Il concetto di "supplizio estremo" era così vasto nel "DIRITTO INTERMEDIO" che ne riesce difficile tuttora una codificazione; come si vedrà dagli Statuti genovesi di metà Cinquecento la pena di morte ufficiale nel territorio della Serenissima Repubblica era l'impiccagione sulla forca anche se a fianco d'essa, dopo gli inasprimenti controriformistici e la caccia combinata a streghe ed eretici, risultava istituzionalizzata la morte sul rogo: dalla lettura dei capitoli genovesi (vedi anche Glossario sotto voce Pena di morte) si intuisce tuttavia la possibilità di ben altre forme di esecuzione capitale, non espressamente menzionate, ma quasi sempre istituite a vantaggio dei ceti egemoni e dei nobili in particolare, ben restii a dar saggio della propria esecuzione su un pubblico patibolo e piuttosto disposti a pagare fior di tangenti pur di fruire d'una morte relativamente indolore, al riparo degli occhi rapaci della plebaglia. L'impiccagione peraltro, in ogni contrada del mondo conosciuto, era il supplizio estremo proprio degli umili e la sua pubblica pratica era temuta dai criminali di famiglie potenti od aristocratiche più della morte stessa: ai nobili era mediamente riservato il "previlegio" della decapitazione (plausibilmente alla presenza di pari grado sociale) per mano d'un boia di Stato, spesso profumatamente pagato per essere ben lucido ed uccidere il più sveltamente possibile, con un colpo netto d'accetta o spada, evitando di procurare per imperizia, emozione od ubriachezza (arma storica contro il disgusto personale per tal mestiere) mutilazioni non letali sì da rendere necessaria la ripetizione del pauroso rituale: un caso emblematico di questo trattamento "previlegiato" pei nobili di fronte al supplizio estremo è notoriamente offerto da 12 immagini ricavate da una successione di 12 incizioni di Meyssens (Torino, Biblioteca Reale) effigianti l'esecuzione capitale di tre nobili colpevoli di lesa maestà avverso l'Imperatore d'Austria (1671) ma è al pari confortato dalla decapitazione per via d'una sorta d'arcaica ghigliottina (vedi la voce Ghigliottina nel successivo glossario) del patrizio genovese Demetrio Giustiniani nel 1507.
In qualsiasi Paese europeo il crimine massimo (che oltre alla morte comportava la confisca dei beni del reo, mediamente estesa alla famiglia dello stesso, peraltro colpita dall'esilio perpetuo) era il delitto di "lesa maestà umana" (avverso il Sovrano e la Signoria, la cui punizione rispondeva tuttavia ad una casistica abbastanza variegata nei distinti Paesi, pur se resta celeberrimo il caso del supplizio per squartamento del Ravaillac, fanatico assassino di Enrico IV di Francia = vedi a Parigi, Musée Carnavalet "Le supplice de Ravaillac" di anonimo, secolo XVII) e di "lesa maestà divina", che poteva esprimersi tanto in atteggiamenti ereticali od iconoclastici (St.Crim. del 1556, libri II, cap I, "sui bestemmiatori") quanto in una ribellione alle leggi di natura (per esempio Castrazione, ermafroditismo, sodomia, incesto, omosessualità, pederastia, zoofilia ecc.), e che quasi unanimemente era punita sul "ROGO", (ma non di rado nel genovesato solo "post mortem", procurata per "impiccagione LENTA" e più di rado per "strangolamento") ritenendosi il "fuoco elemento purificatore per eccellenza", capace di sperdere nel nulla le offese contro la spiritualità e la divinità, di cui la natura era ritenuta diretta creazione.
Dai "Registri della Penitenzieria apostolica" si può rammentare quanto ha recuperato "F. TAMBURINI" - "Suppliche per casi di stregoneria diabolica"...in "Critica Storica", 23, 1986, pp. 605 - 657 - a riguardo di casi di "lesa maestà divina": si legga dal "Reg. 14, f.213" della "Penitenzieria apostolica" il seguente episodio di "stregoneria" accostabile ad un caso di "lesa maestà divina": "Roma, 1466 agosto 2/ Savona/ Puria, moglie di Enrico di Mauro...di Savona, ha seguito la setta delle streghe, dove opera il demonio, ha rinnegato la fede e calpestato la croce e compiuto opere diaboliche, ha obbedito ai comandi di un diavolo sempre presente in cose nefande e disoneste, ha acconsentito a fatti di bestialità e di inganni, e con le altre streghe ha partecipato ai balli e agli ordini del diavolo, professando con le "streghe malefiche" e osservando le loro abitudini e consuetudini. Avendo l'oratrice rinunciato all'errore della sette delle streghe, che rifiuta e di cui fa l'"abiura", chiede l'assoluzione dalla scomunica, poiché non è stata accusata né portata in giudizio").
Nel 1762, "J.A.Soulatges" entro il suo "Traité des crimes" (edito a Parigi), riassumendo in chiave illuministica la straordinaria possibilità combinatoria delle pene capitali, scrisse: "La pena di morte naturale comprende tutti i tipi di morte: gli uni possono essere condannati a essere impiccati, altri ad avere la mano tagliata o la lingua tagliata o bucata e in seguito a essere impiccati (tipica esecuzione capitale composita del diritto criminale genovese n.d.A.); altri, per delitti più gravi, a essere rotti e a morire sulla ruota, dopo aver avute le membra rotte; altri a essere rotti fino a morte naturale, altri a essere strangolati e in seguito rotti, altri a essere bruciati vivi, altri a essere bruciati dopo essere stati preventivamente strangolati, altri ad avere la lingua tagliata o bucata e in seguito a essere bruciati vivi (il caso del filosofo Giordano Bruno condannato dal Santo Uffizio), altri ad essere tirati da quattro cavalli (il caso lugubremente scenografico del Ravaillac), altri ad avere la testa tagliata, altri infine ad avere la testa spaccata".
Il campionario orrorifico proposto dal Soulatges nei suoi slanci illuministici non può certo passare in sottordine, eppure mentre L.Radzinowics (Londra 1947-1956) mette prudentemente in relazione, per quanto almeno concerne l'Inghilterra seicentesca, l'esigenza istituzionale di porre un qualche disperato freno agli eccessi di una crescente criminalità, Foucault (Parigi 1975; trad. it.1976) invita a far una certa attenzione verso queste elencazioni drammaticamente sottolineate dall'esigenza ideologica e politica del pensiero illuministico. La straordinaria discrezionalità, che ovunque gli Statuti criminali riconoscevano ai magistrati, comportava tuttavia la possibilità di mitigare le pene capitali, comminate di frequente in Francia come altrove fra fine '500 e '600 di fronte al dilagare della criminalità, nella condanna alla deportazione, all'esilio, al bando, a pesanti pene nummarie che solo gli abbienti potevano però in media saldare nei tempi di legge, quando non veniva accolta, cosa affatto rara, qualche ben raccomandata petizione di grazia: questa stessa discrezionalità, ancor più dell'efferatezza delle pene, finì grado a grado per divenire l'aspetto maggiormente discriminante di tale forma di diritto penale.
Nel "supplizio estremo" concorreva una ritualità terribile che rendeva "memorabile ed ammonitrice la punizione".
Quando a Genova (come in vari altri Stati, italiani e no) il giudice pronunciava la fatidica frase "...CHE IL REO SIA CONDOTTO AL CAPESTRO TRATTO A CODA D'UNA BESTIA..." in ognuno serpeggiava il terrore: non si trattava infatti solo della morte, della violenza massima e spesso meritata ma , almeno negli auspici, rapidamente "pagabile" sulla "forca": era questa "in assoluto" la "punizione estrema", il supplizio che annullava l'umanità stessa del condannato, eletto a massa putrescente di piaghe per il pubblico terrore e per un'ammonizione collettiva.
Il condannato, perduta ogni dignità, miserabile fino in fondo e fin oltre le sue stesse colpe, passava tra la scenografia di masse disgustate, coperto del sangue delle "torture" e di un "misero saio", spesso ormai incapace di camminare per le tante fratture sì da essere pari ad una vilissima cosa, da trascinarsi quale un fardello ed uno scarto entro la polvere di piazze e vie.
egli diventava la suprema espressione del male, di una dannazione pubblica che era ostentata dal lento ed implacabile procedere della "bestia" (quasi sempre una "mula"), la "bestia" che aveva acquisito la dignità di condurre lui, "non più uomo nè animale" ma solo "impasto di sangue, deformità, vergogna e colpe", fino alla "forca" - spesso vista con "gioia" da qualche condannato - il luogo temibile e temuto dalle generazioni dove però per questa sorta di sventurati il dolore ultimo e totale della morte poneva fine all'assoluta vergogna, alla stessa implacabile dissoluzione, fra i dolori delle torture e lo spregio morale delle genti, della loro antica dignità d'uomini.