliare e studiare. I danni di XVIII e XIX secc per la guerra di successione austriaca, la conquista e l'anticlericalismo napoleonico e poi per l'interpretazione antipapista delle leggi siccardiane segnarono la crisi dell'organismo agostiniano, il suo abbandono e la frammentazione dei possessi: il corpo principale pervenne così alla famiglia locale Dall'Orto. La ragione per cui i regimi ottocenteschi, pur alienando i beni monastici, non abbiano utilizzato l'edificio ad altri scopi, come spesso accadeva, dipese dal fatto che la casa conventuale era giunta ad un livello di degrado da rendere impossibile solidi correttivi: oltre ai danni di tempo e natura l'edificio era infatti stato saccheggiato dagli artiglieri del generalissimo Las Minas -ai tempi della guerra di successione austriaca, durante il breve assedio al castello di Dolceacqua- essendo stato scelto quale postazione per una batteria di cannoni di medio calibro. Inoltre, trovandosi i possessi abbaziali sulla diramazione che dal sito portava in val Roia, soprattutto la fabbrica principale, ma comunque l'intera area conventuale, sopportarono ruipetuti affronti da reitarati movimenti e passaggi di truppe (una pur rapida visione architettonica evidenzia, peraltro, sulla fronte dell'edificio volta a valle il segno di veloci interventi murari, di vani precariamente sigillati, di rozzi riempimenti di terrapieni da attribuire al periodo che va dalla guerra di successione all'epoca napoleonica: altri danni, non quantificabili furon portati al complesso dal terremoto in Liguria del 1887).

II SCHEDA CRITICA
LA CHIESA DI S.CROCE SULLA CIMA DELLA CROVAIROLA (S. BIAGIO DELLA CIMA)

Sulla sommità dell'altura della Cima della Crovairola, che fu forse sede di un castellaro preromano, si riconoscono i ruderi di una Chiesa, intitolata alla S.Croce, da Padre Vitaliano Maccario, religioso d'epoca napoleonica, fattosi laico ed arricchitosi quale docente di varie discipline che, caduto Napoleone e ripreso l'abito talare, volle erigere questo edificio religioso per ringraziamento a Dio. I lavori permisero d'ampliare la cappella originariamente ideata e costruire una piccola chiesa con sacrestia e riparo per gli officianti dato il rinvenimento di vario materiale archeologico venduto dal Maccario sul mercato antiquario. Si trattava, stando ad un suo manoscritto, di ornamenti funebri romani, d'altra suppellettile e dei resti di una presumibile cava (donde si sarebbero ricavati sarcofagi e manufatti romani) già individuati da altri nel XVIII sec. Il Maccario dotò poi l'edificio di vari arredi sacri e, tra tanti, in un manoscritto fal titolo Libro spettante alla Cappella di S. Croce, situata sulla Cima di Crovajrola vicino a S. Biagio, annotò "...Il Quadro del Crocifisso opera del Vandik...". E' noto che il pittore fiammingo Anton Van Dyck (Anversa 1599 - Londra 1641), tra il 1625 ed il 1626 operò a Genova e Liguria, ospite dei tanti "mecenati" dell'epoca: la parrocchiale di Moltedo (Im) ad esempio fu ornata di un suo lavoro, "La Sacra Famiglia", passato fra tante vicissitudini. Il quadro fu asportato dalla chiesetta del S. Croce fra il 1940 ed il 1945, più verisimilmente tra 1944-'45 in un momento di scontri fra forze diverse (regolari tedeschi, alleati, forze partigiane) quando la chiesetta fu interamente spogliata del suo arredo. Si son individuati diversi testimoni oculari sopravvissuti che variamente si rammentano del quadro: fra questi, uno in particolare (informato ancor più di quanto ammise e comunque restio a scendere in ulteriori particolari e soprattutto deciso a non voler far registratre le sue generalità ipotizzando una misteriosa "ritorsione" di qualcuno) sostenne con decisione che si trattava di una tavola e non di una tela e che l'opera aveva grandi convergenze con una "Crocifissione" [misurata cm.36,5 x 27,5: dimensione ottimale per giustificare l'impronta tuttora visibile lasciata dal quadro asportato sulla parete della chiesetta] di ubicazione ignota, già presente sul mercato inglese (W.E. Duitz) e ritenuto opera del 1617 [per un approfondimento e la lunga inchiesta sulla questione si veda però B.Durante-F.Poggi-E.Tripodi, I graffiti della storia: "Vallecrosia ed il suo retroterra" , Vallecrosia, 1984, I, 1, nota 34]. Come già detto lo stesso Maccario affermò nel suo "Diario" gli fu possibile costruire una chiesa più bella di quanto gli permettevano le finanze per il rinvenimento di reperti romani di un certo pregio che allora vendette agli antiquari. In tempi recenti qualche studioso ha supposto che nel sito esistesse una cava per l'estrazione di materiale utilizzato nelle necropoli della città romana di Ventimiglia Romana [e questo fatto sembrerebbe giustificato dai numerosi sarcofagi vuoti ivi scoperti tra fine '700 e primi '800 da parecchi religiosi - Vitaliano Maccario stesso ma anche Giovanni Francesco Aprosio per fare due nomi significativi - sia da ritrovamenti più recenti sia ancora dall'osservazione per tutto il sito (verisimilmente un "castellaro" preromano) di gran quantità di materiale sparso, di massi incavati e tagliati con una tecnica abbastanza evoluta, propria delle cave romane]. Peraltro secondo il manoscritto del Maccario (in cui è ripresa una vecchia tradizione popolare) questo sito sarebbe stato il baluardo contro i pericoli dal mare di un vasto complesso ligure preromano di "Alpintemeli" (gli Intemelii), poi detto "Arm'antica", "Armantica" od "Armantiqua", che si sarebbe esteso grossomodo sugli attuali territori comunali di "Vallebona, Borghetto, Camporosso, Sanbiagio, Vallecrosia". Per quanto suggestiva -e non del tutto priva di fondamento vista l'esistenza di complessi demici e rurali di Intemelii- l'ipotesi che il toponimo "Armantica" derivi dalla superstite memoria popolare pare discutibile. E' più probabile invece che tal nome di luogo si sia evoluto, dal VI sec. d.C., per graduale trasformazione indigena del quasi simile *Balma, nell'accezione specifica di riparo eremitico. I Bizantini dell'Impero Orientale, che non avevano potuto impedire l'invasione longobarda del 568, protessero la Liguria marittima con l'installazione di quartieri militari in collegamento ad organismi eremitici sotto loro controllo, utili per il conforto dei soldati ma anche per acquistare le simpatie degli Italici e favorire le conversioni dei disertori Longobardi di fede ariana, così che entrassero nell'esercito bizantino. La *Balma eremitica, luogo solitario di preghiera, si era già diffusa per la Liguria con l'esperienza di S.Onorato che nel V secolo, ispirandosi alla tradizione ascetica egiziana, aveva condotto vita di estasi contemplativa in una grotta a Nord di Tolone , oggi detta Santo Baumo d'Agay; dal VI secolo i Bizantini avevan preso ad inserirsi su tale sistema religioso, intensificandovi l'innesto di monaci orientali: *Alma fu l'evoluzione morfo-linguistica del toponimo *Balma (si evidenzia ciò nell' area del torrente Argentina, ove la località di Arma di Taggia ricorda nel nome gli insediamenti ascetici che vi trovarono riparo verso il VI secolo sotto il protettorato del castello greco di Taggia). Nell'area di Pigna in alta val Nervia, primo antemurale contro gli invasori, si son ritrovate al riguardo interessanti tracce toponomastiche: in particolare dal "vallone delle Arme" nella zona di Buggio emergono dati interessanti. Oltre il "vallone delle Arme", ove esistono cavernette, grotte e ripari, si trova l' *Arma Berlena e l'*Armauta (rocce e bosco di carpini, termine derivato da *alma alta, dove il toponimo indica una zona bassa del "vallone delle Arme", mentre l'aggettivo alto segnala uno dei tanti "ripari" nella zona) e le due Armella (una delle quali è caratterizzata da campi incolti e piramidi di terra che formano dei ripari), l'Armetta (diminuitivo di *Arma, dove ora si trovano boschi di roveri). Altre *Balme eremitiche erano diffuse per la vallata: all'imboccatura di questa, sulla sponda destra del Nervia, quasi a fronteggiare la Cima della Crovairola si individua l'altura primigenia della città di Nervia ove, durante l'espansione edilizia e demografica del primo Impero, furono impiantate nuove abitazioni sulle modeste costruzioni repubblicane e liguri. Per una vasta sezione geografica, da questo sito (Colla Sgarba) sin all'area del Rio Seborrino (donde traevano acqua le due condotte della città romana) e poi ancora alle zone di Siestro, S.Giacomo e Maule-Maure esistevano molti ripari ideali per la vita ascetica (ancora a fine del XIX secolo si menzionava l'esistenza a "Colla Sgarba" di una grotta frequentata da eremiti, detta "u sgarbu du preive" o "antro del prete", oggi purtroppo trasformata in magazzino agricolo). Procedendo sin a Camporosso si incontra un toponimo interessante, quello di *Almablanca dove la prima parte del toponimo *Alma sembra rimandare ad un antichissimo insediamento eremitico poi variamente rivisitato, come attestano documenti notarili del XIII secolo, e verisimilmente poi gestito dai monaci Antoniani. A questo complesso corrisponde, per un tratto dalla vallicella prossima del Crosa, il termine *Almantiqua. In entrambi i casi si allude al concetto di riparo a costruzione o forse meglio di "grotta scavata": il termine *barma, da cui si evolse Arma-Alma, nel dialetto camporossino indica una "grotta artificiale chiusa con muro" e dai documenti del Duecento si evince che l'Alma Antiqua era caratterizzata da numerosi ripari artificiali, in parte oramai diruti. A proposito dell'Almablanca da un rogito del di Amandolesio (30 aprile 1261, doc.376 in BALLETTO, cit.) si intende che vi erano beni rurali e coltivazioni del latifondista Oberto Intraversati: il nome "bianca" dipendeva dal fatto che il riparo o le vecchie costruzioni erano connesse al grande complesso delle "Terre Bianche" (ad Terram Blancam, doc. 14) ove nel 1260 stavano fondi, terre coltivate ad alberi, gerbidi di una o più famiglie Alamano e Macarius (Alamano è etimo germanico,"abitante dell'Alemagna", e dal III sec. a tutto il Medioevo, tal nome ebbe la funzione geopolitica di indicare "uomini di varie stirpi nell'insieme" stanziati per gruppi di parentele su una precisa zona geografica. Maccario-Macario deriva al contrario da un'elaborazione della voce bizantina "Makarios" = "beato, felice", da connettere probabilmente all' evangelizzazione degli eremiti orientali su gruppi di barbari od indigeni: i Greci col "macarismo" indicavano però anche anche la "Beatitudine Evangelica" e la diffusione antica del nome Macario-Maccario in Occidente talora è da correlare con San Macario l'Egiziano, uno dei massimi esponenti del monachesimo egizio e dell'ascetismo cristiano).

NOTE
1)G.MERIANA, La Liguria dei Santuari, Genova, 1993 che riprende e riassume la bibliografia dell'autore sull'argomento.
2)op. cit., pp.1819.
3)G.PENCO, Storia della Chiesa, Jaca Book, Roma, 1977, I, p.43.
4)ROSANNA ZOFF, E qui costruirete una chiesa, Goriziana ed., Gorizia, 1991.
5)B.DURANTE-A. EREMITA, Guida di Dolceacqua e della Val Nervia, Gribaudo ed. Cavallermaggiore, 1991 passim.
6)R.CAPACCIO-B.DURANTE, Marciando per le Alpi - Il ponente italiano durante la guerra di successione austriaca (1742-1748), Gribaudo [oggi Paravia-Gribaudo], Cavallermaggiore, 1993, pp.217-234.
7)Ad Lacum Putidum, cioè alla stazione termale di Pigna e vicino alla chiesa monastica benedettina dell'Assunta di Castelvittorio già Castelfranco, una tradizione popolare registrata da G.Rossi vuole che una temporanea scomparsa della fonte sia stata accreditata alla collera divina scatenata da un pastore che, contro i dettami della Chiesa, avrebbe cercato di curare le proprie bestie ammalate immergendole in quelle acque termali. Non è arduo intravedere nell'opera del pastore il ricordo di pratiche cultuali pagane, connesse alla lustratio: notoriamente nella cultura agricola celto-ligure e romana gli animali erano sottoposti a pratiche religiose tra cui l'abluzione in acque ritenute purificatrici o propizie alla fecondità.
8)Una variante del tutto antiscientifica dell'interpretazione della sifilide comportava inoltre connessioni sia con l' astrologia che con la magia. Essa fu sorprendentemente accolta da alcuni medici fisici come Dietrich Ulsen che accompagnò con una sua celebre profezia medica la rappresentazione del "sifilitico" di Albrecht Durer (incisione del 1496): secondo la profezia del medico la sifilide era sì una malattia ma la sua diffusione epidemica sarebbe stata agevolata dalla congiunzione planetaria di Giove con Saturno nel segno dello Scorpione, avvenuta poco più di dieci anni prima nel 1484. Accanto a spiegazioni irrazionali si elaborarono allora proposte terapeutiche altrettanto prive di fondamento, basate su una scorretta comprensione di piante americane realmente elette a panacea universale per un modo anacronistico d'accostamento alle culture precolombiane: un modo in cui interefrivano aristocratico disprezzo e malcelato timore per certe verità scientifiche inaspettatamente possedute dagli indigeni del Nuovo Mondo. Così, contro la sifilide, esplose la "mania medica" del Guaiaco (ant. guiaco) che è una pianta della famiglia delle Zigofillacee. Il legno, durissimo, di colore bruno o verde bruno, di grato odore, di sapore acre ed aromatico, costuisce la droga detta "legno di guaiaco" o "legno santo" e soprattutto gli Spagnoli si arricchirono con essa importandola in Europa essendo ritenuta un potente rimedio contro le affezioni della sifilide (cosa non vera: in effetti il guaiaco è pianta curativa -ben nota alla medicina precolombiana- ma come antisettico e curativo nelle malattie della vie respiratorie: come si prese a scoprire da quando, nel 1826, Unverborden ottenne per distillazione il guiacolo o etere monometilico della pirocatechina).