DORIA

I Doria e la Signoria genovese di val Nervia

OBERTO DORIA

Oberto Doria, ammiraglio di fede imperiale e Signore di Loano, godeva di prestigio (per la vittoria di Canea, presso l'isola di Candia, sui Veneziani del 1266) e come Capitano del Comune di Genova coll'acquisto di Dolceacqua (1270) organizzò una Signoria in Val Nervia (che per derivazione dai possessi dei Conti di Ventimiglia ha i connotati della SIGNORIA BANNALE).
Era sua ambizione politica quella di fare da cuscinetto, e quindi da intermediario super partes, tra guelfi e ghibellini che ne avevan fatto terra di battaglia.
Sulla scia di una gloria militare che sarebbe divenuta eccelsa dopo la vittoria sui Pisani alla Meloria, Oberto avrebbe ampliato i suoi beni di Dolceacqua, Isolabona ed Apricale con l'assimilazione di Perinaldo e poi di S.Romolo e Ceriana, cui era facile accedere dalla Val Nervia per giungere in valle Argentina.
Agli angioini che apertamente miravano al possesso di una loro via tra "mare e Padania", Genova andava quindi opponendo, sullo storico tragitto Nervia di Ventimiglia-Basso Piemonte, la nuova e forte Signoria del suo più celebre esponente militare.
Così al faticoso tragitto angioino verso Tenda si contrapponeva il tragitto "genovese" del Nervia, ormai di impronta ghibellina.

BARTOLOMEO II (BARTOLOMEO DORIA)

Luca Doria, morto prematuratamente, con testamento del 14-I- 1500 (notaio Francesco Camogli faceva erede della Signoria il figlio Bartolomeo II minorenne, sotto la tutela della madre che, come governatrice e coadiuvata dall'Uditore avvocato Guglielmo de Barfeloni, nel 1502 eleggeva il III console di Dolceacqua, come era diritto del Signore, e poi a identica nomina per Apricale e Isolabona, restituendo autonomia a questo paese, concedendogli il III delle rendite già percepite dai 2 borghi e sancendo la divisione fra i due paesi.
Bartolomeo Doria, forse mandato a Genova per un'adeguata istruzione, secondo notizie del tempo avrebbe dato prova di un'indole aggressiva e viziosa.
In tal frangente apprendeva che che lo zio Giovanni Grimaldi era stato assassinato dal fratello Luciano che il Doria avrebbe odiato per il fatto d'aver sposata la nobile Anna di Ponthevez, da lui amata.
Inoltre il Grimaldi (in senso stretto usurpatore di uno Stato di diritto spettante a Maria di Vinol figlia di Giovanni Grimaldi ma anche suo valoroso difensore contro le aggressioni genovesi del 1506 e 1507, respinte anche grazie ai soccorsi, finanziari e militari, della sorella Francesca, donna di indubbia tempra e forte carattere) rifiutava di versare ai Doria (con estremo dispetto di Bartolomeo II e nonostante alcune intermediazioni diplomatiche) la dote (12.000 scudi d'oro) della stessa Francesca.
Quando però la donna morì a Genova, vene meno la sua funzione di mediatrice morale, come madre e sorella, così che i rapporti tra Luciano Grimaldi e Bartolomeo Doria divennero molto tese.
Bartolomeo II che aveva sposato Peretta Doria (da cui gli eran nati più figli) pretese con crescente insistenza la dote materna (da cui sarebbe stato però escluso secondo lo storico Saige sarebbe stato escluso per il comportamento violento).
Non si esclude che alla base della sua rabbia crescente risiedesse l'abilità persuasiva ed il carisma dello zio, ammiraglio, Andrea Doria, che, nel suo generale programma di potenziamento della propria casata, ben sapeva come, eliminati Luciano ed i suoi eredi, Bartolomeo II figlio di Francesca Grimaldi potesse avanzare fondati diritti su Monaco sì da riunire in sè (e con estremo vantaggio di tutto il ramo dei Doria) due solidi potentati: e su questa ipotesi giunge perlomeno ambigua una lettera dell'agosto 1523 colla quale Andrea Doria, in modo certamente sibillino, "annunciava" a Bartolomeo II che "era tempo di mandare ad esecutione il noto progetto [un messaggio difficile da decifrare a priori ma che, alla luce delle conseguenze, sembrerebbe racchiudere in sè un "ordine", una "autorizzazione" a procedere che, forse, solo l'uomo più potente del Dominio poteva dare senza grossi timori]
Ad onta delle ipotesi la contesa di famiglia giunse comunque presto ad un epilogo tragico.
Con la complicità del fratello naturale Giovanni Battista, prevosto della cattedrale di Ventimiglia, Bartolomeo II scriveva allo zio Luciano, che la mattina del 22 agosto , prima di raggiungere Lione per incontrare Francesco I, re di Francia, si sarebbe fermato in Monaco per rendergli visita.
Il Grimaldi, probabilmente ingannato dai modi premurosi del nipote, prese a correre verso la propria morte: così si curò di inviare a Ventimiglia un suo vascello per il viaggio del Signore di Dolceacqua.
Il breve viaggio per mare procedette senza problemi e come i primi momenti della visita al palazzo di Monaco ove BARTOLOMEO II ricevette sincere, festose accoglinze.
Disposto finalmente il banchetto, il Doria assunse un atteggiamento strano, non assumendo né cibi né bevande e quasi isolandosi in se stesso.
Lo zio Luciano imputò il comportamento a qualche triste e nascosto pensiero: così, nell'intento di rallegrare il congiunto, gli mise sulle ginocchia un suo bambinello: ma fu tosto costretto a ripigliarselo, venendo colto il Doria da subitaneo tremito in tutte le membra. Avrebbe potuto bastare un solo di questi indizi a porre in guardia il Signore di Monaco; ma invece fiducioso, invitato dal nipote di volergli dare alcune istruzioni, mentre si avviavano al gabinetto di studio, venivano sopraggiunti dal maestro di palazzo, annunziante, essere in vista del porto quattro galee.
Ripigliava tosto il Doria, esser quella la squadra de] congiunto Andrea, cui indirizzava subito una lettera di preghiera, per invitarlo a discendere a terra; ma per farla recapitare occorrendo apposita imbarcazione, riuscl il traditore ad allontanare dal Palazzo, con un fidato ufficiale, quattordici marinai.
Congedati allora i famigli e il segretario, dicendo il Doria di scrivere egli stesso quanto avrebbe dettato lo zio, entrava nello stanzino certo Barraba di San Remo, che chiudeva tosto la porta. Era quello il segnale; e il Bartolomeo avventatosi furiosamente contro Luciano con uno stilo, acciuffatolo pei capegli e aiutato dal Barraba, riusciva con trentadue pugnalate a farlo cadere esanime per terra.
Alle prime grida di traditore emesse dal Grimaldi, era accorso uno schiavo moro, che per nessun conto avea voluto abbandonare la galleria; ma era troppo tardi e vedeva uscire invece colla spada sguainata il Doria, che gridando ammazza, ammazza, ordinava ai congiunti di cacciare colle armi tutti i servi di Luciano, dicendo appartenere la signoria a Maria di Vinol. Ma questi invece essendosi afforzati nella loggia, da dove non pote partire una colonna di fumo, che doveva avvertire le galere per entrare nel porto, alzandosi alte e forti le grida della popolazione costernata alla vista del trucidato Signore, vedendosi il Doria a mal partito, scese a patti e si obbligò di sloggiare, salva la vita; il che accordato, potè a stento coi suoi riparare in quel di Turbia.
VIII.—Era appena partito il Doria, che arrivava casualmente nella costernata citta, proveniente da Canoa, Agostino Grimaldi ve- scovo di Grassa, fratello dell'ucciso Luciano; e fu vero favore della sorte, se avvicinato alle galere del Doria e richiesto dell'esser suo celò il nome, affine di evitare lunghe cerimonie; poiche a cosi innocente dissimulazione dovette egli la vita. Quale effetto produssero in lui le grida e i pianti della popolazione mossagli incontro e la notizia del feroce assassinio, non dico; pare per altro che rispon dendo ai sensi di una giustissima ira, inviasse sollecito un corpo di armati per impossessarsi della persona dell'assassino e dei complici. Erano questi infatti raggiunti a Turbia, ma gli ufficiali del duca di Savoia e la popolazione, adducendo la violazione di territorio che si sarebbe commessa, mandarono delusi gli armati accorsi, e il Doria dovette a questo espediente, se salvo potè riguadagnare il suo castello di Dolceacqua, per ripartire tosto non tenendosi quivi sicuro. Intanto alla fama dell'orrendo misfatto, erano tenuti dietro decreti del re di Francia del 7 di ottobre e del duca di Savoia del 13 dello stesso mese (1523), coi quali si ordinava la ricerca e l'arresto del Doria e de' suoi complici. Non tardarono simili provvedimenti per parte dell'imperatore Carlo V, il quale con sue lettere del 5 novembre, dirette a tutti i principi ecclesiastici e secolari ed un' altra al Duca Francesco Sforza, dichiarando incorso nel bando dell'Impero e decaduto perciò dai suoi feudi il Doria, ordinava l'arresto dell'omicida e commetteva allo Sforza d'istruirne regolare processo. In così grande pericolo non restava al Doria altro rifugio, che di fare offerta de' suoi feudi al Duca di Savoia per venirne quindi investito. Ed aiutato in queste difficili pratiche dal potente Andrea Doria, otteneva nel marzo del 1524 dal detto Duca un salvocondotto, con condizione che venisse a presentarsi in corte, e quindi nel successivo giugno altro salvocondotto per la moglie Peretta Doria, pei figli Imperiale, Stefano e Camilla, pel fratello Luca, pel compare Luca Sperone e pei famigli, ai quali era fatta facoltà di abitare a scelta nei paesi di Pigna, Breglio o Saorgio e di aver quivi la provvista del necessario per vivere. Il primo luglio ebbe luogo la professione di vassallaggio, fatta in Ciamberi dal Doria per le terre di Dolceacqua, Perinaldo, Apricale ed Isolabona e seguì tosto la investizione, fatta dal Duca Carlo III; cosicchè col principiare del XVI secolo, tutti i paesi di val di Nervia, all'infuori di Camporosso e Castelfranco, erano dipendenti dalla Corona sabauda A questo punto s'intrecciano e chiamano senza indugio di esser registrati altri avvenimenti, necessari all'intelligenza del dramma ora incominciato, degno di quell'età, celebre non meno pei suoi splendori artistici e letterarii, che pel grande numero di esecrati delitti.

FRANCESCO DORIA

Vivente il padre, avea mostrato sensi di conciliazione e che si era avvisto per prova quanto si guadagnava a lottare coi potenti, mostrandosi disposto a soscrivere le condizioni che dalla Corte ducale venivano imposte, nominava a suo Procuratore presso il Duca Carlo Emanuele I il gia citato monsignor Cotta Sismondi da Ventimiglia, il quale avea riportato fama di abile negoziatore politico, nella qualità di llditore del vescovo Gavotti nella sua legazione presso gli svizzeri. Bastò che egli non si opponesse ad accogliere le clausole d'investitura, usate nel 1524 collo sventurato Bartolomeo Doria, perche ogni diffilcoltà venisse appianata e perchè oltre alla reintegrazione negli antichi feudi, venisse assegnata al novello signor Francesco Doria una pensione annua di lire due mila (5 gennaio 1652) e perche pochi giorni dopo, per grazia speciale, i feudi di Dolceacqua, Perinaldo, Apricale, ed Isolabona fossero eretti in titolo marchiorale e mantenuto in comitato quello di Rocchetta. Che il novello marchese fosse entrato pienamente nelle grazie del monarca sabaudo, e fatto chiaro dal matrimonio, che egli nel 1660 pote contrarre con donna Lucrezia del Pozzo dei Principi della Cisterna, marchesi di Voghera, casato dei piu in credito e potenti nella corte ducale, alle cui insistenze non fu certo estraneo il conferimento del collare supremo della SS. Annunziata, fatto poco dopo al Doria.gSperava egli mercè così forti aderenze di ottenere nel 1671 di esser investito del luogo di Pigna, ma essendo trapelate tali pratiche, si trovarono cosi forti opposizioni, che il tentativo andò fallito.
Intanto era sorta nel 1672 a turbare la sua quiete, la guerra scoppiata fra il Duca sabaudo e la Repubblica di Genova.

Il generale genovese Prato (scrive ancora G. Rossi nella sua Storia del Marchesato di Dolceacqua in merito alla guerra tra Genova e il Piemonte sabaudo del 1672] partito da Ventimiglia il 10 ottobre assaliva il castello di Dolceacqua, nel quale con forte presidio erasi forticato il Marchese di Entraque.
Dolceacqua stava per cedere agli assalitori quando il Prato informato che un contingente nemico aveva assalito Penna e minacciava Ventimiglia, temendo di trovarsi rinchiuso fra due fuochi, ordinava una pronta ritirata.
Ma era egli giunto appena nelle vicinanze di Camporosso, che si accorse di'essere inseguito alle spalle dai soldati, che egli avea resi liberi col partire; ed ordinato un alto, presso la chiesuola di San Pietro annessa al cimitero, aiutato di consigli ed opera da uomini di Camporosso, rosi da lungo astio contro quelli di Dolceacqua, fu in grado d'ingaggiare in favorevoli condizioni i un'aspra zuffa contro gli assalitori.
Durò essa accanita per più ore, volgendosi alla fine in aperto sbaraglio contrario ai ducali, che dovettero ritirarsi malconci, lasciando morti sul campo sessantasei di loro, oltre non pochi feriti e prigionieri.
Questi perturbamenti guerreschi forse contribuivano fortemente a deteriorare lo stato morale del marchese, che assalito da tetra melanconia e disgustato di tutto e di tutti, benché avesse appena varcati nove lustri, si mostrava deciso di voler consacrare a Dio gli ultimi anni di sua esistenza, vestendo l'abito degli Agostiniani Scalzi nel convento di N. D. della Muta.
A nulla valsero i consigli dei congiunti più stretti, che gli rappresentavano, essere ancora nella troppo tenera eta di diciotto anni il primogenito Carlo Imperiale, per potersi addossare le cure del governo; il marchese si mostro irremovibile nel suo proposito; e il 22 aprile dell'anno 1676, per pubblico atto, facea rinunzia del marchesato e del contado al suo primogenito, dicendo .} essere sua intenzione di rendersi claustrale. Il che pero non fece mai nei dieci anni di vita che ancora meno, durante i quali forte dubitiamo, non lo stimolassero ripetute volte, nuovi desiderii di comando, non avendo luogo abdicazione senza pentimento. La morte venne a coglierlo il 9 gennaio dell'anno 1686, sepolto il giorno 2 nella cripta di S. Giorgio con solenni funerali e con orazione funebre recitata dal poeta e letterato braidese Andrea Valfrè".