CANONICO

SACERDOTE che partecipa anche a solo titolo onorifico dei Capitoli di cattedrali o dei Capitoli collegiali o Capitoli di chiese collegiate.

CANONICO SECOLARE> ha come vesti ed insegne il rocchetto, la mozzetta, la cappa magna, l'anello, la croce pettorale> fra i "diritti" detiene lo stallo in coro, il voto in capitolo, i redditi della prebenda> tra gli obblighi ha la residenza, il servizio del coro, l'assistenza al vescovo ecc.

CANONICO PREBENDATO O TITOLARE> Canonico secolare che oltre all'ufficio sacro gode del beneficio connesso al canonicato.

CANONICO SOPRANNUMERARIO> Canonico secolare che è privo di prebenda, ma con ufficio sacro e voce in CAPITOLO.

CANONICO GIUBILATO> Canonico che gode del beneficio ma è dispensato dal servizio dell'altare.

CANONICO COADIUTORE> Canonico senza prebenda, supplente di un canonico titolare impedito per vecchiaia o malattia.

CANONICI ONORARI> Canonici senza prebenda, obblighi e voce in Capitolo(essi godono comunque del posto in coro e delle insegne onorifiche del canonicato)

CANONICO PENITENZIERE> Canonico, nelle chiese cattedrali, preposto dal Vescovo, ed in ore stabilite, a ricevere le confessioni dei fedeli

CANONICO TEOLOGO> nelle chiese cattedrali canonico che ha il compito di insegnare le Sacre Scritture.







SIMBOLO NICENO ( COSTANTINOPOLITANO):
Col termine, in rapporto all'origine storica ed ai concili che lo formularono, si indica la basilare professione di fede o simbolo (CREDO), del cristianesimo originario.
Viene spesso detto SIMBOLO NICENO , ma questo è più esattamente il simbolo formulato nel I CONCILIO DI NICEA per dirimere le controversie sorte sulle dottrine di ARIO e sulla definizione del concetto di TRINITA' DIVINA.
La definizione conciliare di Nicea è articolata in una professione fede in Gesù Cristo figlio di Dio e in una condanna de proposizioni eretiche.
Per realizzare tale simbolo fu utilizzato il Credo battesimale della chiesa di Cesarea (o delle chiese di Palestina): secondo esso, dopo l'allusione iniziale a Dio Padre comune a tutti i simboli anteriori, era sancita la confessione di "un solo Signore Gesù Cristo, il figlio di Dio, generato dal Padre.
A Nicea vennero soppresse quelle espressioni Verbo di Dio, vita da vita, primogenito di ogni creatura che avrebbero potuto interpretarsi secondo il pensiero di Ario per cui il Figlio sarebbe stato solo fosse una creatura.
Contro l'arianesimo si inserirono invece espressioni di questo tipo: "Dell'essenza del Padre, vero Dio da vero Dio, generato non fatto, con sostanziale (omoùsios) col Padre".
Il SIMBOLO DI NICEA è sviluppato entro uno schema trinitatario: "Credo in un solo Dio Padre onnipotente... e in un solo Signore Gesù Cristo..., e nello Spirito Santo".
Se però le sezioni in merito al Padre e al Figlio risultano compiutamente trattate e giustificate, quella che concerne lo Spirito Santo eviene soltanto di maniera che il simbolo si conclude così: "E nello Spirito Santo".
Sotto il profilo dogmatico il SIMBOLO NICENO costituisce di conseguenza l'originaria definizione di fede da parte della Chiesa: in virtù di siffatto SIMBOLO la tradizione viene quindi stabilizzata in una formulazione scritta, che vincola tutta la Chiesa e detta la normativa essenziale sull'interpretazione da attribuirsi ai passi biblici che trattano sia del Padre che del Figlio.
Il prete Ario, che si appellava alla Sacra Scrittura per sostenere la sua dottrina, proponeva un' interpretazione metaforica dei testi biblici, specie giovannei, sulla Figliazione del Logos e di conseguenza forniva una giustificazione meccanica dei Proverbi 8, 22 laddove si dice che la Sapienza o Logos, venne fatta o creata.
Contro questa valutazione di ermeneutica, a Nicea la Chiesa, in base alla tradizione, interpretò invece in senso metaforico l'aggettivo fatto-creato e in senso del tutto 1etterale i testi sulla figliazione divina.
Per conseguenza il SIMBOLO NICENO sviluppa la fede trinitaria della chiesa e in modo consequenziale sostiene il principio che la tradizione interpreta la Scrittura.
In occasione invece del CONCILIO DI COSTANTINOPOLI del 381 secondo la tradizione ecclesiastica si operò infine il completamento dell'ultima parte del simbolo niceno ('che è Signore... e la vita del mondo che verrà).
Viene per conseguenza fissata la fede cristiana sullo Spirito Santo e i frutti derivati dall'opera redentrice di Cristo (vale a dire Chiesa, sue note, sacramenti, estrema conformazione del credente con il Risorto} che determinano il percorso per cui la nuova creazione e la nuova creatura acquisiscono lo stato di perfezione.
La parte dedicata allo Spirito Santo finiva quindi per contrapporsi alle dottrine ereticali degli pneumatomachi a giudizio delle quali lo Spirito Santo procedeva dal solo Figlio e conseguentemente non possedeva alcuna natura di vina.
Nella sua prima parte sanciva quindi: 'Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre.
A tale articolo successivamente le Chiese occidentali, aggiunsero l'inciso 'e dal Figlio' (Filioque ) che non compare nel testo greco e finirono quindi per dar vita ad un contrasto teologico ancora insoluto.
Da tali precisazioni, come quelIe di Nicea in relazione alla sanzione della pari divinità del Figlio con il Padre, si apprende il desiderio ecclesiale di delineare definitivamente l'ortodossia, in maniera che accanto all'originario valore religioso di professione di fede, proprio dei credo cristiani, si allinea una proposizione teologica e polemica avverso tutte le eresie (ariani, pneumatomachi).
In effetti gli atti del concilio di Costantinopoli non tramandano ALCUN SIMBOLO e nell'arco cronologico che si estende tra tale concilio (381) e quello di Calcedonia (451) non si discusse, tranne che in un caso, di un credo ivi redatto.
Si parlava dappertutto e solo del CREDO DI NICEA.
Al concilio di Calcedonia i rappresentanti imperiali proposero il testo in questione come il simbolo dei 150 padri di Costantinopoli.
A. V. Harnack e G. Bardy partirono da questi fatti e dalla considerazione che un simbolo quasi identico a quello di Costantinapoli si trova nel Ancoratus di Epifanio di Salamina, composto nel 374; notarono inoltre che il simbolo di Epifanio coincide per molti aspetto con il simbolo alla radice delle Catechesi di Cirillo di Gerusalemme, del 350.
Sulla base di ciò essi negarono al concilio di Costantinopoli la paternità del simbolo.
L'ipotesi di Harnack è stata però contestata: alcuni studiosi come Ortiz de Urbina) la ritengono infondata, in quanto contraria all'affermazione dei padri di Calcedonia e a un esplicito testo delle omelie catechetiche di Teodoro di Mopsuestia che attribuisce il simbolo ai padri di Costantinopoli.
Altri investigatori ancora, come Schwartz, reputano invece che il testo di Epifanio contenesse in origine il simbolo di Nicea e che questo venne poi surrogato da simbolo di Costantinopoli.
La soluzione probabilmente più oggettiva è quella di convenire con Ortiz de Urbina che 'I padri di Costantinopoli promulgarono questo simbolo, senza per altro comporlo essi stessi.
A prescindere da tutte queste valutazioni occorre comunque affernare che il SIMBOLO NICENO ha eccezionale vigore dogmatico tanto nelle chiese d'Oriente che in quella cattolico - romana viste le approvazioni ottenute dapprima al concilio di Nicea e poi ribadite in occasione del concilio di Calcedonia il quale ne ratificò il testo conclusivo.
Il SIMBOLO NICENO assunse un ruolo primario nella tradizione liturgica a Costantinopoli in occasione della cerimonia del venerdì santo per i catecumeni.
In seguito il patriarca Timoteo (511-517) lo introdusse nella celebrazione della messa.
Da Costantinopoli il SIMBOLO trasmigrò praticamente in tutte le liturgie orientali che lo inserirono, recitato, mai cantato, in varie parti della messa.
Dall'Oriente raggiunse quindi Spagna, attraverso la Baetica, ancora sotto controllo bizantino (sec. VI) e da questa regione si estese quindi all' Irlanda donde pervenne in Inghilterra.
Per opera dei consiglieri anglosassoni, ecclesiastici e culturali, di Carlo Magno, entrò quindi nella cultura religiosa dell'impero franco di maniera che verso il 794 il SIMBOLO NICENO fu innestato, dopo l'omelia, nella liturgia in forza dell'uso di cantarlo in occasione delle grandi feste religiose.
Finalmente, sull'onda di tale sviluppo, papa Leone III approvò l'innovazione, imponendo tuttavia l'omissione del termine Filioque.
L'imperatore tedesco Enrico II nel suo viaggio a Roma del 1014 ottenne dal papa Benedetto VIII che il SIMBOLO DI NICEA , in questo casso con l'aggiunta del controverso lessema Filioque potesse entrasse a far perte dell'ordinario della messa della Chiesa romana.
Di qui, in dipendenza della lunga tradizione della liturgia cattolica, il SIMBOLO NICENO ha raggiunto una diffusione planetaria: per un approfondimento bibliografico si può consultare il fondamentale studio, già sopra menzionato a più riprese: J. ORTIZ DE URBINA, El Simbolo N., Madrid 1947.



Le deliberazioni vennero lette alla presenza dell' imperatrice e di suo figlio il 23 ottobre.
Esse constano di ventidue canoni disciplinari e di una definizione di fede: il Verbo di Dio si è fatto uomo, e pertanto può essere rappresentato, così pure i Santi. Le immagini non possono essere oggetto di adorazione (latreìa) in se stesse, poiché essa é dovuta solo a Dio, ma di devota venerazione (timetiché proskunesis).
La venerazione risulta quindi giustificata per l'intima correlazione tra l'immagine eil prototipo (vale a dire la persona o il mistero rappresentato nell'immagine). Per la teologia sottostante al concilio, si veda anche H. G. BECK, L a chiesa greca nell'epoca dell'iconoclastia, in H. JEDIN, Storia della chiesa, IV, Milano 1975.







CONCILI ECUMENICI DI NICEA:
Nel 325, si tenne a NICEA, città di Bitinia, il
I concilio ecumenico della storia della Chiesa, convocato per risolvere i problemi che, sollevati dall'arianesimo, travagliavano la chiesa d'Oriente.
La nascita del nuovo istituto del concilio ecumenico fu favorita dal clima instauratosi nella chiesa dopo la libertà ottenuta nel 313 e fu facilitata dal favore di Costantino, che mise a disposizione dei vescovi il cursus publicvs o palazzo imperiale e si addossò le spese delle riunioni.
Parimenti il clima del concilio fu condizionato dalla forte ambizione dell'imperatore di sopire le lotte intestine della comunita cristiana.
Comunque la ragione determinante restò sempre di di carattere teologico.
Le misure consuetamente utilizzate dalla Chiesa nei confronti degli eretici (condanna da parte del vescovo locale e, nel caso che questa risultasse insufficiente pronunciamento di un sinodo locale) si erano rivelate inadeguate a risolvere le questioni messe in moto da Ario.
Egli aveva rigettata la sentenza del suo vescovo, Alessandro di Alessandria: del resto era spinto a tanta audacia dal fatto che molti vescovi dell'Oriente, nonché alcuni sinodi, si erano pronunciati contro la sua condanna.
Il sinodo egiziano aveva condannato le idee di ARIO, però non aveva il consenso di tutto l'episcopato: era di conseguenza necessario, per conoscere il pensiero uffciale della chiesa, convocare tutti i vescovi, cui, sparsi o riuniti, purché concordi, competeva quali epigoni degli apostoli il compito di tutelare la retta fede.
Non è noto chi per primo abbia maturata l' idea di un' adunanza generale (ecumenica) dell'episcopato.
Alcuni ricercatori pensano al vescovo Oslo di Cordoba, consigliere di Costantino per le questioni religiose, protagonista di un fallito tentativo di mediazione tra i vescovi filo e anti-ariani ma altri studiosi pensano piuttosto ad Alessandro ed altri ancora al sinodo di Antiochia.
La nuova forma conciliare non aveva una sua tradizione e così a NICEA si dovettero affrontare problemi procedurali e sostanziali tra cui il ruolo del successore di Pietro, il vescovo di Roma, quello dell'imperatore, chi dovesse presiedere l'assemblea, quale fosse lìordine dei lavori, in che modo si redigessero atti e verbali, quale fosse l'effettivo valore delle decisioni ed ancora quali modalità si dovessero seguire nella sequenza dei dibattiti e delle votazioni.
Secondo Eusebio di Cesarea i partecipanti furono 250, Atanasio ne censì 300, mentre sarebbero stati 318 in base ad una tradizione diffusasi nello stesso sec. IV: alla fine questo fu concilio fu denominato "il concilio dei 318 Padri".
Di questi, appena cinque erano giunti dall'Occidente, più due preti, Vittore e Vincenzo, legati del papa.
Il concilio si svolse dal 20 maggio al 19-VI-325 e venne inaugurato da un discorso di Costantino, che correttamente si ritirò onde lasciare liberi i vescovi di decidere.
Non si sa con chiarezza chi ne ebbe la presidenza: secondo la preponderanza delle ipotesi sarebbe toccata ad Oslo.
Un ruolo speciale, per quanto oggi malamente interpretabile, dovette esser svolto dai due preti legati del papa Silvestro: infatti i loro autografi compaiono appena dopo quello del potente Oslo e prima di quelli di tutti gli altri vescovi.
Non si sono conservati gli atti dei dibattiti, ma solo le conclusioni che concernono la decisione sulla data della Pasqua, la lettera agli egiziani sullo scisma di Melezio, venti canoni disciplinari e la decisione dogmatica sulla questione ariana, che si articola nel SIMBOLO NICENO COSTANTINOPOLITANO e nella condanna di ARIO.
Quest'ultimo argomento, per la cui soluzione fu convocato il concilio, occupò in prevalenza il lavoro dei vesscovi.
L' orientamento globale dell' episcopato fu subito contrario alle tesi di Ario pur se una minoranza filoariana, capeggiata da Eusebio di Cesarea, cercò di aggirare la prevedibile condanna, proponendo che il concilio assumesse il SIMBOLO BATTESIMALE DELLA CHIESA DI CESAREA (o delle chiese della Palestina come espressivo della fede ortodossa e cattolica).
Tale testo, composto quando il problema ariano non era ancora sorto, non mancava di ambiguità, e poteva venire accettato dagli ariani: per siffatto motivo, la maggioranza del concilio lo adottò, con alcune precisazioni inequivocabili: Dio vero da Dio vero; generato non creato; della stessa sostanza del Padre (omoùsios).
ARIO e due vescovi si opposero però a sotto scrivere le decisioni conciliari e per questo vennero esiliati da Costantino.

Il VII CONCILIO ECUMENICO (II CONCILIO DI NICEA) si tenne dal 28 settembre al 23-X-787 avendo quale tema di base la legittimità del culto delle immagini.
La lunga lotta contro le immagini, manifestatasi nel 726 ed esplosa nel 730, dilaniava l'impero bizantino.
Il partito degli ICONOCLASTI, appoggiato dagli imperatori Leone III (711 - 741) e Costantino V (741-775), era riuscito momentaneamente a trionfare.
Solo i MONACI non si erano piegati, e per questo motivo erano caduti sotto i provvedimenti di Costantino V.
Il favore popolare si era progressivamente volto verso i MONACI ICONOFILI, autoproclamatisi la coscienza della Chiesa di fronte al letargo dell'episcopato.
Le ragioni teologiche si fondevano con scelte sociali, e si trasformavano in orientamenti di politica ecclesiastica.
La Chiesa di Roma e l'Occidente erano contrari all'iconoclasmo ma Costantino V aveva reso possibile un grosso successo del partito iconoclasta quando nel 754 aveva convocato a Iereia in un palazzo imperiale sulla sponda asiatica di Costantinopoli un concilio di 338 vescovi bizantini, autoproclamatosi ecumenico, che aveva condannato il culto delle immagini.
L'assenza dei patriarchi orientali ed il contrario orientamento della Sede romana annullavano tale pretesa qualsiasi decisione presa sul piano della Chiesa universale.
Però nel vasto contesto dell'IMPERO ORIENTALE l'iconoclastia, sino a quel momento sorretta dai soli editti imperiali, poteva ora sentarsi quale dogma della Chiesa e del patriarcato di Costantinopoli.
Allorché, dopo il 780, l'imperatrice Irene volle restaurare il culto delle immagini, accanto alle scelte di ordine politico, fu obbligata ad affrontare lo pseudo concilio ecumenico del 754.
Irene pensò quindi alla possibilità di convocare un concilio ecumenico in grado di abbattere legalmente i contenuti della riunione di Iereia.
Per questo fu indirizzata la scelta del nuovo patriarca di Costantinopoli verso la figura di Tarasio, un laico, abile funzionario imperiale.
Costui, elevato all'episcopato, sarà il prudente orchestratore del concilio.
Irene e Tarasio ebbero per ciò il consenso di papa Adriano, che ratificò la proposta bizantina di un concilio ecumenico sul culto delle immagini, a condizione che venisse riconosciuto il diritto primaziale petrino della chiesa di Roma di confermare o meno le deliberazioni conciliari.
I patriarchi orientali, dal canto loro, diedero il proprio assenso alla celebrazione del concilio.
I lavori iniziarono a Costantinopoli nella chiesa dei SS. Apostoli (agosto 787).
Una parte delle guardia imperiale, ispirata da ufficiali iconoclasti, fece però irruzione in chiesa disperdendo i vescovi.
Irene riuscì a far reprimere la rivolta ma decise di trasferire il concilio in una sede più sicura e optando scelse NICEA anche per il ricordo e il prestigio legato alla sede per NICEA celebre sede del primo concilio ecumenico.
La presidenza legale fu nelle mani dei rappresentanti papali ma in effetti venne esercitata dal patriarca Tarasio.

Vi presero parte 238 vescovi all'inizio che divennero 335 alla conclusione del concilio.

Le deliberazioni vennero lette alla presenza dell' imperatrice e di suo figlio il 23 ottobre.
Esse constano di ventidue canoni disciplinari e di una definizione di fede: il Verbo di Dio si è fatto uomo, e pertanto può essere rappresentato, così pure i Santi. Le immagini non possono essere oggetto di adorazione (latreìa) in se stesse, poiché essa é dovuta solo a Dio, ma di devota venerazione (timetiché proskunesis).
La venerazione risulta quindi giustificata per l'intima correlazione tra l'immagine eil prototipo (vale a dire la persona o il mistero rappresentato nell'immagine). Per la teologia sottostante al concilio, si veda anche H. G. BECK, L a chiesa greca nell'epoca dell'iconoclastia, in H. JEDIN, Storia della chiesa, IV, Milano 1975.







RITO. Azione sacrale compiuta secondo moduli fissi. E' uno schema di comportamento sottratto alla contingenza e proposto dalle varie religioni come un'azione simbolica o un simbolo d'azione. Genericamente si può affermare che il ricorso a questo tipo d’azioni simboliche e motivato dall’incapacità di agire altrimenti, quando la contingenza storica si presenta nella forma angosciosa e paralizzante di una crisi. Il RITO dunque colma in un certo senso il vuoto dell'inazione, ma più precisamente favorisce il superamento della condizione critica abolendo l'interruzione della storia (o dell'agire) provocata dalla crisi stessa e promovendo il successivo passaggio all'attività quotidiana normalizzata. Si può affermare che l'incertezza nell'operare che caratterizza ogni crisi sia opportunamente riscattata dal RITO, il quale e, all'opposto, proprio un operare certo, per essere fissato sin nei minimi particolari e sacralmente sottratto ad ogni rischio d’insuccesso. Dal carattere stesso di una crisi, che può essere occasionale o periodica (ricorrente), deriva la possibilità di dividere i RITI in occasionali e periodici. Crisi occasionale è quella dovuta ad eventi imprevisti (malattie, disgrazie, siccità, alluvioni, guerre, ecc.) che sconvolgono l'ordinato andamento delle cose e sembrano privare l'uomo del suo orientamento abituale. Crisi periodica e quella determinata da ricorrenze astronomiche, stagionali, agricole, ecc., cioè da eventi previsti o prevedibili che, proprio per essere tali, sembrano dividere i1 tempo storico in cicli e determinare un momento di rischio tra un ciclo e l'altro, quando si intuisce penosamente la fine di un ciclo e si teme che il successivo possa non avere inizio o, genericamente, se ne teme la novità. In entrambi i tipi di crisi, il ricorso al RITO ha lo scopo di ridare ordine alle cose, vuoi perché l'ordine e stato sconvolto da un qualsiasi accidente, vuoi perché esso e semplicemente cessato con la fine di un ciclo. Dare ordine e una funzione che probabilmente si ricava dall'etimologia stessa della parola RITO, dal latino ritus che corrisponde al sanscrito rta, termine con cui s'indicava l'ordine cosmico nell'India vedica. Comunque, dare ordine nel nostro caso significa ridurre nei termini di una cultura umana, e cioè ad un determinato sistema di valori, tutto ciò che si vuole sottrarre alla natura intesa come causalità e arbitrio. In questa funzione ordinatrice, qualificante e oggettivante, il RITO si esprime in alternativa al mito: mentre il mito oggettiva (ordina e qualifica) quella zona della realtà che si vuole sottratta all'intervento umano, il RITO oggettiva (ordina e qualifica) la zona che si vuole passibile d'intervento umano; così che, mentre il soggetto dell'azione (oggettivante) mitica e sempre un essere extraumano, il RITO offre all'uomo la possibilità di farsi lui stesso il soggetto di un azione "cosmicizzante". Da quanto sopra deriva che in una determinata cultura quanto maggiore è il campo d'azione tanto più l'uomo si rende soggetto di storia; ma non si ignori che il RITO, di per se, pur promovendo il passaggio all’azione storica, resta sempre un diaframma tra metastoria e storia, data la sua costituzionale sacralità che rinvia comunque al metastorico. Esso e pur sempre un simbolo d'azione e non un'azione vera e propria. D'altra parte e proprio questa sacralità o questa sua dimensione metastorica che garantisce il valore del RITO e lo sottrae alla contingenza quale che sia l'occasione storica che ne richieda l'esecuzione. La sacralità del RITO si desume: dalla sua invariabilità; dalla qualifica dell'operatore; e, quando esso ha un destinatario, dalla qualifica del destinatario stesso, che e un essere sovrumano. L’invariabilità é funzionale perché, essendo il RITO promosso ad una variazione critica (la crisi contingente), esso stesso non ne può rimanere coinvolto ma deve acquistare i caratteri precipui della necessità, la quale è espressa mediante la fissità dei moduli. La qualifica dell'operatore perfeziona l'efficacia del RITO nel senso della sua sottrazione alla contingenza onirica: l'operatore, infatti, e per lo più istituzionalizzato, in maniera che la sua personalità sia sottratta alla storia, come lo il simbolo d'azione che e chiamato a svolgere. Circa il destinatario del RITO va innanzi tutto notato che non e un elemento necessario (come del resto non è assolutamente necessario l'operatore specializzato); ma appunto la presenza o assenza di una potenza sovrumana (dio, spirito, antenato, ecc.) cui sia rivolto il RITO ha portato alla distinzione di due categorie: i RITI cultuali, ossia quelli che hanno un destinatario sovraumano e che sono eseguiti nell'ambito di un culto tributato; i RITI autonomi, ossia quelli che sono ritenuti agire di per sé senza l'intervento d’alcuna potenza sovrumana. La definizione di cultuali/autonomi, per una maggiore solidità scientifica (e anche semplicemente descrittiva), surroga la vecchia definizione di religiosi/magici che comportava la teoria della magia contrapposta alla religione oggi superata dalle indagini storico-religiose. D'altro canto va osservato che la richiesta d'intervento rivolta ad entità sovrumane mediante il culto non muta la sostanza del RITO: il reale soggetto cl simbolo d'azione resta l'esecutore umano, giacché intervento sovrumano non e spontaneo, bensì promosso dall'esecuzione del rito. [Bibl.: Myth and Ritual, a cura di S. HOOKE, Londra 1933 / Mensch und Ritus, contributi vari in "Eranos-Jahrbuch", XIX, 1950 / A. E. JENSEN, Mythos und Cult bei Naturvolker, Wiesbaden 1951 / L. BOUYER, Le rite et l'homme, Parigi 952 /J. CAZENEUVE, Les rites et la condition humaine d'apres des documents ethnographiques, ivi 1957 / ID., Sociologie du rite, ivi 1971 / D.SABBATUCCT, Il Rito, il RITO e la storia, Roma 1978 / A. VAN GENNEP, I. Riti di passaggio (Parigi 909), Torino 1981].
RITI LATINI - OCCIDENTALI. RITO in Occidente normalmente indica il complesso dei testi e dei libri per una determinata celebrazione liturgica (p. es.: RITO della messa, del battesimo; o anche, più in particolare, un loro sintagma, come RITO del Vangelo, della comunione); in senso più ampio costituisce l'ordinamento rituale complessivo che una chiesa o gruppo di chiese i e prodotto e organizzato a scopo di attuare la vita sacramenale, i cicli delle feste e la preghiera, e che in qualche modo la definisce (p. es.: RITO ambrosiano, gallicano).
Mentre oggi in Occidente il RITO della chiesa di Roma e quasi unico, nel primo millennio le liturgie occidentali o latine costituivano una famiglia di RITI, mediante i quali i popoli di più antica cristianizzazione si esprimevano con tradizioni culturali proprie legate al fattore etnico-geografico. Nella mentalità del tempo era inconcepibile un repertorio unico stabilito dal centro della cristianità e imposto a tutti. In questi secoli aveva più importanza la fedeltà alle tradizioni locali, che molte regioni ecclesiastiche facevano risalire, anche in modo artificioso, ad una qualche fondazione apostolica. Il differenziarsi dai secc. IV-V del celebrare cristiano in liturgie diverse, contemporaneo dell’affermarsi di forze centrifughe nell'impero romano ormai rivolto alla decadenza, è una pura coincidenza; queste non riescono a dar ragione del vasto movimento di creazione liturgica attorno alle principali metropoli, segno d’esuberante vitalità religiosa. La gravitazione e la polarizzazione di una provincia ecclesiastica attorno ad un centro d’influenza derivano anzitutto da un fatto civile; al tempo stesso attesta che l'evangelizzazione era proceduta per un processo di diffusione da una città principale nella direzione di un'area più vasta.
Il cristianesimo si era diffuso nel bacino del Mediterraneo mediante la koine, la lingua greca di comunicazione che coesisteva a fianco del latino, la lingua degli atti giuridico-amministrativi. Dato che gli scritti del Nuovo Testamento erano in greco, anche la liturgia nei primi secoli fu celebrata in questa lingua. Gradualmente, per motivi pastorali (missionari, catechetici, liturgici), si fanno strada le prime traduzioni della Bibbia in latino (Vetus latina, Itala), ad uso integrativo o sostitutivo nella liturgia della parola. Il passaggio linguistico si accompagna con la creatività e la differenziazione dei RITI, secondo la civilizzazione e le esigenze locali; insieme subentrano influenze storiche. Quali furono le persecuzioni avverso gli eretici. In contrasto con il pluralismo dell'Oriente, in Occidente il latino si presenta come fattore principale d’unita culturale: di qui il formarsi di una famiglia liturgica unica, in cui le convergenze superano le divergenze.
FASI DELLO SVILUPPO. Le fasi successive che i RITI attraversano nel loro formarsi normalmente sono tre: 1) la genesi o nascita e in genere un'epoca piuttosto lunga di formazione e caratterizzazione; 2) quella di creatività e sviluppo utilizza le acquisizioni già assimilate e inculturate: in tal modo un popolo si fa protagonista di un'esperienza destinata ad arricchire anche altre chiese, mentre vengono alla ribalta vescovi teologi e scrittori ecclesiastici capaci di esprimere le verità della fede in forma originale; la produzione tuttavia risente dell'occasionalità; 3) la compilazione o codificazione consiste nella redazione e fissazione dei libri liturgici, con una visione programmata delle celebrazioni che si svolgono nell'intero corso dell'anno. Quest'opera d’ordinamento ha gia perso in creatività e si dirige verso la staticità; anche quando si seguita a comporre o si rimaneggiano composizioni per colmare lacune e livellare disuguaglianze, si attingono le idee dall'epoca precedente, a volte danneggiando i testi originali. Non tutti i R occidentali ebbero la possibilità di percorrere i tre stadi; alcuni passarono attraversando periodi critici, altri li vissero solo relativamente.
I RITI DEL CEPPO AFRICANO. Rito africano. In quelle che erano le province romane dell'Africa (Proconsolare, Numidia, Mauritania) gia nel sec. m s’inizia a celebrare in latino. Tra gli scrittori che variamente c'informano su questa liturgia abbiamo Tertulliano, S. Cipriano, Ottato di Milevi, S. Agostino, Vittore da Vita, Ferrando da Cartagine, S. Fulgenzio di Ruspe, Voconio (autore di un sacramentario), Gennadio di Marsiglia. Oltre che con gli scritti dei padri, possiamo ricostruirne diversi elementi (lezionario, iniziazione cristiana, disciplina penitenziale) anche con le passioni dei martiri e gli atti dei concili locali. Con l'invasione dei vandali e l'avvento degli arabi quella cristianità fu interamente cancellata; il RITO rimase bloccato nella fase di gestazione e nel complesso si presenta come arcaico cd essenziale. Residui e influssi sono sopravvissuti nelle liturgie della Spagna e delle Gallie.
RITO ISPANICO. Il RITO viene detto ispanico, visigotico o mozarabico secondo le epoche attraversate. Come quello gallicano, nacque dal ceppo africano ancor prima dell'affermarsi a Roma del RITO latino. Nel periodo di massima espansione si estendeva a tutta la penisola Iberica e nella Gallia Narbonense. In seguito, per la rivalità tra svevi e visigoti e i difficili rapporti con le chiese del resto della penisola, la Galizia - che faceva capo alla metropoli di Braga - costituì il RITO bracarense, più vicino a quello romano; in quest'opera intervennero S. Profuturo e S. Martino, entrambi vescovi di questa sede. Sviluppatosi anteriormente all'invasione visigotica-i visigoti erano ariani - il RITO si proporrà in seguito come confessione di fede cattolica. L'estensione geografica ne spiega la ricchezza. Nella sua formazione sono intervenute tre chiesa metropolitane che costituiscono altrettante scuole liturgiche, i cui testi si distinguono per peculiarità diverse: Siviglia, sede della provincia Betica; Tarragona, della provincia dello stesso nome; Toledo, capitale del regno visigotico; centri minori furono Cartagena, Merida e Narbona. In quest'attività creatrice vanno ricordati una serie di vescovi: di Tarragona, S. Fruttuoso e Protasio; di Siviglia, S. Leandro e S. Isidoro, il fratello, che gli successe; di Toledo, che ha dato i frutti migliori S. Eugenio II, S. Ildefonso e S. Giuliano; inoltre, S. Giusto di Urgel, Giovanni di Leida, Conanzio di Pallenza. Lo scambio tra le varie chiese (anche con quelle della Gallia, Milano, Roma e Benevento) fu la via all'unificazione liturgica nella chiesa visigotica. Non va dimenticata l'azione di vari concili provinciali e regionali, fra tutti il Toledano IV (633), che dà le linee essenziali per regolare il RITO in fase di sviluppo e per la difesa della sua autonomia.
L'ampio arco di tempo in cui il RITO è stato elaborato (sino a fine sec. VII) ha permesso un’evoluzione secondo il ritmo naturale attraverso le tre fasi, con il vantaggio di una maturità} di riflessione che ha tenuto conto dell'esperienza di altri RITI l'invasione araba (iniziata nel 711) e il conseguente blocco culturale sopraggiunsero quando il ciclo creativo era ormai il RITO fu soppresso per pressione di Gregorio VII nel concilio di Burgos (1080): attraverso l'uniformità liturgica si voleva impostare la centralizzazione romana su basi più solide. Quando fu liberata dagli arabi (1085), Toledo ottenne di conservare l'antico RITO nelle tre parrocchie allora esistenti. In seguito, il cardinale F. Ximenes de Cisneros, per salvare dalla distruzione questo patrimonio, pubblico il Missale Mixtum (1500) e il Breviarium (1502), per opera di A. Ortiz; inoltre nella cattedrale fondo la cappella mozarabica, in cui ogni giorno si celebra messa e ufficio secondo quel rito. Il cardinale F. de Lorenzana preparò poi una nuova edizione del breviario (1776) e del messale (1804). Parecchie comunità e confraternite hanno continuato a conservare il RITO; per le feste dei santi locali si e seguitato ad usare testi mozarabici. Attualmente e un RITO in fase di riforma, per poter essere affiancato come parallelo alternativo a quello romano nelle chiese di Spagna. Per la celebrazione dell'eucaristia vige il principio - che segna il carattere e lo stile del RITO - della variabilità della preghiera eucaristica: mentre a Roma di mobile c'e solo il prefazio e alcuni simbolismi, il RITO ispanico, come quello gallicano, tiene fisso soltanto il racconto della cena, mentre il resto della prece (prefazio, post sanctus, post pridie) cambia ogni volta: si hanno così 300 anafore. Per il resto, i formulari della messa presentano un'analogia strutturale con quelli romani. Dal punto di vista quantitativo, la produzione di questo RITO, specie quella eucologica, è vastissima. In genere si caratterizza per uno stile poetico che concede spazio alle effusioni liriche, per cui risulta meno denso di quello romano. RITO GALLICANO. Per RITO gallicano s'intende la liturgia formatasi nel sud della Gallia attorno alle sedi metropolitane di Marsiglia e Arles, estesasi agli inizi del sec. VI tra le popolazioni di cultura latina, e che si estinse con l'adozione del RITO romano per opera di Carlo Magno nel sec. IX. Anche nella Gallia l'interferenza dominante risulta quella del Rito africano, insieme a quello ambrosiano e bizantino. Non fanno parte del RITO gallicano le liturgie neogallicane dei secc. XVII-XVIII. Vi hanno contribuito in varia misura esponenti di differenti scuole eucologiche, come Ilario di Poitiers, Venerio di Marsiglia, Eustasio suo successore (avrebbe composto lezionario, responsoriale e sacramentario), Museo presbitero, pure di Marsiglia (redasse una scelta li letture per le commemorazioni durante tutto l'anno), Sidonio Apollinare vescovo di Avernum (compose delle parti di anafora), Gennadio di Marsiglia, S. Cesario di Arles (si è occupato della distribuzione delle letture), S. Gregorio di Tours (gli è stato attribuito un sacramentario); Venanzio Fortunato di Poitiers, oltre agli inni per cui è celebre, scrisse l'Expositio Orationis Dominicae e un’Expositio Symboli; l'Expositio brevis antiquae liturgiae gallicanae, attribuito a S. Germano di Parigi, risale invece al sec. VIII. L'opera di questi autori ricevette una conferma in vari concili locali, come quelli di Agde (506), di Vaison (529) e di Macon (585).
Fonti della liturgia gallicana, assieme al lezionario di Luxeuil e all'antifonario di Fleury, sono il Missale Gothicum, il Missale Gallicanum Vetus, il Missale Francorum e l'ibrido Missale Bobiense, tutti molto diversi tra loro; abbiamo inoltre martirologi, benedizionali, epistolari, omiliari, lezionari. Si tratta di prodotti di sedi locali distinte, ognuna intenta a formare il proprio RITO, senza una vera coordinazione, anzi con orientazioni a volte divergenti. Ogni sacramentario costituisce un tentativo per comporre un libro per la celebrazione eucaristica.
Il passaggio rapido dal dominio visigotico a quello degli ostrogoti (ca. 508), il duro colpo ricevuto dall'invasione saracena che ridusse allo sfascio quasi tutte le sedi ecclesiastiche, e in seguito il dominio dei franchi ne impedirono il consolidamento, per cui non si giunse alla fase di codificazione. Altra difficoltà per la conoscenza e la mancanza di documentazione in vari settori, per cui le fonti cl appaiono non mature, frammentarie, disperse in libri disparati. Fa eccezione un certo numero di inni. Lo stato di sfacelo prodotto dall'occupazione araba facilitò l'imposizione del RITO romano, anche se questo non avvenne senza resistenze e provoco per un certo periodo uno stato di più gran confusione.
La struttura dell'eucaristia conserva caratteri antichi. I RITI dell'introduzione hanno elementi di quell'ambiente greco-bizantino alla cui influenza tale RITO risultò aperto.
La liturgia della parola comporta tre letture; quella dell'Antico Testamento talora viene sostituita dalle gesta sanctorum.
Prima dell'intronizzazione del Vangelo si esegue il Cantico dei tre fanciulli: tale omelia è in certo occasioni surrogata da un commento patristico e la preghiera dei fedeli ha la tipologia una litania diaconale orientaleggiante.
La parte eucaristica viene solennizzata dalla processione dei doni in modo simile a quanto accade nel grande ingresso bizantino e dopo di essa si tiene la recita dei dittici (vale a dire i nomi degli offerenti e dei defunti).
Alla stessa stregua che nel RITO ispanico, l'anafora compare a pezzi variabili ma in uno stato più scarno e meno sviluppato.
Diversi passaggi rituali sono sottolineati tramite preghiere od atti di benedizione.
Il battesimo invece deteneva varie analogie con quello di Milano.
Il calendario, oltre ai santi locali, offriva diverse specificità.
Durante i secc. V e VII, l'ufficio raggiunse un considerevole sviluppo.
In particolare le veglie, nelle grandi festività, erano diffuse ovunque, comprese le comunità minori.
La distribuzione del salterio mutava a seconda dei luoghi e dei giorni: assieme alla salmodia si tenevano inni e letture.
Tale RITO perdura ancora in certi usi e testi: alcuni di questi sono penetrati addirittura da poco nella liturgia romana.
La struttura dei RITI delle ordinazioni e dell'istituzione dei ministeri (con monizione, istruzione, preghiera di benedizione) vigente ai giorni attuali nel RITO romano deriva proprio da tale liturgia: si riscontra ciò in merito all'Exultet della veglia pasquale.
I testi sono mediamente caratterizzati da una certa ampollosità ma non latitano composizioni più lineari e fervide di valori contenutistici.
RITO CELTICO. Con questo termine si suole definire la liturgia in uso fra genti d'origine e lingua celtica, dalla loro evangelizzazione fino alla perdita delle particolarità locali e alla sua sostituzione con quella romana - imposta o accettata -, da parte di Ludovico il Pio nell' 818, in Scozia per lo zelo di S. Margherita nel sec. XI, in Irlanda per opera di S. Malachia arcivescovo di Armagh (sinodo di Cashel, 1172).
E' necessario tuttavia fare una distinzione fra il gruppo gaelico e quello britannico.
Il primo, sviluppatosi in epoca più antica, è proprio dei popoli d'Irlanda e Scozia.
Risulta invece di genesi più tarda il secondo che influenzava il centro e il sud dell'isola: dopo le invasioni degli anglosassoni venne relegato nel Galles, in Cornovaglia nelle isole della Manica e in quell'area continentale cui venne conferito il toponimo di Bretagna.
Vista siffatta distinta evoluzione le diverse chiese non seguivano un RITO uniforme.
Secondo parecchi studiosi non sarebbe nemmeno da fare cenno ad una vera e propria liturgia celtica, atteso che un RITO comporta un complesso ben strutturato di testi e forme liturgiche.
In ambito celtico si trovano libri e frammenti copiati dalla forma romana pregregoriana tra conclusione del sec. VI e primi del sec. IX, senza adeguata coesione né creazione autoctono originale.
La cristianità irlandese risultava eccessivamente giovane per esprimersi in una lingua distante dalla cultura.
L'ambiente monastico si è fatto carico in siffatto ambiente di un ruolo fondamentale per la cristianizzazione dell'isola.
Qui i monasteri finirono per costituire proprio i centri in cui il RITO fece i primi passi.
Al pari degli autori, tra cui son da menzionare S. Patrizio e S. Colombano, risultano limitati i testi che peraltro hanno poco valore: risulta invece superiore la produzione innologica sviluppatasi in una specie di sinergia con l'arcaica cultura indigena.
In merito alle fonti sono noti l'Antifonario di Bangor, composto tra 680 e 691 (è una raccolta di cantici, inni, antifone, versetti), il Messale di Stowe, che è di fine IX secolo e deriva da un archetipo del sec. VII ma riveduto nell'VIII secolo(a seguire il Vangelo di Giovanni si trova l'ordinario della messa cui fanno seguito tre messe votive, l'ordo baptismi, l'ordo infirmorum visitandorum, ed un testo irlandese sul RITO della messa), il Messale di Bobbio (d'origine e data incerte), un ibrido gallicano-celtico.
Rituali dei sacramenti si individuano poi nei libri di Dimna (sec. IX) e Mulling (sec. IX) in Irlanda, e in uno di Deer (sec. X) in Scozia.
Si conservano anche salteri e martirologi irlandesi, collezioni di inni in latino e irlandese, e una serie di litanie in irlandese.
Il Messale di S. Vougay (sec. XI) in Bretagna riguarda invece i santi bretoni (oltre a tutto questo si hanno ancora i libri di pietà celti, come il Book of Cerne (sec. IX).
Le liturgie celtiche non detengono propria originalità in quanto derivano da fonti straniere, eccezion fatta per il RITO dell'incoronazione dei re destinato ad avere un risalto sepecifico nel Pontificale.
Mentre la liturgia scritta ed i testi non hanno avuto gran peso specifico nella tradizione religiosa medievale è al contrario da ribadire che la pietà privata di ambito celtico ha comportato notevoli interferenze sulla spiritualità del Medioevo.
RITI ITALICI. La liturgia campana fa capo a S. Paolino di Nola, autore di un Liber sacramentorum con lezionario proprio, e a S. Vittore di Capua con riferimento al Codex Fuldensis. Usi specifici si trovano nel ducato longobardo di Benevento (RITO beneventano), al confine con le regioni di rito greco dell'Italia meridionale.
La liturgia aquileiese o RITO PATRIARCHINO - della metropoli di Aquileia e delle chiese suffraganee (un tempo giungevano fino alla Rezia e alla Pannonia), passato successivamente a Grado, Cividale, Udine e Venezia - fu abolito definitivamente nel 1456. Le sue origini rimandano a Fortunaziano, autore di una lista di pericopi per il lezionario, a Rufino, che compose un credo battesimale, a Valeriano, all'opera pastorale di S. Cromazio, di cui rimane una copiosa produzione omiletica donde si recuperano importanti informazioni liturgiche, e a S. Paolino, estensore di inni: risulta culturalmente e teologicamente prossimo al RITO milanese, e, nel contempo, derivato da quello alessandrino (copto) di cui ha mantenuto gli influssi.
Il RITO RAVENNATE, testimoniato dal Rotolo di Ravenna (costituito da una quarantina di orazioni per il ciclo natalizio), ha i suoi esponenti piu illustri in S. Pietro Crisologo, le cui omelie, che prendono spunto dalle celebrazioni liturgiche, cl hanno tramandato una documentazione preziosa sul battesimo, la penitenza, il digiuno, i cicli liturgici, e Massimiano, autore di una raccolta di orazioni. Il RITO, apertamente sotto gli influssi bizantini e quelli dell'alta Italia, si estendeva a tutto l'esarcato; fu latinizzato a partire dalla fine del sec. V.
RITO AMBROSIANO. Si denomina ambrosiano il RITO che o realmente o anche solo nominalmente si ispira alla liturgia usata da S. AMBROGIO e che si concreta nella tradizione delle chiese che gravitano attorno alla sede milanese. Essa affonda le sue radici nella liturgia romana antica o pregregoriana, quando questa non era ancora distinta nettamente da quella orientale (mentre in seguito la liturgia di Roma risulterà sempre più romana Milano proseguirà gli scambi con Costantinopoli): questa sua caratteristica ne fa una liturgia ponte con l'Oriente.
Lo svilupparsi di un RITO proprio a Milano dipese dal fatto che durante la decadenza di Roma nei secoli dell' età tardoantica, questa metropoli, gia centro di scambi commerciali, politici, culturali, era divenuta praticamente la capitale dell'Occidente.
Dal lato religioso questo spiega l'influsso cosmopolita e le poliedriche ricchezze che confluivano nel bacino padano per i molteplici contatti, oltre che con le altre sedi italiane (Roma, Aquileia, Ravenna), con Bisanzio (attraverso a Tessalonica), l'Oltralpe (Spagna Gallia, il monachesimo irlandese) e l'Africa (Cartagine, Tagaste; una colonia africana viveva a Milano per specializzarsi e insegnare). Il RITO è anche la conseguenza dell'autonomia ecclesiastica esistente in Occidente prima del periodo carolingio, e quindi dell'attività di scuole eucologiche (con varianti locali: Varese, Bergamo, Ticino, Novara, Vercelli, Bobbio) che hanno dato vita a un'opera creativa altamente significativa.
Ambrogio, che vi esercitò un'opera analoga a quella che nella chiesa romana compirà Gregorio Magno - le sue catechesi mistagogiche sono le più importanti tramandateci dell'antichità-, è anche considerato il creatore dell'innografia occidentale.
Tutto quello che in seguito si fece nella chiesa milanese fu attribuito o prese nome da lui.
Sulla sua scia furono compositori degli uomini dotati di originalità di pensiero e abilità espressiva: S. Simpliciano avrebbe completato l'ufficio; S. Eusebio di Milano fu autore di canti; il monaco irlandese Sedulio Scotto (sec. IX) compose dei carmi.
Anche se non si tratta di una liturgia composta per difendere la purezza della fede, ma didattica e confessante, tanto nel periodo del suo sorgere (secc. IV-V), quanto nel momento dello sviluppo (secc. VI-VII), come in quello dello stabilizzarsi e della codificazione (secc. VIII-IX), il movente e l'ispirazione costante sono dati dall'anti-arianesimo, nella lunga storia di questa eresia: degli inizi (arianesimo puro), dei longobardi (arianesimo barbarico) e degli epigoni.
Per riflesso, questa situazione ha conferito al RITO una nota di cristocentrismo che amplifica i temi dell'incarnazione del Figlio di Dio, della sua nascita dalla Vergine, dell'umanità e divinata del Verbo.
Anche per questo RITO si parla di tappe successive che testimoniano il progressivo arricchimento: il periodo romano-italico legato a S. Ambrogio, quello dell'apogeo, crescita e consolidamento nel sec. VII, e quello carolingio, quando il RITO non riesce a sottrarsi all'ondata imperante franco-romana e deve subire una romanizzazione coercitiva; i primi due sono detti della liturgia ambrosiana pura, la terza della liturgia contaminata Per la vicinanza geografica e l'ascendente giuridico che Roma è venuta gradualmente esercitando, nella sua sopravvivenza ha dovuto pagare (in misura del suo condizionamento dai modelli romani) più degli altri RITI latini.
Il RITO ha resistito alle riforme liturgiche carolingia, tridentina e del Vaticano II, ma ha dovuto accettare un livellamento con quello romano, per cui le differenze formali sono ridotte a poca cosa, mentre quelle contenutistiche sono ancora notevoli. Dal concilio di Trento la chiesa ambrosiana stampa i propri libri liturgici; dopo il Vaticano II ha iniziato una riforma con criteri paralleli a quella del RITO romano.
Elementi propri li troviamo nel calendario (cicli liturgici, santorale), nel lezionario, nell'eucologia - con tonalità tipiche - e negli inni.
Per la celebrazione dell'eucaristia possiede due preghiere eucaristiche proprie; ogni formulario di messa ha sempre il prefazio; i RITI della pace e dello spezzare il pane hanno un posto diverso dal romano; il messale e piu ricco di quello romano.
Come lezionario è stato adottato quello romano, con un volume supplementare per le celebrazioni vere e proprie, specialmente in occasione della settimana santa e dell'ottava di Pasqua.
Per alcuni sacramenti e sacramentali e stato ricuperato il RITO originale. La liturgia delle ore e propria: diversa e la distribuzione del salterio, la struttura interna delle ore, la composizione delle intercessioni.
Sono sottolineate le tradizioni locali legate alla cattedrale, alla basilica di S. Ambrogio, ai saltuari cittadini.
RITO ROMANO. All'inizio il RITO romano era la liturgia della metropoli di Roma e delle chiese del Lazio; poi si diffuse spontaneamente nella penisola, Magna Grecia esclusa. Da Carlo Magno fu imposto al regno dei franchi e con Gregorio VII alla penisola Iberica (1080). In seguito, diversamente dell'Oriente, si avrà un processo di unificazione di quasi tutte le tradizioni liturgiche sotto quella romana, che le missioni hanno esteso a tutti i continenti. La Sicilia venne orientata decisamente nell'orbita romana dal sec. XI, dopo la frattura definitiva tra Oriente e Occidente (1054). Questo RITO prende origine dal passaggio della liturgia dal greco al latino, durante quasi un secolo di bilinguismo e conclusosi sotto il pontificato di Damaso (366-384). La traduzione della Bibbia da parte di S. Girolamo forni un testo (la Vulgata) che servi da base per tutti i libri liturgici romani per quindici secoli. Arrivata ultima al cambio linguistico, la chiesa di Roma usufruì del latino cristiano e liturgico, una varietà strutturata sul latino letterario, con neologismi ed espressioni autonome, che si avvale pure di ebraismi e grecismi, forzando in maniera creativa il vocabolario. La formazione e costituzione del RITO fanno anch'esse riferimento a tre fasi che, per la sua primazialità in Occidente, Roma ha vissuto in piena libertà.
Da Damaso a Leone Magno. Di origine iberica, S. Damaso ha portato l'esperienza della sua chiesa. Dal suoi epigrammi sulle tombe dei martiri, rileviamo che ha impresso nel linguaggio liturgico uno stile nobile, classico, poetico, icastico, che avrà un seguito nelle espressioni sintetiche e concise delle orazioni romane.
Il passaggio al latino rappresenta uno sforzo di inculturazione, cioè di adattamento e creazione, in vista delle esigenze proprie della mentalità e del genio romano, che coinvolge non solo il linguaggio ma anche i contenuti teologici. A1 termine eucaristia si preferisce oblatio e sacrificium, una sottolineatura che, nel corso dei secoli, in Occidente sarà fertile di conseguenze: il rendimento di grazie cede il posto a una visione sacrificale unilaterale. L'impoverimento dottrinale s'accompagna al farsi strada della mentalità giuridico-formale, propria del diritto romano, che porta nel canone della messa (la redazione ultima sembra di Leone Magno) terminologia cd espressioni del linguaggio pagano sacrale e giuridico. La genialità di Leone Magno determina fin dagli inizi le caratteristiche dell'
eucologia.
Da Leone Magno (440-461) a Vigilio: la fase della creatività fa capo a Innocenzo I (401-417), S. Gelasio I (492 496) e Vigilio (537-555). La parte piu cospicua delle loro composizioni è custodita nel Sacramentario Veronese, mancante dei primi tre mesi, in cui sono stati trascritti i formulari (libelli, missarum) dell'archivio del Laterano. Ogni messa comprende colletta, preghiera conclusiva dell'orazione universale, sapetoblata, prefazio, postcommunio e super populum, ossia le parti variabili sacerdotali. Mentre l'Oriente sviluppa i canti del coro, dando origine a una liturgia piu popolare e partecipativa, Roma crea una liturgia presidenziale.
La riforma gregoriana. La compilazione del Sacramentario Gelasiano antico pochi anni dopo la morte di Vigilio, dà vita al primo libro liturgico completamente strutturato (totius anni circuli, per l'intero ciclo annuale).
Per quanto concerne la LITURGIA ROMANA (RITO ROMANO) A S. GREGORIO MAGNO (590-606) va il merito della prima organizzazione di tutta la liturgia. Gli vengono attribuiti lezionario, il Sacramentario che porta il suo nome, e Antifonario-Graduale (il corpus che contiene i canti): tra l'altro ridusse a due le letture della messa, abolì la preghiera dei fedeli, limito i prefazi a dieci soltanto; il canto che da lui prende nome e avvio e in gran parte composizione monastica medievale. Con lui la liturgia di Roma prende le distanze dal RITO bizantino e diventa in tutto RITO romano. La fortuna della riforma gregoriana - fatta di abbreviazioni è l'essere stata pensata per un travagliato tempo di transizione: in effetti durò i dieci secoli del Medioevo (mentre la sua opera è rimasta praticamente in vita sino alla riforma liturgica del Vaticano II): in un'epoca precaria e di crisi in cui, per la carente formazione del clero e il popolo non piu in grado di comprendere la Bibbia, non era piu possibile una ricca liturgica, ma cl si doveva accontentare di soluzioni semplificate e realiste. Nonostante i limiti e i difetti - che pero salvano il meglio- la sua opera fu accettata ovunque (anche se suo intento era solo di provvedere alla sua metropoli) come una linea di equilibrio e di misura, quale interpretazione del genio italico.
Quanto alla specificità della liturgia romana occorre dire che è semplice e concisa: la sua lingua risulta precisa, in stretta sintonia con le norme retoriche della scuola asiatica di Gorgia (sec. I a. C.), con il suo stile coordinato e antitetico Come elementi formali possiede un ordinamento facilmente decifrabile; diversamente da altre liturgie, il discorso risulta costantemente volto al Padre (secondo i concili di Ippona, 393, e Cartagine, 397); le preghiere sono al plurale; l'anafora e unica. Come elementi teologia, e di grande aderenza alle verità dogmatiche, di denso contenuto e raccoglie il meglio della dottrina patristica. Circa il gemere letterario si rivolge piu alla mente che alla fantasia, e piu concettuale e razionale che simbolica, usa un linguaggio superiore a quello popolare, piu teologico che biblico, austero, di una essenzialità estrema (concinnitas). La chiarezza del pensiero si accompagna con il ritmo solenne e la dignità dell'espressione, testimoni di un'intensa vitalità e robustezza.
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RITI ORIENTALI ( liturgie orientali). A differenza dell'Occidente in cui ha un significato limitativo, per l'Oriente RITO ha una valenza molteplice: non si riferisce solo alle celebrazioni liturgiche, ma evoca l'insieme d’istituzioni ecclesiastiche, norme canoniche e tradizioni cultuali proprie, in altre parole i capisaldi che definiscono la vita, la spiritualità e la teologia di un insieme unitario di chiese. Suo sinonimo è liturgia mentre RITO richiama piuttosto l'aspetto etnico-culturale onde un popolo si differenzia dagli altri, liturgia indica sia il complesso cultuale che la parte centrale della celebrazione dell'eucaristia (liturgia di S. Giovanni Crisostomo, di S. Basilio, ecc.). Diversamente dall'Occidente latino, l'Oriente si è strutturato in gruppi di chiese autonome che, salva l'espressione della fede e della comunione ecumenica, si sono evolute dando spazio ad aspirazioni proprie, riconosciute oggi come patrimonio nativo del cristianesimo in quanto tale, in altre parole espressive per l'intera cristianità.
GLI INIZI. Perché una chiesa-popolo possa darsi un RITO proprio occorre un insieme d’elementi convergenti: una chiesa territoriale che si costruisce un RITO; una dottrina vissuta; una o piu lingue liturgiche; una sede ecclesiastica vivace dotata di una organizzazione efficiente e di un centro qualificato di studi teologici. Di fatto, dall'unita primordiale del ceppo giudaico-cristiano, sotto l'impulso della diffusione del Vangelo e del suo approfondimento teologico, tanto in Occidente che in Oriente, storicamente si è arrivati ad una varietà d’espressioni liturgiche. La genesi, l'evoluzione e l'interazione di queste liturgie differenziate vanno ricercate nella presa di coscienza del genio specifico e della riuscita inculturazione del Vangelo nelle diverse province dell'impero romano d'Oriente. L'organizzazione antica della chiesa, centralizzatasi attorno a delle metropoli divenute in seguito patriarcati (Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme, e piu tardi anche altre), o katholikosati (armeni, caldei, georgiani), o chiese autocefale, incentiva lo sviluppo di una omogeneità cultuale nelle singole regioni. Questa prospettiva tuttavia non da ragione di tutto: Efeso e la Cappadocia ebbero un loro RITO ma questo fu assorbito in seguito dalla liturgia della sede egemone di Costantinopoli.
Fondamentalmente, i maggiori centri o ambiti di creazione liturgica in Oriente- una parola di comodo per distinguere dall’Occidente, culturalmente più omogeneo, d’espressione latina unitaria - agli inizi sono stati due: Antiochia di Siria e Alessandria d'Egitto. Attorno a queste aree sono variamente confluite con apporti propri Gerusalemme, Nisibi-Edessa, la Cappadocia. Successivamente, o nel periodo tardoantico o ai primi del Medioevo, si sono affacciate alla storia le chiese dell'Armenia, la sede di Costantinopoli, l'Etiopia, la Georgia e altre di minor peso storico.
Per essere un centro missionario d’epoca apostolica da cui e partita l'evangelizzazione dell'Occidente, per il privilegio delle matrici semitiche nel cui ambito è nato il cristianesimo e secondo la cui forma mentis sono stati scritti i libri del Nuovo Testamento, la metropoli d’Antiochia fu anche il primo centro d’influsso liturgico. Anche Alessandria e Roma ne subiranno l'impronta. I documenti liturgici conservati che testimoniano l'epoca arcaica e il passaggio nella liturgia dalla fase orale a quella scritta, sono costituiti da fonti canonico-rituali, come la Didache (di datazione discussa), la Traditio Apostolica d’Ippolito di Roma (ca. 225), le Constitutiones Apostolorum (la redazione definitiva e della fine del sec. IV), il Testamentum Domini, alcune anafore (preghiere eucaristiche) di tipo antiocheno (singolare quella d’Addai e Marl) e da testi patristici quali le catechesi di Cirillo di Gerusalemme e di Giovanni Crisostomo (sec. IV), le omelie di Teodoro di Mopsuestia (secc. IV-V) e di Narsai (sec. V), l'Itinerarium d’Egeria (ca. 387). Queste fonti ragguagliano sulle feste dell'anno, sull' iniziazione cristiana, sull'eucaristia, sulla preghiera comune, sul digiuno, sui ministeri.
Aperta a tutti gli apporti e massimo centro di convergenza e d'irradiazione umanistico-scientifica, Alessandria, oltre ad essere la base missionaria del Mediterraneo latino e dell'Etiopia, con la sua scuola teologica e anche una metropoli d’elaborazione e d’espansione liturgica. Meno preoccupata della liturgia e piu della dottrina, del periodo arcaico cl ha lasciato poche testimonianze di genere cultuale: restano l'anafora di S. Marco (secc. II-III), l'Euchologhion di Serapione di Tmuis (sec. IV, Basso Egitto), il Papiro di Deir Balizeh (sec. VI), il Papiro di Strasburgo (manoscritto 254) e rari frammenti di preghiere. Non risulta tradita alcuna catechesi mistagogica.
La chiesa madre di Gerusalemme appare dapprima assorbita dai problemi interni della comunità giudeocristiana. Con la liberta costantiniana, i pellegrini provenienti da tutto il mondo cristiano diffondono la sua liturgia che celebra nei luoghi storici del Vangelo i RITI del ciclo pasquale e di quello del Natale-Epifania. Insieme con la Palestina costituisce una regione cosmopolita fittamente popolata da monasteri - i piu influenti sono la laura di S. Saba e il cenobio di S. Teodosio - che le fanno da supporto teologico-spirituale. Fin dal sec. IV sviluppa una liturgia divenuta un modello che tante chiese cercano di imitare.
LE FAMIGLIE LITURGICHE. Superata la fase piu o meno informale degli inizi, con il sec. V le varie aree o etnie hanno già determinato lo sviluppo di un RITO autoctono dotato di solida individualità, dovuta all'inculturazione del messaggio evangelico. Per le derivazioni dall’ origine e le diverse sinergie posteriori, queste forme possono essere raggruppate in famiglie liturgiche. Contemporaneamente pero emergono dei fenomeni centrifughi: nasce la pretesa di legare le legittime autonomie a dei punti di dottrina diversa. L'intensa attività conciliare non riesce a fare l'unita. In seguito al pullulare delle eresie e alle conseguenti lotte teologiche, la formula del concilio di Calcedonia (451) determina una serie di spaccature. Solo i bizantini (ortodossi) le assimilano, mentre le altre chiese divaricano, accentuando le diversità o l'opposizione. La necessita di celebrare coerentemente con la dottrina professata determina come conseguenza di caratterizzare meglio le particolarità liturgiche. Con processi diversi si isolano dall'influsso di Bisanzio, sotto la spinta etnico-culturale ma ancor più politica, le chiese monofisita copta (la egiziana e quella etiopica), l'armena, e le nestoriane (Siria dell'Est ed India). Le nuove chiese vivono in conseguenza una stagione di feconda creatività liturgica: accanto a dati della tradizione comune, sviluppano forme proprie nuove e originali.
Nel tentativo di classificazione, se si parte da criteri prossimi alle divisioni territoriali e confessionali, si riconoscono tre famiglie: a) siro-orientali (nestoriani), con sede prima ad Edessa e poi, in seguito all'occupazione persiana e allo scisma - oltre il concilio di Calcedonia, prima non era stato accettato quello di Efeso, 431-, a Seleucia-Ctesifonte; b) non-calcedonesi o anti-calcedonesi (monofisiti), cioè siro-occidentali, copti, etiopici e armeni (cui si aggiungeranno i malabaresi), tutte chiese che si identificano progressivamente con un popolo-nazione; c) calcedonesi o hizantini che, forti della legittimità conciliare che li unisce all' impero , attenueranno le tradizioni locali fondendo apporti provenienti da vari orizzonti; a questi si possono collegare, anche se per sentieri diversi, i melchiti e i maroniti.
Facendo invece riferimento alla struttura delle anafore attualmente in uso (come nella circostanza di preghiere eucaristiche di genere antiocheno presso i copti e gli etiopici) - un criterio interno, complementare al precedente, ma importante per caratterizzare i principi teologici di un RITO - si individuano tre famiglie: 1) tipo antiocheno, a schema trinitario-economico (ricalca l'andamento del Credo): e quello classico e il piu logico, che permette un'adeguata collocazione/funzione dell'epiclesi (l'invocazione dello Spirito Santo), in ordine alla trasformazione dei doni (le anafore piu note sono quelle gia nominate di Basilio e del Crisostomo); 2) tipo alessandrino (da cui dipende il Canone romano, la preghiera eucaristica usata in Occidente come unica per quindici secoli): spezza in due la epiclesi, collocando quella preconsacratoria prima dell'istituzione, e l'altra che chiede l'unanimità della comunità celebrante dopo l'offerta del sacrificio; lo stesso dicasi per le commemorazioni dei vivi e dei defunti (tipica e quella alessandrina di S. Marco); 3) tipo siro-orientale: l'anafora d’Addai e Marl, che non contiene il racconto dell'Ultima Cena: l'epiclesi è posta dopo le preghiere d’intercessione. Caratteristica comune è la staticità - supplita dal numero elevato d’anafore-, qualunque sia la festa celebrata.
I RITI DELLE SINGOLE CHIESE. Riti siriaci (chiese antiochene). Sono il riflesso di un caleidoscopio etnico, linguistico e politico in situazione storica inquieta e in rapida trasformazione, poste ora al limite dell'impero romano (provincia della Siria), ora tra il Tigri e l'Eufrate e quindi tra ambito ellenistico e persiano. Connesse al ceppo semitico, matrice ambientale della lingua aramaica - madre del dialetto palestinese dei tempi e delle vicende del Nuovo Testamento - le chiese d’origine siriana mantengono le radici giudeo-cristiane, anche per l'evangelizzazione avvenuta quasi per contatto.
a) Rito siro-orientale (chiesa caldea o nestoriana). Vi si ascrivono le genti cristiane d'ambiente mesopotamico. Si tratta di una chiesa che ha lottato per la sopravvivenza prima sotto la dominazione persiana e poi sotto quella islamica. Punto di convergenza di svariate culture, ha ricoperto un ruolo ponte tra la propria eredita semitica e quella greca da un lato e araba dall'altra, e una posizione di mediazione nei confronti delle chiese georgiana, armena e malabarese. In un periodo di vivace sviluppo commerciale e culturale, e insieme d’accese controversie teologiche, la regione si presenta ellenizzata nelle città mentre conserva le lingue locali nei villaggi e nelle campagne. Nell'evoluzione liturgica riscontriamo tre momenti, in cui si alternano periodi d’apertura ad epoche di rilevante isolamento.
Quello primitivo edesseno è segnato dalla penetrazione del cristianesimo nel regno dell'Osroene e nell'impero persiano: in tale periodo la chiesa riesce ad integrare la sua doppia cultura - semitica (prevalente) e greca-, a fonderla. con gli apporti mesopotamici, recuperando gli influssi della numerosa colonia giudaica parzialmente cristianizzatasi in seguito. Vi esercitano gran ruolo prima la scuola di Nisibi, poi quella d’Edessa, divenuta faro di cultura. Sotto il profilo liturgico quest'epoca si esprime con originalità soprattutto nel genere dell’ innografia - inaugurata da Bardesane (sec. II) e portata all'apice da S. Efrem (sec. IV) -, un modello che diventerà una vera e propria scuola, pur se in modo diverso, in tutto l'ecumene cristiano. Tra i numerosi autori liturgici meritano di essere ricordati il persiano Afraate (secc. III-IV), Maruta Majferqat, Balai (secc. III-IV), Cirillona d’Edessa (morto alla fine del sec. IV), Giovanni d’Apamea, Giacomo di Sarug (secc. V-VI). Nell'approccio alla Bibbia si predilige la spiegazione letterale con il metodo giudaico del midrash e del targum di tradizione mesopotamica. Caratteristiche sono l'ascetismo-encratismo, il simbolismo accentuato, la teologia apofatica, la forma poetica. Le fonti sono costituite da vari apocrifi, come l'Inno della Perla, le Pseudo-Clementine, il salterio Manicheo; a queste vanno aggiunte le versioni bibliche: la traduzione del Nuovo Testa mento Vetus syriaca (sec. IV), la Peshitta, il Diatessaron di Taziano, la Filosseniana (tutte del sec. V).
L'epoca d’ellenizzazione risente dell'influenza della teologia sacramentaria di Teodoro di Mopsuestia e della scuola persiana, mentre a causa del dominio persiano vive isolata dal resto della cristianità, senza pero chiudersi del tutto ad altri influssi. Evolutosi rapidamente nel periodo piu antico, il RITO si assesta gia nei secc. V-VI, e come tale si con serva ancor oggi; elementi arcaici aderenti allo spirito semitico riflettono uno stadio molto vicino alle origini. A difesa della propria identità culturale e politica, manterrà l'aramaico nella lingua e nella liturgia.
Un terzo periodo a partire dal sec. VII e quello della codificazione liturgica, attraverso compilazioni come l'Hudra, raccolta d’uffici per le domeniche e le feste, od il Gaza, collezione d’inni ed e antifone per i notturni. I RITI dell'iniziazione sono semplificati e adattati al pedobattesimo. Si fissa l'ordine della salmodia, mentre gli uffici sono ampliati. Il patrimonio eucologico (le preghiere) è completato da orazioni di composizione ecclesiastica. Per la celebrazione dell'eucaristia, le anafore in uso sono quelle degli apostoli, di Teodoro di Mopsuestia e di Nestorio, rimaneggiate nel corso dei secoli. Le letture bibliche sono quattro, due dell'Antico Testamento, S. Paolo e Vangelo. Nella chiesa il santuario e separato dalla navata. IIl ciclo dell'anno comprende nove periodi a partire dalle quattro domeniche prima di Natale. L'anno liturgico e organizzato in serie successive di sette settimane. Nell'ufficio - con i tre tempi sera, notte e mattino - ha esercitato il suo influsso l'ambiente monastico.
Per essere vissuta lunghi secoli come minoranza dispersa, molte preghiere esprimono senso d’umiltà e timore, di peni senza e attesa del giorno del Signore. Si caratterizza per i tratti sobri, il simbolismo specifico, la mariologia preefesina, la commemorazione dei martiri della propria storia. L'unione di questa chiesa con Roma ha richiesto l'accettazione di vari usi latini nel battesimo, nella cresima, nella riconciliazione e nell'unzione degli infermi.
h) Rito siro-occidentale (giacobiti). Questa liturgia, che costituisce l'antenato del RITO bizantino, è la sommatoria del con fluire d’elementi siro-palestinesi (specialmente gerosolimitani) con la creatività propria, a partire dallo scisma calcedonese. La sua caratterizzazione, che gli da popolarità, e dovuta in gran parte alla riforma di Severo d'Antiochia (secc. V-VI), con l'introduzione del siriaco: gia presente dai tempi di S. Efrem, l'innodia diventa preminente nelle ufficiature, come catechesi ritmica, nel genere d’omelie, istruzioni e inni dialogati. Altri inni- celebri quelli mariani di Giacomo di Sarug e del suo discepolo Simone Qutaya, redatti in uno stile molto espressivo - sono usati anche da caldei, maroniti e melchiti.
Prima della condanna di Severo d'Antiochia (536) il RITO non aveva ancora delle forme ben definite. Vescovo dal 542-543, Giacomo Baradeo - da cui la chiesa prende il nome - ne risulta il rifondatore: nell'opposizione al potere imperiale, accoglie come liberatrice l'invasione degli arabi nel 633 (dal sec. XIII le persecuzioni islamiche decimeranno le comunità). Sotto Dionigi Bar Salibi (morto nel 1171) si ristrutturerà il RITO, accogliendo usi sconosciuti agli altri RITI dell'Oriente e con un notevole sforzo d’inculturazione. Accanto alla lingua siriaca si afferma pure l'arabo e risultano accettati influenze di liturgie non calcedonesi. Questa liturgia, poco conosciuta perché appartenente a popolazioni che vivono rifugiate prevalentemente sui monti della Siria e della Cilicia, raccoglie la teologia liturgico-sacramentale di scrittori come Giorgio vescovo degli arabi (morto nel 724), Mose Bar Kefa (morto nel 905), Dionigi Bar Salibi, Giacomo Bar Shokko e Gregorio Bar Hebraeus (sec. XIII), autori di spiegazioni mistagogiche e di saggi teologici. Vi ha contribuito anche il monachesimo, travasandovi la sua spiritualità. Per l'eucaristia, le anafore conosciute sono piu di settanta, ma solo una decina sono riportate negli attuali testi liturgici; quella peculiare è di S. Giacomo, cosiddetta per la sua origine gerosolimitana. Le letture sono sei: tre dell'Antico Testamento e tre del Nuovo. I cicli delle feste comprendono nove tempi e iniziano otto domeniche prima di Natale. La preghiera comune - l'ufficiatura del mattino e quella del vespro- conserva evidenti influssi della liturgia ebraica: il rituale contiene dei formulari di natura omiletica, ad imitazione della preghiera delle 18 benedizioni del RITO sinagogale, mentre l'offerta dell'incenso deriva dalla liturgia del tempio di Gerusalemme. Possiede un ricco patrimonio musicale, con un materiale di base arcaico, che ha accolto profondi influssi da altre espressioni etno-culturali. Le ufficiature conservano una eredita letteraria che risale all'epoca patristica. Il patrimonio liturgico risulta ricco sia dal punto di vista poetico e teologico sia per estensione di canti e di preghiere. Nelle chiese il santuario si presenta chiuso da una parete traforata; l'altare ha il baldacchino; una tribuna serve per le ufficiature solenni.
I RITI vengono concepiti come simboli misteriosi di un mondo superiore, angelico. Il ruolo dello Spirito Santo, comunicatore di un'efficacia spirituale, e fortemente sottolineato.
c) Riti siro-malabarese e siro-malankarese (cristiani di S. Tommaso) dell'India. Per essere nata dall'azione apostolica dei siro-orientali, i cristiani di S. Tommaso ne assunsero la liturgia adattandola alla civilizzazione indiana locale. Il passaggio dei primi al nestorianesimo coinvolse anche questa chiesa. La colonizzazione occidentale del sec. XVI individuò due chiese, al nord quella del Malabar (con RITO derivato da quello nestoriano), al sud la malankarese (con RITO d’origine giacobita). Con il sinodo di Diamper (1599), diretto dai gesuiti, i portoghesi, con un autodafè pressoché totale, imposero il rituale di Braga-Coimbra. Ne derivò una mescolanza di RITI tradotti in siriaco, e successivamente la frantumazione progressiva in chiese autocefale o latinizzate e unite a Roma o al mondo riformato : le prime hanno assunto gli usi della chiesa giacobita, per le altre è continuato il processo di latinizzazione (la lingua e il malayalam), le ultime si sono avviate verso un protestantesimo fondamentalista.
d) Rito maronita. La chiesa maronita si configura come un RITO autonomo della chiesa antiochena. nato da una comunità cristiana che faceva capo al monastero di S. Marone (secc. IV-V), ad Apamea nella valle dell'Oronte, i cui monaci durante le controversie cristologiche, furono strenui difensori del concilio di Calcedonia. Emigrata sui monti del Libano a causa delle persecuzioni monofisite e delle invasioni arabe, dove è vissuta per secoli in atteggiamento difensivo, ha dato vita ad un rito. Divenuta patriarcato dal tempo delle crociate, entro in comunione con la chiesa romana, un'unione che gradualmente divenne integrale.
Sostanzialmente anche il RITO maronita appartiene alla famiglia siro-occidentale (caldea), di cui costituisce una variante, e di cui conserva testi cd usi. Le lingue sono il siriaco e l'arabo. Dall'unione con Roma - sotto pressioni e intolleranze - ne è derivata una ridondante latinizzazione con l'uso del pane azzimo, il crisma confezionato all'occidentale, l'anafora romana con la sparizione di quella di S. Pietro Sarar (molto arcaica, imparentata con quella d’Addai e Marl), il calendario, la struttura del santuario, le vesti liturgiche. Le anafore, ridotte di numero, sono comuni con i siro-occidentali. L'ufficio, semplificato, offre pochi testi per i vari tempi liturgici: l'ordinario, divenuto un libro di lettura spirituale, nei giorni feriali equivale ad un breviario. Malgrado questi ibridismi e impoverimenti, ha un'impronta di pietà popolare semplice, espressione di una storia travagliata. Il canto popolare ha quindi reso più sostanzioso il patrimonio liturgico.
Riti copti. a) Rito alessandrino o egiziano. Copti e il nome con cui gli arabi hanno chiamato gli egiziani (dal latino algyptlos, algubt in arabo poi evolutosi in qubti). Dopo la controversia calcedonese la lingua popolare copta diventa letteraria a spese del greco - la lingua liturgica originaria -, di cui questo RITO conserva delle tracce (nei monasteri si continuerà a celebrare in greco ancora per vari secoli); all'inizio del secondo millennio nelle parti del popolo subentra anche l'arabo. La lingua e l'elemento piu caratteristico che individua la chiesa di Alessandria di confessione monofisita: il saidico del Sud e la lingua dal sec. III all'VIII, il boairico del Delta (prevalente oggi nella liturgia) e l'egiziano dei secc. IX-XII.
Le informazioni che si possono ricavare dagli scritti dei padri o dall’ agiografia non soccorrono molto nel disegnare la formazione originale di siffatto RITO: le distruzioni dell'invasione araba ne hanno cancellato le tracce. Dapprima sembra che sul ceppo originale abbia accolto notevoli influssi antiocheni, attraverso le Costituzioni apostoliche; anche in seguito il modello siriano risulterà presente, in quanto anch'esso si oppone a quello bizantino conciliare. Le prime notizie del RITO compaiono negli autori del sec. IV: S. Macario il Grande, S. Atanasio, Timoteo d'Alessandria, Didimo il Cieco. Gli autori del sec. V testimoniano della nuova fase creativa, derivata dallo scisma calcedonese: Teohlo d'Alessandria, Sinesio di Cirene, Isidoro di Pelusio, S. Cirillo Alessandrino, gli storici Socrate e Sozomeno suo contemporaneo. Dopo la conquista araba, il patriarca Beniamino (morto nel 665) riorganizzo la liturgia. Il RITO attuale si è quindi fissato e sostanziato per opera dei patriarchi riformatori dei secc. XI-XIII, come Gabriele II, autore del Libro pasquale, e con le grandi compilazioni liturgico-canoniche (come la Lampada dell'oscurità di Abul-Borakot) dei secc. XIII-XIV. Con l'Ordinazione, Gabriele V (morto nel 1427) redige i rituali dei sacramenti e delle benedizioni.
La celebrazione eucaristica è lunga ma sobria. La confezione del pane avviene la sera precedente con un rituale meticoloso. La celebrazione inizia con la processione dei doni attorno all'altare. Le letture sono quattro; il Vangelo viene duplicato in copto e in arabo. Attualmente, le anafore - precedute da una lunga litania - sono tre: di S. Gregorio Nazianzeno, di S. Cirillo (versione di quella arcaica di S. Marco) e quella copta di S. Basilio; altre dodici sono in disuso. Pane e vino nell'eucarestia sono distribuiti separatamente. Nella chiesa il santuario appare distinto in forza di una parete divisoria con poche icone; l'altare ha forma di un'arca. La liturgia della penitenza comprende il RITO dell'incenso, parte integrante del sacramento stesso. L'anno ecclesiastico, che inizia l'11 settembre, consta di dodici mesi di trenta giorni e di uno con cinque, senza corrispondenze nel calendario civile: si raggruppano in tre stagioni liturgiche disuguali legate alla vita agricola: Inondaztone o Nilo, Semina o Inverno, e Raccolta o Estate. La settimana e divisa in due tempi: Adam da domenica a martedì, Watas da mercoledì al sabato. I digiuni, che richiedono una osservanza rigorosa, sono sei: oltre che alla Quaresima, generalmente sono connessi alle grandi feste. La preghiera, celebrata soprattutto nei monasteri, comporta due ufficiature parallele, delle Ore e dei Salmi. Ogni ora ha dodici salmi, una lettura e un Vangelo; vespro, ufficio notturno e mattutino aggiungono inni di vario genere e canti biblici. L'opposizione a Bisanzio, l'invasione araba, l'influsso massiccio del monachesimo hanno dato origine a una liturgia ricca e popolareggiante. Il popolo ama le processioni, osserva le pratiche del digiuno, sulla fronte porta di frequente il tatuaggio della croce. La venerazione mariana e vistosa: il calendario ricorda Maria con trentadue feste e un mese (khoiak, prima di Natale) a lei dedicato. Anche se il canto e uniforme - consta di apporti stranieri ma anche di repertori molto antichi -, l'egiziano l'ascolta volentieri. E in atto un rinnovamento liturgico partito dall'ambiente monastico: la partecipazione, grazie anche al repertorio dei canti, e la predicazione, a differenza di altre chiese, sono diffuse e sentite.
h) Rito etiopico. L'evangelizzazione provenuta da Siria prima e quindi Egitto indusse dapprima a tenere la celebrazione in lingua greca. Divenuta chiesa matrice, Alessandria l'attrasse con se nel monofisismo; dopo lo scisma, l'Etiopia adotto il RITO copto. Tuttavia, per l'apporto dei monaci siri, il RITO non è esclusivamente copto; non mancano elementi della chiesa di Gerusalemme- con cui il regno di Axum (secc. VII-XII) intensificò contatti ultrasecolari-, e persino tracce del RITO armeno. Di questo RITO, in verità tuttora poco studiato, non si conoscono autori né fonti liturgiche. Sappiamo che furono accolti vari apocrifi come il Libro dei giubilei, il Libro di Enoch, il Pastore di Erma e altri attribuiti a Esdra. Dall'epoca in cui si comincio a tradurre la Bibbia (sec. IV) furono pure introdotte varie opere patristiche: furono utilizzati nella redazione dei testi liturgici omelie, la Regola di S. Pacomio, passioni di martiri e vite di santi, opuscoli mariologici.
Nel periodo axumita la liturgia assume il ge'ez di origine sudarabica (gli etiopici sono semiti africanizzati) e si evolve con caratteristiche autonome. Anche di quest'epoca non cl sono rimaste testimonianze: i documenti liturgici antichi andarono distrutti durante il regno di Amda-Sion (morto nel 1344) o perduti durante l'invasione araba (sec. XVI). Con l'affermazione della dinastia salomonide (1270) dall'arabo vengono tradotte alcune raccolte canoniche, liturgiche e agiografiche, nella redazione della chiesa egiziana: esse, rielaborate, penetrarono nel RITO o fornirono l'ispirazione a specifiche composizioni poetiche, liturgiche, dalle finalità didattico-edificanti e ascetico-devozionali.
L'organizzazione del RITO attuale risale al primo periodo della dinastia salomonide (secc. XIV-XVI), con l'introduzione di usi ispirati all'Antico Testamento, per influsso dell'antica e numerosa colonia ebraica falasha, e alla liturgia di Gerusalemme, per i contatti dei monaci pellegrini con le varie comunità residenti in Terrasanta . S ' introduce la processione dell' arca dell'alleanza al suono degli strumenti biblici (cembali, sistri, tamburi) accompagnati da danze antiche; si diffonde la circoncisione prima del battesimo; si festeggia il sabato; entrano nel calendario le feste dell'anno ebraico. L'architettura delle chiese a pianta centrale imita il tempio di Gerusalemme o il Santo Sepolcro. Oggi il popolo assiste alle celebrazioni attraverso alle grate della veranda esterna che circonda il santuario. La celebrazione dell'eucaristia- sempre concelebrata anche per il clero numerosissimo - e molto elaborata: preparazione delle offerte, enarxis (inizio), servizio della parola con litanie e incensazioni, Trisagio, quattro letture (il RITO del Vangelo e solenne e complesso), litanie, un simbolo prolisso. L'anafora è preceduta da un RITO introduttivo che nel corso dei secoli ha accolto elementi svariati; la liturgia eucaristica ha a disposizione una ventina di anafore di derivazione siriaca (un caso singolare e rappresentato da due rivolte alla Madonna). Il Padre Nostro viene recitato quale forma di ringraziamento dopo la comunione. Per i sacramenti e i sacramentali esistono vari rituali. Il calendario segue la normativa cronologica di quello copto-giuliano, arretrato quindi di 7-8 anni rispetto a quello riformato e gregoriano. I diciannove tempi liturgici, di disuguale durata, divisi tra il ciclo mobile della Pasqua e quello fisso, hanno dei nomi poetici, come discesa, avvento della luce, nuvola, rugiada, occhio di tutto, aurora. Vanno ricordati i lunghi e rigorosi digiuni che ricoprono quasi la meta dell'anno. Alle festività del Signore fanno seguito trentadue feste mariane (divise in cinque categorie: vita di Maria, titoli, apparizioni e miracoli, santuari e chiese a lei dedicati) e quelle dei santi, in vicinanza di personaggi e di testi con il Vecchio Testamento (come i Nove Santi e i Giustt3. L'ufficiatura, sviluppata soprattutto nei monasteri, si serve di antifonari (contenenti la salmodia, i testi biblici e i canti per le varie feste), il libro per l'ufficio comune, il catalogo dei santi, anche di libri paraliturgici per devozioni speciali. Per opera dei religiosi delle missioni durante l'Ottocento venne imposto anche il romano, fatto che tuttavia nella contemporaneità determina problemi ecumenici.
Pur nella necessità di essere riformato e aggiornato alla situazione odierna (solo da poco si contano tentativi di traduzione in amarico e in tigrino) il RITO etiopico appare simbolo del modo in cui un RITO orientale, innestato in ambiente africano, possa adattarsi alle caratteristiche della cultura locale e assumere spiccati caratteri di originalità e popolarità. Vesti e oggetti liturgici, elementi folcloristici e usi locali, ma ancor più l'inculturazione nel genio etnico hanno fatto in modo che elementi derivanti da regioni ben distinte dell'Oriente potessero essere assimilati e ritradotti con afflato poetico.
L'iconografia, che mostra una derivazione egiziana, si esprime in figure dai colori vivaci, tozze e dai grandi occhi, che contrastano col tipo somatico longilineo, in una espressione di arte popolare ingenua, spontanea e ricca d'immaginazione.
Rito bizantino (chiesa ortodossa). L'aggettivo bizantino, dato a una chiesa risulta titolo cumulativo di un processo d'incontro, assimilazione e integrazione di molteplici e svariate tradizioni anche dalle province piu lontane dell'impero d'Oriente confluite nella sintesi costantinopolitana, che si rifa al primi sette concili. Di primaria importanza anche per la consistenza numerica dei fedeli, tra quelli orientali risulta essere il RITO più conosciuto.
Gerusalemme (cosmopolita a sua volta), Antiochia, la Cappadocia e Alessandria con le loro tradizioni e soprattutto con l'azione e gli scritti dei grandi vescovi teologi; il monachesimo palestinese e locale con le scuole di spiritualità, le composizioni liturgiche e il canto; le scuole d'arte locali, eredi di tradizioni antiche, con il senso estetico sofisticato, l'architettura e le icone, hanno fuso il meglio di ambiente classico e orientale. Con il suo stile imperiale siffatta liturgia è divenuta l'erede e la custode dell'ortodossia. Per fenomeni di assimilazione e quindi di osmosi tali ricchezze sono state traslate nelle altre chiese ortodosse e, seppur meno vistosamente, anche in quelle d'Occidente.
L'influsso palestinese - cattedrale di Gerusalemme e monastico di S. Saba - dovuto ai santi Saba, Sofronio di Gerusalemme, Andrea di Creta, Giovanni di Damasco, Cosma di Maiuma (tutti dei secc. VI-VIII), si trova negli uffici della Grande Quaresima, nelle vigilie, nelle feste piu importanti L'apporto antiocheno e cappadoce è dovuto all'impronta di Nettario di Tarso, ai tre santi gerarchi e teologi Basilio Magno, Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo, con S. Gregorio di Nissa e alle opere dello Pseudo-Dionigi.
Nel primo Medioevo si elaborano contemporaneamente due RITI diversi, quello cattedrale della grande chiesa di Cri sto (S. Sofia) e quello monastico di Studion, che coesistono parallelamente; insieme viene accolto anche quello sabaitico. I loro ordinamenti sono contenuti nei rispettivi typikà, i libri che codificano le norme, mentre i testi rituali (ciclo giornaliero, pasquale e dei dodici mesi) comprendono ognuno tutta una serie di libri liturgici. In questa attività di confluenza, rielaborazione e produzione oltre ai patriarchi Antimo (sec. VI) e S. Germano (sec. VIII), vanno ricordati S. Teodoro Studita con suo fratello S. Giuseppe di Tessalonica (sec. IX), gli iconografi Romano il Melode (sec. VI) e Giuseppe Siracusano (sec. VIII).
Quest'opera vasta e complessa ha conosciuto dei periodi di devastazione: in Palestina, l'invasione persiana (614), quella araba (638) e quella turca (1516); a Bisanzio, le lotte iconoclaste (726-843), la conquista latina al tempo delle crociate (1204-61) e la caduta sotto i turchi (1453). Oasi fortunate in questi tempi critici furono l'Italia meridionale bizantina, l'Athos e il monastero di S. Caterina al Sinai. Quello che riesce ad essere salvato, sarà unificato verso la fine del Medioevo: prenderà il sopravvento il typikon di S. Saba, il rito monastico divenuto normativo per tutte le chiese ortodosse (stampa a Venezia nel 1546).
Con l'evangelizzazione dei popoli slavi e soprattutto con battesimo della Russia di Kiev (988), questo RITO si estende nelle Russie e nei Balcani: la liturgia tradotta dagli evangelisti Cirillo e Metodio e fatta propria dalla maggior parte di queste genti come fattore di civilizzazione e di cristianizzazione. L'edizione del Typikòn permette al patriarca di Mosca Nikon (sec. XVII) la riforma liturgica che elimina errori e abusi intensificando l'unione con il mondo bizantino, ma provoca lo scisma dei Vecchi Credenti. L'introduzione parziale del calendario gregoriano e divenuta il pretesto dello scisma dei Vecchi calendaristi. Attualmente il RITO bizantino raggruppa una famiglia di chiese che ha raggiunto tutti i continenti; quelle storiche sono di espressione greca, neolatina (romeni), albanese, ucraina, georgiana e araba (melchiti), le due ultime con storia e caratteristiche accentuatamente proprie.
Nella celebrazione eucaristica, i RITI offertoriali (protesi o proscomidia) vengono anticipati in forma privata. La liturgia della parola e quella eucaristica sono precedute da due processioni: il piccolo ingresso con il Vangelo, e il grande ingresso con i doni. Ordinariamente le letture sono due. Le frequenti litanie cantate dal diacono davanti all'iconostasi caratterizzano la popolarità di questo RITO e gli danno uno stile partecipativo, specie presso gli slavi. La comunione e sempre fatta con i segni del pane e del vino. Le anafore praticate sono quelle del Crisostomo e di S. Basilio; quella di S. Giacomo e di S. Gregorio il Teologo stanno rientrando nell'uso. Quando non celebra l'eucaristia, usa la liturgia dei presantificati, una comunione Innestata nella liturgia del vespro.
Come nella chiesa antica, i sacramenti dell'iniziazione vengono dati tutti in un'unica volta, qualunque sia l'età del candidato; il matrimonio, come nella maggior parte delle chiese d'Oriente, avviene con l'incoronazione; la penitenza e celebrata con pluralità di forme. Per l'anno possiede un solo ciclo strutturato, quello mobile, che si e sviluppato attorno alla Pasqua; precede il Triodion che comprende la prequaresima, la Grande Quaresima e la Santa e Grande Settimana; segue il Petekostarion che va dalla Veglia pasquale alla festa di Tutti i Santi (domenica dopo Pentecoste). Il ciclo fisso, con inizio il 1° settembre, e regolato dal sistema degli otto toni (oktotkos), la serie delle otto settimane che si ripete tutto l'anno; in loro la domenica vi figura come commemorazione settimanale della Pasqua. Considerato sotto un altro punto di vista, l'anno articolato nelle dodici grandi feste, sia del Signore sia mariane, alcune del ciclo fisso e altre di quello mobile.
Mentre per l'eucaristia non si e avuto uno sviluppo eucologico analogo a quello dei messali occidentali, il RITO ha prodotto un grande repertorio di canti per l'ufficio; nelle ore prevale l'innodia sulla salmodia. Questi canti sono redatti nel genere dei tropari, un nome che indica svariate categorie di brevi brani lirici o composizioni poetiche. L'ufficio inizia con il vespro nel giorno precedente, e quindi compieta, ufficio di mezzanotte, ufficio dell'aurora, cui può far seguito la divina liturgia (eucaristia), e poi prima, terza, sesta e nona. La loro ampiezza e la moltiplicazione delle ore - celebrate per intero solo nei monasteri - porta ad eseguirle in forma raggruppata. L'architettura dell'esterno con cupole e dell'interno con l'iconostasi crea il quadro per una celebrazione ieratica, solenne e pandiosa. Essa è una festa nell'atrio del Signore e per questo l'edificio assomiglia al paradiso. Nella mentalità bizantina - ma anche in tutto l'Oriente - la liturgia figura al primo posto, tutto vi converge e ogni cosa ne deriva: la lettura della Bibbia, il pensiero dei padri, la vita della chiesa e dei singoli. Pervasa da ottimismo, la celebrazione e pensata come il mistero dell'incontro di Dio con l'umanità, in cui la filantropia divina si muove verso l'uomo per divinizzarlo e assume l'universo per trasfigurarlo: tutto accade in grazia del farsi uomo del Figlio di Dio, reso possibile attraverso la Vergine.
I testi liturgici costituiscono la theologhìa, nel senso di discorso a Dio. I temi sono espressi con venature di terminologia neoplatonica. La liturgia e un'iniziazione al Dio trascendente, di cui celebra la doxa (gloria). Per questo riesprime il dato rivelato con il metodo della teologia negativa (apofatismo), confessando l'inadeguatezza del linguaggio. La liturgia lascia Dio nel suo mistero tremendo e fascinoso; attraverso al Cristo-Kyrios, l'uomo dei dolori entrato nella gloria, lo Spirito Santo prolunga la pentecoste di cui vive la chiesa. Per questo fine la liturgia ha un carattere didascalico e si serve abbondantemente del simbolismo: celebra la dottrina dei concili aiutandosi con un linguaggio che e contemporaneamente specialistico e semplice. Sotto l'aspetto formale la celebrazione riflette il mondo imperiale ove nacque, viene espressa con magnificenza e splendore, in cui creano suggestione anche la bellezza degli abiti e il colore delle icone sempre circondate da lampade. Un ritmo celebrativo ben bilanciato alterna letture, canti, movimenti; processioni, incensazioni, atti di venerazione creano un clima coinvolgente e mistico. Il vescovo, spiritualmente presente in ogni celebrazione, dà una forte accentuazione al senso della chiesa locale.
Rito armeno (chiesa gregoriana). La non accettazione della formula calcedonese - più per liberarsi dall'ipoteca bizantina che per motivi dottrinali - volse la chiesa armena a una storia autonoma. La creazione di un alfabeto nazionale agli inizi del sec. V favori dapprima le traduzioni biblico-patristiche e dei testi canonici, poi il formarsi di un RITO locale. Le sfortunate vicissitudini secolari contribuirono a fare del RITO un fattore di identificazione e di unita. Gli influssi originali risalgono al RITO antiocheno, di cui mantiene la primigenia struttura; in seguito assimilò apporti gerosolimitani, cappadoci e costantinopolitani. Elementi bizantini si alternano con altri monofisiti, anche se questi sono quasi solo formali. I secc. V-VI sono l'età dell'oro per la produzione letteraria, da cui attingono liturgisti come Giovanni Mandakuni e Mambre Verzanol (sec. V). Per opera dei domenicani, al tempo delle crociate entrarono degli usi del rituale franco-normanno, che hanno dato origine a degli ibridismi. La sistemazione del RITO attuale e del sec. XII.
Pur possedendo una decina di anafore, utilizza solo quella di S. Atanasio. Come i latini, a differenza di tutto l'Oriente, usa pane azzimo e nella comunione distribuisce solo il pane; nel calice si mette vino senz'acqua. Le letture della messa sono tre. Si celebra tre chiese di pianta quadrata, con cupola a piramide ottagonale; l'altare risulta elevato e di forma latina tradizionale distinta dal resto della chiesa in forza d'un un velo. Architettura maestosa e severa e innografia sobria contrastano con lo splendore delle vesti liturgiche e dei canti. Influssi latini che non si riscontrano in nessun'altra chiesa d'Oriente, si scoprono nei RITI di ordinazione (unzioni, consegna degli strumenti), negli abiti e nelle insegne (mitra, anello), nell'impiego degli strumenti musicali, nei RITI iniziali e finali della messa, nella forma della patena e del corporale. Nel ciclo annuale, il Natale e celebrato con un'unica solennità insieme all'Epifania al 6 gennaio, con conseguente spostamento delle altre feste del tempo. Le commemorazioni dei santi - poco numerosi - non hanno una data fissa, ma oscillano nei giorni della settimana; anche le feste, eccettuate le piu importanti, sono mobili perché non venga toccata la domenica. I tempi liturgici sono otto in tutto. La liturgia, decisamente popolare, ha uno stile corale che spesso si evolve in magnificenza. La musica e tra le piu affascinanti dell'Oriente; le melodie dolci e vigorose lasciano trasparire le sofferenze plurisecolari [BIBL.: I.-M. HANSSENS, Institutiones liturgicae de ritibus orientalibus, 2 voll., Roma 1930-32 / A. BAUMSTARK, Liturgie comparée, Chevetogne 1953/ A. RAES, Le mariage dans les Eglìses d'Orient, ivi 1959 / N. LIESEN-H. KUNKEL, Le liturgie della Chiesa Orientale, Roma 1960 / A. S. ATIYA AZIZ, A History of Easter Christianity, Londra 1968 / S. JANERAS, Bibliografia sulle Liturgie Orientali, Roma 1969 / J. ASSFALG-P. KRUGER, Kleines Worterbuch des christlichen Orients, Wiesbaden 1975 / R MURRAY, Symbols of Church and Kingdom, Cambridge 1975 / I.-H. DALMAIS, Le liturgie orientali, Roma 1982: rielaborazione dell’articolo di vari autori RITO, sotto voce in DEI, UTET, Torino, volume XVII].





"Il canto ambrosiano, come canto composto da S. Ambrogio, è stato oggetto di ricerche e discussioni tra storici e archeologi.
Quando Ambrogio divenne Vescovo di Milano, nel 374, trovò una liturgia che la tradizione associa a S. Barnaba.
Si presume che questa liturgia, che proveniva dalla Grecia e dalla Siria, includesse sia " Il parlato " e le azioni liturgiche.
La documentazione esistente fino ad oggi ci dice che Ambrogio compose solo le melodie per la maggior parte dei suoi inni, inoltre del grande numero di inni a lui attribuiti, solo 14 sono stati dichiarati autentici.
Come altri grandi uomini, anche Ambrogio ebbe tanti imitatori e capitò così che inni scritti dai suoi contemporanei, nella forma che lui usava, vennero chiamati " inni ambrosiani ".
La confusione che ne è seguita, ha richiesto infiniti studi e ricerche per accertare con la massima sicurezza quali fossero gli inni autentici.
Si dice che l'antica chiesa occidentale abbia ricevuto insieme ai salmi del Vecchio Testamento anche le melodie in cui essi venivano cantati nel Tempio e nelle Sinagoghe e che " canti melismatici " ( più note su una vocale) siano stati in uso fin dall'inizio.
E' probabile che lo stile melismatico in cui la maggior parte dei " propri gregoriani" è scritta, e che molti esperti affermano essere di origine ebraica , sia entrata in uso nella chiesa molto più tardi.
La letteratura del tempo di Ambrogio mostra che la musica greca fosse l'unica conosciuta a lui e ai suoi contemporanei.
S. Agostino, che scrisse il suo " De musica" ( non finito) al tempo in cui Ambrogio scriveva i suoi inni, ci da un idea di come fossero quelle melodie originariamente.
Egli definisce la musica " Scienza del movimento armonioso" ( Scientia bene movendi ) nel caso di S. Ambrogio noi abbiamo poeta e compositore in una stessa persona, ed è naturale pensare che le sue melodie abbiano preso la forma e il ritmo dei suoi versi.
Il fatto che questi inni fossero composti per essere cantati da tutta l'assemblea, spiega la loro natura sillabica e il loro semplice ritmo.
Per molti secoli sono stati attribuiti ad Ambrogio quelli che ora chiamiamo antifone e responsori: non ci sono prove certe.
La ragione di questa attribuzione sta nel fatto che Ambrogio ha introdotto il modo alternato ( antifonale) di cantare i salmi e si suoi inni dividendo l'assemblea in due cori: il responsorio, come praticato sotto la direzione di Ambrogio, consisteva nell'intonazione del verso di un salmo da uno o più cantori e della ripetizione del medesimo da parte dell'assemblea.
Diversi studiosi hanno spiegato come le melodie appartenenti agli autentici testi ambrosiani siano state trasmesse ai posteri e quali cambiamenti ritmici e melodici abbiano dovuto subire nei diversi paesi in cui si sono diffuse.
Un importantissimo testo di riferimento è l'innario ambrosiano completo, manoscritto conservato alla Biblioteca Trivulziana in Milano ( che ha sede al Castello Sforzesco ).
Le melodie qui contenute sono state confrontate con quelle di altri manoscritti, di altre città Italiane ed Europee, conservati dai monaci cistercensi i quali fin dalla fondazione hanno sempre usato l'innario ambrosiano e non il romano.
Il confronto ha reso possibile l'eliminazione di modificazioni melismatiche fatte da cantori influenzati dalla moda dei loro tempi e a cui non piaceva la semplicità melodica originale.
Riguardo al ritmo, bisogna ricordare che anche l'ambrosiano, come tutte le melodia di canto - piano, hanno perso il loro ritmo durante il medioevo. Essi furono trascritti dall' antica notazione neumatica nella notazione quadrata con note di uguale durata, in cui il tempo era determinato dalle sillabe del testo ( ritmo verbale) .
Il canto ambrosiano, rappresenta il " Corpus " organico musicale più antico delll'Europa occidentale.
La Schola Gregoriana Mediolanensis nella sua intensa attività ventennale, è impegnata alla valorizzazione nella pratica liturgica di questo grande patrimonio della chiesa milanese, " thesaurus musicae sacrae " insostituibile e sempre attuale, come il canto gregoriano lo è per la liturgia romana" [Il canto liturgico della chiesa milanese di Ambrogio - caratterizzato tra il IV e il IX secolo di Giovanni Vianini Milano, Anno 2001].





Nacque a Treviri verso il 339, figlio di un funzionario romano.
Dopo la morte del padre, la famiglia rientrò in Italia. Studiò diritto e retorica e intraprese la carriera giuridica.
Si trovava a Milano, quando il Vescovo morì, e da buon funzionario imperiale, cercò che fossero evitati quei disordini spesso provocati da tumultuose elezioni ecclesiastiche.
Parlò con senno e fermezza, nelle adunanze dei fedeli, perché tutto fosse fatto secondo coscienza e nel rispetto della libertà.
Fu in seguito a questi suoi giudiziosi discorsi che dall'assemblea si alzò un grido: "Ambrogio Vescovo !" Ambrogio, che si trovava in quell'assemblea come funzionario imperiale, non era neppure battezzato.
Sorpreso e spaventato, proclamò la sua indegnità; si professò peccatore, tentò perfino di fuggire.
Ricevette così il Battesimo e, subito dopo la consacrazione episcopale.
Fu considerato Secondo Patriarca in Occidente.
Dovette studiare per insegnare quello che non aveva mai imparato prima.
Le spoglie si trovano nella cripta della Basilica del Santo.
E' il protettore di Milano e viene onorato il 7/20 dicembre.
Ambrosius, natus ca. 339 Augustae Treverorum, anno 370 consularis Liguriae et Aemiliae, anno 374 episcopus Mediolano, obiit anno 397.
opera
hymni epistulae de excessu fratris sui Sartyri libri II (375) de virginibus ad Marcellinam sororem (376) de fide ad Gratianum libri V (378) de spiritu sancto libri III (381) sermo contra Auxentium de basilicis tradendis (386) hexaemeron (387) expositio evangelii secundum Lucam (388) de paenitentia libri II (ca. 389) de officiis ministrorum (389) de mysteriis (ca. 391) de sacramentis libri VI (ca. 391) de obitu Theodosii oratio (395).
hymni Ambrosii
Augustinus in enarrationibus in psalmos (72,1): "hymni laudes sunt Dei cum cantico: hymni cantus sunt continentes laudem Dei; si sit laus, et non sit Dei, non est hymnus; si sit laus, et Dei laus, et non cantetur, non est hymnus; oportet ergo, ut, si sit hymnus, habeat haec tria: et laudem, et Dei, et canticum."
hymnorum Ambrosii index:
aeterne rerum conditor. iam lucis orto sidere. splendor paternae gloriae. Deus, creator omnium. Christe, redemptor omnium. Aurora caelum purpurat. aeterna Christi munera. intende, qui regis Israel.
aeterne rerum conditor
aeterne rerum conditor, noctem diemque qui regis et temporum das tempora, ut alleves fastidium,
praeco diei iam sonat, noctis profundae pervigil, nocturna lux viantibus, a nocte noctem segregans.
hoc excitatus lucifer solvit polum caligine, hoc omnis erronum cohors vias nocendi deserit.
hoc nauta vires colligit pontique mitescunt freta, hoc ipsa petra ecclesiae canente culpam diluit.
surgamus ergo strenue, gallus iacentes excitat et somnolentos increpat, gallus negantes arguit.
gallo canente spes redit, aegris salus refunditur, mucro latronis conditur, lapsis fides revertitur.
Iesu, labentes respice et nos videndo corrige; si respicis, lapsi stabunt fletuque culpa solvitur.
tu, lux, refulge sensibus mentisque somnum discute: te nostra vox primum sonet, et vota solvamus tibi.
Deo patri sit gloria eiusque soli filio cum spiritu paraclito et nunc et in perpetuum
.





ANAFORA = Deriva dal greco anaphorà = "portar su" e originariamente indicava il pane offerto per la celebrazione eucaristica: successivamente il termine, nel campo liturgico orientale od orientaleggiante, valse a indicare la parte principale della Messa.
BREVIARIO = Il libro liturgico che contiene l'intero ufficio divino.
CATECHESI = L'insegnamento a voce dei principi della religione cristiana: dal tardo latino catechesi dal greco kattekhethés a sua volta dal verbo katekhéo = "insegnare a viva voce".
EUCOLOGIA = Si tratta dello studio inteso sotto molteplici aspetti (dogmatico, mistico, liturgico) della preghiera dal greco eukè = preghiera e logìa = studio (aggettivi: EUGOLOCICA -EUCOLOGICO)
LEZIONARIO = Libro liturgico che contine i brani dell'Antico e del Nuovo Testamento che si debbono leggere durante la Messa (dal latino lectionarium o lectionarius = a sua volta da lectio, -onis cioè "lettura").
LITANIA = Preghiera liturgica costituita da una serie di invocazioni a Dio, alla Vergine, agli angeli ed ai santi: dal latino cristiano litania a sua volta derivato dal greco litaneìa, altresì derivato da litaneuo, nel senso di "invocare con preghiere".
MATTUTINO = Nella liturgia romana la prima delle ore canoniche dell'ufficio divino che si recita durante la notte.
MISTAGOGICO = Derivato di MISTAGOGIA = concernente l'iniziazione a riti misterici.
ORDINARIO = Le parti comuni e invariabili della celebrazione della Messa.
PERICOPE: Dal greco perikopé cioè breve passo isolato di un testo, soprattutto a riguardo dell'esegesi neotestamentaria.
SACRAMENTALE = Ciascuno dei riti, oggetti, istituiti o consacrati dalla Chiesa per l'impetrazione di grazie spirituali e di benefici temporali (benedizioni, elemosine, preghiere ecc.).
SACRAMENTO = Nella dottrina cattolica ciascuno dei sette segni sensibili ed efficaci della grazia (battesimo, cresima, eucaristia, penitenza, ordine, matrimonio, unzione degli infermi) istituiti da Cristo per la santificazione dei fedeli.
SALTERIO = Dal latino cristiano psalterium, che deriva dal greco psaltérion, a sua volta derivato da psello cioè "cantare accompagnandosi con la cetra": in ambito liturgico cristiano "salterio" indica "il libro biblico dei Salmi" e in senso specifico, nell'uffico divino o breviario del passato, "la raccolta dei 150 salmi distribuiti nei giorni della settimana secondo le ore canoniche".
SANTORALE = La parte dell'anno liturgico dedicata alla Vergine e ai santi, le cui festività, scaglionate lungo il corso dell'anno, sono raggruppate insieme nel messale e nel breviario.
VESPRO = Nella liturgia cattolica la penultima delle ore canoniche, tra nona e completa, e la parte dell'Uffizio che in essa si recita o canta (sacra funzione pomeridiana).