cultura barocca
Informatizzazione a cura di di Bartolomeo Ezio Durante

Il nome del genere deriva dal greco koris = elmo, oppure da kurl, il nome celtico della pianta che nell'antichità aveva un notevole uso nel campo che oggi definiamo di Erboristeria e Fitoterapia e che rientrò nell'opera di Rizotomi, Erboristi, Aromatari, Donne Rimedianti poi elette a livello di Streghe = l'uso dell'Avellana finì per esser contrastato come simbolo di ritorni al Paganesimo e come tale divenne uno strumento attribuito alle Streghe e quindi da persegguire in forma inquisitoriale specie in connessione a quanto operavano le streghe della Della superstitiosa noce di Benevento come nel '600 scrisse il Piperno: albero malefico in grado non solo di essere punt di riferimento per i Sabba ma anche per fornire strumenti malefici alle maliarde.
L 'epiteto specifico deriva da Avella, città avellinese famosa fin dall'antichità per la bontà delle sue nocciole.
La pianta ha portamento a cespuglio o ad albero e raggiunge l'altezza di 5-7 m.
Ha foglie decidue, semplici, cuoriforme a margine dentato.
È una specie monoica dicline. Le infiorescenze sono unisessuali. Le maschili in amenti penduli che si formano in autunno, le femminili somigliano ad una gemma di piccole dimensioni.
Ogni cultivar di Nocciolo è autosterile ed ha bisogno di essere impollinata da un'altra cultivar.
Il frutto (la ben nota nocciola o nocciolina) è avvolto da brattee da cui si libera a maturazione e cade. Esso è commestibile ed è ricco di un olio, usato sia nell'alimentazione che nell'industria dei colori e in profumeria.
Il suo areale geografico naturale è europeo-caucasico, va dalla Penisola iberica e Inghilterra fino al Volga, e dalla Svezia alla Sicilia. La distribuzione altitudinale è da collinare a medio-montana.
Rifugge le aree mediterranee più calde ed aride.
Preferisce terreni calcarei, ben drenati, fertili e profondi.
L'habitat naturale è costituito da boschi di latifoglie, soprattutto querceti misti mesofili, radure e margini.
Può formare boschetti pionieri su terreni freschi pietrosi, in consociazione con aceri o pioppo tremolo.















Tra i Celti la nocciola era tra i simboli della saggezza (pare che mangiare nocciole venisse considerato un buon viatico alla conoscenza), ed il legno della pianta serviva alla creazione di tavole divinatorie.
Anche l’utilizzo di rami biforcuti da parte dei rabdomanti è spesso legato esclusivamente al legno di nocciolo.
I Romani distribuivano nocciole durante le nozze, a scopo propiziatorio.
Il caduceo, simbolo della medicina e legato al dio greco Hermes, rappresenterebbe centralmente un bastone di nocciolo.
Ma i sospetti mggiori derivano da altre fonti e specificatamente dal discorso qui sotto elaborato delle Streghe di un malefico abero di noce di Benevento.
Unguento unguento
portami al noce di Benevento
sopra l'acqua e sopra il vento
e sopra ogni altro maltempo.
(Formula magica che molte donne accusate di stregoneria riferirono durante i processi)
Le ipotesi sulla genesi della leggenda delle streghe sono molte, e probabilmente è stata la combinazione di più elementi a dare a Benevento la duratura fama di "città delle streghe".
In epoca romana si era diffuso per un breve periodo a Benevento il culto di Iside, dea egizia della luna; l'imperatore Domiziano aveva anche fatto erigere un tempio in suo onore.
All'interno di questo culto Iside faceva parte di una sorta di Trimurti: veniva identificata con Ecate, dea degli inferi, e Diana, dea della caccia.
Inoltre queste divinità avevano rapporti con la magia.
Il culto di Iside sta probabilmente alla base di elementi di paganesimo che perdurarono nei secoli successivi: le caratteristiche di alcune streghe sono ricollegabili a quelle di Ecate, ed inoltre lo stesso nome con cui viene indicata la strega a Benevento, janara, sembra possa derivare da quello di Diana.
Il protomedico beneventano Pietro Piperno nel suo saggio Della superstitiosa noce di Benevento (1639, traduzione dall'originale in latino De Nuce Maga Beneventana) fa risalire le radici della leggenda delle streghe al VII secolo.
All'epoca Benevento era capitale di un ducato longobardo e gli invasori, pur formalmente convertitisi al cattolicesimo, non rinunciarono alla loro religione tradizionale pagana.
Sotto il duca Romualdo essi adoravano una vipera d'oro (forse alata, o con due teste), che probabilmente ha qualche relazione con il culto di Iside di cui sopra, dato che la dea era capace di dominare i serpenti.
Cominciarono a svolgere un rito singolare nei pressi del fiume Sabato che i Longobardi erano soliti celebrare in onore di Wotan, padre degli dèi: veniva appesa, ad un albero sacro, la pelle di un caprone.
I guerrieri si guadagnavano il favore del dio correndo freneticamente a cavallo attorno all'albero colpendo la pelle con le lance, con l'intento di strapparne brandelli che poi mangiavano.
In questo rituale si può riconoscere la pratica del diasparagmos, il dio sacrificato e fatto a pezzi, che diviene pasto rituale dei fedeli.
I beneventani cristiani avrebbero collegato questi riti esagitati alle già esistenti credenze riguardanti le streghe: le donne e i guerrieri erano ai loro occhi le lamie, il caprone l'incarnazione del diavolo, le urla riti orgiastici.
Un sacerdote di nome Barbato accusò esplicitamente i dominatori longobardi di idolatria.
Secondo la leggenda, nel 663 il duca Romualdo, essendo Benevento assediata dalle truppe dell'imperatore bizantino Costante II, promise a Barbato di rinunciare al paganesimo se la città - e il ducato - fossero stati risparmiati.
Costante si ritirò (secondo la leggenda, per grazia divina) e Romualdo fece Barbato vescovo di Benevento.
Barbato stesso abbatté l'albero sacro e ne strappò le radici, facendo costruire nel posto una chiesa, chiamata Santa Maria in Voto.
Romualdo continuò ad adorare in privato la vipera d'oro, finché la moglie Teodorada la consegnò a Barbato che la fuse ottenendo un calice per l'eucaristia.
Tale leggenda è incompatibile con i dati storici: nel 663 era duca di Benevento Grimoaldo, mentre Romualdo I sarebbe subentrato al predecessore, divenuto nel frattempo re dei Longobardi, soltanto nel 671; inoltre, la moglie di Romualdo I si chiamava Teuderada (Theuderada) e non Teodorada, che era invece la moglie di Ansprando e madre di Liutprando.
In ogni caso, Paolo Diacono non fa alcun cenno alla leggenda, né a una presunta fede pagana di Romualdo, molto più probabilmente di credo ariano come il padre Grimoaldo.
Le riunioni sotto il noce, uno dei tratti salienti della leggenda delle streghe, provengono quindi molto probabilmente da queste usanze longobarde; tuttavia si ritrovano anche nelle pratiche di culto di Artemide (la dea greca in parte assimilabile ad Iside) svolte nella città di Caria.
I primi secoli di diffusione del Cristianesimo furono caratterizzati da un'aspra battaglia contro i culti pagani, contadineschi e tradizionali.
Il principio di base è che qualsiasi culto non rivolto all'unico Dio buono è, per esclusione, un asservimento al diavolo.
Così si spiega la demonizzazione di rituali come quelli delle donne longobarde a Benevento, le quali divennero "streghe" in un senso anche più ampio rispetto a come erano intese dalla cultura popolare.
Originariamente, infatti, la potenziale malvagità di queste donne non veniva inquadrata in senso religioso; fu il cristianesimo a dipingerle come donne che hanno fatto un patto col demonio, e come una sorta di opposto della Madonna, dedite ai riti orgiastici e portatrici di infertilità.
Nei secoli successivi la leggenda delle streghe prese corpo.
A partire dal 1273 tornarono a circolare testimonianze di riunioni stregonesche a Benevento.
In base alle dichiarazioni di tale Matteuccia da Todi, processata per stregoneria nel 1428, esse si svolgevano sotto un albero di noce, e si credette che fosse l'albero che doveva essere stato abbattuto da san Barbato, forse risorto per opera del demonio.
Più tardi, nel XVI secolo, sotto un albero furono rinvenute ossa spolpate di fresco: andava creandosi un'aura di mistero attorno alla faccenda, che diveniva gradualmente più complessa.
Secondo le testimonianze delle presunte streghe, il noce doveva essere un albero alto, sempreverde e dalle qualità nocive.
Sono svariate le ipotesi sull'ubicazione della Ripa delle Janare, il luogo sulla riva del Sabato dove si sarebbe trovato il noce.
La leggenda non esclude che potessero essere più di uno.
Pietro Piperno, pur proponendosi di smentire la diceria, inserì nel suo saggio una piantina che indicava una possibile collocazione del rinato noce di san Barbato, nonché della vipera d'oro longobarda, nelle terre del nobile Francesco di Gennaro, dove era stata apposta un'iscrizione per ricordare l'opera del santo.
Altre versioni vogliono il noce posto in una gola detta Stretto di Barba, sulla strada per Avellino, dove si trova un boschetto fiancheggiato da una chiesa abbandonata, o in un'altra località di nome Piano delle Cappelle.
Ancora, si parla della scomparsa Torre Pagana, sulla quale fu costruita una cappella a San Nicola dove il santo avrebbe fatto numerosi miracoli.
La leggenda vuole che le streghe, indistinguibili dalle altre donne di giorno, di notte si ungessero le ascelle (o il petto) con un unguento e spiccassero il volo pronunciando una frase magica (riportata all'inizio della pagina), a cavallo di una scopa di saggina o, secondo altre versioni, in groppa ad un "castrato negro" voltandogli le spalle.
Contemporaneamente le streghe diventavano incorporee, spiriti simili al vento: infatti le notti preferite per il volo erano quelle di tempesta.
Si credeva inoltre che ci fosse un ponte in particolare dal quale le streghe beneventane erano solite lanciarsi in volo, il quale perciò prese il nome di ponte delle janare, distrutto durante la seconda guerra mondiale.
Ai sabba sotto il noce prendevano però parte streghe di varia provenienza.
Questi consistevano di banchetti, danze, orge con spiriti e demoni in forma di gatti o caproni, e venivano anche detti giochi di Diana.
Dopo le riunioni, le streghe seminavano l'orrore.
Si credeva che fossero capaci di causare aborti, di generare deformità nei neonati facendo loro patire atroci sofferenze, che sfiorassero come una folata di vento i dormienti, e fossero la causa del senso di oppressione sul petto che a volte si avverte stando sdraiati.
Si temevano anche alcuni dispetti più "innocenti", per esempio che facessero ritrovare di mattina i cavalli nelle stalle con la criniera intrecciata, o sudati per essere stati cavalcati tutta la notte.
In alcuni piccoli paesini campani, tra gli anziani circolano ancora voci secondo cui le streghe di Benevento, di notte, rapiscano i neonati dalle culle per passarseli tra loro, gettandoli sul fuoco, e terminato il gioco li riportino lì dove li avevano presi.
Le janare, grazie alla loro consistenza incorporea, entravano in casa passando sotto la porta (in corrispondenza con un'altra possibile etimologia del termine da ianua, porta).
Per questo si era soliti lasciare una scopa o del sale sull'uscio: la strega avrebbe dovuto contare tutti i fili della scopa o i grani di sale prima di entrare, ma nel frattempo sarebbe giunto il giorno e sarebbe stata costretta ad andarsene.
I due oggetti hanno un valore simbolico: la scopa è un simbolo fallico contrapposto alla sterilità portata dalla strega, il sale si riconnette con una falsa etimologia alla Salus.
Se si era perseguitati da una janara, ci si liberava di essa urlandole dietro "Vieni domani a prendere il sale!"; se si nominavano le janare in un discorso, si scongiurava il malaugurio con la frase Oggi è sabato.
. Oltre alle janare vi sono altri tipi di streghe nell'immaginario popolare di Benevento.
La Zucculara, zoppa, infestava il Triggio, la zona del teatro romano, ed era così chiamata per i suoi zoccoli rumorosi.
La figura probabilmente deriva da Ecate, che indossava un solo sandalo ed era venerata nei trivii ("Triggio" deriva proprio da trivium).
Vi è poi la Manalonga (= dal braccio lungo), che vive nei pozzi, e tira giù chi passa nelle vicinanze.
La paura dei fossi, immaginati come varchi verso gli inferi, è un elemento ricorrente: nel precipizio sotto il ponte delle janare vi è un laghetto in cui si creano improvvisamente gorghi, che viene chiamato il gorgo dell'inferno.
Infine vi sono le Urie, spiriti domestici che ricordano i Lari e i Penati della romanità.
Nelle credenze popolari la leggenda delle streghe sopravvive in parte ancora oggi, arricchendosi di aneddoti e manifestandosi in atteggiamenti superstiziosi e paure di eventi soprannaturali.
Le persecuzioni delle streghe possono considerarsi iniziate con le prediche di San Bernardino da Siena, che nel XV secolo predicò aspramente contro di loro, con particolare riferimento a quelle di Benevento.
Spesso egli le additava al popolo come responsabili delle sciagure, e senza mezzi termini affermava che dovevano essere sterminate.
Un'ulteriore spinta alla caccia alle streghe venne data dalla pubblicazione, nel 1486, del Malleus Maleficarum, che spiegava come riconoscere le streghe, processarle ed interrogarle efficacemente tramite le più crudeli torture.
In questo modo, tra il XV e il XVII secolo furono estorte numerose confessioni di supposte streghe, le quali più volte parlano di sabba a Benevento.
Si ritrovano elementi comuni come il volo, pratiche come quella di succhiare il sangue dei bambini, tuttavia si trovano discrepanze circa, per esempio, la frequenza delle riunioni.
Nella massima parte dei casi le "streghe di Benevento" erano bruciate, mandate al patibolo o comunque punite con la morte con metodi più o meno atroci.
Solo nel XVII secolo ci si rese conto che non potevano essere veritiere confessioni fatte sotto tortura.
In epoca illuministica si fece strada un'interpretazione razionale della leggenda, con Girolamo Tartarotti che nel 1749 spiegò il volo delle streghe come un'allucinazione provocata dal demonio, o Ludovico Antonio Muratori che nel 1745 affermò che le streghe sono solo donne malate psichicamente.
Ipotesi successive vorrebbero che l'unguento di cui le streghe si cospargevano fosse una sostanza allucinogena.
Uno storico locale, Abele De Blasio, riferì che nell'archivio arcivescovile di Benevento erano conservati circa
200 verbali di processi per stregoneria, in buona parte distrutti nel 1860 per evitare di conservare documenti che potessero infiammare ulteriormente le tendenze anticlericali che accompagnarono l'epoca dell'unificazione italiana (vedi e consulta i fondamentali Indici).
Altri danni e distruzioni dipesero poi dai bombardamenti del II conflitto Mondiale (basta qui guardare cosa accadde dell'Abbazia di Montecassino) = ma pian piano la pazienza di storici e filologi molto va recuperando e chissà cosa potrà ancora sapersi! .
[Trattazione elaborata dal materiale di Wikipedia l' Enciclopedia Libera on line]

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