cultura barocca
STATUTI

STATUTI

Capitolo L (50)

Su chiunque, di qualsiasi condizione sociale, danneggi o tenti di frantumare dall'esterno le carceri

Può accadere che qualcuno abbia liberato un sospetto di crimini vari, già assicurato alla giustizia da un servo o da una guardia dello Stato. Nel caso che la vittima di tale esecuzione fosse sospettata d'aver commesso un di quei delitti che comportano qualsiasi genere di punizione corporale, il responsabile sia tenuto a pagare secondo le modalità e le forme che sarebbero state di spettanza del reo fuggiasco. Nella circostanza invece che quest'ultimo fosse in seguito provatamente dimostrato innocente od ancora nell'evenienza che dovesse piuttosto venir multato soltanto all'esborso d'una somma in denaro, il responsabile della sua evasione sia condannato, rispettivamente, a tre anni d'esilio od al pagamento del doppio della pena nummaria, oltre che ad un anno d'esilio. Trattandosi invece di causa civile ed esclusivamente pecuniaria, il responsabile paghi sempre i danni patiti dalla vittima di chi abbia egli liberato e versi una somma identica, sotto specie di multa, al fisco repubblicano. Resti comunque sempre ferma la facoltà del giusdicente preposto alla causa, attesa naturalmente la qualità del reato, di comminare una pena anche superiore, fin a due anni d'esilio.

Capitolo LI (51)

Di quanti attentano all'incolumità delle case carcerarie sì da infrangerne muraglie e difese

Chiunque abbia osato dall'esterno causare infrazioni a pubblici edifici di sicurtà o pene detentive, venga colpito colla condanna a morte, senz'alcuna possibile remissione facendo soprattutto ben cura che il suo stato sociale non possa in qualsivoglia modo fungere da titolo di scusa o di sol parziale giustificazione. Venga altresì tormentato nel corpo a ragion di pena l'audace che si sia reso colpevole di tali misfatti pur senza giungere al segno di far ruinare muraglie od opere fortificate d'una qualsiasi casa penitenziera.
Allorquando invece dopo aver con probabilità stretta alleanza e disegnato un piano di fuga, sian stati proprio i detenuti a rompere da dentro un qualsiasi muro del carcere, sì da aprirvi un forame sull'esterno e far quindi evasione, dovranno sempre i giudici oprare con celere zelo perché quanto prima quei rei vengano rimessi in potestà della Curia; raggiunto tal scopo costoro, vista la lor turpe azione, immantinente vengano giudicati confessi del crimine ascritto, quello cioè per cui sian stati reclusi e subito dopo di concerto si spediscano a pagare il fio sotto forma di pene corporali: nel malaugurato accidente che non si possa in alcun modo addivenire alla cattura d'un fra i suddetti criminali si provveda a farne subito bando, per editto pubblico, da ogni contrada del Dominio. Peraltro si conferisca sempre di legge la nomea di cospiratore ad ognun che sia evaso facendo illecito profitto d'un qualsiasi budello verso la libertà ricavato, scavando, sminuendo od abbattendo parti di muraglia all'interno d'un pubblico carcere.
A quegli evasi che sia stati detenuti a cagion di debiti venga invece comminata un'ammenda, da pagare al fisco di Stato, fissabile sin al doppio di quanto essi abbiano iniquamente maturato a dannificazione d'altri; questi rei patiscano altresì l'obbligo di dare immediata soddisfazione a pro di tutti i lor creditori: quando però nel giro d'un mese dalla cattura, un delinquente di tal risma non abbia ancor provveduto ad espletare questi ordinamenti, sentito l'inappellabile arbitrio giudiziale, possa egli venir rinchiuso fino a tre anni sulle patrie galee. A proposito di tal sorta di malfattori resta comunque da inventariare il caso che qualcuno, anche per il pronto sovvenir di guardie e bargelli, non abbia perpetrato sin in fondo l'effrazione: né peraltro si può escludere che, pur fatto ruinare un muro carcerario, non sia poi intercorsa evasione in grazia della ben vigile od allertata forza pubblica. In entrambe le occorrenze i giudici, a loro arbitrio, potranno comminare avverso quei rei, riacciuffati e posti ai ceppi, tanto la tortura corporale d'ordine punitivo, sotto forma di tre giramenti di corda, quanto la relegazione da galeotti in marina per la durata di un anno intero. Malefici favoreggiatori e consiglieri fraudolenti di siffatti perpetratori di debiti pagheranno il fio di sì vergognosa condotta versando al fisco pene nummarie per cinquecento lire, dando in sovrappiù soddisfazione piena in pro di quanti abbiano maturato crediti a fronte di quelli che, con lor ausilio, si siano macchiati d'un tentativo d'evasione.
Può comunque altresì succedere che qualcuno, senza però cagionar effrazione di baluardi in case penitenziere, sia stato capace, con frodi varie, di favorire l'evasione d'un qualche detenuto a ragion di debiti. Gli sovvenga allora in titolo di pene, d'obbligarsi, insieme sempre al mentovato debitore, a far soddisfazione di tutti i creditori di quest'ultimo, e pubblici o privati che siano, versando in più nelle casse erariali una multa di duecento lire genovesi. Pari favoreggiamento è però ben espletabile anche a favor d'un detenuto per malefici: in simile circostanza ogni suo complice abbia ad esser ogni volta tormentato colle pene inflitte od infliggibili, in ragion del crimine commesso, al reo ch'abbia fatto evadere, senza calcolare affatto se si tratti d'ammende in denaro o di gravi strazi corporali, solite per queste leggi in occasion dei malefici.
Fra tanti plausibili eventi neppure è da escludere che qualche detenuto, senza causar effrazione di mura e violando l'onesta custodia d'un carceriere, abbia raggiunto il fine di scivolar soppiatto, senza l'ausilio d'alcun complice, fuor d'una casa penitenziera. Trattandosi d'un debitore gli s'applicherà di legge una multa fissata al doppio di quanto egli avrà cagionata la detenzione: ma un detenuto per malefici, cioè un di quei birbaccioni che non soccorrendo fauste probatorie, si devono per il nostro diritto ammendare al giusto od ancor meglio son da seviziare nel corpo se non da tormentare in modi ancora diversi, ad effetto dell'evasion stessa verrà sempre immantinente giudicato reo confesso del crimine ascrittogli ed appena preso dal Bargello sarà bandito qual esule dal consorzio genovese, a men che, non oltre un sol giorno d'illecita libertà, ben ravvedutosi abbia fatto ritorno sui passi, ridando ai suoi carcerieri di prima nuova potestà sopra la di lui persona. Ma si guardino per bene tutti questi contravventori di giustizia criminale e norme carcerarie: giammai gli sovverrà scusante o remissione d'aggravante allorché i birri li avrano acciuffati entro le primiere ventiquattro ore di latitanza, anche nell'evenienza che, per giuramento loro o fidata altrui testimonianza, saranno oramai stati in procinto di tornar pentiti alla dimora obbligata entro la lor casa di detenzione.

Capitolo LII (52)

Sui carcerati che abbiano ferito una guardia di custodia

Quanti nelle case carcerarie abbiano aggredito o percosso una guardia di custodia sin al punto di requisirla o ferirla oppure che, in via d'artifici e malizie varie, abbiano sottratto allo stesso custode le chiavi della prigione, sì da evadere, siano condannati alle pene sancite nel capo precedente, redatto a riguardo di quelli cioé che che abbiano perpetrato reati di effrazione a detrimento delle strutture penitenziarie. Nell'eventualità, tuttavia, che l'evasione non sia stata portata a compimento, ordiniamo allora che il reo venga trattato secondo le norme, sempre contenute nel succitato capo criminale, stese a riguardo di tutti coloro che non abbiano espletato il crimine, pur avendone creato ogni presupposto.

Capitolo LIII (53)

Su chi rompe la pace o le tregue

Può sovvenire che un qualsiasi individuo, nonostante gli accordi di pace o tregua intercorsi con qualcuno da cui era stato ferito od altrimenti con eventuali nemici personali, coi quali magari già si verificarono in passato episodi di reciproca aggressione, abbia poi ucciso o ferito, direttamente se non per il tramite di sicari, quel rivale o personale avversario di cui si è appena detto, in maniera tale da violare la fede data in precedenza con un proprio giuramento. In questo caso il Pretore della città di Genova e, entro i distretti, qualsivoglia magistrato, cui spetti d'inquisire su tali fatti, viste tutte le scritture autentiche e sentiti perlomeno due testimoni attendibili, abbiano potestà di comminare al reo la condanna dell'esilio perenne da Genova e distretti. Identiche pene, pari danni, rischi, vergogna pubblica ed ogni altra dannazione simile a quelle sancite avverso i ribelli, colpiscano siffatto criminale, oltre, ben s'intende, l'applicazione di quanto è stato fissato da queste nostre norme contro chi ferisce od uccide di persona o col tramite di sicari. A quanti, in egual maniera, siano venuti meno agli accordi di pace, sì da causare danni ingenti alla vita dello Stato senza però cagionar morte o ferite ad altri ma solo lividi e percosse, si applichino, oltre le pene prescritte per le aggressioni in armi o senza, il risarcimento dei danni cagionati e multe che ammontino da trecento a millecinquecento lire, fissate ad arbitrio esclusivo del giudice incaricato che avrà prioritariamente valutate la portata reale del crimine e la qualità socio-economica della parte lesa.

Capitolo LIIII (54)

Qualora accada che un fra quanti abbian fatto accordo di pacificazione sia venuto meno ai patti da rispettare per il buon vivere di tutti

In modo particolare sta a cuore dello Stato, sì da sedare i tumulti che possono scoppiare fra i tanti sudditi, reprimere l'audacia di quanti vengono meno alle convenzioni di pace. Può infatti capitare che una o più persone si scambino atti di inimicizia od entrino in aperta, nuova discordia, nonostante le convenzioni di concordia già firmate, e di seguito è possibile che uno o più fra costoro, poco importa di qual fazione , apertamente violi,o violino, la suddetta pacificazione. In tale evenienza sanciamo che tutti gli altri, quelli che son cioè ascritti alla fazione cui appartengano gli inadempienti agli accordi, siano tenuti ad arrestare i responsabili e rimetterli subito al giudice, che avrà il compito di comminare la giusta pena.
Se però, nell'arco di un anno, costoro non avranno catturato i lor compagni contravventori od in qualche altra maniera i criminali non siano caduti in potestà dei giudici, proprio i garanti della pace debbano solvere l'ammenda che, altrimenti, sarebbe toccata al colpevole. Il pagamento della multa dovrà essere fatto in un'unica soluzione da uno qualsiasi dei suddetti garanti: i suoi soci, al contrario, avranno facoltà di andarsene liberi da ogni condanna o debito verso il fisco.
Tuttavia a chi avrà saldato l'ammenda resterà il diritto di regresso sì che gli altri debbano solvere il debito nelle sue mani, pagando ognuno secondo la quota di sua competenza. Se però la concordia è stata violata per via d'un'uccisione, oltre la summenzionata pena ciascuno dei garanti debba pagare un'ammenda speciale che il giudice, a suo arbitrio, fisserà fra le 100 e le 300 lire. Nel caso però che costoro abbiano -come detto- consegnato alla giustizia il reo o che questo in altro modo costui sia caduto in potestà del magistrato od ancora che, nell'ultimo periodo di tempo, sullo stesso ( o gli stessi, trattandosi di più d'una persona) si sia fatta vendetta di legge ad opera dei giudici, tutti i garanti vengano rimandati liberi ed assolti nè, a ragione di questi eventi, da parte del fisco si possa procurar loro alcun tipo di molestia.
Alla stessa stregua per cui non si debba indugiare nella soluzione dell'ammenda, così non si possa rimandare il procedimento giudiziario una volta che siano state violate le convenzioni di pace. Il Pretore di Genova e , nei distretti, ogni giusdicente che abbia competenze ad indagare sulla violazione degli accordi stipulati, esigano con la massima celerità il versamento delle pene nummarie e depositino presso i Magnifici Procuratori la somma riscossa a titolo di garanzia sì che venga custodita per un anno intero dal momento in cui vennero violati i patti di pace. Naturalmente, una volta che i rei siano stati consegnati alla legge od in qualsiasi altro modo ne siano venuti in custodia, la somma depositata per garanzia verrà restituita al garante od ai garanti secondo le rispettive quote. Se però i criminali non saranno stati per tempo nè consegnati al braccio secolare nè catturati dalla magistratura, trascorso l'anno fissato per legge, la cauzione verrà acquisita per sempre dal fisco repubblicano. Ai garanti resterà solo il diritto di regresso contro i delinquenti ed i loro beni, sempre che il fisco non li abbia già venduti al pubblico incanto: in alternativa non competerà più nulla ai garanti tranne l'azione legale contro le persone dei suddetti rei. Quanti poi abbiano data fideiussione sull'obbligo di mantenere la pace e di non recare offese, nell'evenienza che colui, per cui siano stati obbligati, abbia rotto gli accordi e quindi procurato ingiurie o ferite, non possano esimersi dal soddisfare ogni richiesta della parte lesa, nelle mani degli aventi diritto qualora la vittima sia morta. I fideiussori debbano pertanto versare con prontezza la somma convenuta, senza che possa intercorrere alcuno sconto nè escussione dei beni avverso il debitore principale non opponendosi alcuno statuto od eccezione. La sentenza di condanna o d'esilio del principale debitore, anche contumace od in palese contumacia, costituisce piena ratifica di ciò affinchè si possano perseguire i fideiussori senza ulteriori prove. In tutto questo si proceda quindi senza processo nè alcuna solennità giuridica.

Capitolo LV (55)

Dei duelli

Duello è espressione d'origine latina ed equivale grossomodo, pei significati, al concetto espresso dall'etimo bellum, sempre latino, corrispondente del nostro bellare, che vale guerreggiare. A tal punto prevalse e tuttora predomina l'uso di chiamar "duello" l'azione, più propriamente definibile "monomachia" in greco e "singolar tenzone" in italiano, che noi, estensori di questi capitoli criminali, stabiliamo, perché non sovvengano controversie sul nome e quindi su ciò che esso rappresenta e significa, d'usar sempre e soltanto, nei succitati ordinamenti, la parola "duello". E' malauguratamente fin troppo nota, e ben oltre quanto occorra rammentare, la rovina che l'abuso di duelli va suscitando nelle città e fra le genti. Volendo estirpare dal tessuto sociale dello Stato questa autentica peste apportatrice di note sciagure, sentenziamo che nessun suddito della Repubblica né alcun straniero possano provocare a duello chicchessia entro i confini del dominio genovese, valendosi, come oggi è divenuto usuale, di lettere di sfida, di padrini e messi o di qualche altro espediente ancora: resti di conseguenza ben chiaro il divieto di sfidare qualsivoglia individuo col mezzo nuovo d'appiccare o far affiggere manifesti in piazza o per le pubbliche vie, senza esplicita concessione dell'Illustrissimo Doge o dei Magnifici Procuratori. Chiunque abbia infranto questo capitolo o norma paghi colla morte per impiccagione ed abbia a patire la confisca dei beni.
Allo stesso modo, qualora abbia fatta tenzone con un suddito genovese o con un forestiero pur dimorante nel nostro Dominio, resti sempre condannato chi si sia recato da altro Principe o Senato per ottenere con suppliche luogo e grazia di duellare, a prescindere dall'eventualità che il colpevole abbia o meno in seguito ottenuta quella particolare facoltà o concessione. Così di seguito si proceda alla punizione di chi abbia controbattuto alle provocazioni, di cui sopra si è scritto, o comunque abbia comunicato alla controparte la propria accettazione del duello e non si risparmi chi, per la stessa motivazione, si sia valso, firmandoli o presentandoli di persona se non addirittura affiggendoli in pubblico, di lettere e manifesti di sfida e lo stesso valga avverso quanti ad altrui titolo abbiano sfidato chicchessia a duello o tenzone oppure abbiano prestato aiuto e fornito pareri su cose pertinenti l'arte vietata del singolar certame: detengano inoltre pari responsabilità di fronte alla legge criminale tutti quelli che, sfidato a tal vergogna e delitto qualcuno, senza far conto se sia Genovese, suddito o forestiero residente nella capitale od in terre del suo Dominio, abbiano da sé o con altrui complicità, affisso qualsiasi immagine, generalmente dipinta su quadro o tela che possa alludere con offese alla sfida ed al duello. Nel caso poi che qualcuno di questi delinquenti non sia stato assicurato alla giustizia resti sempre condannato a morte in qualità di contumace, risultando altresì bandito come esule dallo Stato.

Capitolo LVI (56)

Su chi entri furtivamente in case altrui, osterie ed altri pubblici locali onde presumibilmente perpetrare dei misfatti

Fra le ipotesi di reato è certamente da ascrivere la possibilità che qualche malavitoso si sia acquattato, allo scopo di perpetrar delitti, offese od altri crimini ancora, nei bui recessi d'un'altrui dimora, dopo esser riuscito a penetrarvi con astuzia e furtive maniere. A siffatte imprese dobbiamo, per natural causa, attribuire ignominosi scopi e di concerto è d'obbligo che la giustizia criminale sempre vigili con giusta prontezza a reprimere tali violazioni: di conseguenza giammai si frapporranno remore alcune a che un giudice agisca contro un di quei malfattori, appena sia caduto in sua potestà, indifferentemente procedendo per via d'ufficio, a mò di denunzia oppur anche per petizione d'un abitatore qualsiasi della casa ove il reo abbia osato infiltrarsi. Al magistrato spetti quindi pronto onere di far oculata inchiesta ed investigare per bene sulle ragioni esatte per cui sia avvenuta tal occulta e fraudolenta penetrazione: onde chiarire l'imbroglio e rendere quindi luce piena sul vero si possano applicare all'inquisito tutti i leciti e necessari tormenti corporali ancorché non sopravvivano ulteriori indizi. Considerata quindi la causa di tal furtiva entrata ed in più ben ponderata ogni altra congettura o presunzione il magistrato, una volta ch'abbia ridisegnato per bene il programma malavitoso, possieda totale facoltà di comminare, attesa l'entità del misfatto qualsivoglia genere di pena, senza escludere il supplizio estremo. Non s'ascriva invece colpa alcuna a quell'abitante di casa od ai membri tutti d'una famiglia intera, purché a detta di tre giusti testimoni da sempre risultino gente onesta e dal buon nome, che, acciuffato un di questi delinquenti, l'abbiano percosso fin addirittura al segno massimo d'ucciderlo: in contraddizione di quanto detto, sopravvenga invece responsabilità ad un di quei domiciliati, se non anche alla famiglia tutta, che abbiano consapevolmente lasciato entrare in casa un che poi sarebbe stato picchiato, ferito se non addirittura ammazzato.
Le norme sopra espresse non detengano però alcun vigore entro casupole od osterie che portano anche pubblico nome di taverne venali, e nemmeno fra gli spazi interni delle tante bettole e locande che sorgono sul Dominio: sorprendendosi un fra questi clandestini non s'abbia llora da far altra cosa che afferrarlo ed entro un giorno al massimo, sotto giusta scorta e ben legato, rimetterlo in potestà della Curia criminale. Ogni contraddicente avverso tal nostro ordinamento verrà punito o tormentato in rapporto a quelle diverse violazioni di cui si sarà macchiato secondo quanto espresso alle diverse voci capitolari dei presenti Statuti di crimini e pene.

Capitolo LVII (57)

Su chi penetra in casa altrui dopo aver scardinata la porta od infranto una finestra od un muro

Non di rado si verifica che qualcuno, scardinata una porta, infranti un muro od una finestra, fatta irruzione in casa altrui, abbia usata violenza ad una cittadina genovese.
Indipendentemente dal fatto che questa sia sposata o nubile, fanciulla o vedova, purché goda buona reputazione, il responsabile paghi il suo misfatto sulla forca tramite l'impiccagione. Alla medesima pena capitale si condanni chiunque, violentemente ed a mano armata, sì da far trasparire intenzione d'aggredire, abbia fatto irruzione in un'altrui abitazione e quindi anche soltanto lambito o sfiorato il corpo della sua presumibile vittima. Qualora non sia arrivato a tal punto, il reo venga confinato fuori città e distretto per un periodo di tempo oscillante fra i cinque ed i dieci anni secondo la qualità del reato e delle vittime: in alternativa sia comminabile la reclusione sulle navi repubblicane come galeotto per un arco cronologico compreso fra due e cinque anni. Chi invece sia entrato con impeto in casa altrui, mal celando l'intenzione di rubare, resti invece punito secondo i capi criminali, qui registrati, a riguardo dei ladri. Chi invece abbia compiuto un'irruzione, scardinando serrami e porte, entro una villa od un podere rurale, allo scopo di perpetrar razzia d'olio, di galline,d'oche o d'altri volatili domestici, anche nel caso l'infrazione sia avvenuta come prima fu scritto, sia soltanto multato da dieci a cento lire e risarcisca i danni alla vittima, facendo fede il rendiconto di quest'ultima, sempre che si tratti d'attendibile ed onesta persona. Chi sia stato condannato per questo genere di reato, entro dieci giorni dalla sentenza, debbe rendere soluzione delle ammende e dei risarcimenti; disubbidendo però a tale comandamento, il reo sia in seguito trascinato a colpi di vergate per i luoghi pubblici della città ed alla fine venga bandito - da uno a cinque anni - fuori di città e distretti oppure, in alternativa, lo si imprigioni come galeotto ai banchi delle triremi per il tempo massimo di un anno.
Capitolo LVIII (58)

Di quanti scagliano pietre contro un'altrui casa o dimora

Quanti, di notte, abbiano scagliato delle pietre contro un altrui edificio privato, in genere avverso il tetto ma pure contro le finestre, sin al punto di procurare danni e sconvenienze varie, cosa peraltro alquanto presumibile se non si può provare il contrario, risarciscano il danno e versino come pena al fisco repubblicano una somma variabile, secondo la qualità della scelleratezza compiuta e delle persone, da venti a cinquecento lire.

Capitolo LIX (59)

Di quelli che trasformano in carceri le proprie dimore

Sia condannato all'esecuzione capitale, insieme ai complici, chi, in qualsiasi località, abbia trasformato in carcere privato la sua abitazione di proprietà o quella condotta in affitto. Ma chi in tal prigione abbia rinchiuso un proprio debitore insolvente od anche un qualsivoglia fuggiasco per azioni malavitose, non venga accusato proprio di nulla e resti invece impunito a patto che, dopo ventiquattro ore dalla cattura, rimetta in potestà della Curia la persona da lui già detenuta.

Capitolo LX (60)

Che giammai si liberi qualcuno se non dopo che sia stato sottoposto a giudizio della Curia

Qualora gli abitanti di un di quei castelli che comunemente si definiscono università o vicini sian stati condannati, a causa del delitto commesso da qualcuno, per il fatto di non esser riusciti a catturare il colpevole, o perchè, una volta acciuffatolo, non si siano curati di consegnarlo alla Curia genovese, ma poi abbiano comunque prestato soddisfazione a quanto di già sentenziato pagando una pena nummaria, non resti tuttavia assolto il singolo colpevole né venga rimesso in libertà o reintegrato nei suoi diritti, prima d'aver risarcito coloro che per lui si siano preoccupati di versare i soldi dell'ammenda od ancora solo in seguito al fatto che si sia reso garante nei modi più idonei d'una pronta restituzione della somma versata al fisco.

Capitolo LXI (61)

Di quanti tentano di fuorviare i soldati allo stipendio dell'Illustrissimo Senato

Siano incatenati come galeotti sulle navi, da uno a tre anni, quei sudditi genovesi o quegli stranieri che, con lettere, di persona od in via d'interposti messaggeri, abbiano tentato di corrompere i militanti al soldo dell'Illustrissimo Doge e dei Magnifici Governatori, sin al punto di indurli, in qualche circostanza, anche a disertare o tradire lo Stato. La medesima pena colpisca il soldato che non abbia deferito il tentativo di corruzione al medesimo Doge ed ai Magnifici nel caso che sia di stanza in Genova, od al giusdicente del luogo del Dominio ove egli si trovi di servizio.
Il giudice od inquisitore cerchi quanto prima d'assicurare alle prigioni dello Stato chi fece quel tentativo di corruzione e giammai rilasci costui, se finalmente catturato, anche solo perchè lo si conduca in Curia, a meno che non siano intercorsi in tal senso espliciti mandati dogali o dei Magnifici. Nel caso che il giusdicente sia invece contravvenuto a questa norma, risulti per legge nostra obbligato a pagare da venticinque lire genovesi sin a trecento. Tutte queste pene vengano comminate ad arbitrio dell'Illustrissima Signoria e non esistano eccezioni o deroghe a riguardo delle sanzioni fissate pei crimini attentanti alle istituzioni della Repubblica: per quello che anzi compete a tali punizioni, esse sussistano anche nel caso che tutte queste azioni malavitose non siano poi state portate a compimento.

Capitolo LXII (62)

Che colui, il quale manda a perpetrare un maleficio, debba venir colpito dalla stessa pena comminata avverso chi di fatto ha commesso il crimine

Capitando che qualcuno, al di fuori d'una rissa, abbia inviato qualcuno a perpetrare un omicidio od un maleficio, anche se il sicario nulla abbia fatto di quanto ordinatogli, il mandante venga corporalmente punito colla stessa pena per via della quale sarebbe stato colpito il summenzionato sicario nel caso che avesse materialmente perpetrato il delitto. Alla stessa pena sia ascritto chi, senza addivenire ad una rissa oppure gratis od ancora a pagamento od in qualunque altra maniera, abbia accettato di perpetrare quel mandato per mezzo d'un'arma bianca, d'un veleno o di qualsivoglia altro strumento di morte: e ciò avvenga anche nell'occasione che in seguito nulla di ciò abbia commesso o comunque tentato di fare. Al mandante resti tuttavia concesso, quando non sia stata procurata ferita alcuna né commesso alcun tipo di crimine, sia pentirsi dopo aver dato l'incarico di morte al sicario sia revocare ogni sua funesta iniziativa, sempre che prima di siffatta revocazione non sia intercorsa delazione al Giudice e la revocazione medesima, nei riguardi di colui che accettò l'incarico, non sia stata intimata entro quel periodo di tempo quando la situazione era ancora integra. Concediamo anche la potestà a colui che assunse il mandato, allorché non abbia perpetrato il crimine né abbia tentato di commetterlo, di pentirsi dopo aver accettato il terribile incarico e di revocare la sua accettazione dell'incarico medesimo. Ne caso che tutte queste cose non siano state osservate né dal mandante né dal suo sicario, è nostra precisa volontà che nessun tipo di penitenza né la revocazione dell'incarico da parte del mandante né il rifiuto ad eseguire da parte del sicario possa loro risultare di giovamento. Ritenendo piuttosto che l'uno e l'altro debbano avere l'onere di dimostrare con prove oggettive il loro pentimento e che realmente vi fu revocazione sia da parte del mandante che del sicario. Chi in verità accettò d'esser sicario, ma poi fece delazione del crimine da perpetrare sì che la giustizia fu in grado di sorpendere il mandante, abbia il diritto d'assimilare fra i propri beni una certa parte della tangente pattuita per il delitto e ciò solamente a titolo di premio per la sua delazione. Nel caso però avesse accettato di commettere gratuitamente il summenzionato crimine, una volta resa possibile per sua delazione cattura e condanna del mandante, possa il fisco stabilire di esigere dai beni del condannato una somma, ammontante sino a venticinque scudi d'oro da versare al delatore sotto specie di premio per il suo operato: tenendo conto che tal cifra potrebbe addirittura essere aumentata, valutate le qualità del misfatto da compiersi e delle persone in causa, per espressa volontà dei Magnifici Procuratori. Nel caso poi che qualcuno abbia spedito un altro a commettere un qualche omicidio od altro consimile tipo di reato, nel caso che il sicario abbia ricusato il mandato e ne abbia fatta delazione alla Curia, il mandante venga punito con una pena nummaria od in alternativa venga corporalmente piagato colla tortura se non addirittura inviato al supplizio estremo sulla forca.

Capitolo LXIII (63)

Di quanti abbracciano e baciano in pubblico delle donne non consenzienti

Ci è noto che, per colpevole indulgenza di molti Rettori ed amministratori, parecchi facinorosi, nutrite in seno concrete speranze d'immunità, son usi abbassarsi ad ogni sorta di scelleratezze e depravazioni. Nel corso di questi nostri tempi si è poi giunti all'estrema infamia che alcuni, spinti da passione carnale e da inqualificabile ambizione d'illeciti possessi, si son lasciati andare a gravi atti di indecenza o libidine sì da palesare totale indifferenza verso le norme della giustizia, i santi dettami del buon senso e le oneste costumanze dei popoli cristiani. Neppure han verecondia o timore, questi cattivi soggetti , d'abbracciare e baciare in bocca, e contro la loro volontà, sia nelle vie cittadine che in presenza d'altri, donne di varia condizione, ragazze nubili e persino vedove, adducendo poi a scusante di quei deplorevoli gesti l'intenzione di sposarle. Quindi dopo esser state umiliate al punto di venir rifiutate dalla comunità quali malefemmine, queste povere disonorate si trovano quasi costrette, onde evitare fame ed isolamento, al matrimonio con quegli sventurati e facinorosi individui che ne hanno calpestato l'onore.
Altresì si verifica in parecchi casi che le poverette di cui si è scritto abbiano ancora parenti e familiari. Questi sono in genere tutt'altro che propensi ad accettare un matrimonio riparatore e semmai, spinti da comprensibile seppur non lecita rabbia, progettano quasi sempre azioni punitive se non mortifere vendette: di tutto ciò è, come si può ben intendere, quasi inevitabile conseguenza l'insorgere d'odi ed aggressioni cui talora succedono faide così sanguinose che perturbano l'ordine pubblico e privato.
Perché dunque le suddette malazioni si reprimano preventivamente, senza addivenire a drammatiche vendette, sanciamo per via di questa nostra costituzione che dai giudici vengano puniti con celerità tanto gli autori materiali di tali indecenze quanto tutti i loro cattivi consiglieri e complici. Nel caso sian state offese donne di buona famiglia, i rei dovranno pagare al fisco un'ammenda da duecento a cinquecento scudi d'oro e saranno esiliati per tre anni dal dominio repubblicano: s'applicherà invece una pena minore, da cinquanta a trecento lire, a quanti abbiano pubblicamente umiliato donne di bassa condizione ed anche la durata dell'esilio risulterà ridotta a due soli anni. Si stabilisce altresì di non poter scarcerare alcuno di questi cattivi soggetti né tantomeno richiamarli dall'esilio, anche quando sia trascorso il tempo stabilito per questo, se non nel caso essi abbiano pagato la somma loro imputata in merito all'entità e qualità del misfatto commesso.

Capitolo LXIV (64)

Sulle nutrici o balie

Qualsiasi balia o nutrice, assunta a servizio per allattare un infante o qualsivoglia altra persona stipendiata per allevare e crescere un bimbetto, dovrà fornire le opportune referenze qualora espressamente gliele avranno richieste i datori di lavoro, trattandosi, non farà alcuna differenza, di padri, madri o più semplicemente di tutori. Ogni balia in particolare darà rendiconto se avrà abortito o partorito verso i sette piuttosto che i nove mesi e sul tempo, al momento della sua entrata a servizio, intercorso da quello del parto, se nel frattempo avrà già allattato qualche altro infante, se questo si troverà in vita e soprattutto in buona salute, se lei stessa dopo il parto si sarà rimessa vigorosamente oppure avrà stentato a ristabilirsi nel pieno delle forze: insomma la nutrice avrà sempre l'obbligo di rispondere puntualmente a queste domande, che peraltro sono solo esempio e ben piccola parte di tutte quelle che potranno lecitamente porle, a loro insindacabile discrezione, i datori di lavoro. La balia che non avrà inteso rispondere o addirittura si sarà macchiata di falsità e menzogne verrà multata colla perdita dello stipendio, restituendolo se già incamerato od in caso contrario non potendolo giammai esigere: in senso più esteso potrà esser obbligata a sborsare tutto quanto avrà guadagnato, sotto forma di risarcimento, ai genitori del fantolino od al suo tutore.
La balia,
[detta il Capitolo 64 degli "Statuti Criminali del 1556"] assunto l'incarico, dovrà peraltro avere gran cura dell'infante e sarà implicitamente obbligata a nutrirlo quanto meglio le risulterà possibile. Contravvenendo a queste norme, per dolo o negligenza, pagherà come pena nummaria, a beneficio dei genitori o del tutore, ben venticinque lire oppure la si rinchiuderà in carcere per un mese senza che le potranno giovare petizioni e suppliche altrui, nemmeno quelle di quanti a vario titolo avranno compito di curarsi del bimbetto da lei trascurato: sarà infatti far di tanto severa punizione, esempio e monito per quante donne vorranno divenire, in certo qualmodo, nutrici e patrone dei futuri cittadini, amministratori e dirigenti della Serenissima Repubblica. La balia sarà peraltro obbligata a dar costanti novelle del suo stato fisico, specialmente quando riterrà di non aver più latte sufficiente per allevare e crescere qualsiasi infante e nel caso che sarà stata nuovamente ingravidata: mancando di fornir queste notizie personali ai curatori del bimbo affidatole ella verrà egualmente punita con un'ammenda di venticinque lire e trenta giorni di prigione.
Venendo
[detta ancora il capo 64 degli Statuti] ] invece alla luce del sole che la nutrice, per negligenza o trascuratezza nell'allattamento, avrà in qualsivoglia modo nuociuto al bimbetto, fin al segno grave di farlo ammalare, si procederà subito o quanto meno nel breve spazio del tempo fissato a giudizio d'uomo onesto e probo, ad applicare contro di lei una multa in danaro: vista l'entità della colpa ed atteso il parere dei magistrati, la donna potrà addirittura pagare il suo misfatto con la tortura punitiva se non colla morte nei casi estremi.
Un possibile correo, in tanto grave delitto, pagherà cento lire di multa ma, se nel giro di dieci giorni non avrà saldato tale somma, resterà obbligato sotto le sferzate del boia, a procedere per le pubbliche vie, divenendo esempio di riprovevole infamia oltre che oggetto di ludibrio e contumelie per la folla sopraggiunta. In senso più generale ed esteso, questi cattivi soggetti, dopo esser stati battuti a sangue, non dovranno venir liberati ma resteranno in prigione ancora per un mese, senza che nessuno, nemmeno la parte offesa, potrà in alcun modo procedere a loro favore.
La giustizia conosce altresì il caso non raro di nutrici che, per criminale sbadataggine, non hanno saputo evitare la morte dell'infante loro assegnato, rimasto soffocato dai rigurgiti del latte. Queste pessime balie resteranno punite, secondo l'entità della colpa e la condizione delle persone offese, con una multa in danaro, la restituzione dello stipendio, la tortura punitiva se non addirittura la morte sul patibolo. In occasione di tali eventi e supposte responsabilità si dovrà sempre accettare come sincera la versione dei querelanti, genitori o tutori del fantolino, a condizione che tre giurati, anche di sesso femminile purchè madri, avranno testimoniato che il fanciullo venne mal curato e che la nutrice colpevolmente giammai cambiò il suo registro professionale, pur essendo rimasta priva si latte: cosa quest'ultima su cui potranno far fede tanto le testimonianze di altre balie quanto l'analisi diretta e la pressione sulle mammelle inaridite.
Sarà anche interdetto a qualsivoglia nutrice il contemporaneo allattamento di due fantolini senza il permesso dei genitori o tutori di quelli. Peraltro mancando il consenso degli stessi nessuna balia in alcuna maniera avrà facoltà di desistere dalla cura d'un bimbetto di cui si sarà assunta, a mercede, l'onere. Venendo meno in questi doveri, ella sarà multata o privata dello stipendio per tutte le volte in cui avrà agito disonestamente: le toccherà identica punizione anche nell'evenienza che, svezzato un bimbetto, ne prenderà un altro da allattare senza che neppure saranno trascorsi dodici mesi. In questi ultimi tempi si è anche verificato che qualche nutrice, contravvenendo alle istruzioni di genitori o tutori, abbia affidato o comunque tentato di affidare ad altri l'infante per il cui allattamento era stata assunta. Nel caso accada in futuro qualche cosa di simile, si condannerà alla pubblica ammenda di venticinque lire la balia che, dopo esser stata ammonita dai giudici, avrà persistito nel suo colpevole atteggiamento: la pena nummaria verrà raddoppiata in caso di insolvenza nell'arco di quindici giorni e, nel caso di convivenza, resteranno obbligati il marito od il suocero od ancora il fratello della donna. A tal riguardo sarà lecito a qualsiasi magistrato rivalersi, a titolo di garanzia, per la menzionata insolvenza sui beni di questi congiunti della balia, i quali resteranno peraltro obbligati a saldare immediatamente la somma ingiunta nell'occasione che avranno disatteso alla suddetta ingiunzione.
All'inchiesta su tutto quanto si è detto in precedenza, all'obbligo di restituire, ai legittimi genitori od al tutore, il mentovato fantolino allorché se ne sarà testimoniata pessima cura da parte della nutrice ed altresì all'esazione coatta e forzosa della mercede per l'allattamento nei riguardi di parenti e curatori insolventi, provvederà in Genova il Pretore curiale mentre nel Dominio tal compito spetterà a quegli altri magistrati cui concediamo, per iscritto o no, il libero arbitrio d'agire, decidere e giudicare nel modo che di volta in volta sembrerà opportuno.

Capitolo LXV (65)

Di quelli che ingravidano serve o schiave d'altri

Qualsiasi uomo, servo o libero non fa alcuna differenza, che abbia avuto rapporti carnali con una serva altrui, sia condannato a pagare cinquanta lire al padrone od alla padrona della medesima nel caso che questa sia rimasta gravida. Allorquando però la serva sia deceduta a causa della gravidanza, l'uomo, di cui sopra si è detto, paghi duecentocinquanta lire ai danneggiati e debba per legge prendersi cura del neonato sopravvissuto, che la padrona od il padrone della defunta dovranno affidargli. Faccia sempre fede, su chi abbia ingravidato, il giuramento della serva medesima o quello dei suoi legittimi padroni nel caso che, se di buona reputazione, testimonino sotto giuramento di doversi prestarle fede.
Trattandosi però non d'un libero ma d'un qualsiasi servitore o schiavo, si provveda in breve tempo a consegnarlo per un giusto castigo al proprietario della serva, qualora, ben s'intende, il suo padrone non abbia di persona garantito in riparazione di quanto egli abbia fatto.
Può altresì capitare che qualcuno abbia ingravidato una serva altrui nella casa in cui questa coabitasse col padrone: sulla qual cosa debba peraltro far sempre fede la testimonianza della medesima donna o, come già si è scritto, dei suoi padroni. Nella fattispecie il colpevole debba per risarcimento, ai menzionati proprietari della serva, la somma di settantacinque lire. Ma, nel caso che la serva sia morta a causa della gravidanza o del conseguente parto, il risarcimento venga fissato a duecentosettantacinque lire di genovini. Nel caso che quanto dovuto non sia stato versato entro trenta giorni da quello della condanna, un responsabile di condizione servile venga consegnato al padrone della serva defunta per il castigo che questo riterrà opportuno mentre un uomo libero sia corporalmente punito secondo il giudizio del magistrato inquirente, fermo restando il diritto dominicale al risarcimento delle menzionate duecento lire.

Capitolo LXVI (66)

Nessun servitore abbia rapporti carnali nella casa padronale con domestiche lì residenti od altre femmine fattevi entrare di soppiatto e furtivamente

Nessun sottoposto o servitore, come anche si è soliti dire, possa intrattenere rapporti carnali con donne di qualsivoglia condizione nella casa del padrone, non importa se trattasi di domestiche lì coabitanti o di femmine fraudolentemente fatte entrare nell'abitazione stessa. Contravvenendo a ciò il dipendente verrà multato per cento lire o sarà fustigato: se poi, nell'arco di trenta giorni dalla condanna, non avrà provveduto a pagare il dovuto, verrà bandito da tutto il territorio repubblicano.
Può altresì verificarsi che una donna a servizio abbia introdotto nella casa del padrone il proprio amante allo scopo di venirne posseduta per via di copula carnale. Trattandosi d'una serva dovrà essere punita ad unico arbitrio del padrone mentre una domestica stipendiata di libera condizione sarà tenuta a pagare un'ammenda di cinquanta lire. Il suo uomo ne verserà al contrario cento come pena nummaria ed in sovrappiù potrà essere torturato se non multato a tititolo di sovraprezzo secondo il ponderato arbitrio del giusdicente, che prima di sentenziare avrà però ben ponderato e sempre dovuto sentire parere ed ottenere consenso dall'Illustrissimo Doge e dai Magnifici Governatori. Non avendo saldata l'ammenda entro un mese, tale soggetto sarà fustigato. Risulterà lecito al magistrato attenersi alla testimonianza giurata dei padroni solo nel caso che risulteranno esser persone oneste e di buon nome: mancando a costoro detto requisito, si dovrà allora sentenziare sulla base di qualsiasi prova o di altre testimonianze suffragate da ragionevole fondamento. Il giudice negligente o che contravverrà a questa normativa verserà quindi al fisco, in qualità di pena nummaria, la cifra di cento lire genovesi.

Capitolo LXVII (67)

Nessuno possa avere rapporti carnali con qualche carcerata

Sanciamo che qualunque individuo abbia avuto rapporti carnali con qualsiasi donna, incarcerata per qualche malefizio, delitto od altro tipo di crimine ancora, sia condannato a pagare, per quante volte abbia perpetrato tale misfatto, da cento sin a cinquecento lire, in sovrappiù alle altre pene sancite secondo il diritto comune e municipale. Nessuno, in alcun modo, possa derogare, in caso di accertata colpevolezza, dalla condanna summenzionata neppur trattandosi di un Pretore urbano o di un Giudice dei Malefici, di un Vicario o d'un preposto alla custodia delle carceri, di qualche soldato o qualsivoglia altro ufficiale ed inserviente dello Stato: chiunque, di volta in volta, fra costoro risulti colpevole venga anzi, di diritto, radiato dalla carica momentaneamente ricoperta. I Sindicatori presiedano all'interrogatorio dei sospettati di siffatto crimine ed eseguano quanto prima si è sancito, appena abbiano raggiunto piena consapevolezza sul fatto che questi si sono marchiati della colpa che conferisce il titolo al capitolo criminale in oggetto. Qualora invece sian risultati inadempienti debbano al contrario difendersi innanzi ai loro successori e vengano condannati alla pena nummaria di quaranta scudi d'oro a testa.

Capitolo LXVIII (68)

Non si possa costringere alcuna donna a recarsi entro il Palazzo curiale per rendere qualsiasi deposizione o testimonianza

Con questo capitolo sanciamo che per nessuna causa civile alcuna donna, in rispetto precipuo del suo buon nome,debba mai recarsi a deporre negli uffici del Palazzo di Curia, davanti al Pretore di città, al suo Vicario od anche al Giudice dei Malefici: sia invece d'obbligo per ogni inquirente inviare al di lei domicilio abituale un notaro preposto alla registrazione di ogni sua testimonianza.: al massimo, solo però nel caso che n'abbia fatta esplicita e motivata richiesta, le si possa concedere di prendere posto a sedere negli scanni curiali. Tuttavia, in occasione di cause criminali che comportano punizioni fisiche, la teste potrà venir ascoltata dal Pretore o dal Giudice, purché ciò, senza eccezioni, avvenga ogni volta in presenza dei notai pubblici preposti a redigere gli atti dei malefici. Occorrendo invece che i magistrati abbiano agito in modo contrario a quanto scritto in questo capo degli Statuti restino addebitate sui loro stipendi tante multe, comminabili fra le dieci e le cinquanta lire, per tutte le volte che gli stessi giusdicenti abbiano commesso il fatto. Si condannino altresì, con pene nummarie comprese fra cinque e quaranta genovini, quelle donne che, in violazione di questi dettati, sian giunte alla presenza dei magistrati senza però esservi mai state costrette: nel caso che la donna risulti coniugata, l'esazione della multa si faccia sempre dai beni dotali per lei giunti nelle mani dello sposo mentre, nel caso opposto, la giustizia potrà comunque rivalersi su tutti quegli altri beni di cui la stessa sia stata trovata in possesso.

Capitolo LXIX (69)

I beni di un condannato vengano assegnati al fisco solo per la parte eccedente quanto d'essi si sia dovuto versare per saldo al creditore.

Delle ricchezze e proprietà di qualsivoglia condannato al fisco repubblicano può in verità spettare solo quanto ecceda la quota aggiudicata dal magistrato ai creditori, intendendosi per quota quella parte di beni che possa eccedere il dovuto alle parti offese. Parimenti sia sancito di applicare tal norma nel caso che si debbano devolvere al fisco le ricchezze e proprietà oppure venga sentenziato di distruggere i beni di chi abbia perpetrato un delitto, naturalmente tenuto debito conto dei diritti eventuali di mogli, nuore e creditori.

Capitolo LXX (70)

Sul crimine di lesa maestà

Commette crimine di lesa maestà [su questa RUBRICA degli STATUTI GENOVESI DEL 1556 é evidente l'influenza del TITOLO IV del LIBRO XLVIII del DIGESTO GIUSTINIANEO] chi, a danno dello Stato e della sua sicurezza, abbia fornito pareri e suggerimenti al segno che uomini armati di frecce e pietre contundenti, tanto nella capitale quanto nel restante Dominio repubblicano, assalissero le terre genovesi od occupassero i luoghi di sacri edifici. La medesima accusa poi valga sia per il consigliere fraudolento di faziose conventicole e tumulti come contro chi operi perché convengano molti uomini in piazza onde dissentire pubblicamente avverso le istituzioni. Ancor più si rende responsabile di lesa maestà colui che abbia tramato affinché si assassinasse il Doge, qualcuno fra i Magnifici Governatori o Procuratori o qualsivoglia altro Magistrato della Repubblica con diritto di potestà od imperio. Parimenti lo stesso si applichi a chi abbia agito come soprascritto pur senza che si perpetrasse alcun omicidio o fin al punto che la vittima restasse solo ferita: e sian pure rei di lesa maestà coloro che abbian congiurato contro lo Stato, quanti si sian dati cura di inviare messi o lettere onde fornire segrete indicazioni ai nemici della Repubblica, chi abbia altresì sollecitato i militi al soldo dello Stato perché, sediziosi, passassero a forze ostili o, soltanto, perché generassero colla loro diserzione, pericolosi pubblici scompigli. Colpevole del crimine trattato in questo capitolo resta ancora da giudicare chiunque si adoperi al fine d'indurre qualsivoglia nemico a muovere guerre contro Genova; sian altresì rei della stessa colpa quanti, per via d'oscure trame o d'ingannevoli artifici, abbiano cospirato perché la città di Genova, le rocche, i porti, castelli o municipi e più in generale qualsiasi luogo del Dominio repubblicano venissero meno alla fedeltà e all'obbedienza verso lo Stato. Valga il medesimo per quanti abbian fatto congrega con qualsiasi nemico invasore giunto sin a porre assedio contro Genova o le varie località del suo Dominio: identica colpa venga inoltre ascritta sia a quanti, con rifornimento di viveri, cavalli, armi, dardi, danaro o per esteso ausili di qualsiasi genere, abbiano favorito dei nemici invasori, sia a quanti ricoveratisi, da alleati o fuggiaschi se non ad altro titolo ancora, entro i territori nemici si siano quindi posti sotto protezione forestiera, rivelando senza esitare importanti segreti di Stato allo scopo malvagio di procurar nocumento alla Patria.
Può spesso accadere, inoltre, che a qualcuno venga proprosto con subdole lusinghe, scritte se non comunicate direttamente o quantomeno fatte pervenire tramite spie e messaggeri, di partecipare a congiure, cospirazioni, accordi, colloqui od artifizi sì da offendere, in qualsivoglia modo, la Repubblica, la sua sicurezza, l'imperio e il Dominio intero. Resti obbligato colui che abbia ricevuto tal perniciose proposte a farne quanto prima possibile delazione all'Illustrissimo Doge ed a tutti i Magnifici Governatori od almeno, in subordine, all' Illustrissimo e ai due Magnifici in tal occasione residenti al Palazzo di Genova: nel caso fosse vacante il Dogato risulti comunque necessario riferire quanto appreso ai due Magnifici Governatori di cui sopra.
Avvenendo invece il fatto fuori Genova, entro comunque il territorio repubblicano, si debba subito farne opportuna delazione al giusdicente del municipio e luogo più vicino o ai tre Pretori delle Curie: nel caso che la persona spinta alla cospirazione si sia trovata lontano dal dominio genovese debba procurar di farne comunicazione, alle precitate autorità, colla maggior sveltezza possibile, tanto per via epistolare che valendosi di messaggeri. Giammai alcuno s'esenti da denuncia o delazione da quanto sopradetto, pur nell'eventualità che le oscure proposte gli fossero giunte ad opera del padre, del figlio o di parenti di qualsiasi grado. E la stessa cosa valga avverso chi, per semplice via di frasi o parole, inducesse altri a perpetrare tal crimine, approfittando dell'insorgenza di tumulti o comunque di qualche grave disordine statale: e tutto ciò abbia vigore sia che ci si serva di scritti e libelli come di qualsivoglia affettata, ambigua dichiarazione. Pur nel caso che non fosse, fortunatamente, occorso alcun danno per la Repubblica, sia da giudicarsi reo di questo nefando crimine, da denunciare subito e comunque per tempo, pure chi abbia abbandonato, lasciandoli incustoditi, i castelli, le rocche, le piazzeforti od altri luoghi della Repubblica, quelli cioè che, in altri tempi, aveva ricevuto in custodia: nessuna differenza al riguardo s'applichi poi a quei vili che abbiano lasciato in mano dei nemici, senza alcuna difesa, i territori di loro competenza e similmente a quanti, contro gli ordini ed i divieti del Senato, si siano consegnati ad eventuali forze d'invasione ed al contrario, avendone la possibilità, non si siano piuttosto defilati. Chiunque, di per sé od affidando a sicari e correi tal vergognoso compito, si sia dato da fare al fine di perpetrare un di quei reati, di cui s'è detto e che son connessi al crimine di lesa maestà, ma altresì ogni fraudolento consigliere e qualsiasi correo, debba venir accusato d'alto tradimento avverso lo Stato ed abbia da pagare il fio al capestro sul patibolo. Peraltro, ognun fra questi delinquenti debba quindi devolvere per intero tutti i suoi beni poco importa se esenti o meno da obblighi verso lo Stato, al fisco repubblicano: e vi rientrino quindi quelle proprietà allodiali al reo pervenute per il diritto ordinario dal giorno stesso in cui egli si macchiò dell'infame delitto. In particolare tutti i suoi possedimenti immobili, come case, ville, poderi od altro ancora, naturalmente nel rispetto dei diritti sanciti secondo l'asse ereditaria, debbano essere rasi al suolo perché se ne perda persin la memoria.
Neppure venga risparmiato l'estremo supplizio a chi, per quanto estraneo ma pur sempre al corrente dei fatti, non si sia, prestamente e nei modi prestabiliti, eletto delatore, verso la persona illustrissima del Doge o quelle magnificentissime dei Governatori, di qualche calamità meditata od approntata a danno dello Stato: a tal riguardo si tratta in questo capitolo statutario di chi abbia avuto cognizione d'una "fazione" o, come oggi si dice, di cospirazione, congiura, malefico accordo o sedizione, delitti che, pur attraverso i distinti significati dei loro nomi, rimandano al significato globale che si attribuisce all'idea di tutto quanto si può organizzare per procurar danni alla Repubblica, alla sua sicurezza, al suo stesso dominio. La stessa pena capitale colpisca altresì chiunque, di persona od in via di subdoli aiuti e suggerimenti, sia riuscito, a far evadere di mano degli stessi esecutori capitali o d'altri ministri della giustizia criminale, un reo confesso, già condannato per crimini di lesa maestà: la stessa pena si commini altresì a quanti abbiano consapevolemente ospitato e ricovrato un di questi rei confessi e poi, senza rispettare gli arbitrati della Signoria, non si sia preso cura alcuna di rimetterlo subito in potestà della Curia.
Sia invece condannato all'esilio perpetuo da Genova e Dominio, e ad un'ammenda nummaria, se non addirittura torturato in maniera punitiva oppure inviato alla forca nei casi più gravi (sempre che non si ricorra eccezionalmente ad altro genere di pena su espressa, speciale volontà di Doge e Governatori), colui che per tempo non abbia esternato all'autorità i sospetti maturati a proposito di qualche secessione o dannosa congiura avverso la Repubblica, specialmente dopo aver udito i discorsi oscuri di qualcuno (senza che necessariamente siano del tutto trapelate specifiche intenzioni di mal agire) o dopo aver dedotto ulteriori considerazioni a proposito di qualche altro genere di danneggiamento da apportare allo Stato in virtù di segnali ed indizi vari.
Occorrendo poi che qualcuno, appena agli inizi di qualche malazione condotta contro la Serenissima, si sia adoprato a farne delazione, si debba sempre soccorrerlo con un giusto premio che potrà andare da cinquecento a cinquemila scudi secondo naturalmente l'indiscutibile parere dell'Illustrissimo e dei Magnifici; nel caso che costui sia risultato consapevole a priori della sedizione ed abbia fornito le sue informazioni trovandosi ancora in stato di colpevolezza, gli si conceda il perdono e, sempre ad arbitrio di Doge e Governatori, possa fruire di una taglia corrente da duecento a duemila scudi: succedendo invece che il delatore, originariamente partecipe alla congiura antistatale, si sia deciso a parlare non subito ma lasciando passare un po' di tempo per quanto sempre prima dell'espletamento di tal crimine di lesa maestà, non possa godere d'alcuna taglia ma almeno gli si conceda perdono ed immunità. Riteniamo però opportuno sancire, per evitare contrasti di opinione, che solo all'arbitrio insindacabile di Doge e Governatori possa spettare se la delazione sia realmente avvenuta in modo subitaneo o dopo un poco di tempo od ancora quando già stavano sbocciando i perniciosi frutti delle rivolte. Comunque, a proposito di un crimine tanto grave come è quello di lesa maestà della repubblica, qui riteniamo opportuno che si debba procedere nelle indagini anche dopo la morte dei colpevoli, al punto che, dimostrate irrefutabilmente vere le colpe del defunto lo si possa consegnare alla memoria pubblica come esempio di scelleratezza mentre risulti lecito esigere dagli eredi (sempre che lo richieda la qualità della colpa) la consegna allo stato di tutte le sue proprietà.
I figli maschi di condannati a morte per crimine di lesa maestà, sulla base del primo comma di questo capo criminale, perdano istantaneamente la cittadinanza genovese e l'eventuale condizione di nobili: si debbano inoltre allontanare da Genova e distretto e risultino per sempre banditi e raminghi e non si riaccettino nel corpo sano dello Stato se non per espresso giudizio o parere del Senato genovese, preso atto di qualche particolare azione da loro fatta a vantaggio della Serenissima.
Presiedano ad investigare e giudicare su questo genere di reati il Pretore della Città di Genova, il Giudice dei Malefici, tanto direttamente che per via d'aiutanti o coll'ausilio di tre giurisperiti stranieri domiciliati in Genova e non nel distretto, che dovranno essere delegati ad esclusivo loro arbitrio dal Doge e dai Magnifici Governatori ed altresì a costoro si affiancheranno inoltre due fra i Magnifici Procuratori parimenti scelti da Doge e Governatori: istituiscano quindi il processo e dettino il diritto per sommi capi, semplicemente, senza far trapelare cose segrete né far eccessivo strepito e sempre nel totale rispetto della configurazione del giudizio fino a quando non siano giunti ad una definitiva pronuncia della sentenza in merito. Per quanto poi concerne i rei neghittosi a far di sè comparizione davanti ai magistrati nel giorno da questi fissato (per quanto, in conformità dei dettami d'ogni capitolo criminale di questa costituzione, sian stati convocati tramite messi o per lettera od ancora in via d'editto letto in pubblico e quindi affisso ai soliti luoghi) il summenzionato collegio giudiziale abbia facoltà di procedere come se quegli stessi rei avessero in realtà fatta comparizione, fossero stati davvero presenti ad ogni discussione e la lite contro di loro fosse stata legittimamente contestata. Bastino peraltro ben pochi indizi per sottoporre a tortura gli inquisiti e per quanto qualcuni sia già stato soggetto ai tormenti corporali, abbia sempre il giudice facoltà di comminargli ulteriori torture sì da addivenire sveltamente alla conoscenza della realtà e della verità. Risulti altresì ben chiaro che, per siffatti crimini e prima dell'applicazione di qualsiasi pena corporale a titolo di ricognizione del vero, non si dovrà mai far pervenire al reo, sotto forma di copie di atti, nessuno fra gli indizi per cui lo stesso venga inquisito: trattandosi invece non di rei ma di semplici testimoni si debba invece dar loro copia degli indizi e della ragione dell'inchiesta al cui riguardo siano essi da esaminare e sentire. Si fissi inoltre per l'Avvocato del fisco e per il medesimo reo un tempo comune entro cui essi abbiano da allegare le reciproche prove. Poi i Giudici interroghino i testimoni e li esaminino, alla presenza di due fra i Magnifici Procuratori, sugli argomenti addotti sia dal reo che dal Fiscale. Trascorso il tempo concesso dalla legge e fatta pubblicazione delle testimonianze, abbia allora il reo piena licenza di farsi rilasciare copia degli atti processuali, per quanto, s'intende, sia di sua competenza. Ascoltate quindi le sue difese e finalmente esaminata a fondo la causa ad opera dell'Illustrissimo Duce e dei Magnifici Governatori, una volta fatta la votazione, si proceda alla decisione della causa in modo conforme alle normative del diritto, sì che per ultimo venga sancito e ratificato quanto abbia avuto il sostegno della maggioranza dei voti. Rigettate quindi le possibili appellazioni e contraddizioni, il Pretore debba far eseguire la sentenza, sempre nel totale rispetto dell'autorità di Doge e Governatori ( purchè non contravvenga su ciò qualche specifico ordine di queste nostre criminali costituzioni) di investigare, agire, giudicare ed eseguire nel modo che ad essi parrà migliore od opportuno. Peraltro riteniamo inevitabile che, dopo la pubblicazione del processo, intercorrendo nuovi indizi contro il reo, lo si possa nuovamente sottoporre a tortura secondo le modalità che saranno parse convenienti secondo l'insindacabile parere dell'Illustrissimo Doge e dei Magnifici Governatori. Ne consegue altresì l'ordine che nessuno, prescindendo dalla sua condizione sociale, abbia poi l'ardimento, a meno che non sia intercorsa autorizzazione di Doge e Governatori, di eleggersi patrocinatore d'alcuno fra questi rei o comunque prendere le parti d'un fra essi od anche essergli in qualche modo d'aiuto e sostegno, dicendo magari di far ciò non tanto per tutela dell'individuo ma della giustizia in generale, od ancora, per concludere la rassegna delle possibilità, rendersi in quasivoglia modo utile a chiunque si sia reso colpovole di siffatti crimini di lesa maestà dello Stato. Il temerario che avrà sfidato questo nostro divieto dovrà essere ogni volta, e senza remissione alcuna, colpito da una pena nummaria di cento scudi d'oro da trasmettere sempre e soltanto entro le casse del fisco repubblicano.
I predetti giusdicenti abbiano peratro l'obbligo di trasmettere ai due Magnifici Procuratori preposti alla supervisione della causa qualsiasi tipo di lettere di raccomandazione o di biglietti di favore che ognuno di loro, da chicchessia, possano aver ricevuto a vantaggio e garanzia del reo. Debbano altresì i medesimi giudici dar pubblica ragione dei nomi di quanti, personalmente o per via d'interposte persone, si siano adoprati nei loro riguardi per soccorrere in qualche maniera questa schiatta di rei o comunque far raccomandazione d'uno o più fra essi. Mancando a questi nostri comandamenti, i suddetti magistrati debbano considerarsi ipso facto immantinentemente decaduti dalle loro rispettive cariche, con in più il dovere di saldare quella pena nummaria che all'Illustrissimo Doge ed ai Magnifici Governatori sarà parso utile comminare. Identica punizione toccherà a quel giurisperito che, in qualsivoglia modo avuta notizia su questo genere di reati, non ne abbia data immediata comunicazione a Doge e Governatori, ora valendosi di delazioni scritte in caso di sua assenza dalla Città ora recandosi, al contrario, di persona a denunziare quanto egli sia venuto a sapere. In definitiva qualunque altra persona che abbia raccolto informazioni sui misfatti avverso lo Stato e non se ne sia resa delatrice in tempo utile per legge debba sempre venir punita secondo l'insindacabile giudizio del Doge e dei Governatori: si tenga però presente che, su tal materia, varrà sempre eccezione per gli avvocati, i procuratori ed ancora per tutti quelli che, su augusta concessione dell'Illustrissimo e dei Magnifici, abbiano avuta la concessione di patrocinare e difendere la causa del reo di lesa maestà.

Capitolo LXXI (71)

Resti interdetto a chiunque di dar ospitalità a Ribelli messi al pubblico bando

Può certo accadere che, fuor dei dettami di legge, qualcuno, tanto a Genova quanto nel Dominio e senza che si faccia distinguo alcuno fra condizione, ceto e censo, sia coscientemente pervenuto all'infame ardimento d'accogliere, in casa propria, punto importa se di proprietà od in affitto, od altrimenti in qualsivoglia improvvisato ricovero, un di quei pericolosi ribelli che s'ersero audaci contro la Serenissima Dominazione o, neppure questo fa differenza, qualcuno che tramite pubblico bando fu messo fuor del territorio genovese per essersi macchiato di rivolte, tradimento o maneggi vari a danno della Repubblica: per illecito ausilio scriviamo peraltro che non debba intendersi unicamente il dar ricetto ma, in una con detto ricovero od anche di per sè soltanto, fornire a suddetti criminali, oprando di persona o con altrui concorso, non solo cibi, bevande e vettovaglie in genere ma altresì quegli aiuti materiali e quei malandrini consigli che possano utilmente concorrere ad ottenere, in pro di rei sì dannificanti, qualsivoglia scampo contro le oneste persecuzioni della giustizia criminale.
In giusto perseguimento dei suddetti favoreggiatori sanciamo quindi, in questo nostro capo statutario, che i giudici abbiano potestà di comminar condanne a morte ed altresì procedere alla totale confisca dei lor beni: potrà comunque emanciparsi da colpe e pene colui che, benché coartato per forza o paura a rendersi complice e favoreggiatore in pro di qualche tipaccio nerboruto e di gran cipiglio, abbia poi civilmente reagito sì da denunziare per tempo, entro trentasei ore al massimo, quel misfatto, di cui fu insieme complice e vittima, nell'illustrissima persona del Doge ed in quelle d'almeno due tra i Magnifici Governatori, nel caso egli si trovi in Genova, od altrimenti in quella del giusdicente del luogo allorquando invece egli risieda od al momento si trovi nei territori distrettuali.
Accadendo al contrario che quel ribelle o traditore venga acciuffato e riesca piuttosto a rendersi contumace, si dovrà sempre e comunque condannare il favoreggiatore per quel crimine che abbia perpetrato secondo le vigenti norme satutarie e conseguentemente lo si bandirà in perpetuo da Genova e distretti, concedendo impunità a quanti, in particolare sicari e cacciatori di taglie, sian poi riusciti a far sorpresa ed ucciderlo. Identiche pene vengono comminate nei confronti di coloro che abbiano fatto abboccamento e si sian poi messi ad interloquire con qualsiasi reo di tradimenti e rivolte: neppur sussista eccezion alcuna sopravvenendo che fra i criminali messi al bando, coi quali s'addivenga ad opera di qualcuno ad incontri vietati, s'annoverino di quest'ultimo parenti stretti, come son da giudicare non solo padre e figli ma puranco consanguinei ed affini di qualunque grado. In giunta a ciò sanciamo inoltre che ad ognuno, in qualunque contrada del Dominio repubblicano, non possano giammai venir recapitate lettere d'alcuni ribelli né tantomeno abbian essi facoltà d'accogliere un qualsiasi messaggero di quei criminali, sempre che in via d'eccezione Doge e Governatori non abbiano preventivamente dato loro espresso favorevole consenso. Ogni disubbidiente a tali precetti debba sempre venir immantinente multato a pro del fisco sin a cinquecento lire di genovini e patisca infine quelle pene corporali che il giudice sindacherà per giuste, non esclusa la morte sul patibolo; anche in questo caso sopravverà eccezione, sì da rimettere colpa e pena, nel caso che il disubbidiente in causa, onde mendare i suoi falli, sia stato capace di consegnare in potestà della Signoria tanto il messo quanto le lettere dei ribelli: il procedimento appena menzionato valga sempre e solo pei territori urbani, mentre nelle contrade distrettuali basterà in ogni caso fare emission d'epistole e messaggeri in vantaggio d'un qualsiasi magistrato locale.
Per estensione può altresì sovvenire che tanto gli abitanti dei municipi federati, di solito collettivamente definiti "Comunità convenzionate", quanti i sudditi degli oppida o città munite, quanto ancora quelli dei castelli a capo di villaggi, che formano le Università, si siano scientemente mossi per accogliere alcuni ribelli, oramai al bando, nei territori di loro competenza giurisdizionale ed amministrativa, abbian consentito loro di girovagare impunemente nelle loro contrade, neppur si sian fatti gran scrupolo a rifornirli di vettovaglie od anche a ragguagliarli con utili consigli e quindi provvederli di giusti mezzi onde agevolarne un'eventuale e sicura dipartita. Accadendo solo una fra queste circostanze, scatteranno automatiche condanne avverso qualsiasi collettività abbia disatteso agli ordini di legge; verranno di conseguenza comminate ammende da trecento a duemila scudi d'oro, fissati volta per volta ad arbitrio di Doge e Governatore, ed in caso limite pagheranno il fio decadendo ipso facto da ogni precedente beneficio, convenzione e grazia lor concessa, sotto qualsivoglia titolo, per beneplacito della Signoria: sussisterà comunque eccezion di colpe e pene solo nell'auspicabile evenienza che, al fine di emendar tal fallo, le collettività abbiano messo ai ceppi il ribelle bandito fuor del Dominio e, nel giro stretto di dieci giorni, si siano sveltamente impegnate a rimetterlo in potestà del Pretore di Genova o d'un qualsiasi altro giudice distrettuale. Può altresì succedere che, a ragion d'una fuorviante e personalissima interpretazione della costumanza d'asilo ecclesiastico, qualche iniziato alle sacralità oppur anche degli addetti ai luoghi santificati, con fraudolenta intenzione di far del male, abbiano dato ricetto in chiese e templi, magari anche in qualche lor dipendenza, ad uno o più fra ribelli messi al bando: chiunque abbia quindi così impudemente deviato dal retto sentiero della legge e, pentendosi non si sia dato ad emendare i suoi falli, consegnando ai giudici il ribelle entro lo stesso giorno in cui l'abbia accolto, venga severamente castigato facendolo automaticamente decadere da tutti gli ausilii già conferitigli ad opera dell' Illustrissimo Senato e da quei benefici che siano sanciti da questi nostri Statuti.
Chi poi al contrario si sia impegnato a soccorrere, ospitare, aiutare, consigliare e vettovagliare qualche altro condannato a morte, poi messo al bando, per crimini che nulla spartiscano col tradimento, abbia a patir pene nummarie, sancite a giudizio dei magistrati, pene che possano perfin giungere a trecento lire di genovini: nel caso invece che costui sisia limitato ad intrattenere colloqui o far commerci con cotesti rei , banditi fuor del Dominio, debba versare al fisco di Stato multe in denaro, comminabili ad arbitrio giudiziale, fra le dieci e le cento lire. In siffatte occasioni, peraltro, tanto il padre e gli ascendenti quanto fratelli e sorelle, quanto ancora la moglie e i discendenti, seppur questi in maniera più mite, debbano venir ammendati per parte, a parere del magistrato che avrà ben ponderato l'entità del misfatto e lo stato socio-economico della persona in causa.
Resti invece multato, da un minimale di venti sin ad un massimo di cento lire, chiunque, al modo che prima si disse, abbia ospitato, sovvenuto o comunque variamente favorito, salva l'eccezion che si tratti d'una moglie, qualcuno che sia stato condannato e di seguito messo al bando a ragion di crimini che a titolo di pene non comportino giammai il supplizio finale sul patibolo.
Onde agevolare il buon fine della legge sanciamo in sovrappiù che debba emanciparsi di colpa e pena, sì da farlo quindi immune da ogni persecuzione, quel reo dei summenzionati crimini che, per quanto messo al bando, sia stato in grado d'assicurare potestà della Curia criminale, entro dieci giorni al massimo da quello del delitto, un dei suoi possibili correi. Nessun giudice peraltro possa assumersi arbitrio nel dare concessione a qualche esule, per delitto, fra quanti si suol più spesso definire forestati, onde tener casa o residenza, sì da girovagarvi senza punità, in Genova e nel Dominio tutto; semmai tocchi al giudice perseguire con asfissiante zelo siffatto genere di criminali allo scopo di svelarne i rifugi, metterli alle strette e quindi catturarli: una volta acciuffato, il forestato, di cui si è fatto cenno, venga rinchiuso in carcere né lo si rimetta mai a piede libero fin a che non abbia saldato i suoi debiti verso la giustizia dello Stato.
Accadendo al contrario che quel ribelle o traditore non venga acciuffato e riesca piuttosto a rendersi contumace, si dovrà sempre e comunque condannare il favoreggiatore per quel crimine che abbia perpetrato secondo le vigenti norme statutarie e conseguentemente lo si bandirà perpetuamente da Genova e distretti, concedendo impunità a quanti, in particolare sicari e cacciatori di taglie, sian poi riusciti a far sorpresa su di lui e ad ucciderlo. Identiche pene vengano comminate nei confronti di coloro che abbiano fatto abboccamento e si siano quindi messi ad interloquire con qualsivoglia reo di tradimenti e rivolte: neppur sussista eccezion alcuna sopravvenendo che fra i criminali messi al bando, coi quali s'addivenga ad opra di qualcuno ad abboccamenti ed incontri vietati, s'annoverino di quest'ultimo parenti stretti come son da giudicare non soltanto padri e figli ma puranco consanguinei od affini di qualsiasi grado. In giunta a ciò sanciamo inoltre che ad ognuno in qualunque contrada del Dominio repubblicano non possano giammai venir recapitate lettere d'alcun ribelle né tantomeno abbiano essi facoltà d'accogliere un qualsiasi messaggero di quei criminali, sempre che in via d'eccezione Doge e Governatori non abbiano preventivamente dato loro espresso favorevole consenso. Ogni disubbidiente a tal precetto debba sempre venir immantinente multato a pro del fisco sin a cinquecento lire genovesi e patisca infine quelle pene corporali che il giudice sindacherà per giuste, non esclusa la morte sul patibolo; anche in questo sopravverrà eccezione, sì da rimettere colpa e pena, nel caso che il disubbidiente in causa, onde emendare i suoi errori, sia stato capace di consegnare in potestà della Signoria tanto il messo quanto le lettere dei ribelli: il procedimento appena menzionato valga sempre e solo per territori urbani, mentre nelle contrade distrettuali basterà in ogni caso fare remission d'epistole e messaggeri di frode in vantaggio di qualsiasi locale magistrato.

Capitolo LXXII (72)

Giammai si conceda il ritorno in patria a persone messe al bando in ragion di debiti

Ad un esule, fatto tale a cagion di debiti insoluti o come il volgo suole dire, un forestato, non sia mai data licenza di far ritorno a casa loro se non nel caso che essi abbiano completamente rimborsati e soddisfatti i loro creditori dopo che, a motivo di pena nummaria, non si sia per lor parte provveduto a versare nelle casse del fisco repubblicano un soldo a computo di ogni lira della somma ammontante all'interezza del debito inevaso. Ogni negligente e qualsivoglia contraddicente avverso questo ordinamento criminale sia subito multato per un ammontare di cento lire e peraltro decada immantinente a pro di lui l'ipotesi di riabilitazione: la concessione comunque decada e perda vigore, sì che mai per essa incorra ausilio, nei confronti di chi abbia eventualmente goduto della licenza al rientro in patria ma, pur solo in qualche punto, non si sia dato a rispettare i suesposti consequenziali nostri comandi.

Capitolo LXXIII (73)

Del ferire od uccidere impunemente gli esuli

Qualsiasi esule ed inoltre chi sia stato condannato per aver commesso un di quei malefici che comportano la pena capitale possano impunemente venire uccisi da chicchessia e lecitamente privati di quanto posseggano al momento dell'aggressione. Ci si attenga peraltro all'editto della Serenissima Repubblica di Genova contro gli esuli nel caso che l'uccisore sia stato tratto in giudizio: il magistrato preposto al fatto abbia quindi sempre il dovere di liberarlo con prontezza di modo che, peraltro, risulti contestualmente annullata la procedura inquisitoriale anche per quanto di già espletato. Nel contempo che viene esibito il decreto, resti facoltà e licenza a qualsiasi persona di patrocinare e difendere, in qualsivoglia forma e maniera, l'uccisore di esiliati, anche senza averne di necessità il mandato quale procuratore.

Capitolo LXXIV (74)

Sul premio che dovrà assegnarsi a chi abbia ucciso o comunque catturato un ribelle od un esule, se non addirittura un condannato a morte in stato di contumacia

Si premi sempre colla taglia di cento denari, se non sia stata sancita una cifra ancora superiore, chi, senza essere un proscritto, abbia ucciso, in qualsivoglia contrada o paese gli sia toccato di far sorpresa, un di quei pessimi soggetti che, ai sensi d'ogni capo della presente legislazione criminale, sian stati condannati a morte per lesa maestà e pubblicamente dichiarati ribelli per via di sanzione ufficiale. In alternativa a tal compenso il giustiziere, o sicario come suol oggi anche dirsi, possa persin chiedere che lo Stato faccia atto di perdono nei riguardi di ogni altro colpevole condannato a ragion di consimile, pari se non pure minor pena: se poi il il giustiziere medesimo ne avrà fatta domanda, esplicita e corretta secondo le norme stabilite dalla legge, il condannato di cui si è detto dovrà venir rimesso in libertà ed il suo nome sarà da cancellare dal Libro degli Esuli oppure, verificandosi che il sicario medesimo sia un esule risulterà d'obbligo depennare la condanna ascrittagli e quanto poi i giudici gli abbiano comminato a titolo di pena. Si conceda comunque simile ricompensa a chi abbia ucciso, entro la giurisdizione distrettuale od a non più di cinquanta miglia, il malfattore bandito qual esule seppur a motivo di quei crimini che , per quanto comportino torture punitive e letali o puranche lo stesso supplizio del capestro, nulla abbiano a che vedere coi delitti di lesa maestà: resti altresì concesso a chi abbia fatta giustizia la facoltà di chiedere ed ottener remissione d'ogni pena a favore di qualsiasi altro proscritto purché questi, sempre a ragion di colpe similari, pari o minori, sia stato condannato prima di colui che il menzionato giustiziere abbia soppresso. La remissione a piede libero potrà tuttavia avvenire, secondo modi e forme sancite da Doge e Governatori, solo nel caso che il reo per cui venga chiesta grazia, si sia già pacificato colla sua vittima o con quanti egli abbia offeso: se al contrario proprio il sicario sarà stato un esule a cagion di delitti paritetici od anche minori rispetto a quelli di chi abbia cancellato dal mondo dei viventi, gli si potrà cassare la condanna onde permetterne il pacifico rientro in patria.
Le medesime ricompense vengano altresì riconosciute a coloro che abbiano catturato e riconsegnato alla giustizia criminale un di quegli individui che si sian resi colpevoli dei crimini sopra menzionati o comunque di ogni misfatto che, a titolo di pene, comporti l'esilio od altresì patimenti corporali di qualsiasi genere.
Si dovrà però far eccezione, di modo che giammai segua remission di pena alcuna, per quanti abbiano uccisa una donna proscritta e nei riguardi di chi si sia reso omicida dei genitori o di qualunque altro consanguineo quali sono figli o figlie se non anche fratelli: parimenti in alcun modo potrà sovvenir condono a fronte di chi abbia perpetrato fatti di sangue donde sia poi derivata la morte del Pretore urbano, d'un qualsivoglia altro giudice, d'ufficiali e militi della Guardia e del Bargello, o puranco di quei padroni al cui servizio il reo fosse di già stato in qualità di colono rurale dipendente o subalterno. Egualmente non si concederà perdono alcuno ai malavitosi condannati per assassini, coiti avversi all'ordine naturale delle cose oppur falsificazioni varie ma sempre gravissime, sì per danno delle monete di Stato o dei pubblici documenti quanto a detrimento di qualsiasi atto scritto o lettera, quando non addirittura dei Sigilli che unicamente competono ai supremi collegi del Senato e dei Protettori delle Compere di S.Giorgio. A fine di questa rassegna, per ultima e conclusiva sanzione, stabiliamo inoltre, una volta per sempre, che giammai possa venir chiesta remissione ad opera d'un'eventuale giustiziere né tantomeno possano concederla le Curie per un dei rei di cui si fece espresso elenco sotto questo paragrafo.
In ordine di forma e procedura qui di seguito s'ordina poi che debba farsi sempre nel giro d'un mese le generalità del criminale a cui pro un cacciatore di taglie chieda l'emancipazione dopo aver fatto, entro i distretti, pubblica vendetta contro qualche nemico della giustizia repubblicana: oltre questi confini delle giurisdizioni resterà concesso invece un tempo ulteriore, fino a novanta giorni, ma in entrambi i casi, evasi i limiti cronologici che si saranno concessi per le nostre istituzioni, giammai potrà chiedere o concedere, per chicchessia, remissione alcuna di condanna e tormenti. In chiusa del capoverso or ancora da noi viene sancito che debba sempre pagarsi il compenso di legge a mercé di chi abbia sorpreso e restituito alle Curie un dei proscritti: né potrà costituire eccezione il caso che, per la morte del bandito, si sia addivenuti a pacificazione fra le parti in causa seppur, avvallato da forti ragioni, sembri da intendersi ciò leggendo quanto in altro luogo deliberato qui sulle pacificazioni.
Accadendo poi che un milite del Bargello o qualche altra guardia abbiano preso e rimesso in potestà della curia un proscritto già residente in Genova o nelle contrade suburbane ed al momento condannato alla forca, sarà inderogabile ufficio dei giudici procurare la giusta taglia di cento genovini. Questa verrà quindi ridotta a cinquanta lire nel caso che sia stato riassicurato ai giudici repubblicani un fuggiasco, condannato in base a crimini non comportanti l'esecuzione capitale, che risulti ascritto ad una delle 28 grandi Case nobiliari di Genova: non trattandosi invece di aristocratici la taglia verrà ulteriormente ristretta a venticinque monete di Stato. Nell'occorrenza però che al catturato, or sorpreso dai vindici fuori cinta e suburbi, condanne e pene siano state comminate dai giudici periferici del Dominio, resterà d'obbligo, pei magistrati, procedere in altro modo e forma, intimando il pagamento della taglia agli abitanti di quel luogo in cui sia avvenuto l'arresto di quel determinato criminale, pur concedendo loro ampia facoltà d'agire in Curia contro tutti i beni superstiti dello stesso, una volta che, per conficsa e pubblico incanto, se ne siano esatte le somme necessarie allo scopo di procurar soddisfazione per tutte le parti lese.

Capitolo LXXV (75)

Chi abbia catturato un bandito, o proscritto che dir si voglia, sia comandato di consegnarlo senza far eccezioni alle autorità della Curia criminale

A chi abbia sorpreso qualsivoglia bandito, tanto in Genova che nel Dominio, resti ineluttabilmente obbligo di farne pronta consegna, al più tardi entro due giorni, in potestà della Curia: in caso avverso, verificandosi in sovrappiù che il catturato sia responsabile d'alto tradimento, costui verrà punito sulla forca col supplizio estremo. Non accadrà ciò, pur violandosi questi nostri dettati, nel caso che il proscritto risulti condannato per altri malefici: si comminerà al contrario una pena nummaria di trecento lire. Nell'evenienza poi che il catturato debba scontare pene a ragion di debiti od altre fraudolenze si provvederà a multare il negligente cacciator di proscritti con ammende, da versare nelle casse fiscali equivalenti a quella già inflitte alla vittima. Se poi sussisterà tergiversazione sì che entro trenta giorni dalla condanna non sarà avvenuta soddisfazione alcuna delle ammende sancite, il responsabile di quest'imbrogli paghi il doppio di quanto intimatogli in prima istanza fin al segno che, a causa d'ulteriori moratorie, lo si possa relegare sui vascelli per tutto quel tempo che il magistrato preposto alla causa giudicherà opportuno.

Capitolo LXXVI (76)

Non si debba mai concedere diritto di foro ad esiliati o banditi

Ad alcun forestato come suol oggi dirsi, e quindi a nessuna persona bandita fuor del dominio o fatta esule per debiti, delitti od altri malefizi ancora, sia lecito rendere lo jus di agire in tribunale a ragion di cose o persone. Oltre che al reo, tal divieto s'intenda esteso, in base questi nostri comandamenti, sia a color che da lui abbian causa quanto pure a chi civilmente agisca in pro dello stesso. Sia al contrario ben cassata suddetta proibizione in occasion che il forestato, bandito od esule che sia, trovandosi detenuto nelle carceri di Stato, abbia fatta comparizione di sè davanti al giudice: attese queste condizioni gli si debba allora sempre concedere l'azione di legge su qualunque circostanza egli esprima intendimento.

Capitolo LXXVII (77)

Sulla procedura da seguire allorché si debba riabilitare gente proscritta, o resa foresta al Dominio per delitti che non comportano pene terminali.

Un proscritto reo di crimini verbali in offesa di qualcuno, si potrà riabilitare solo nel caso che abbia resa piena soddisfazione dell'ammenda comminatagli. Nel caso invece che il danno sia stato perpetrato contro altri beni e proprietà giammai potrà succedere reintegrazione prima che abbia avuto luogo il risarcimento a pro dell'offeso od eredi suoi, sancito secondo stima giudiziale: contestualmente a ciò dovrà concorrere il pagamento delle multe stabilite a titolo di pena o, in caso avverso, della cifra fissata per arbitrato della magistratura. Se il bandito sarà colpevole d'un fra quei delitti che s'espiano con torture e pene fisiche, che in nessun caso però debban essere letali, sarà d'uopo, prima di dar viatico alla liberazione, che da un lato sia precorsa una ratifica di pace fra reo e vittima, se non cogli eredi in caso di sua premorte, e che, d'altro canto, al fisco statale soddisfatte le pene nummarie inflitte in prima istanza: dovendosi invece emancipare un proscritto colpevole d'interessi privati in pubblici uffici converrà l'obbligo perpetuo che, entro i tempi ordinati per legge, sia da lui stata pagata la pena nummaria comminatagli, che per le nostre costituzioni resta sempre fissata al doppio preciso del maltolto e del malversato.
A prolusione di secondo paragrafo sanciamo che, in ogni caso e circostanza, al reo perdonato saranno interdetti per sempre benefici di Stato e pubbliche mansioni: si stabilisce altresì che un proscritto reo d'aver leso qualcuno, dopo la prima condanna, giammai dovrà esser liberato prima che non abbia risarcito la vittima od in alternativa gli eredi della stessa; in occasione di crimini che comportino invece pene corporali nei confronti del riabilitando , perché possa susseguir buon fine della sua causa, gli sorgerà al contrario irrefutabile dovere di pacificarsi cogli aventi ragione da lui offesi o danneggiati: in nessun di questi accidenti potrà venir comunque cassata e risultar quindi inevasa la pena sancita, in proporzione al delitto, secondo le normative di questi nostri Statuti criminali.
In questo ulteriore paragrafo vien poi comandato che in alcuna maniera potrà liberarsi qualche altro colpevole già condannato per crimini diversi da quelli soprascritti; tra gli imperdonabili s'intendono sempre anteposti i condannati a morte ed esiliati a vita: potrà comunque sussistere rara eccezione avverso questo ordinamento in ragion di licenze speciali da concedersi però sempre in rispetto e conformità della vigente legislazione criminale della Serenissima Repubblica.
Poiché, a ragione d'impetrar perdono, ci si appella quasi sempre all'Illustrissimo Doge ed ai Magnifici Governatori vien qui sancito che, sovvenendo suppliche a favore d'un condannato a morte per lesa maestà od altre simili colpe, se non anche a pro di qualche esiliato a vita od anche d'un reo fatto a vita galeotto, sovverrà costante obbligo, in procedura e forma, d'addivenir per richiesta di grazia in presenza dell'Illustrissima Signoria coadunata, leggendo altresì, colla petizione, anche la riuscita della causa e la sentenza di condanna affinché, enunciata per bene ogni cosa, una volta per tutte si debba accettare o meno suddetta petizione. Allorché dall'urne ove votano i Supremi siano state estratte almeno sei pietre bianche su nove, sì che ne consegua piena autorizzazione onde seguitar alla domanda di grazia, gli atti di cui appena sopra si scrisse dovranno essere riletti davanti a Doge, Governatori ed anche Procuratori, al fine di chiedere ancora se sarà da esaudire quanto richiesto a titolo di grazia. Nuovamente asseverando a tale istanza le suddette massime autorità, atto che peraltro vien sancito coi due terzi almeno dei voti bianchi ovvero fausti estratti dalle urne, resterà inevitabile dar luogo alla supplica, sempre che non sia stata avanzata domanda di grazia per qualche reo di lesa maestà, nel qual caso ordiniamo qui che meglio debbano concorrere i quattro quinti delle pietre bianche usate pei voti da deporre nelle urne in segreto. Capitando però che sia stata respinta la supplica esposta alla Signoria e poi di seguito presentata ex novo a questa ancora, in seduta congiunta coi procuratori, sarà d'obbligo sancire qual rigettata la grazia sì da redigere specifico decreto ricusatorio, il quale si registrerà di seguito nel Libro delle Notule che compete all'Illustrissima Signoria. In chiosa poi a quanto scritto, pure fissiamo che debba venir seguita la procedura summenzionata in qualsivoglia altro caso in cui si dibatta l'emancipazione o la riabilitazione di qualche proscritto, conforme a quanto ordinato nel capo criminale che detta sui premi da dare a quanti abbiano ucciso proscritti o condannati a morte: tutto ciò venga seguito per filo e segno pur nella circostanza che un giudice, cui fu conferito ufficio di rivedere e rinnovare il procedimento, sia giunto al segno di farne relazione. Per fine di chiosa sanciamo inoltre che, mancando rispetto a tale nostro ordinamento, la riabilitazione dovrà ritenersi imperfetta, illegale e priva d'alcuna efficacia, sì che in alcun modo possa sovvenire comodo e vantaggio per chi ne abbia fatta supplica.

Capitolo LXXVIII (78)

Sull'esecuzione della sentenza od editto avverso gli esuli

Può verificarsi che un individuo sia stato condannato all'esilio in contumacia sulla base d'una qualche sua confessione, per altrui testimonianza od ancora più spesso dopo legittima probatoria di colpevolezza. E' altresì possibile, se non plausibile, trattandosi d'un esiliato dal corpo sano della Repubblica, che questo cattivo soggetto dovesse espiare gravi crimini suoi quali omicidi od estremi malefici colla pena di morte se non, in subordine, per via di torture mutilanti o di consimili altre sofferenze corporali. Cadendo auspicabilmente in potestà di Curia e giustizia genovese, costui patisca, senza tema ed entro la dilazione massima di tre giorni da quello della cattura, la pena già comminatagli: al giudice che lo condannò spetti sempre far eseguire la sentenza a meno che tal magistrato, per surroga o momentanea assenza, non lo si debba sostituire col legittimo successore o con un giusdicente che abbia competenza del caso. Tenendo fermo l'obbligo di multare in ogni caso i giudici negligenti per cento lire repubblicane, si sancisce in fine di questo capo criminale, che i contumaci, in esilio per malefici comportanti pene nummarie, una volta assicurati alla Curia, siano invece da custodire in carcere finché per lor parte non siano stati saldati, a chi di dovere, debiti ed ammende.

Capitolo<7a> LXXIX (79)

A riguardo dell'esule inadempiente avverso gli editti

Debba sempre punirsi quel bandito o relegato dal complesso del Dominio repubblicano che abbia violato i mandati sì da non raggiungere nel tempo sancito il luogo preordinatogli per l'esilio: valga quanto sopra detto anche a riguardo dell'esule che abbia illecitamente abbandonata la residenza coatta o che per altri possibili versi sia stato inosservante dell'editto pronunciato contro di lui. Si sancisce qui che, raddoppiandosi per legge le pene in caso di contumacia, dovrà esser duplicato l'esilio comminato per un tempo inferiore ai dieci anni o renderlo altrimenti perpetuo quando fosse stata pena di maggior durata.

Capitolo LXXX (80)

In qual modo si debba procedere contro quei cittadini o distrettuali che nei loro castelli o villaggi diano ospitalità ad uno o più esuli

Potrebbe accadere che cittadini genovesi o sudditi distrettuali vengano condannati all'esilio per delitti perpetrati nella città di Genova come in qualsivoglia altra località del Dominio repubblicano se non addirittura in terra forestiera. E' da ascrivere al campo delle plausibilità che dopo la sentenza qualcuno dei suddetti criminali possa indugiare nel buon ricetto di qualche villaggio o castello del Dominio. Di conseguenza neppure è da escludere che, lasciato tal luogo, qualche reprobo ritorni successivamente di nascosto in città a compiervi misfatti, onde poi furtivamente riparare nel villaggio di prima, sì da tentar d'eludere la giustizia.
Non importa che il reo , dal primigenio sito all'atto pratico possa anche sceglierne un altro quale migliore e più facile rifugio e neanche ha qui alcun valore giuridico il fatto che possa trattarsi o meno di pagi distrettuali: in qualsiasi evenienza, sia riconosciuto colpevole quel signore od amministratore locale che abbia disatteso alle direttive dogali e dei Governatori sull'obbligo di non accogliere questi delinquenti, violando nello stesso tempo il contestuale dovere di espellere gli stessi in ogni modo, forma e mezzo. Al capo del luogo incriminato si commini quindi senza esitazioni la pena spettante ai ribelli contro la Serenissima Repubblica: neppure i suoi amministrati, consenzienti e colpevoli mancando prove avverse a ciò, restino esenti da pene e, sentito naturalmente il parere sommo di Doge e Magnifici, possano espiare la presumibile loro correità sin al punto d'essere proclamati nemici della Repubblica.

Capitolo LXXXI (81)

A chiunque resti sempre interdetta la facoltà d'accedere in luoghi tenuti dai ribelli

A tutti, prescindendo dalla rispettiva condizione socio-economica resti sempre proibito raggiungere quelle località che, per bando del Doge e dei Magnifici Governatori, fuor di legge e giustizia risultino tenute in armi dai perfidi ribelli della Signoria. Nella circostanza, auspicabilmente rara, che, pur avendo ben altre mete di destinazione, dei viandanti sian per caso sopraggiunti in terre infestate da ribelli, sarà sempre temibile sfidare anche in un sol punto gli ordinamenti dogali e semmai, con assoluto zelo, si dovrà procedere, da parte degli onesti sudditi, a non contattare in alcun modo siffatti reprobi né a conceder loro alcun abboccamento, sì da far poi conversazione od anche, cosa deprecabilissima, intrattenere quelle negoziazioni che in generale sottintendono traffici, scambi e commerci. Chiunque si troverà apertamente irrispettoso dei bandi di questa Signoria verrà con prontezza ammendato, onde pagare il giusto fio, con pene nummarie che, sentita l'indiscutibile volontà di Doge e Magnifici, potrà esser sancita fra i duecento ed i mille scudi.

Capitolo LXXXII (82)

Giammai si possa incaricare di pubblici uffici e titolature, come della custodia dei fortilizi od ancora dell'ascrizione nei ruoli a stipendio dello Stato tutti coloro che sian stati esiliati per delitti o debiti

Quanti abbian pagato coll'esilio qualche loro debito o crimine delittuoso non possano mai più ricoprire in Genova pubbliche dignità, stare al soldo dello Stato e tantomeno venire eletti a custodi di castelli o forti. Chi abbia contravvenuto a questa norma decada da qualsiasi fra i menzionati incarichi e nella forma risulti come se lo stesso mai li avesse ricoperti.

Capitolo LXXXIII (83)

Sui soldati od agenti della Repubblica che abbiano disertato una volta ricevuto lo stipendio

Può accadere che qualche soldato od agente della Repubblica, incassata la paga, si sia allontanato dal luogo di stanza o consegna, violando gli ordini e senza speciale consenso del Senato. Resta qui sancito che, in caso di cattura, debba egli rimborsare il denaro dello stipendio e contestualmente venga incatenato per un anno come galeotto. A chi l'abbia catturato e quindi consegnato alla giustizia spetti invece la ricompensa di due scudi da parte dello Stato.

Capitolo LXXXIIII (84)

Giammai si possa comprare alcun villaggio, nessun castello e tantomeno una rocca fortificata nel Dominio compreso fra Corvo e Monaco

Resti sempre interdetto, tanto a cittadini genovesi che a sudditi distrettuali ed oriundi della Repubblica, l'assimilazione di qualsiasi villaggio, rocca o castello sito sul Dominio territoriale che si estende da Monaco al Corvo e che discende dai gioghi montani fin alle Riviere della marina. A specificazione del nostro ordinamento sanciamo che debba qui intendersi per assimilazione tanto il prendere possesso dietro pagamento quanto l'acquisire, spontaneamente o per necessità, sotto varie modalità ed a qualunque tipo di trapasso, delle proprietà, sempre che ancora non si intenda l'azione dell'attribuire in potestà. Sarà consentita eccezione solo proponendosi quel passaggio di proprietà che, tra viventi e qual atto di estrema volontà, comporta cessione di un possedimento a pro di quanti, secondo le nostre norme statutarie, sian prossimi in parentela a chi ceda senz'aver fatto testamento: l'eccezione potrà comunque aver vigore solo nel caso che si sia fatta supplica alla Signoria e che quest'ultima abbia ratificata l'accettazione.
A titolo procedurale ordiniamo poi che quando dall'urna elettorale si saranno estratti sei voti bianchi ovvero favorevoli, contro i nove del totale, subito risulterà d'obbligo, perché sussista ammissione di supplica, che la petizione venga trasmessa alla Signoria, ora in sessione plenaria coi Procuratori affinché si sancisca per sempre se dovrà concedersi o meno quanto richiestovi e mantinente venga di seguito fatta votazone di modo che s'abbia accoglienza solo quando saranno stati tratti fuori perlomeno tre quarti di voti bianchi; nulla di ciò potrà invece succedere se la supplica non sarà stata presentata alla Signoria e quindi ancora alla stessa ma in riunione coi Procuratori, sì che sia venuto meno, in tutto od in parte, il rispetto procedurale e sostanziale di cui si è prescritto. Se però qualcuno dei compratori o di quanti abbian voluto acquistare avrà contravvenuto ai suddetti ordini, il Pretore di città dovrà agire prestamente al fine di ricomporre la realtà dei fatti; una volta che il vero sia stato ricostruito ed entro il giro massimo di trenta giorni da quello della vendita od alienazione, il magistrato, in forza di questa sanzione, dovrà aggiudicare a godimento dello Stato, comanderà di farne trascrizione nel Registro e multerà a quanto sarà stato valutato ciò per cui si sarà fatta l'azione legale, sì che della pena nummaria, una volta percepita, se ne potrà sborsare in premio un terzo a chi avrà mosso l'accusa, toccandone invece al fisco repubblicano la rimanente porzione. Doge Illustrissimo, Magnifici Governatori e Procuratori avranno sempre compito, come di già si è scritto, di sovraintendere a tutte queste cose, di modo tale che giammai possa soccorrere qualche fraudolenza.

Capitolo LXXXV (85)

Sugli avvocati e causidici che fan patti di quota

Mentre è giusto e lecito chiedere d'anticipo al litigante quelle spese che saranno da sostenere, resti sempre interdetto e reputato indegnisssima cosa lo stipular patti al fine di versare piuttosto che la quantità realmente sborsata a titolo di spese, che peraltro si deve insieme al compenso, parte o porzione di quanto, volta per volta, sarà stato assegnato a conclusione della lite medesima. In difetto di quanto ordinato può accadere che avvocati, causidici o quanti, a giusto titolo, abbian composto liti altrui sian giunti all'ardimento di chiedere una certa quantità in esito di controversia o come suol anche dirsi abbiano proposto accordi su quota di lite; in conseguenza di ciò, sopraggiungendo accordi e patto, a ragion di cose debba sempre procedersi ad assegnare al fisco repubblicano cosa e prezzo pattuiti contro legge a pro d'avvocati e causidici: se invece si sarà pattuito a ragione di denari, si dovrà pagare al fisco medesimo una somma identica ed in più saranno sempre comminabili ammende da cinquanta a cento scudi, attesa l'entità di quanto perpetrato.

Capitolo LXXXVI (86)

Ai colpevoli si comminino sempre e solo tipi di pene fra quelle ascritte in questi Statuti

In tutte le cause in cui siano da comminare delle punizioni, fisiche o nummarie, ci si debba irrefutabilmente attenere a quanto risulta sancito nelle nostre norme penali e, giammai, s'applichi contro il reo una pena d'entità maggiore, pur nel caso che, vista l'efferatezza del delitto, secondo lo ius delle genti si dovrebbe forse ricorrere a maggior severità.

Capitolo LXXXVII (87)

Su quanti occupino le pubbliche o comunque ne interdicano variamente il libero transito

Chiunque, a Genova ma anche in villaggi distrettuali, abbia occupata a vario titolo la strada pubblica ed in qualsivoglia modo ne abbia interdetto il normale passaggio, resti sempre multato da quindici fin a cinquanta lire per ogni volta che risulti scoperto reo di tal fallo. Se quest'ultimo sarà stato invece perpetrato fuor di cinta o genuense perimetro murario, debbano piuttosto i giudici abbassar la pena da infliggere sì che la stessa oscilli fra i dieci ed i quindici genovini: e finalmente s'applichi ammenda ancora più ridotta, mai fissabile sotto le cinque ed in alcun caso oltre le dodici lire, avverso quanti abbiano occupato vicoli o strade vicinali od interpoderali, sin ad inibire il legittimo passo proprio a quelli che ne spetti invece autentico diritto.

Capitolo LXXXVIII (88)

Su quanti gettano immondizie davanti alle porte di case altrui e su coloro che nei pressi di quest'ultime fan schiamazzi, levando ingiurie ed offese

Può benissimo sovvenire che qualche cattivo soggetto si prenda licenza di gettar sporcizia e corna d'animali davanti a porte di casa altrui, se non addirittura entro i portici o sulle scale; è altresì fattibile che sugli stipiti, quanto sui muri esterni od interni d'una casa, qualcuno appiccichi o dipinga scritte oscene avverso qualsivoglia persona: nemmeno è da scartar l'ipotesi, sempre avallabile in situazioni incerte o dubbiose, che quel malavitoso, di cui si è scritto in apertura del capo criminale, possa valersi d'un qualche complice, cui peraltro abbia prestato aiuti e mali consigli allo scopo di perpetrare siffatte ingiurie. Ponderate dunque queste variabili il giudice, espletata la causa, avrà potestà di multare i rei di tante dannificazioni fisiche e morali a soddisfare pene nummarie di trecento lire a meno che, secondo suoi indiscutibili arbitrati non riterrà doveroso comminar invece tormenti corporali sotto forma di tre giri di corda od anche l'esilio quinquennale fuor di città e distretto. Identica pena si potrà comunque far ricadere su colui che di notte, nei pressi se non proprio davanti alla casa o persin sotto le finestre di un cittadino genovese, d'un suddito distrettuale o comunque d'un qualsiasi residente di Genova e del Dominio, si sia messo a disprezzare un di quei di casa, se uomo o femmina poco conta per la nostra legge, levando canti lubrichi ed osceni o vibrando parole di raggiro e sberleffo a quella guisa che il popolo suol chiamare andar ad incantare chi si voglia. Non resteranno certo impuniti ma anzi subiranno le medesime pene quei tipacci di malaffare che si saranno messi a fare aggregazione con quei rei di cui or ora si è detto, magari portando aiuto o vergognosi consigli od anche mescolando le lor voci al colpevole concerto di chi abbia iniziate le grida avverse e le troppe prese in giro.
Il Pretore di Genova ed i restanti magistrati che abbiano giurisdizione puntualmente agiscano d'ufficio avverso sbeffeggiatori di tal genere, senza trascurare alcun mezzo inquisitoriale o procedurale, anche sotto forma indiziaria o per via di verosimili presunzioni di colpa, finché non siano giunti a punire i rei messi ai ceppi. Sanciamo quindi in chiosa del nostro capocriminale una pena di cento lire per tutte le occasioni in cui un di questi magistrati sian venuti meno ai loro doveri per negligenza professionale se non, per casi estremi e davvero malaugurabili, a ragion di vera e propria malafede.

Capitolo LXXXIX (89)

Sulla necessità di perseguitare tutti gli eretici

Riteniamo meritevole di nostro fermo e grave castigo, perché s'astenga dalle sue tante empietà, quella perfida e menzognera genia degli eretici che da sempre travagliano per squarciare la tunica intatta e senza cuciture di Dio nostro Signore. Questi malvagi cercano infatti di far strisciare la serpe, che suscita divisione e discordie, entro il corpo ben saldo dell'unica indivisibile fede: essi malamente celano l'intenzione di divorare come lupi rapaci l'anima e le sostanze delle pecorelle mansuete che in qualche modo son riusciti a segregare dal gregge già affidato, alla custodia di S.Pietro e dei suoi successori, ad opera del Divin Pastore.
Tenuto conto di quanto si disse, pensiamo opportuno decretare, in base a questa nostra costituzione, che, contro l'idra eretica, qualsivoglia funzionario dello Stato, cittadino di Genova o suddito dei distretti abbia a prestare ogni collaborazione per la persecuzione, cattura e punizione degli eretici al Reverendo Archiepiscopo Genovese od al suo Vicario ed in dettaglio all'Inquisitore generale ed in subordine a qualsiasi vicario, ufficiale o servitore di questi nostri ecclesiastici.

Capitolo XC (90)

Di quanti scavalcano le muraglie urbane od alle stesse accedono per compiere fraudolenze

Può accadere che, di giorno o durante l'oscurità notturna, qualche malintenzionato abbia osato salire in cima alle muraglie di città con l'illecito fine di introdurre o parimenti far uscire dall'urbe oggetti vari, bagagli, merci e qualsivoglia altra cosa [si allude, qui negli Statuti Criminali alla piaga dei contrabbandieri, peraltro diffusa in tutto il Dominio: si vedano i contrabbandieri del sale nel Ponente ligure] In questo capo dei nostri Statuti Criminali sanciamo ora che a tal cattivo soggetto, quanto ai suoi eventuali complici, spetti la condanna capitale, oltre alla perdita di tutto quanto da lui sia stato furtivamente importato od estromesso di città onde incamminarlo lungo le strade o per via di mare. Al complice o correo pentitosi anzi che resti svelato questo genere di misfatto e che ne sia divenuto ben fido delatore nelle persone delle massime autorità repubblicane, si conceda invece una completa immunità e lo si premi piuttosto, per avere in tal modo giovato all'Illustrissimo Doge ed ai Magnifici Governatori, con la ricompensa di venticinque scudi d'oro che, a sicurezza del delatore, verrà sempre vidimata sotto il Sigillo Segreto, onde nulla ne possa trapelare alle maliziose orecchie dei tanti vindici che a ragion di parentele o correità col giudicato sogliono spesso levarsi ed impugnar armi contro delatori e spie della Curia. Si condannino invece alla pena nummaria di cinquecento lire tutti quelli che, dall'ora seconda di notte fin al sorgere del dì seguente, abbiano avuta l'audacia, a ragion di svariati motivi ed occasioni, d'appressarsi, oltre i limiti della perpetua interdizione, all'uno od all'altro versante dei muraglioni della cinta urbana: in alternativa a quanto sopra sian pur comminabili la relegazione coatta di un biennio lungi da Genova e distretti od altrimenti ancora l'imprigionamento sotto specie di galeotti sui vascelli repubblicani. Non si potrà peraltro attribuire alcun genere di responsabilità penale alle sentinelle che, sorpreso un di questi malfattori in flagrante reato, l'abbiano percosso a sangue o addirittura ucciso: per questo capo dei nostri Statuti resti quindi sempre impunito qualsiasi milite omicida di quanti, così fraudolentemente oprando contro lo Stato e con sì grave stoltezza arrischino la propria esistenza.
Solo agli abitanti della villa Charin Iani [corsivo nel testo], comunemente detta di Carignano, sia concesso accostarsi alla cinta fin a dodici passi, poiché alcune lor case sorgon tanto vicine alle mura che, non concedendosi questa licenza, millanta volte in tal luogo si violerebbe, senza lor colpa o frode, il precetto generale dettato nel capitolo. A titolo generale qui, in ultimo, sanciamo poi che per l'irrogazione di tutte queste pene il Pretore debba ogni volta consultare l'Illustrissimo Doge ed i Magnifici Procuratori e che sempre resti obbligato a comminare l'esatta pena nummaria che questi di volta in volta gli intimeranno.

Capitolo XCI (91)

Sull'esazione dai condannati delle pene nummarie

Stabiliamo col presente capo criminale che un condannato a ragion di debiti dovrà saldare le ammende comminategli nel giro dei trenta giorni successivi a quello di condanna ed intimazione senza contare se quest'ultima gli sia stata fatta di persona, in Curia, presso la sua domiciliazione od ancora per via d'un editto. Se al contrario tal criminale risulterà essere al momento sotto custodia entro una delle carceri repubblicane non lo si dovrà liberare senza che abbia pagato il dovuto qual sua pena al fisco della Signoria: in alternativa si potrà comunque concedergli quel lasso di tempo che i Magnifici Procuratori , caso per caso, avranno liberamente ponderato per giusto e conveniente onde rendere soddisfazione alle multe succitate. Contravvenendosi invece a questi comandamenti, il magistrato dovrà far esecuzione tanto avverso il colpevole quanto nei confronti d'un eventuale fideiussore: la procedura avverrà sempre per direttissima e quindi senza processo ordinario sì da comandare immediata subastazione dei loro beni e lesta aggiudicazione degli stessi al miglior offerente. Si concederà tuttavia al fideiussore coinvolto, onde far cassare sue colpe e pene, d'addivenire in pro della giustizia ed obbligare il principal colpevole a rendersi garante e fornire quindi soluzione di multa e, subito dopo, di giusto risarcimento. Allorquando però di questi non sussista alcun bene o comunque non ve ne siano a sufficienza e, mentre che un manchi a riparar quanto deve, l'altro risulti assente, debba comminarsi senza remore il bando da Genova e distretto, esclusa alcuna potestà di far ritorno prima d'aver saldato le ammende sentenziate dalla giustizia criminale.

Capitolo XCII (92)

Non si debba giammai tener conto di raccomandazioni o di quanti si prestano a farne

Resti sempre interdetto a chicchessia, senza far calcolo alcuno di ceto e censo, di raccomandare qualcuno, a voce o per mezzo d'altri, in occasione di cause civili e criminali: il divieto s'intenda contestualmente esteso alle somme autorità repubblicane , sì che neppur Doge, Governatori e Procuratori possano far sentire il loro parere a pro d'una qualsiasi parte, puranco sotto il cavillo di contribuire a far luce per unico bene della giustizia. Oltre che ad essi nemmeno a Pretore di città, al suo Vicario, al Giudice dei Malefici ed agli Ufficiali della Ruota venga altresì consentito dar credito a chiunque, uomo o donna del Dominio come pur forestieri di varia estrazione, personalmente o tramite il concorso d'altri ardisca, con parole e fatti, raccomandare chicchessia in occasione d'una causa civile o d'una controversia criminale da un di quelli presieduta. A tutto quanto sopra farà sempre eccezione il caso di raccomandazioni fatte dai padri pei figli, dai mariti a favore delle mogli, dei suoceri a pro dei generi od ancora da fratelli per fratelli: lo stesso valga naturalmente per quanti patrocinano di professione la causa d'un loro assistito come è caso noto di procuratori, avvocati, tutori, curatori o fidecommissari come si preferisce dire al giorno d'oggi. Tutti quei contravvenienti a questi nostri dettati siano obbligati ad un'ammenda compresa fra i cento ed i duecento scudi d'oro. Chi poi per scritto, a parole od in qualsiasi altra maniera abbia prestato ascolto a chi fa delle raccomandazioni paghi da cinquanta a cento scudi, secondo l'arbitrio, in questo come nell'altro caso, dell'Illustrissimo Doge e dei Magnifici Governatori.

Capitolo XCIII (93)

Su quelli che sposano serve altrui all'insaputa o contro il volere dei lor padroni

Verrà multato con pene nummarie chiunque avrà sposato una serva altrui all'insaputa o contro il volere dei legittimi padroni. Nel caso che la donna discenda da stirpi e popoli d'Oriente l'ammenda sarà fissata sin a trecentocinquanta lire di genovini: somma invero riducibile a duecentocinquanta lire allorquando contrariamente la stessa appartenga a genti nordafricane, quelle che in media si raggruppano sotto l'etnico estensivo di Mauri.
A scanso di plausibili controversie è necessario sancire, nel contesto di questo stesso capo criminale, che si deve ritenere serva quella donna che risieda nelle prossimità dell'abitazione dominicale e risulti addetta a quel tipo d'occupazione che generalmente s'affidano a schiavi e/o servi. Chi venga trovato responsabile di tutto ciò sia punito subito e senza remissione, nella persona o nei beni, e ad unico, insindacabile arbitrio del padrone o della padrona della serva medesima: non possano altresì giammai scarcerarsi i contravvenenti a questo nostro ordinamento penale se non dopo che abbiano saldato i debiti da loro maturati nei confronti della giustizia genovese.

Capitolo XCIIII (94)

Su quanti sostituiscono i neonati all'atto del parto

Vengano condannati al supplizio estremo sulla forca, assieme ad ogni loro complice, tutti quelli che abbiano sostituito un neonato. Loro unici accusatori possano però essere soltanto i genitori del neonato medesimo o quanti comunque ne abbiano la potestà. Non abbia quindi alcun giusdicente facoltà d'agire d'ufficio avverso questo genere di delinquenti.

Capitolo XCV (95)

Sui prevaricatori

L'avvocato scoperto prevaricatore in qualsiasi giudizio, pubblico o privato che sia, e comunque ogni altro individuo reo di consimile misfatto resti sempre obbligato a risarcire chiunque abbia danneggiato. In sovrappiù, oltre a venire sanzionati per via d'una pena straordinaria, codesti malfattori siano sempre svergognati in pubblico coll'applicazione del marchio d'infamia.

Capitolo XCVI (96)

Sui cittadini e sudditi di Genova perpetratori di crimini oltre le frontiere della Signoria

Può capitare che cittadini di Genova, sudditi distrettuali od anche persone residenti in Città o Dominio, abbiano perpetrato qualche delitto al di là delle frontiere, in terra straniera, contro qualche foresto che non tenga casa in terra alcuna della Signoria. Occorrendo suddetta circostanza, tutti i giusdicenti, neppure fatta eccezione per Giudice dei Malefizi o Pretore di Città, s'astengano da ogni tipo d'azione avverso costoro sempre che non intervenga espressa petizione della parte lesa che voglia perseguire l'offesa mossa ed altresì si deroghi dall'astensione ogniqualvolta là, dove fu commesso un crimine, non sian state eseguite a riguardo del colpevole né condanne né tantomeno assoluzioni. Talora altresì accade che un qualche malfattore, già messo al bando dal Pretore di Genova, o da altri giusdicenti , di nuovo, in siti diversi, abbia perpetrato crimini tali da venire esiliato una seconda volta se non altrimenti tormentato a mezzo d'altre pene ancora: verificandosi questa circostanza si tenga l'obbligo di dispensarlo dall'antica pena sì che debba espiare per bene soltanto la novella, quella da ultimo comminatagli. Chi abbia invece commesso malazioni contro cittadini genovesi, sudditi del Dominio o, come già dicemmo, avverso altri residenti sul territorio repubblicano, debba venir sempre condotto in catene alla Curia di Genova od in quella località del Dominio che ne abbia fatta petizione e intenda perseguir l'offesa da lui cagionata: si addivenga a ciò pur nel caso che dove il reo si sia macchiato di colpe già i giudici gli abbiano comminato condanne e pene ma senza che tal cattivo soggetto sia stato innanzi al magistrato e costui, non essendo susseguita collusione alcuna sul doversi condannare o meno, non si sia pronunciato in maniera definitiva. Nel caso poi che suddetto magistrato non abbia ancora fatto pronunciamento ma stia piuttosto conducendo il processo a buon fine, sia d'obbligo per ognuno aspettare l'evento del giudizio né mai al contempo risulti lecito pei Giudici urbani o del Dominio rinnovare l'azione a detrimento di quel criminale.

Capitolo XCVII (97)

Sui magistrati corrotti

Può malauguratamente verificarsi che un giudice a servizio della Serenissima Repubblica si lasci corrompere nell'espletamento delle sue funzioni da una qualsiasi delle parti in causa, che peraltro può risultare costituita da singoli individui come pure da università, corporazioni e collegi. Si intende corrotto quel magistrato che, tramite personali abboccamenti di intermediari e sottoposti, abbia accettato, in relazione ad un procedimento giudiziale, qualsiasi altro compenso al di là della mercede del suo salario sancito dalle nostre sanzioni, da Doge e Governatori oppur ancora fissato dal Serenissimo Senato.
Pertanto il giudice forestiero che abbia materialmente accettato un illecito compenso od anche solo sia stato soddisfatto da promesse di compensi in denaro, paghi per multa al fisco repubblicano la cifra cumulativa di ben quattro volte l'ammontare della somma ricevuta o in qualche modo garantita dai corruttori. Trattandosi invece di cittadino o suddito genovese, il magistrato disonesto da un lato debba sborsare al fisco un'ammenda pari al triplo del vergognoso compenso già pattuito, dall'altro sia obbligato a restituir quest'ultimo per intero a chi glielo abbia versato. Restino altresì obbligati a queste stesse pene quei delinquenti che si sian scoperti implicati in tal crimine a qualsiasi titolo, modo e nome. Colui che, pervertito dalla corruzione, abbia poi giudicato in modo disonesto venga sempre condannato al risarcimento completo di chi sia stato danneggiato per sua colpa nell'ambito d'una causa civile. Oltre a versare nelle casse del fisco il triplo di quanto illecitamente percepito, costui sia pubblicamente disonorato con una irrevocabile nota d'infamia. Se però un giudice sarà stato corrotto nel corso d'una causa criminale, oltre alle summenzionate ammende nummarie, la pena potrà estendersi, secondo parere dell'inquirente e del giudicante che vaglierà le qualità del crimine, da ulteriori multe sin alla tortura e quindi al supplizio estremo. Chi giustamente ed a buon fine abbia avanzate accuse contro un magistrato corrotto o l'abbia denunziato resti compensato con metà della multa comminata al magistrato corrotto. Sarà altresì concessa immunità a quel corruttore che infine avrà denunziato misfatti e giudici comprati: il delatore venga inoltre premiato come sopra si disse ed in più abbia riconosciuta facoltà di recuperare qualcosa almena di quanto abbia iniquamente pagato.
Fin a quando il Giudice eserciterà l'uffizio d'amministrare la giustizia, l'Illustrissimo Senato sovrintenda all'investigazione ed al giudicare su tutte questi summenzionati argomenti . In alternativa al Supremo Collegio repubblicano, sia concesso espletare queste funzioni a magistrati opportunatamente demandati. Fatto ciò i sindicatori rivedano ed abbia vigore di esauriente prova quel genere di presunzioni e di indizi che costoro abbiano giudicato bastante a testimoniare la reità. Peraltro il colpevole sia obbligato a dire il vero sia pagando un'ammenda sia tramite una punizione corporale fissate ad insindacabile arbitrio giudiziale.

Capitolo XCVIII (98)

Sulla bigamia

Restino condannati alla pena nummaria che caso per caso vagliando i colpevoli, il giudice fisserà fra cento e cinquecento lire, quegli uomini che, per quanto abbiano moglie, osino convolare, di lor meditata scelta, a nozze novelle con altre femmine. Tutto quanto sopra s'applichi senza meno alle donne che si siano concesse ad un secondo matrimonio pur essendo di fatto legate ad uno sposo la cui dipartita dal mondo dei viventi, tramite il solito ostentato lutto e le usuali querimonie, giammai venne notificata all'Università delle genti. Si condannino invece a morte, senz'alcuna remissione di pena, quei bigami, d'entrambi i sessi, ch'abbian carnalmente copulato colle persone sposate contro tutte le leggi: in sovrappiù la femmina fedifraga decada, senza frapporsi indugio alcuno, da qualsiasi titolo o diritto sulla sua stessa dote, che verrà al contrario ceduta, secondo modi e forme qui invero già sancite nel capo criminale scritto avverso le mogli fuggiasche. A conclusione sanciamo come, per giusto rigore, l'estremo supplizio neppure si dovrà risparmiare avverso quelle femmine impudiche e scellerate che , pur essendo al corrente d'ogni cosa, si saranno maritate ad uomini ancora lecitamente coniugati coi quali, copulando, avranno quindi cercato i piaceri segreti della fornicazione e del coito.

Capitolo XCIX (99)

Si tormentino con pari pene tanto il mandante d'un delitto quanto il sicario assoldato ed anzi quest'ultimo venga premiato nel caso che, disobbedendo agli ordini, abbia poi vanificato tal crimine.

Può verificarsi che venga talora arrestato il mandante d'un di quei crimini che comportano percosse e ferimenti, benché sia plausibile che in qualche accidente, prevaricando le originali intenzioni, che potevano per esempio costituire in semplici proposizioni di intimorimento ed offese verbali, si sia infine giunti per eccessi d'ira a perpetrare omicidi, ferimenti invalidanti o tali da devastare perpetuamente il volto della vittima. In quest'ultimo nostro capo degli Statuti criminali della Repubblica sanciamo però che non debba giammai sussistere distinguo per tal motivo e che, senza proporre indugi per via di cavilli ed eccezioni, il mandante venga condannato alla stessa pena corporale del malavitoso che egli spedì a perpetrare il delitto. Né mai, per quanto possano sussistere prove evidenti, dovrà punirsi la trasgressione, ad opera d'un sicario, avverso il comando ricevuto, ché piuttosto vogliamo soccorrere costui sì che in qualche modo gliene venga opportuno e adeguato compenso.