Per quanto non se n'abbia documentazione corretta
in EPOCA CAROLINGIA il COMITATO (CONTEA) DI VENTIMIGLIA senza dubbio vantò dei propri conti.
Nella RISTRUTTURAZIONE IN GRANDI MARCHE DELL'ITALIA DI NORD OVEST, sancita nel 950-51 da BERENGARIO II per affrontare il pericolo saraceno, il Comitato di Ventimiglia risultò soggetto al marchese Arduino il Glabro, come risulta dal privilegio alla comunità di Tenda, Briga e Saorgio, posta nel Comitato di Ventimiglia.
Non è noto se i marchesi governassero direttamente questo Comitato sotto il titolo conti oppure se esistesse una dinastia di conti locali, subordinati ai marchesi.
La serie accertata dei conti di Ventimiglia data dal 1038 con Corrado, figlio di Corrado.
A Romeo Pavoni (pp.155-116 e note) si deve forse la più esauriente topografia del COMITATO INTEMELIO.
Dopo aver rammentato che tutti i COMITATI CAROLINGI DELLA LIGURIA ricalcavano in definitiva la strutturazione amministrativa degli antichi municipi imperiali romani, lo studioso specificatamente scrive:"A occidente il Comitato di Ventimiglia ripeteva lo stesso confine della civita tardo imperiale: dal Monte Bego all'Alpis Summa, la medievale Turbia, comprendendo il bacino della Roia e lasciando la valle della Vesubia al Comitato di Nizza. Era lo spartiacque alpino che in precedenza aveva segnato il confine fra le Gallie e l'Italia, quando, nel III secolo, la striscia costiera tra il Varo e l' Alpis Summa, che dipendeva originariamente da Marsiglia, fu annessa alla Provincia delle Alpi Marittime. Su questo lato i confini diocesano e comitale coincidevano: la documentazione medievale attesta che alla Diocesi e al Comitato di Ventimiglia appartenevano Tenda, Saorgio, Breglio, la Menour, Sospllo, Braus, Castiglione, Gorbio, Roccabruna e la vallis Carnolensis presso il monte Agel. Un problema a sé è costituito da Monaco la cui dipendenza è incerta.
Anche a settentrione il confine era dato dallo spartiacque alpino, che divideva la Diocesi e il Comitato di di Ventimiglia dalla Diocesi di Torino e dal Comitato di Bredulo [compreso tra la displuviale della Stura-Gesso, lo spartiacque della Alpi Marittime, il Casotto, la Corsaglia, il Tanaro e la Stura].
Più complicata è l'individuazione del confine orientale con la Diocesi e il Comitato di Albenga. Il torrente Armea, considerato generalmente come elemento separatore fra i due comitati, divideva in realtà, nel suo corso inferiore ifines Matutianenses dai fines Tabienses. Infatti Taggia, Bussana e Arma appartenevano al Comitato di Ventimiglia, che pertanto doveva arrivare fino al torrente San Lorenzo e al Monte Faudo, ove iniziava il territorio di Porto Maurizio, compreso nel Comitato di Albenga.
Più a nord il confine doveva seguire la displuviale fra le valli dell'Argentina, da un lato, e di Oneglia e dell'Arroscia, dall'altro fino al Monte Saccarello.
Infatti nella prima metà del XIII secolo il conte Oberto di Ventimiglia era il signore di Rezzo, Carpasio, Montalto, Badalucco, Arma, Bussana, Baiardo, Castelvittorio e Triora.
Di fatto dominava l'intera valle Argentina: una signoria talmente vasta e compatta che poteva essergli pervenuta soltanto come erede degli antichi titolari del Comitato di Ventimiglia, che doveva dunque comprendere questo territorio".
Poco è invece risaputo in merito alla società ventimigliese di questa età. Di sicuro la maggioranza della popolazione era formata da discendenti dei liguri romanizzati di Albintimilium, ma sembra arduo meditare su una possibile correlazione culturale.
Le professioni di legge romana, contenute in documenti propri di questo periodo, non devono fuorviare gli studiosi: in esse non si rispecchia un sistema sociale, demico e giuridico che aveva custodito gli elementi portanti dell'ecumene romana e che comunque continuava ad operare seguendo i dettami della struttura legislativa e giurisdizionale propria della classicità imperiale.
A Tenda, a Briga, a Saorgio, per esempio, la costumanza del duello giudiziario era sì proibita in particolari contingenze onde favorire gli abitanti nei riguardi del conte e degli stranieri ma era al contrario, pienamente, accetta ai fini della risoluzione di contenziosi intercorrenti fra siffatti abitanti.
E del resto si evince dall'analisi critica di antichi documenti che ancora verso il 1162 questa sorta di ordalia d'ascendenza germanica vigeva senza problemi nel contesto di persistenze controversie tra le comunità di Briga e Tenda. Peraltro la federazione instaurata il 29 maggio 1233 fra Briga, Tenda, Saorgio e Breglio sanciva la possibilità, da parte di fosse accusato d'un furto, di chiedere ai giusdicenti la prova del ferro rovente.
A Ventimiglia, nell'alta valle del fiume Roia e così pure nei fines Matutianenses e Tabienses, prendeva intanto piede una classe di uomini liberi in possesso sì di beni allodiali e beneficiari ma in rapporto vassallatico con i conti cui dovevano sempre garantire le proprie prestazioni militari.
La citazione di "manenti", doverosamente redatte nelle consuetudini di Tenda, Briga e Saorgio o, parimenti, dei famuli Sancti Siri a Sanremo attesta inoltre lo sviluppo crescente di una classe di servi e semiliberi, variamente legati alla terra.
Il quadro generale, in ossequio alla scuola storica di tradizione giuridica, è quindi quello per cui i CONTI DI VENTIMIGLIA potessero essere espressione compiuta di un'antica SIGNORIA BANNALE.
Tracce di siffatta postazione giuridica e giurisdizionale paiono comunque riflettersi nella rara e quindi preziosa documentazione penale superstite del paese, in val Nervia di Apricale in cui, pur nell'effimera esperienza comunale, persistettero norme giuridiche proprie della SIGNORIA BANNALE e peraltro derivanti dalla LEGGI GERMANICHE DEL DIRITTO.
Oltre a ciò vale la pena di menzionare come allo scontro fra popolo e SIGNORIA BANNALE, con tutto il relativo concorso di altre istituzioni, si sia evoluto e sia quindi maturato lo scontro, avverso la decadente feudalità dei Conti intemeli, del LIBERO COMUNE DI DOLCEACQUA.
A fronte del generale degrado di cui si è detto, sarebbe comunque errato ritenere che nel comitato intemelio mancasse un'attività marinaresca. I possessi lerinesi a Ventimiglia, a Saorgio e a Seborga, i diritti della Chiesa di Genova sui fines Matutianenses e Tabienses inducono a pensare, senza troppi interrogativi, alla necessità di comunicazioni, anche mercantili, supportate da una navigazione di cabotaggio, sia con la Provenza che con Genova.
L'idea di un sufficiente spostamento per via di mare è confortata da documenti corretti quanto esaustivi: si può menzionare, a guisa d'utile esempio, quello che riporta notizie sul viaggio marittimo compiuto nel 1038, dal conte intemelio Corrado, proprio a Genova al fine di concedere l'immunità sui beni della Chiesa, od ancora è utile citare la tariffa doganale genovese del 1128 che, imponendo un dazio di quattro denari pavesi antichi a ogni mercante di Ventimiglia e di Albenga, in definitiva permette allo studioso contemporaneo di tracciare una plausibile linea di considerazioni sulla frequenza degli spostamenti marinareschi, per traffici e per mercanteggiare, da parte dei ventimigliesi .
Allo stato attuale delle documentazioni sembrerebbe tuttavia che Ventimiglia non abbia risentito di un progresso mercantile prossimo a quello di altri centri liguri medio-grandi come Savona, Noli e Albenga. Una prova di ciò, a giudizio di Romeo Pavoni parrebbe da individuarsi nel fatto che i residenti intemeli, contrariamente a quanto accaduto per i savonesi, i nolesi e gli ingauni, non siano stati abitualmente elencati fra le comunità mercantili citate entro i trattati che all'inizio del XII secolo i genovesi stesero con gli Stati Crociati d'Oltremare.
L'argomentazione del Pavoni sembra un po' speciosa, quasi si tratti di una puntualizzazione non richiesta: in effetti, nel contesto di siffatti trattati, i ventimigliesi risultavano parimenti tutelati e del resto erano compresi nella citazione comunitaria ed onnicomprensiva con cui si segnalavano i residenti compresi fra Nizza e Portovenere.
Non si può invece far a meno di concordare col Pavoni laddove (p.122) ipotizza, a proposito dei ventimigliesi, una ancora ridotta autonomia politica rispetto al potere comitale: Per esempio a confronto di Savona, che aveva ottenuto il riconoscimento del proprio diritto consuetudinario già alla metà dell'XI secolo, o del Comune di Alberga, che intratteneva rapporti paritetici con la potente repubblica marinara di Pisa nel 1145, 1'esistenza a Ventimiglia di un regime autonomo, gestito dai consoli, risulta citato solo nel 1149 quasi fosse una conseguenza politica, a scapito dei feudatari, dell'occupazione genovese.
Non si può negare quanto ancora dice il Pavoni: sino alla metà del XII secolo non il Comune intemelio ma il conte Oberto rappresentò la vera controparte politica e diplomatica di Genova: ed in effetti, nel 1146, mentre il neonato Comune nemmeno partecipò alle trattative, fu proprio il feudatario che "trasmise nelle mani" di Genova la giurisdizione sulla città.
E' vero che, al modo che richiedevano usanze e consuetudini legali, la città di Ventimiglia, in quanto complesso demico coinvolto nella vicenda, poté proporre dei suoi rappresentanti alla stesura degli atti ma questi non erano affatto suoi pubblici ufficiali o suoi consoli: molto formalmente, e quindi inefficacemente sotto il profilo decisionale, si trattava solo di testimoni garanti, pur costituiti da cittadini di rilievo sociale quali Alberto Guercius, Guglielmo Travaca e Anselmo Balbus .
La robustezza del governo comitale sulla città e contestualmente l'ancora evidente incompiutezza del processo evolutivo comunale, sembrerebbe collateralmente giustificata da una qualche limitazione nella valenza politica dell'Episcopato intemelio. Anche in questo caso, contrariamente a quanto si può evincere a riguardo dei vescovi di Albenga o di quelli di Savona, che ebbero in signoria temporale parti delle rispettive diocesi e che comunque ressero con decisione un ruolo politico all'interno della città, i vescovi intemeli, per quanto è oggi dato di ricostruire, sembrerebbero esser stati a lungo, in uno stato di imprevedibile difficoltà sia difronte al potere comitale che di rimpetto ad altre interferenze spirituali: per esempio risultarono estranei al processo di formazione signorile che coinvolse il territorio di Ventimiglia e contestualmente patirono in modo palese la concorrenza dei monaci di Lerino, non solo nel contado ma nello stesso nucleo demico cittadino, in merito soprattutto all'impianto della chiesa di San Michele.
E' poi rimarchevole il fatto che i vescovi intemeli non siano stati in grado di arginare l'espansione della solida diocesi ingauna allorché questa prese ad assimilò i distretti tabiese e matuziano nel momento in cui la Chiesa di Genova, per varie motivazioni, si vide costretta a rigettare le prerogative spirituali che storicamente vantava in questo ambito geopolitico.
Il ritardo economico e sociale di Ventimiglia, sempre secondo il Pavoni, sarebbe stato registrato celermente dai genovesi che, programmando una serie di loro interferenze sul territorio (anticipatrici di una sua totale conquista ed assimilazione in forza di TRE DURI CONFLITTI), trasferirono a Ventimiglia alcuni abitanti di Montesignano, in Val Bisagno, e li associarono quali nauclerii alle costumanze del locale traffico mercantile .
Ferma restando la plausibilità dell'ipotesi, valutando però la povertà di documentazioni allegate dallo studioso in merito a questa sua affermazione, nulla vieta, mutatis mutandis , di rovesciarne l'affermazione e di sostenere che l'infiltrazione di marinai e padroni di barca della fedele valle del Bisogno rappresentasse un espediente per agevolare la non facile penetrazione militare e politica di Genova nel contesto ventimigliese.
Del resto il matrimonio del nobile genovese Giovanni Barca con Marsibilia, figlia di Anfosso, conte di Ventimiglia, probabilmente fratello o padre del conte Oberto, pare mascherare un piano diplomatico di Genova mirante a posizionare negli alti ranghi della società nobiliare ponentina dei suoi elementi altrettanto fidi e capaci sia di condizionare la politica comitale quanto di interferire sullo sviluppo della struttura comunale.
Non sembra affatto contraddittorio che il 18 giugno 1131 i consoli di Genova, seguendo il lodo del magistrato astigiano Berardo, abbiano poi deliberato contro il proprio concittadino e quindi assegnato al conte Oberto il feudo del defunto conte Anfosso. La generosità di cui parla il Pavoni sembra completamente estranea a questa fine opzione politica: le rivendicazioni di Giovanni Barca erano state certamente il principale strumento di persuasione sul conte Oberto, prigioniero a Genova, per indurlo, pur di rovesciare la sua situazione svantaggiosa, sia ad accettare il colpo di mano genovese su Sanremo sia a stipulare un trattato con il Comune, obbligandosi a garantire nel distretto di sua competenza sia la sicurezza dei Genovesi quanto la loro esenzione da ogni obbligo fiscale di esentarli usaticum e ripaticum .
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Il programma destabilizzante nei riguardi della presenza comitale intemelia pare evidente e con una meta ben precisa la sottomissione ufficiale del conte Oberto che verrà sancita nel 1146 .
A monte di tale sviluppo socio-politico i genovesi si erano fortificati dal lato diplomatico internazionale ottenendo dall'imperatore Corrado III l'autorizzazione a ristabilire nel territorio di Ventimiglia uno stato di sicurezza a garanzia tanto dei pellegrini quanto dei viandanti a danno dei quali sarebbero state denunciate molteplici rapine cui l'autorità feudale, per ignavia, incompetenza od impreparazione, non aveva mai saputo rimediare.
Sotto la protezione di questa altissima autorizzazione Genova ebbe via libera per occupare militarmente Ventimiglia, erigervi un castello custodito da una sua guarnigione, obbligare tutti gli abitanti ad un giuramento di fedeltà e quindi rimettere ordine nelle vie contro predoni e briganti.
L'inerme Oberto, già vittima di sostanziali angherie, non poté far altro che ratificare lo stato di fatto e quindi cedere per dono a Genova i suoi diritti su Ventimiglia e sulla contea per riottenerli, seppur parzialmente, sotto forma di feudo: mentre, con questi atti, il conte finiva per diventare vassallo di Genova (con tutti gli obblighi che ciò comportava) da un altro lato si trovò nella necessità di "giurare la Compagna" , impegnandosi, anche per i suoi figli, a risiedere in Genova per un determinato periodo di ogni anno.
Il tracollo del potere comitale intemelio, per quanto mascherato da molteplici aspetti formali risultava decisivo nella sostanza: per esempio il castello di Mentone, con ogni sua rendita, fu dato in pegno di fedeltà a Genova che, a sua volta, lo concesse alla custodia di Ottone, figlio di Oberto, che risultava però vincolato in vari modi, sì che in caso del mancato rispetto dei patti avrebbe dovuto immediatamente consegnare a Genova quel possedimento (Annali Genovesi, I, pp.30, 52 e 53 = Codice Diplomatico della repubblica di Genova, I, nn. 162 - 165).
Le interferenze genovesi sulla situazione istituzionale intemelia furono evidenti; i conti erano palesemente in crisi e lo erano stati messi da un'istituzione sostanzialemente loro estranea per origine e conformazione, il comune genovese.
L'asse degli equilibri, che a lungo aveva agevolato la postazione comitale, era stata riequilibrata in non molti anni, anzi, a dire il vero, era stata spostata in qualche modo a favore del comune intemelio, non gravato ma certamente favorito nello sviluppo dal tracollo feudale.
Genova, nel suo indubbio programma di assimilazione del territorio di Ventimiglia, si doveva ora misurare con le forze emergenti del libero Comune.
La via inizialmente seguita fu conciliante e pacifista, nonostante celasse, ed anche malamente, i presupposti di un assorbimento, pari a quello già avvenuto in merito ad altre terre di Liguria.
Così nell'aprile del 1149 i consoli di Genova concessero al Comune di Ventimiglia un privilegio particolare quale premio della lealtà ostentata in occasione delle spedizioni di militari antiarabe Tortosa e di Almeria.
In forza di queste grazie i ventimigliesi videro riconosciuto il loro diritto di commerciare a Genova alle stesse condizioni dei cittadini di questa città (vedi Codice Diplomatico della Repubblica di Genova, I, p.242, n.194).
Queste blandizie non ottennero i risultati attesi: personalmente non credo per mancanza di sagacia politica od incompetenza, forse gli eventi son sempre stati analizzati sotto prospettiva genovese, senza vagliare bene le possibilità che l'esperienza comunale, anche a Ventimiglia (e forse ancor più che altrove, visti sia lo storico spirito autonomistico che la sostanziale antigenovesità) aveva sviluppato energie ormai depresse negli illanguiditi conti, energie che si riallacciavano ad uno spiccato e storico anelito di indipendenza.
E così lo stesso Pavoni, qui tanto citato, deve forzatamente riconoscere la forza montante delle resistenze a un'integrazione nel genovesato (e giustamente lo storico ci segnala che tali resistenze erano da collegare non tanto a qualche proposizione di ripristino della potenza feudale, peraltro genericamente depauperata di ogni energia dallo sviluppo storico, quanto a una piena affermazione della volontà dei ventimigliesi in prospettiva di esauriente autonomia comunale).
Che il disegno dei genovesi stentasse, e molto, a compiersi su Ventimiglia ci è offerto da una semplice, scolastica rilevazione storica.
Allorché a livello di politica internazionale la seconda discesa di Federico I, offrì le condizioni favorevoli per il riscatto dei Comuni minori nei confronti delle Città egemoni, che palesemente miravano ad evolversi nella direzione di uno Stato regionale (in Liguria come altrove), nel 1158 i ventimigliesi, con l'approvazione del legato imperiale, demolirono proprio quel castello che i Genovesi avevano innalzato nel 1140: una scelta strategica certo ma soprattutto un segnale di scollegamento politico rispetto a Genova.
Condizionata dalla forza militare di Federico I, Genova dovette accettare gli eventi, ma preparò diplomaticamente le basi della propria risurrezione nel Ponente estremo di Liguria.
Nel 1162 (date anche le mutazioni avvenute a livello di politica generale) l'Impero concesse a Genova la giurisdizione militare sulla costa da Monaco a Portovenere: per Ventimiglia, il cui Comune tanto aveva sperato dopo gli eventi del 1152, tale riconoscimento dell'autorità genovese sul loro territorio (appunto compreso tra Monaco e Portovenere) segnò l'inizio della resa, per quanto valorosa essa poi fu!
Nel 1185, divenendo esasperati i contrasti fra il Comune di Ventimiglia e il conte Ottone (che, con tutti gli obblighi che aveva contratto con la grande città ligure, aveva finito per diventare il "cavallo di Troia" genovese entro le solide mura del Comune intemelio) assunsero una particolare gravità, Genova poté lecitamente imporre la propria mediazione.
Il conte dovette sì impegnarsi a giurare la "Compagna di Ventimiglia" e confermare le concessioni di suo fratello Guido Guerra, ma in cambio ebbe il riconoscimento della propria giurisdizione su parte dell'antico Comitato, con diritto di imporre dazi sulle merci in transito.
Non era molto, a fronte della forza del Comune intemelio, ma era comunque abbastanza per agevolare la ripresa della penetrazione genovese.
La conclusione di tale contenzioso tra vecchia nobiltà feudale e novello Comune aveva soprattutto originato una sostanziale distinzione della sfera politica ventimigliese in due contesti decisamente antitetici: e questo indubbiamente giovava a Genova la cui forza militare, in verità nemmeno straordinaria, si era sempre esaltata in funzione della debolezza altrui, mediamente alimentata da una diplomazia attenta a suscitare divisioni e contrasti.
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Il libero Comune di Ventimiglia, che aveva sperato di assimilare quanto restava delle prerogative nobiliare, si trovava di colpo di rimpetto alla pericolosità di espandersi nell'ambito giurisdizionale di pertinenza del conte Ottone: e non certo per le misero potenzialità belliche di quest'ultimo quanto per il crescente timore di Genova, elettasi interessata garante dello statu quo: ed al proposito risulta emblematica la proibizione, solennemente sancita, di accogliere nel "Comune intemelio" come cittadini gli uomini soggetti invece all'autorità comitale.
Dati questi presupposti, indubbiamente "esplosivi", la tensione fra i due Comuni, peraltro già prima latente ma sempre ben mascherata, si accumulò sino al suo acme, nel 1198, quando di Ventimiglia rigettò l'imposizione genovese di partecipare alla spedizione di Gavi e di procurare annualmente 20 uomini armati per la guarnigione da mantenere in Corsica a Bonifacio.
Da qui sostanzialmente derivarono i tre laboriosi conflitti che, pur tra contrastanti vicende, videro il trionfo genovese e la pur gloriosa resa di Ventimiglia: così in dipendenza delle guerre del 1199-1201, del 1219-1222 e del 1238-1251, Ventimiglia fu costretta a perdere la propria indipendenza entrando di fatto nel variegato scacchiere del Dominio di Genova in funzione del quale, ed in modo strettamente simile a quanto accaduto per Albenga e Vado-Savona, il territorio dell'antico Comitato di Ventimiglia (in effetti l'estremo Ponente Ligustico venne parcellizzato in distinte entità amministrative, soggette direttamente e/o indirettamente all'autorità genovese: ne derivarono di conseguenza la podesteria di Taggia, la signoria arcivescovile di Sanremo, la signoria lerinese di Seborga, il Comune di Ventimiglia, la signoria dei conti nell'Alta Val Roia, le signorie di nobili genovesi a Dolceacqua e a Mentone).
Nel 980 l'episcopo genovese TEODOLFO restaurò la cura d'anime nelle chiese battesimali dei due distretti, affidandola ai canonici della propria Cattedrale . Pertanto concesse loro 3/4 delle decime e dei redditi, riservando alla Mensa Episcopale il rimanente quarto.
Il VESCOVO DI GENOVA in effetti era soltanto il TITOLARE DELL'AUTORITA' RELIGIOSA E UN PROPRIETARIO FONDIARIO, non certamente il SIGNORE FEUDALE di questi distretti, che appartenevano alla giurisdizione del CONTE DI VENTIMIGLIA.
Tuttavia, come all'epoca era usuale, il vescovo tendeva ad organizzare un suo dominio temporale sulle terre ecclesiastiche e a trasformare in vincoli di vassallaggio le relazioni economiche instaurate con i livellari.
E' facile intendere come siffatta evoluzione finisse per urtare gli interessi del conte di Ventimiglia, il cui consenso, infatti, risultò forzoso e comunque parziale.
Il 30 gennaio 1038 il conte Corrado riconobbe tuttavia al vescovo genovese Corrado una certa giurisdizione sulle terre ecclesiastiche e sui relativi abitanti, la riscossione di alcuni tributi e diritti su alcuni castelli.
L'opposizione strutturale del conte ad una serie completa di concessioni si evince facilmente notando come si sia in qualche modo cautelato riservandosi l'alta giurisdizione sul territorio di Sanremo, in definitiva il massimo controllo decisionale.
L'instabilità di queste acquisizioni comportò ben presto l'insorgere di contrasti e contenziosi in merito ai censi dovuti dai residenti di Sanremo alla Chiesa genovese: e tale situazione finì col dare il destro a Genova per un intervento militare in queste zone che, vieppiù, stavano entrando nella sua progettazione di espansionismo territoriale.
In particolare, all'alba del tormentato XII secolo, si accesero aspre dispute tra il Capitolo della cattedrale genovese e la popolazione sanremasca, atteso il fatto che questa, pur adempiendo alla corresponsione del censi su grano, orzo, vino e fave, opponeva forte resistenza in merito ai versamenti dovuti a riguardo di b1ave que manu seminabantur, cetrini, poma, fichi e olive.
I consoli di Sanremo si recarono quindi a Genova anche per risolvere ulteriori contrasti che si andavano accendendo: per esempio in relazione ai feudi ed ai livelli, specie quelli dei discendenti del prete Martino…e del resto v'erano anche parecchi abitanti che avevano avanzato ragioni non infondate allo scopo di evitare qualsiasi corresponsione.
I consoli, onde giungere celermente ad una necessaria pacificazione fra le parti in crescente attrito, tuttavia abbandonarono la linea intransigente sostenuta da alcuni loro conterranei e si dichiararono assolutamente disposti a rispettare la sentenza che sarebbe stata emessa al riguardo.
I consoli genovesi si pronunciarono quasi subito a favore del Capitolo, riconoscendo i suoi diritti di censo per ogni specie di biada seminata, per i cetrini, i poma, i fichi e le olive: onde dar l'impressione d'aver fatto qualche concessione ai consoli di Sanremo esclusero da questa loro imposizione i cavoli e i porri.
Era davvero poco! agli abitanti di Sanremo la sentenza parve (come di fatto era) un sorpruso e di conseguenza si mantennero saldi nel rifiutare ogni forma di versamento al Capitolo.
La risposta della cattedrale genovese non si fece però attendere: il preposito Villano, accompagnato dai consoli Guido Spinola e Guido di Rustico di Erizo, si recò poco dopo a Ventimiglia onde denunciare tale inadempienza nella persona stessa del conte Oberto.
Questi, con l'assistenza dal giudice Umberto del Maro e di altri boni homines, valutò la controversia con una certa pomposità formale stando nella curtis della sua città.
Alla fine giustificò l'inevitabile confermando, contro le attese dei suoi sudditi di Sanremo, la sentenza dei consoli genovesi: per suo lodo al Capitolo genovese sarebbero toccati 3/4 dei diritti della Chiesa genovese a Sanremo.
L'impopolare sentenza non trovò però pubblico riscontro né venne messa in pratica.
Si evince ciò dal fatto che nel luglio 1124, a Sanremo, il vescovo di Genova Sigefredo, e il medesimo conte Oberto emanarono una successiva sentenza che confermava la precedente, con l'esenzione fiscale oltre che su porri, cavoli e lino, anche su canapa e fichi que sunt vel erunt in sepibus, vel in alio loco ubi
impediant terram ad reddendum fructus.
Nell'occasione gli estensori di tale sentenza, cercando di rimediare compiutamente all'insorgere di contenziosi diversi, cercarono di fissare anche i benefici feudali tramite la sanzione che quicquid Martinus presbyter in die mortis sue habehat et detinebat cum quattuor filiis suis, proienies illius illud tam haberet et detigeret et non plus sine requisicione; et quod Riculfus habuit in tempore mortis sue, proienies illius haberet et possideret et non plus; Paulus vero ut Riculfus eodem modo et non plus.
I risultati non dovettero essere quelli sperati, per quanto l'attento Pavoni, principale studioso di questi eventi, proponga un blando interrogativo, vista anche l'assenza di documenti integrativi.
Però il fatto che nel 1130 i Genovesi occuparono Sanremo e vi innalzarono una torre e che i residenti tanto del luogo quanto di Baiardo e di Poggio del Pino abbiano opposto una vana resistenza porta facilmente, per linea consequenziale, a meditare sul fallimento di quest'ultima soluzione diplomatica e sulla non applicazione della sentenza, a scapito, naturalmente, del Capitolo genovese.
L'intervento militare, documentatamene riproposto dal Pavoni, la sopraffazione dei popolani e l'imposizione loro fatta di giurare fedeltà sono la prova più significative che Genova, per risolvere alla radice ogni problematica, era dovuta ricorrere alla forza, comportandosi da quella potenza imperialistica in cui si stava evolvendo: conferma tutto ciò il fatto che lo stesso conte Oberto, evidentemente parteggiante più o meno apertamente per la gente di Sanremo, sia stato condotto prigioniero a Genova .
L'occupazione di Sanremo costituiva la prima fase della conquista della Riviera di Ponente: gli obiettivi finali restavano comunque le ben più importanti piazze di Monaco e Ventimiglia.
La ratifica di uno stravolgimento inarrestabile dell'indebolito sistema comitale intemelio fu poi ufficialmente consegnata alla pubblica ragione (entro una clausola della sentenza consolare del 18 giugno 1131) con la rinuncia, che lo stesso conte du obbligato a sottoscrivere, di ogni giurisdizione su Sanremo, Ceriana, Baiardo e Poggio del Pino: anche se gli fu riconosciuto il resto del Comitato, assumendosi l'obbligo di proteggere tutti i genovesi in transiti per i suoi domini e di esentarli sempre e comunque da tasse e balzelli, il conte si trovò nella concreta, sgradevole situazione, non formale ma sostanziale, d'esser ormai un vassallo di Genova.
Dal 1131 il vero e proprio dominus di Sanremo e Ceriana, il signore in senso politico di siffatto territorio era ormai l'arcivescovo di Genova: ulteriore testimonianza delle penetrazione genovese in queste contrade, ad ogni livello di censo e ceto.
Peraltro la stessa alta valle del Roia, un tempo cuore storico della potenza comitale, in funzione di tali trasformazioni era andata assumendo una propria specificità geo-politica.
In particolare le forti comunità montane di Tenda, Briga e Saorgio ottennero da un marchese arduinico il riconoscimento del proprio diritto consuetudinario, che, con probabili ulteriori concessioni, fu in seguito ratificato dai conti di Ventimiglia Ottone e Corrado. Gli abitanti di quei tre loca costituivano ormai un'unica terra, totalmente staccata dall'antica capitale intemelia, una terra che godeva oramai di specifici diritti e doveri: ad esempio i suoi abitanti erano tenuti a partecipare all'hoste publica entro i confini del Comitato e della Marca, oltreché, ovviamente, in difesa del proprio territorio , e dovevano sempre partecipare al placito comitale, ormai però limitato a soli tre giorni per ogni anno.
In lanuensi Curia, ante consules, videlicet Guilielmum Piperem et 0bertum Ususmaris et Otonem Gontardum atgue Guilielmum de Mauro, fuerunt Obertus, Victimiliensis comes, et Marsibilia, filia quondam Anfossi comitis et uxor lohannis Barche, pro discordia quam inter se habebant de paterno feudo et de Victimiliensi Comitatu; quam discordiam predictus comes et lohannes Barcha et Marsibilia in inditio predictorum consulum, sine omni tenore, posuerunt. Causa etenim ex utraque parte diu per legis doctore et alios sapientes viros disputata, tandem predicti consules, ut clarius et apertius iam dicta discordia finiretur, secum Berardum, iudicem Astensem, adiuxerunt, qui, ,sub iuramenti debito, bona fide, ,sine,fraude, de iam dicta discordia, prout melius cognosceret, eis consilium tribueret. Accepto igitur eius consilio, consules Wilielmus Piper et 0bertus Ususmaris laudaverunt et afirmaverunt 0berto comiti omnem paternum feudum quod Anfossus tenebat vel aliquis per eum quando venit ad mortem et laudaverunt ei Victimiliensem Comitatum quantum pertinet ad feudum, sicut feudum et Comitatum pervenit (sic) ad Anfossum ab avo et patre suo. Et laudaverunt ut neque Marsibilia neque lohannes Barcha neque heredes eorum deinceps in antea non possint inde ullam molestiam neque requisitionem facere adversum Obertum comitem neque adversum heredes eius. Oto vero Gontardus ad hanc laudem, eo quod sub sac ramento constrictus erat concedere laudibus que a duobus consulibus, sociis eius, facte fuissent cum comuni interposita persona, concessit. Guilielmus de Mauro ad hanc laudem concessit et eam afirmavit eo quod videbatur ei esse constrictus sub sacramento concedere et afirmare laudes que a duobus consulibus, suis sociis, facte essent cum interposita persona. Supramemorati etenim quattuor consules de hac laude exceptaverunt Sanctum Romulum et Cilianam et Baiardum et Podium Pini cum omnibus pertinentiis suis, de quibus locis, cum omnibus suis pertinentiis, nullam laudem Oberto, supramemorato comiti, fecerunt. Iterum laudaverunt predicti quattuor consules ut, si aliquis voluerit plus vel minus dicere de hac laude ultra hoc quod superius scriptum est, non ei credatur neque recipiatur. Facta est haec laus in palatio episcopi, millesimo CXXXI, die terciadecima exeuntis iunii, indictione VIII. Ad hanc laudem fuerunt testes infrascripti: Lanfrancus Advocatu,s, Ansaldus Sardena, Bellamutus, Lanfrancus Roza, Henricus, filius eius, Wilielmus de Nigro, Obertus Malusaucellus, Capharus, Gandulfus Rufus, Oto, filius eius, Rubaldus Vetulus, Guirardus Scotus, Wilielmus Porcus, Lanfrancus Vetulus, Conradus Sancta Nichanta, Arnaldus Baltigadus, Rubaldus Alberici, Wilielmus de Bonobello, Bombellonus de Cunizone.
Hoc sacramentum fecit Obertus, Victimiliensis Comes, in capitulo Sancti Laurentii: "Ab hac die in antea ego Obertus comes , salvabo homines lanuenses et eorum Episcopatus, res et personas eorum in toto meo districto et defendam eos a cunctis hominibus qui eos offendere voluerint, bona fide, secundum meum posse. Hoc attendam cunctis hominibus Ianuensibus et eorum Episcopatus, excepto illis qui publice mihi guerram fecerint, donec guerram mihi fecerint, et homines Ianuenses et eorum Episcopatus ammodo non dabunt ullum usaticum neque ripaticum in toto meo districto et, si aliquis ripaticum vel usaticum ex eis acceperit, faciam eum reddere secundum meum posse, bona fine, et non offendam neque ofendere faciam aliquem mercatorem euntem et redeuntem a Ianua qui se per Ianuam reclamaverit, nisi per parabolam lanuensium consulum, et, si aliquis eum ofenderit, ego emendare faciam bona fide, secundum meum posse, et faciam iurare uxori mee et nepotibus meis et meis hominibus secundum quod Ianuenses consules mihi preceperint, secundum meum" [originale in Archivio di Stato di Genova, Busta Paesi, 364: edito per la prima volta da R. Pavoni (p.119, nota 46)]
BERENGARIO I re d'Italia ed imperatore: già marchese del Friuli, fu uno dei grandi feudatari, italici e transalpini, che si scontrarono alla conclusione del periodo carolingio per acquisire sia la corona d'Italia che quella imperiale. L'incertezza politica e la fragilità estrema delle istituzioni dell'epoca obbligarono Berengario, divenuto re d'Italia nell' 888, a dividere il governo dello Stato con Guido di Spoleto e poi con il figlio di quest'ultimo Lamberto. In pratica il territorio della penisola venne diviso e a Berengario, per quanto legittimo sovrano, spettò soltanto il controllo della porzione nord-orientale d'Italia. Alla morte di Guido (894) e quindi di Lamberto (898) Berengario divenne re unico d'Italia e nel 915 assunse anche la dignità imperiale. Berengario partecipò sempre in prima persona alla politica italica e soprattutto impegnò tutte le proprie energie per la sopravvivenza del vacillante potere regio sistematicamente messo in crisi da un inarrestabile processo disgregante delle sue stesse basi istituzionali. In questo tempo si andava verificando una lenta ma costante decadenza dei conti, che in fondo garantivano l'ossatura portante di questo genere di Stato feudale, e di converso si andava affermando vieppiù il potere temporale, oltre che spirituale, dei vescovi. A costoro Berengario I si trovò obbligato a concedere varie prerogative pubbliche, soprattutto in dipendenza delle pesantissime devastazioni ungariche (899): in relazione a ciò venne indebolito l'assetto della pubblica amministrazione, compresa l'autorità regale stessa, e l'ordinamento statale carolingio accelerò la sua già intrapresa decadenza istituzionale. Nel 923 Berengario patì una pesante sconfitta militare, ad opera del potente Rodolfo di Borgogna, a Fiorenzuola d'Arda, nel Piacentino, che fu una delle più sanguinose battaglie dell'epoca. Dopo solo un anno il re morì assassinato a Verona per opera di una congiura locale ordita da un funzionario minore e in qualche modo la sua morte divenne il simbolo del sopravvento delle forze disgregatrici del particolarismo postcarolingio a scapito della stessa istituzione monarchica .
BERENGARIO II, Marchese d'Ivrea, figlio di Adalberto d'Ivrea fu nipote di BERENGARIO I, apparteneva ad una delle potenti casate delle quali Ugo re d'Italia aveva sancito la fine violenta per ristabilire il potere centrale della monarchia nel territorio della penisola. Quando Ugo impegnò il massimo delle sue forze contro le famiglie italiche ostili al rafforzamento dell'istituzione regia, Berengario, che era stato esiliato in Germania, venne richiamato in patria dai nemici del re: quest'ultimo, rimasto imprevedibilmente senza alcun appoggio politico (e militare) in Italia, si rifugiò in Provenza abdicando a favore del figlio Lotario nel 945.
ALERAMICI: famiglia nobiliare che amministrò una delle quattro parti in cui, verso metà del sec. X, era stata suddivisa la grande marca d'Ivrea formatasi a fine secolo IX nel Piemonte e governata dagli Anscarici.
ARDUINICI: si trattò di una grande casata di rango comitale e marchionale attiva in Piemonte nei secoli X e XI.
OBERTENGHI: sono chiamati in tale modo i discendenti da un Oberto, vissuto nel secolo X, dapprima conte di Luni, poi investito da Berengario II, probabilmente nel 951, della marca della Liguria orientale comprendente i comitati di Genova, di Tortona, di Bobbio, di Luni e, forse, anche quello di Milano. Questo Oberto discendeva da Suppone, duca di Spoleto e conte palatino e, dal817, conte di Brescia. Fu dapprima seguace di Berengario II ma se ne staccò per accostarsi a Ottone I, che, sceso in Italia, lo reinvestì della marca.
Nel 1185 divenendo corposi i contrasti tra il Comune di Ventimiglia ed il conte Ottone, la Repubblica di Genova, forte dell'autorizzazione imperiale, si impegnò a svolgere un'opera di mediazione.
(vedi: G. Fasoli, I re d'Italia (888-962), Firenze 1949; C. G. Mor, L'età feudale, I- II, Mi1ano 1952-53 e V. Fumagalli, II Regno italico, Torino 1978. )
Berengario, re di fatto, lo divenne pure di diritto, in compagnia del figlio Adalberto allorché Lotario morì nell'anno 950.
Progettando un consolidamento del suo potere, Berengario
imprigionò Adelaide, vedova di Lotario, e si trovò quindi a
rivestire il titolo di re senza rivali, seppur nel periodo di
estrema debolezza istituzionale
dello Stato in Italia, vista in particolare la gravissima e
irreversibile
crisi degli ordinamenti carolingi: anche per queste ragioni e
ridare un nuovo assetto, oltre che un equilibrio politico all'Italia
feudale, Berengario ideò una sua ristrutturazione in Marche, da
cui non restò esclusa la Liguria, innestata col Piemonte nel
vasto, e spesso amorfo, complesso geopolitico dell'Italia nord-
occidentale.
Aspirando alla corona d'Italia e quella imperiale, Ottone
I di Germania scese però in Italia a sconvolgere tutti i piani di
Berengario (ormai re Berengario II). e si unì in matrimonio ad
Adelaide che nel contempo era fuggita dal
carcere grazie all'aiuto di Adalberto Atto di Canossa: forte dell'
appoggio di una vasta serie di casate feudali e dei diritti
acquisiti per via di tale matrimonio politico Ottone I fu in grado
di
trasformare Berengario II in un suo vassallo nell'anno 952.
Con la seconda di
scesa in Italia, avvenuta nel 961, Ottone I divenne imperatore.
(962) ed immediatamente intraprese
una dura guerra contro Berengario II, guerra che si concluse
solo
dopo la resa della rocca di San Leo nel Montefeltro (963),
dove Berengario si era rifugiato con le sue forze: l'ex re d'Italia
fu quindi inviato prigioniero in Germania con la moglie dove,
pochi anni dopo morì, precisamente a Bamberga nel 966.
(vedi: G. Fasoli, I re d'Italia (888-962), Firenze 1949; C. G. Mor, L'età feudale, I- II, Mi1ano 1952-53 e V. Fumagalli, II Regno italico, Torino 1978. )
Gia prima del trionfo dell'imperatore Ottone I sul marchese d'Ivrea e re d'Italia Berengario II (963) Aleramo, il capostipite degli Aleramici, è indicato quale marchese in un atto che fu steso verisimilmente tra il 958 ed il 961.
La famiglia aveva posto le sue basi nel territorio del Monferrato, sino ad Acqui ed a Savona, alterando la struttura dell'antica marca eporediese, in forza anche di conquiste ed integrazioni territoriali.
Dopo la morte nel 991 di Aleramo , la marca venne divisa fra i suoi eredi e figli Anselmo, che ottenne il territorio di Savona, e Oddone, cui spettò il Monferrato.
Nei secoli XI e XII la marca aleramica si frazionò ulteriormente in vari distretti controllati da altrettante famiglie discendenti dal ceppo originario, conseguentemente al fenomeno di dissoluzione dei grandi gruppi parentali, alla distribuzione delle cariche ai soli discendenti maschili ed al loro radicamento ad ambiti circoscritti, provinciali e subprovinciali.
Siffatti distretti ebbero vita lunga nelle mani dei discendenti degli Aleramici.
Si possono rammentare tra i distretti di principale rilievo
Savona, Saluzzo, il Monferrato, dove nel 1305 subentrarono i Paleologi nella persona di Andronico al quale il
marchesato era giunto attraverso la moglie Violante, sorella di Giovanni I, ultimo aleramico maschio monferrino.
(vedi: F. Gabotto, Gli Aleramici fino alla metà del secolo XII, in "Riv. di arte e archeologia per la provincia di Alessandria", XXVIII, 1919: molto importante è il recente contributo: V. Fumagalli, Regno italico, Torino 1978.
Propriamente essi si affermarono come "uomini nuovi" rispetto alla vecchia feudalità ma, grazie a capacità non comuni di iniziativa politica e di diplomazia, rapidamente divennero titolari di una delle quattro grandi compagini politiche nate dalla frantumazione della vasta ed antica marca d'Ivrea.
Giunti in Italia all'inizio del sec. X gli Arduinici si posero al servizio di Rodolfo, conte di Auriate, un comitato posto, secondo l'interpretazione degli storici, nella fascia meridionale della diocesi di Torino.
Rogerio e Arduino raggiunsero presto la titolatura vassalli di Rodolfo e gli ARDUINICI crebbero in potenza sveltamente sino al punto che Rogerio succedette a Rodolfo nella carica, sposandone la vedova, da cui gli nacquero due figli, Rogerio II, che diede in moglie la figlia Guntilda ad Amedeo, figlio di Anscario II d'Ivrea, e Arduino il Glabro, che risulta menzionato nel 964 come marchese, ed il cui figlio, Manfredo sposò una figlia del capostipite dei Canossa, Adalberto Atto, da cui ebbe una figlia che diede i natali ad Arduino
re d'Italia.
Gli Arduinici ebbero così successo in una celere scalata ai massimi vertici della nuova e potente feudalità italica del "secolo di ferro": dopo il comitato ottennero infatti una marca (o marchesato) e si imparentarono gradualmente con tutte le piu importanti casate del loro tempo.
Vari elementi concorsero alla rapida ascesa di questa nuova e vigorosa feudalità: senza dubbio vi concorsero il valore militare e la spregiudicatezza economica che le era unanimemente riconosciuta ma un peso non indifferente nel suo fortunato progredire ebbe anche la grave crisi del potere centrale.
Il centro pulsante della loro marca era costituito dai comitati di Auriate e Torino ma a questi via via si unirono altre basi di indubbio prestigio, come i comitati di Alba, Albenga, Asti, Ventimiglia.
Nel territorio di Asti il potere della Casata fu invece in qualche modo frenato dalla giurisdizione che il potente vescovo locale aveva, sulla città e sull'area suburbana, per due miglia destinate a diventare poi quattro in funzione di una concessione imperiale del 1041.
Con Olderico Manfredo (morto nel 1034) la Casa marchionale prese possesso dell'importante base di Ivrea (1015).
Successivamente la marca pervenne a sua figlia Adelaide (destinata ad acquisire importanza in Liguria occidentale per varie donazioni che fece alla Chiesa), che in terze nozze sposò Oddone di Savoia: ad Adelaide non sopravvissero però figli maschi sì che alla sua morte, avvenuta nel 1091, i possedimenti arduinici si frammentarono in varie strutture di matrice feudale.
(vedi C. G. Mor, L'età feudale, Milano 1953, G. Sergi,
Una grande circoscrizione del regno italico: la marca arduinica di Torino, in "Studi Medievali", XII, 2, 1971 e più recentemente V. Fumagalli, II Regno italico, Torino, 1978).
Ebbe parecchi figli, fra cui Adalberto e Oberto II.
Quest' ultimo diede i natali a Ugo, Alberto Azzo e Oberto Obizzo I che parteciparono col padre alle lotte arduiniche contro Enrico II.
Sconfitto Arduino, furono condotti prigionieri in Germania, ma riuscirono a fuggire e a ristabilire il loro dominio.
. Sotto i loro discendenti il casato si frazionò sempre più in vari rami, alcuni dei quali ebbero nella storia un posto di rilievo.
Per esempio i discendenti di Oberto Obizzo I diedero origine ai Malaspina mentre quelli di Alberto Azzo agli Estensi.
Da Adalberto I, figlio di Oberto I, discesero invece i Pallavicino, i Cavalcabò, i marchesi di
Massa-Parodi, di Massa-Corsica, di Gavi.
In apparenza il conte sembrò penalizzato, dovendo cioè "giurare" la Compagna di Ventimiglia, ma in effetti ebbe vantaggi che in un primo momento, di fronte a tale sua concessione, parvero -cosa invero inesatta- sottovalutabili: in particolare gli era estremamente vantaggiosa la sanzione con cui si riconosceva la sua giurisdizione su parte del vecchio comitato, con la non trascurabile conseguenza di poter imporre dazi sulle merci in transito.
Era solo in apparenza una soluzione di compromesso: il libero Comune di Ventimiglia, in fase crescente di rimpetto alla crisi istituzionale dei conti, si trovava di colpo nella sgradevole situazione di vedere smembrato in due sfere giurisdizionali quel distretto intemelio su cui sembrava inevitabilmente destinato a governare da solo, senza la scomoda presenza della vecchia casata feudale.
Così, nonostante l'apparente funzione conciliatrice di Genova (espressa nel trattato dell' 8 settembre 1185), il Comune finì col trovarsi a fronteggiare le più o meno legittime interferenze comitali.
Il risultato consequenziale fu un'alleanza tra il sempre più debole conte Ottone e la Repubblica di Genova, indubbiamente desiderosa di approfittare della situazione per piegare quello che in Ventimiglia sarebbe senza dubbio stato il suo contendente più vigoroso, appunto il libero Comune.
Fra contenziosi e stati di tensione le cose si prolungarono fino a precipitare il 17 dicembre 1192 allorché Genova si impegnò a soccorrere il conte Ottone, suo padre e suo fratello nel caso che essi si trovassero in irrisolvibili discordie con il Comune in merito alla salvaguardia dei loro diritti.
Di fatto la Repubblica assunse l'impegno solenne di piegare tutti i ribelli dei conti per un'area compresa tra la linea del mare fin a 5 miglia verso l'interno: ad onor del vero essa ottenne che si sottoscrivesse la clausola per cui il suo intervento militare potesse estendersi ben oltre questa fascia, seppur a condizione che i consoli rilasciassero una specifica autorizzazione.
Per sua parte invece il conte Ottone cedette metà del suo fodro su Ventimiglia, Penneta, Chonium, Mellonum, Castiglione e perinaldo.
A queste norme principali furono quindi ascritte, con atto del 4 marzo 1193, ulteriori prerogative a vantaggio della repubblica: tra queste sono da menzionare la crescente portata della presenza militare di Genova nell'agro intemelio, la tutela dei viandanti (appunto affidata a miliziani della repubblica), il rispetto dei deveta genovesi e l'attività corsara.
L'alleanza con il conte e questo insieme di norme, tutte palesemente giovevoli all'espansionismo genovese, indussero il Comune di Ventimiglia ad assumere un atteggiamento del tutto intransigente verso il conte, alle cui spalle era facile intravedere la sempre più preoccupante presenza della repubblica.
Il Comune oppose quindi uno sdegnato rifiuto, sia nel 1197 che nel 1198, onde fornire 20 soldati per la guarnigione genovese di Bonifacio in Corsica: inoltre mentre provvedeva a rafforzare le fortificazione a guardia della città il Comune si guardò bene dal soccorrere Genova nella guerra di Gavi del 1198.
Genova stava tuttavia predisponendo il suo programma espansionistico a danno del forte e sospettoso Comune.
Una volta che in Ventimiglia i consoli, i componenti del consiglio e tutto il popolo ebbero giurato a Filippo Cavarunco, console genovese dei placiti, e dopo che lo stesso ebbero fatto a Genova , nelle mani del podestà locale Alberto de Malocello, i ventimigliesi console Alberto Giudice, Lecarus e Ottone, figlio di Folco Nolascus, Genova impose le sue condizioni: di rispettare cioè i deveta, garantire la sicurezza dei suoi cittadini in tutto l'agro intemelio e soprattutto sborsare 400 lire di genovini per risarcire la Repubblica delle spese e dei danni patiti (dalla somma in oggetto sarebbe poi stato dedotto il valore dei bucci e del sale che Genova aveva sequestrato ai ventimigliesi).
Proprio il rifiuto opposto dal Comune intemelio determinò lo scoppio del primo conflitto tra Genova e Ventimiglia, col conseguente assedio della città ponentina iniziato il 25 luglio del 1199 e di cui si legge (III, nn. 26, 32, 54) nel Codice Diplomatico della Repubblica di Genova ( = Annali Genovesi, II, p. 78).