"ORAZIONE SCRITTA ALLA SANTITA' DI PIO IX SCRITTA DALL' AVV. A. PIZZOLI"
[INDICE:
1-AVVISO DEGLI EDITORI
2-BEATISSIMO PADRE
3-DEI BISOGNI COMMERCIALI E INDUSTRIALI
4-DEI BISOGNI ECONOMICI
5-DEI BISOGNI GIUDIZIARI
6-DEI BISOGNI INTELLETTUALI
7-DEI BISOGNI MORALI]
AVVISO DEGLI EDITORI
Quando pubblicavasi nelle città dello Stato Pontificio quel monumento della clemenza dell'augustissimo Papa Pio IX, l'editto del 16 Luglio 1846, gli animi di tutti i suoi sudditi erano trascinati ad un improvviso commovimento di giubilo, di riconoscenza e di speranza. Le masse manifestavanlo con pubbliche feste civili e religiose: gli uomini di lettere con epigrafi, con poesia: l'avv. Pizzoli di Bologna, che trovavasi in Rimini, vi dettava questa Orazione, che esprime le lodi del gloriosissimo Principe, i molti mali dello Stato, e le loro cagioni, e il bisogno di provedervi. S.S. si è degnata gradirla benignamente. Il dirne altro sarebbe soverchio.
BEATISSIMO PADRE
Lo scrivere intorno ai fatti de' Principi viventi, ne' paesi, che sono retti a monarchia non temperata, richiede coraggio grande: e più che in altri in un suddito: poichè a biasimarli, ancora con verità, facilmente si offendano, ed a lodarli, presso l'universale s'incontri taccia di adulazione; di che segue che, essendo i Principi accessibili a pochi e non giungendo loro le voci dei molti e de' lontani, difficilmente possono le condizioni de' loro stati conoscere e ai bisogni veri de' popoli provedere: condizione pietosissima de' governati e, ad un tempo, de' governanti! Quelli, condannati a soffrire senza rimedio: questi, abbandonati al giudizio severissimo della storia, la quale guarda ne' Principi non le intenzioni ma l'opere, e imprime le sue sentenze nella memoria de' posteri, monumento durevole più che i marmi ed i bronzi.
Ma a scrivere delle opere vostre, o Padre, non pur beatissimo, ma vero ed amantissimo de' vostri popoli, non occorre coraggio alcuno; che di biasimevoli non pensaste pur una, e delle grandi e magnifiche, anzi divine, nei pochissimi giorni, che, per la clemenza di Dio (delle miserie nostre e de' nostri compianti fatto pietoso ascoltatore) tenete i1 freno di questa bella parte d'Italia, ne avete già tante operate, che un lungo regno di un altro Principe basterebbero a rendere eternamente glorioso. Imperciocché Voi consentiste la costruzione di quelle vie portentose, che, le distanze accorciando, gli impedimenti togliendo da luogo a luogo, accosteranno i fratelli ai fratelli, tutti i figliuoli al vostro seno paterno, e condurranno gli stranieri a miriadi ad onorarvi nella città regina del mondo: Voi apriste le porte del vostro regno a que' nobili congressi, a cui convengono i dotti d'Europa, non d'altra cosa solleciti che dell'incivilimento dell'umana generazione: Voi, le soverchie spese della regia casa vostra in giusti termini riducendo, deste un esempio, che sarà seguito dai grandi, onde le rendite dello stato non più ai bisogni verranno meno: Voi, le preghiere de' più meschini fra' vostri sudditi per Voi stesso ascoltando, li assicuraste da ogni sopruso, e de' tesori della vostra sovrana giustizia li rendeste partecipi: Voi, 1a umanità de' piu grandi Principi emulando, e le vie percorrendo umilmente, abituaste il vostro popolo a venerarvi, non per lo sfarzo della pompa regale, ma per lo splendore delle vostre virtù: Voi, le gloriose insegne del merito parcamente distribuendo, e ai più degni, alla albagia del portarle sostituiste ne' buoni la generosa emulazione del meritarle: Voi quelle commissioni speciali aboliste, che forse la guerra giustifica, ma che le nazioni pacifiche mirano raccapricciando, come farebbero delle torture e dei roghi, e che, durando ancora, avrebbero questa nostra carissima patria disertata, distrutta: Voi, le ferrate carceri aprendo a coloro, che, più che d'altro, colpevoli di non avere saputo, per giovanile impazienza, aspettarvi, avete renduto alle cadenti madri, alle vedove spose, ai figli orfani, alle città lagrimanti, al vostro Trono medesimo migliaia di figli, di mariti di padri, di cittadini, di sudditi!
Ed oh perchè non v'ha Iddio conceduto quel premio, che ogni premio trapassa colla misura dell'infinito, quello di avere veduto coi paterni occhi vostri le calde lacrime, colle orecchie vostre ascoltate le deliranti benedizioni, che, alla novella della sospirata amnistia, dagli occhi pregni, dagli anelanti petti di tre milioni di sudditi traboccavano? Sì di tre milioni, o Santissimo, perchè fin le terre più inospiti del vostro stato, fin le rupi inaccesse, le valli incolte pure accolgono uomini d'umano cuore forniti, che i nostri mali passati, forse per tema, sommessamente compassionavano, ma che dalla vostra sovrana grazia rassicurati, nella presente ventura nostra da Voi creata, davano sfogo ad una elettrica gioia, spontanea, nata da pietà di Cristiani, da carità di fratelli. Noi le vedemmo quelle dolcissime lagrime, noi le ascoltammo quelle migliaia di voci, che vi gridavano grande, magnanimo e veramente Pio, e vi pregavano da Dio sommo Ed eterno vita lunga e felice per la sua gloria, per la felicità de' vostri popoli.
Ma nelle pubbliche dimostrazioni di giubilo, negli inni devoti, nelle migliaia di ardenti faci, nelle interminate file di giovani e di fanciulle, levanti al Cielo i rami del benedetto ulivo di pace, non erano, no, o Santissimo, le gemme più belle della vostra immortale corona! Se entrar poteste nel segreto delle famiglie, ne' palagi de' ricchi, negli abituri dei poveri, e quivi udire i liberi ragionari, e perciò veri, de' padri co' figli, de' padroni coi servi, degli amici cogli amici più intimi e confidenti, oh allora sapreste al vero come, assai meglio ch'altri nella forza dell'armi strantere o patrie, e nella corruttela de' delatori, fondata abbiate la sicurezza, l'immobilita del vostro Trono nell'amore, nel convincimento de' vostri sudditi! Non havvi alcuno, che le sostanze e la vita non desse volonteroso per Voi: fin que' bollenti, che, non ha molto (dolorosa memoria!) sfidavano per un'idea, le miserie dell'esilio, del carcere, anco il patibolo, si terrebbero ingrati, anzi stolti, se non benedicessero al vostro nome, se non vi facessero scudo de' loro petti, se della pace, che da Voi ebbero, se dell'0rdine, che loro raccomandaste non si rendessero gelosi mantenitori. Che non solamente li lega l'immensita del beneficio, ma forse più ancora la nuova, e nobile, e inaspettata forma dell'accordarlo; imperciocché non a minaccie di pene, affrontate sovente, non a vincolo di giuramenti, dati per forza, nè per bisogni o passioni violati spesso, ma, primo fra' Principi, all'onore de' vostri popoli fidaste l'opera vostra di concordia e di pace : Voi, santo ad un tempo e filosofo, rialzaste il decoro de' vostri sudditi svillaneggiati dallo straniero: credeste all'onore de' vostri sudditi, e al sentimento dell'onore i generosi petti italiani non mancarono mai! Una concordia, una pace, anzi un amore di fratelli, quale, italiano Voi stesso, desideraste d'infonderci, regnerà d'ora innanzi: nè solamente fra i cittadini di queste rinate provincie ma colla nobile Roma, mal nota prima, colla nobile Roma, che, per la gioia, che ha mostra al termine dei nostri mali, s'è procacciato la stima d'Europa, l'affetto de' vostri sudditi riconoscenti.
O Voi mille volte beato, cui la prudenza de' vostri pari, o meglio la providenza divina, levava al primo soglio del mondo, dandovi l'occasione ed il senno per essere rigeneratore del vostro popolo, capo dell'incivilimento d'Italia!
Ma è una morale necessità, che spinge gli uomini veramente grandi e potenti a non fermarsi alla metà della via, a far seguire i benefizi uno all'altro, a compiere con mano ferma quelle opere, che incominciarono con sicura mente, con onore proprio, con lietissima speranza di tutte genti: e Voi, che siete grandissimo e potentissimo, Voi la sentiste senz'altro questa inevitabile necessità infin da quando colle seste immense misuravate la bocca della voragine, che imprendevate a colmare; imperciocché non avreste accordata la formazione di que' contrastati veicoli del commercio se non aveste voluto favorire e slegare l'industria de' vostri popoli: non avreste accolto i congressi degli scienziati se non aveste fermo nell'animo di svilupparne, colla istruzione, la perfettibilità intellettuale e morale: né le inutili spese domestiche soppresse avreste senza il proposito di provvedere degnamente alla economia generale del vostro regno: e l'abolizione dei tribunali di eccezione è certo segno della fermissima volontà vostra di stabilire sopra ottime basi l'amministrazione della giustizia: né finalmente, col perdono umanissimo, le migliaia di detenuti, di condannati, di esuli, per colpe politiche, a libertà inaspettata ridati avreste se non aveste nel vostro nobile animo determinato di levar via le cagioni di lagrimevoli traviamenti novelli; ond'è che l'Europa intera, la quale in trenta giorni avete abituata a stupire della improwisa vostra grandezza, aspetta i nobili ordinamenti, co' quali, provedendo ai bisogni commerciali, industriali, economici, gindiziari, intellettuali, morali del vostro popolo, lo innalzerete al grado, che sono le più civili nazioni. La quale opera potete fare liberamente, e senza che vi trattenga rispetto alcuno: avvegnaché non solamente non sia per disturbare la sicurezza di alcun vicino ma sia anzi per favorirla mirabilmente: poiché la tranquillità di uno stato è argomento di quella degli altri, e una nazione allora sia veramente aliena da novita quando, per la felicità di tutti i cittadini, gli elementi conservativi abbiano negli animi di tutti i cittadini poste radici salde.
Però per giugnere a questo fine, a cui la mente e le forze di un uomo solo, per quantunque gigante, non saranno mai pari, ognuno aspetta di vedervi, seguendo i degnissimi esempi di Augusto, di Giuseppe, di Federigo, chiamare intorno al vostro Trono proteggitore i più savi uomini de1 vostro stato: e ne avrete novizia, o Santissimo, oggi che, la mercè di Dio e la vostra, regna ne' vostri sudditi una sola opinione, anzi un solo convincimento, che è di Voi e per Voi; di tal che i loro lumi sui vari particolari, nei quali eccellono, avvivati dal fuoco della vostra nobilissima mente, la quale, l'intero piano abbracciando, saprà diriggerli, coordinarli al fine, che sopra è detto, diffonderanno sull'opera vostra quello splendore, che la farà veramente grande e durevole, e degna di Voi e del vostro secolo progrediente.
Ma in mezzo a tanta profondità di sapere quanta è mestieri che s'abbiano quei vostri sudditi, che chiamerete a consiglio per provedere ai bisogni della nazione, pure è una parte d'incarico, la quale, benché non data da Voi, può, senza offendervi, sostenersi dal più meschino de' vostri sudditi: ciò è quella del dimostrarveli; anzi sembra che a punto convengasi meglio a coloro, i quali, in più umile condizione vivendo, nè da cure d'uffici distratti essendo, o da potenza d'ingegno levati in alto, possono ogni dì quelle infinite piaghe vedere, e quasi toccare con mano, le quali quantunque non sieno per se stesse e distintamente mortali, però tutte insieme travagliano il corpo sociale per guisa, che, se non soccorrono potenti farmachi, ne seguono, alla lunga, gangrena e morte. E di vero: v'ha egli straniero alcuno, il quale, per aver lette le istorie d'Italia dei tempi di mezzo, ricordando la floridezza, che allora godevano le città tutte del nostro stato, non cerchi, meravigliando, le cause del loro presente decadimento? Di che alcuni accagionano le lunghe guerre cittadine o straniere, altri la sparizione delle piccole corti, che in quasi ciascuna città un principesco lusso spiegavano; e credono che per le vie di Ferrara crescano l'erbe, che sia vuota Ravenna di abitatori, che cadano in isfacello le fabbriche di Cesena, che sieno deserte Camerino ed Urbino, che fino le campagne romane sieno tutte incolte ed insalubri perchè le armate spagnuole e le francesi le devastarono, perchè le case degli Estensi, de' Polentani, degli Sforza, de' Feltreschi, dei Varano, dei Colonnesi, degli Orsini perirono. Ma o non credo che così sia quando risguardo che un più grande macello d'uomini non si può fare di quello, che nei primi tre lustri di questo secolo, si è fatto per interminabili guerre in tutta Europa, o di quello, che, ora fanno due lustri, menava lntorno i1 Cholera sterminatore: e che anco in Francia e in Germania, e in Inghilterra venne meno il sistema feudale, e sparirono le mille corti de' potenti baroni, e nondimeno gli immensi vuoti, lasciati nelle famiglie, appena cessati guerre e contagi si riempirono, e le affrancate nazioni sotto lo scettro di un solo Principe ingigantirono. Ma che parlo io da straniero? Noi stessi, che qui nascemmo, e che in queste belle contrade già la metà della vita passata abbiamo, la condizione presente raffrontandone a quella, che era nei primi tempi della trascorsa gioventù nostra, la vediamo fatta sì mlsera e sì cadente, che è una compassione: eppure non è già il popolo che sia scemato di numero, che anzi per tutto cresce e moltiplica. Il perchè sto sicuro che il decadimento di questa nostra patria dolcissima, non a questi grandi disastri, comuni a molte nazioni, ma alla interminata sequenza di quei mali partlcolari, che sopra ho detto, sia unicamente da attribuire. E però non vi spiaccia, beatiissimo Padre, che io ne venga qui numerando i principali, e che mi sforzi mostrarvene le cagioni, remote o prossime, accennare ai rimedi non saprei certo, e, se d'alcuni sapessi, non oserei, se della tema profonda non m'affrancasse la vostra voce paterna, securatrice.
DEI BISOGNI COMMERCIALI E INDUSTRIALI
I1 commercio è principio di vita, fonte di prosperità, causa d'ingrandimento delle nazioni: così l'interno come l'esterno: consiste nel cambio, che ciascun produttore fa del soverchio de' suoi prodotti utili col soverchio de' prodotti utili degli altri. Tutti gli uomini producono, meno i mendichi: il proprietario di capitali fondiari o industriali o circolanti, il letterato, lo scienziato, l'artista, l'artefice, l'agricoltore, l'operaio, il manovale, tutti producono i frutti dei loro fondi, del loro studio, della loro industria, della loro fatica, e così tutti commerciano col vicendevole scambio dei prodotti medesimi. Segue da ciò che ove è poca la produzione quivi non può essere che poco scambio, come senza lo scambio cessa la produzione; perchè a produrre occorre fatica d'uno o di molti, e niuno vuol faticare a produrre cosa non utile, e perchè i prodotti allora sono utili quando valgono a procurarci, o per se stessi, o mediante lo scambio, di che soddisfare i bisogni e le comodità della vita. Queste sono verità certe, indimostrabili come gli assiomi de' matematici.
Noi abbiamo commercio scarso interno ed esterno: che è quanto dire sono pochi gli scambi, che si fanno e dai cittadini fra loro, e dai cittadini cogli esterni: di ciò sono cagioni molte, le quali possono raccogliersi sotto tre capi principalissimi: 1.° perchè è scarsa la produzione: 2.° perchè dei frutti della produzione, dedotte le spese, restano pochi in mano dei produttori a formare materia di scambio: 3.° perchè non sono agevolati abbastanza gli scambi di quel poco, che resta.
E' scarsa la produzione agricola perchè in generale i proprietari di terreni non sanno abbastanza promuoverla, e perchè i contadini sono recalcitranti ad ogni miglioramento (effetti necessari del difetto di istruzione, di emulazione, e di incoraggiamento) perchè la proprietà non è abbastanza divisa (effetto de' fedecommessi e della volontaria inalienabilità dei beni, che posseggono i luoghi di pubblica beneficenza, le comuni, ed altri corpi morali) e perchè sono scarsi i capitali industriali e circolanti, senza dei quali i capitali fondiari non possono fruttificare.
E' scarsa la produzione industriale perchè il popolo, colpa di educazione, poltrisce nell'ozio e non ha stimolo d'interesse e di onore: perchè manca nei ricchi lo spirito di associazione per causa della poca instruzione e della poca fede scambievole: perchè i capitali circolanti o mancano o li fa cari l'usura: perchè le patenti di privativa rendono stazionari gli ingegni, e non consentono che le fabbricazioni si allarghino e si migliorino: perchè il sistema proibitivo, e le gravi tasse, proteggitrici del contrabbando, e la non favorita introduzione delle macchine, usate in tutta Europa, impediscono che la industria nostra si eserciti e si distenda in produrre, perchè i prodotti non avrebbero smercio al di fuori, e nell'interno non sosterrebbero il concorso di quelli delle altre Nazioni, e quindi non si troverebbe da cambiarli, o con perdita.
E' scarsa la produzione intellettuale perchè il difetto di buoni studi, la proscrizione di alcuni rami di soienze utili dalle pubbliche scuole, fra l'altre quella della economia politica, il tormento delle censure, che lacerano gli scritti in brani, che aboliscono idee e parole, la mancanza di accordi con gli altri stati, che garantiscano nella superficie della penisola i diritti di autore, la dimenticanza di cui sono lasciati gli uomini dotti, i premi non dati al merito, ogni seme distruggono di futura sapienza, e le piante già nate costringono a sterilmente illanguidire.
Dei frutti della produzione restano pochi in mano dei produttori, dedotte le spese, a formare materia di scambio, perchè le spese del produrre, per difetto di macchine, per ignavia degli operai, per mancanza di canali navigabili e di strade facili e brevi, pel tarlo della usura celata, che quivi annida singolarmente ove è vietata la pubblica, smungono soverchiamente ogni ordine di produttori, e perchè le gravezze pubbliche, immodiche per difetto di buona economia, assorbiscono il resto, impoverendo per modo diretto o per indiretto ogni classe di cittadini.
Non sono abbastanza agevolati gli scambi interni e gli esterni, per la mancanza, che ho detto, di strade e di canali, e per quella di buoni porti, cioè profondi, ampi, e sicuri, e per tutte le conseguenze di quell 'errore, ormai sbandito dalle scuole d'Europa, cioè che il commercio di importazione sia dannoso a uno stato e conduca ad impoverirlo, il quale errore è cagione che si sostenga pur anche il sistema proibitivo; il quale, sotto specie di incoraggiare e di sostenere con gravi tasse sui prodotti stranieri, l'industria interna, anima gli stati contermini ad esercitare una gravosissima rappresaglia contro di noi, ed agevola e favorisce il contrabbando che è il gran flagello della industria de' cittadini e dell'erario pubblico.
DEI BISOGNI ECONOMICI
L'economia politica è la scienza, per la quale si imparano i mezzi di produrre, di ripartire, di conservare le ricchezze degli individui, costituenti la ricchezza della nazione. Senza lo studio e l'applicazione di questa scienza natural cosa è che produzione, riparto, conservazione delle ricchezze verranno abbandonate all'azzardo, o contrariate da quei medesimi, che credono, e vogliono, e si studiano di favorirle. Questa scienza è mal nota nel nostro stato: qual maraviglia? fu cancellata perfino dal novero di quelle, che insegnansi ne' pubblici studi! Anche coloro, che presiedono, o che sono chiamati, col tempo, a presiedere ai vari rami della pubblica amministrazione forza è che ne sieno ignari: dappoiché questa scienza è stabilita essenzialmente sopra calcoli giusti, dedotti dai fatti, analizzati con esatte considerazioni, che ne dimostrino la procedenza vera, non l'apparente; e chi ignora quei fatti, chi non sa considerarne, con buon criterio, le cagioni e gli effetti, chi non ha pratica di dedurne calcoli giusti, non può far senza di cadere in errore; perciò si ode ancora affermare dannoso essere il commercio d'importazione, e quello di esportazione essere utile quando segnatamente si convertono le merci in danaro: l'abbondanza del danaro costituire la vera ricchezza delle nazioni: convenire, se non impedirne, renderne l'esportazione difficile: dover curarsi l'equilibrio della bilancia commerciale: doversi preferire l'agricoltura al commercio, o il commercio alla agricoltura: non convenire il produrre a buon prezzo mediante le macchine: doversi far nascere l'industria interna ad ogni costo colla gravosità delle tasse e con ogni mezzo esclusivo dei prodotti esterni; ond'è che non so dire se con più nostro danno o vergogna sia oggi appo noi anche in erba una scienza, che, in altre parti d'Italia, e negli stati più civili di Europa, è già adulta e fiorisce e fruttifica.
Da ciò derivano danni infiniti, dei quali ricorderò i principali.
Danno grande è il mantenimento del sistema proibitivo, sostenuto colla gravezza delle gabelle, cui tengon dietro le armate costosissime dei doganieri, e quel vitupero delle spie, e le vessazioni alle persone, e le violazioni dei domicili e gli imprigionamenti, e le uccisioni; dico le uccisioni: imperciocché mentre alla forza pubblica è vietato offendere i ladri e gli assassini, che fuggono, i doganieri inseguono a moschettate nelle pubbliche vie qualunque frodator di gabelle con rischio grave di cogliere chi n'ha colpa, e chi non l'ha; e tutto ciò per impedire il contrabbando: e nondimeno il contrabbando è fatto sempre perchè è utile il farlo; di che awiene che il peso delle gabelle è portato dai timidi o dai conscienziosi, che sono pochi, mentre quello che pagano i più arditi e i più sciolti impingua i frodatori, gli assicuratori: nulla all'erario; onde da un lato si fanno acuti gli ingegni e pronti gli animi a violare la legge, a combattere contro la forza pubblica, o a sedurla e pervertirla, e l'industria interna ne ha detrimento, e ne scapita l'ordine, e la morale si guasta, e dall'altro l'erario pubblico non ottiene pei bisogni della nazione, e si fa necessario l'aggravamento dell'altre tasse, le quali, come vedemmo, uccidono, per così dire, l'agricoltura, l'industria.
E un altro gran danno è nell'appaltare alcuni rami lucrosissimi del reddito pubblico a' privati, i quali, strarricchendo, sono cagione, che mentre si aggravano i consumatori, 1'erario dello stato rimanga stremo. Sembra un rimedio quel nuovo ritrovamento delle amministrazioni interessate: ma, oltre che offende i1 decoro del principato quel vedere un privato, non per la nazione o pel principe, ma per se stesso padroneggiare per entro la cosa pubblica, il rimedio non è che di una parte del danno: ed una parte ne resta sempre, ond'è che possono chiamarsi un minor male, ma un bene mai. Dicesi, per difendere gli appalti e le aministrazioni cointeressate, che innanzi, l'utile dell'erario era anche minore; ma non è vero: imperciocché di alcune regìe incominciarono gli appalti fin dal principio del Pontificio ristauramento; onde il governo non ha tentato nemmeno, in tanti anni, se l'appalto, a rispetto della economia, sia dannoso o profittevole. Di più, non conviene dar merito del maggior utile agli appalti alle amministrazioni cointeressate senza guardare le altre cagioni, che possono averlo aumentato: perocché nelle questioni di economia pubblica, forse più che in ogni altra qualunque bisogna guardarsi dallo scambiare le cagioni un per l'altra, e dal togliere per cagione ciò, che non è. Ma fosse pur vero che i redditi delle regìe fossero minori innanzi gli appalti: che proverebbe? ? Proverebbe che la pubblica amministrazione non era buona; ma perchè non deve egli potersi, sull'esempio delle attuali amministrazioni private, regolare in modo le pubbliche, da renderle egualmente utili o più, e da serbarne allo stato tutti i prodotti? Non ha il governo il poter pieno di prevenire le dilapidazioni impiegando gli uomini probi e i capaci, e di scuoprirle e punirle invigilando accortamente, e dando a ciascun impiegato, piccolo o grande, secondo i meriti?
E un altro danno grandissimo (e qui lo guardo soltanto dal lato economico) è nella condotta delle truppe straniere, le quali allo stato costano il doppio e più che non farebbero le indigene, ed i risparmi mandano fuori, i quali, qui rimanendo, convertirebbonsi in capitali riproduttivi.
E un altro è nelle pensioni inutili, fuor quelle, che sono in premio di meriti o di servigi, e in lustro del Principato; un altro è nei balzelli, che inceppano o imbastardiscono le private contrattazioni come il registro, ed, arricchendo una schiera infinita di preposti, di ispettori e d'altri odiosi investigatori degli affari domestici, impoveriscono i cittadini, aprono la via alle liti, e non profittano all'erario pubblico in proporzione del danno de' privati. Aggiungasi la mancanza di accordo fra i dicasteri diversi, la mancanza di gerarchia fra gli impiegati, onde segue la indipendenza di molti o di tutti da un centro comune, e, per questa, la contraddizione degli ordinamenti, la tardezza nell'eseguirli, il disordine nell'andamento della gran macchina governativa.
Per lo contrario gli stati più civili d'Europa aboliscono gli appalti delle regìe: ogni stato, anco d'Italia, meno Napoli, si guarda con forze proprie: ogni stato d'Europa riduce al mmimo le tasse e le gabelle: molti stati della Germania hanno creato ed eseguito un sistema di confederazione commerciale, che alle gelosie antiche da paese a paese, dannose a tutti, sostituisce una mutua condiscendenza, un mutuo concorso delle industrie di tutti alla comune prosperità.
Onde nasca una differenza sì grande di massime e di sistemi dagli altri a noi è palese: nel nostro stato è mal nota, negli altri è studiata, conosciuta, onorata la scienza della politica economia.
DEI BISOGNI GIUDIZIARI
Le leggi civili e le penali, quando sono applicate con universale consenso, sono la misura della civiltà dei popoli: perciocché essendo esse la espressione dei bisogni, ed i bisogni secondo la civiltà facendosi più larghi e più delicati, se le leggi non sono conformi a quelli, o non sono applicate, o non durano. Ogni nazione civile d'Europa ha il suo codice: le piccole come le grandi, ne ha uno la Francia, uno il Belgio, uno la Prussia, uno l'Austria, uno ciascuno dei piccoli stati della Germania: uno ogni dominio, nei quali è spezzata la nazione nostra, possiede il suo: uno Napoli, uno Sardegna, uno Toscana, uno Parma, uno Modena e tutti nuovi, tutti dettati dopo la grande pacificazione del 1815. Noi soli, o Santissimo, ne siamo senza: noi soli siamo costretti vivere a leggi non nostre, dettate fan tre mil'anni, in lingua ai più ignota, per altri popoli, viventi ad altre credenze, forniti di altri bisogni, di altra civiltà, di altre usanze: e perciò oscure, sconnesse, odiose, inutili, disusate in moltissime parti: la sapienza de' Pontefici tratto tratto le correggeva con gius Canonico, effetto e causa di civiltà cristiana: ma ancora questo ha difetto di lingua nota, di universalità di materie, di unità di fondamentale concepimento. Quel Santo Principe, che fu Papa Pio VII, sentiva anch'esso il bisogno di dare ai suoi popoli una legislazione uniforme nelle sue parti, e nell'intero completa: perciò mentre, secondo la tendenza reagente de' tempi, distruggeva in un tratto i mirabili ordinamenti del distrutto regno d'Italia, segnava quel memorando editto del 6 di Luglio 1816 col quale affermando al cospetto dell'attonito mondo "che la unità e la uniformità debbono essere le basi di ogni politica istituzione, senza le quali difficilmente si puo' assicurare la solidità dei governi e la felicità dei popoli" prometteva ai riabbracciati suoi sudditi "Un sistema di universale legislazione" comprendente un Codice Civile, un Codice di Procedura Civile, un Codice Criminale, un Codice di Procedura Criminale, un Codice di Commercio, ed uno di Procedura in materia Commerciale, un regolamento di Polizia "per ciò che risguarda la maggior sicurezza pubblica e la più esatta disciplina dei costumi" un regolamento sulle acque, uno per i procratori, pei difensori, pei notai, depositari della pubblica fede, ed una legge "pel sistema di universalità di studi e di luoghi di pubblica istruzione " e questo meraviglioso programma compiva colla promessa "della organizzazione della truppa di linea e della provinciale... per regolare nella maniera la più conveniente il sistema generale della forza esecutrice, in quanto è anche destinata agli oggetti, che risguardano l'amministrazione della giustizia nel Civile e nel Criminale".
Se al filosofico concepimento avessero corrisposto le opere, se alle promesse avesse tenuto dietro l'adempimento, noi da trent'anni saremmo il popolo più civile e più fortunato d'Italia; perciocché civile e fortunato è quel popolo, che, rispettato all'esterno, ricco, sicuro, illuminato, affezionato a benefico principe, gode tutti i vantaggi della privata e della pubblica prosperità.
Ma a quel Santo Pontefice fu, come a tutti, disfare agevole, aspro e lungo al disfatto sostituire: sopravvennero col 1821 i sospetti di novità, poscia a non molto l'accolse Iddio nel riposo dei giusti; di tanto proposito, non rimaneva che un regolamento di Procedura Civile, da Leone XII disfatto anch'esso. Le leggi Civili lasciò Pio VII com'eran prima, cioè il diritto Giustinianeo modificato dal diritto Canonico: solo rimise i fedecommessi, esclusi i mobili, ed oltre gli Sc. 15000: mutò le forme dei testamenti: scemò la misura lelle legittime: tolse alle femmine la libera facoltà di obligarsi e i diritti di successione agnatizia in concorso de' maschi: con poche mutazioni sulle ipoteche legali lasciò intatto il sistema ipotecario: anco il diritto penale lasciò qual era, cioè quella serie di Bandi municipali, che senza ragione e con varia arbitraria misura ogni contrada dello stato insanguinavano: solamente quella crudele stoltezza delle torture aboliva per sempre; la procedura penale alle consuetudini antiche, che è quanto dire all'ignoranza, all'arbitrio dei processanti, abbandonava: il codice Commerciale provvisoriamente mantenne: degli altri codici, delle altre leggi, degli altri regolamenti non diede alcuno.
Venne Leone XII e la procedura Civile, sola opera legislativa di Pio, immediatamente distrusse: ai Tribunali collegiali di prima istanza sostituì i giudici singolari, abolì ne giudizi l'uso dell'idioma nativo, tolse i motivi dalle sentenze , allargò i fedecommessi a qualunque minima sostanza fondiaria: confermò la perpetua minorità e la esclusione agnatizia delle femmine, e rese incerta la misura della congruità delle doti, e la podestà patria e i suoi effetti sui discendenti perpetuava: pose le mani al sistema ipotecario senza farlo migliore: dei codici commerciale, criminale, politico non ebbe pensiero: mutò gli ordini del pubblico insegnamento: a maestri privati preferì i celibi ai coniugati: permise loro la sferza: pose le cattedre della università a concorso, e i professori candidati assoggettò ad esame, come fanciulli: la nomina accordava ai Collegi: volle latino l'insegnamento, il saper nuovo nelle classi filosofiche proscrisse: abolì varie cattedre siccome inutili, fra l'altre quelle di Agraria e di Pubblica economia: negò le lauree agli acattolici: ora si è aggiunto altro: lo sviluppo degli intendimenti è trattenuto una età istessa prescrivendo al sapere: le già floride universita dello stato sono rendute quasi deserte.
Pio VIII [SCRIVE IL PIZZOLI] passava inosservato, per breve regno e per opera niuna, dal Trono al sepolcro.
Gregorio XVI la procedura civile tornava a mutare: l'uso della lingua italiana ne' giudizi riconduceva: rimetteva i Tribunali collegiali di prma istanza: ordinava di nuovo ai giudici di esprimere nelle sentenze i motivi del giudicare: ma le antiche leggi civili e le canoniche, colle modificazioni Leonine, lasciava intatte: solamente la tacita emancipazione de' figliuoli maschi in alcuni casi accordava. Dettava un codice penale ed un codice di procedura penale. Queste sono le leggi, alle quali viviamo oggidì. Ma nessuna di queste leggi risponde ai bisogni della nazione, nessuna e conforme alla civiltà dei nostri tempi. Esaminiamole partitamente.
Delle leggi civili poco è da dire: la necessità di ridurle ad un codice unico, dettato in lingua patria, chiaro, ordinato, preciso, conforme ai lumi, ai bisogni della nazione, alle tendenze del secolo, è troppo aperta, perchè sia da temere che quest'opera grande non tenga dietro alle altre, ricordate dissopra, e che per questa non rendiate compiuta ed immortale, o Santissimo, la gloria vostra. Solamente sembra da ricordare come ripugni alla morale dei tempi nostri, allo sviluppo delle individuali tendenze, alle regole della politica economica, e quindi alla prosperità della nazione, la conservazione dei fedecommessi (inutili ora che la stabilità del trono si fonda non più sulla ricchezza della casta de' nobili, ma sull'amore e sulla felicità della massa de' cittadini) la continua e inevitabile minorità delle donne e la loro esclusione dai retaggi agnatizi (per le stesse ragioni rendute inutili, e fatte odiose per la presente educazione civile) e gli effetti perpetuati della patria podestà in danno dei figli celibi, e la necessità di palliare con false forme i frutti de' mutui (mentre è in tutti venuto l' universale convincimento che nes sun capitale è per se stesso fruttifero, e il danaro è un capitale necessario alla produzione di qualsiasi specie, come ogni capitale o fondiario, o mobile, o intellettuale, o industriale) e quelle altre finzioni, che rendono tanto difficile salvare l'estremo atto della volontà degli uomini, le disposizioni testamentarie. Siccome è pur d'avvertire che se non è posto provvedimento alla sterminata moltiplicazione e alle incessante durata dei vincoli ipotecari, che sono inutili quando è prescritta l'azione, che garantiscono, sarà impedita in progresso ogni contrattazione de' beni stabili, e la proprietà fondiaria, nel nostro stato, cadrà in un inevitabile depreziamento.
La procedura civile non ha altro fine che di assicurare a ciascun cittadino l'esercizio di quei diritti, che dalle leggi civili sono loro riconosciuti: quindi è manifesto che debba avere, per esser buona, due indispensabili conclizioni: eco nomia e celerità. Quella, a cui viviamo, manca precisamente d'entrambe: imperciocché le tasse giudiziarie troppo gravose, l'abuso dei bolli delle carte, e dei registri, e la sterminata moltiplicità degli atti inutili rendono la procedura nostra rovinosissima ai litiganti: e imperciocché la troppa libertà di promuovere incidenti, sospensivi l'andamento del giudizio principale, e le troppo facili appellazioni, sospensive egualmente, rendono le decisioni finali indebitamente protratte. Merita riflessione grave il privilegio del foro accordato agli ecclesiastici negli affari civili, dal quale vengono attratti anche i laici, e si è soggetti a un giudice singolare, e si perdono i giudici ordinari d'appellazione. Ancora è acerbo il dovere, chi riuscì vincitore in prima istanza, aspettare il rimborso delle spese sin dopo il giudizio di appellazione, spesso intrapreso dal soccombente, non per seguirlo con buona fede, ma per istancare la pazienza del vincitore o per istremarlo di mezzi ed anche è acerbo trovarsi privi di quel ministero nobile e pio dei giudici di pace, che ha per ufficio tentare condur le parti a concordia innanzi che si sprofondino nel pelago delle giudiziali contestazioni.
Le leggi penali non sono più una vendetta: formano parte del gran sistema di prevenzione: sono il granello, che, nella bilancia degli umani giudizi, debbe trattener l'uomo dal delitto quando non bastino i principi religiosi e morali. Perciò essendo certo che due sono i motivi, i quali conducono gli uomini a delinquere, le passioni più o meno violente, e il freddo e calcolato interesse, così è palese che occorrono due diverse scale di pene secondo che l'impulso dell'uno o dell'altro di quei motivi è più o meno potente, e più o meno difficile a reprimere; segue da ciò che la pena, eccedente il bisogno repressivo, diventi una inutile crudeltà, e diventi anzi dannosa in quanto che consiglia il traviato a cercare salvezza in un delitto maggiore. Ancora è osservabile che sono alcuni delitti, scritti nei codici, che non sono volontari perché li comanda imperiosamente l'opinion pubblica sotto pena del disonore: tali sono le soppressioni di gravidanze o di parti, ed il duello; onde il punirli severamente ritorna ingiusto, poiché la colpa sta più nell'umano consorzio che nel colpevole. Ora queste considerazioni mancano nel nostro codice penale: la scala delle pene è uniforme per ogni genere di delitti: troppo grave per tutti: non proporzionata all'impulso, al danno: la latitudine concessa al giudice è troppo estesa: i delitti, comandati dal sentimento dell'onore e della vergogna, sono puniti troppo aspramente. La pena di morte è prodigata mentre in tutti gli animi è ardente il desiderio di vedere che il Principe della Chiesa, che è fonte di carità e di amore, abolisca una volta quegli omicidi giuridici, inutili perchè non frenano l'impeto delle passioni, spaventevoli quando, a ordinarli, basta l'intimo convincimento di pochi giudici. Toscana, per umanità del suo Principe, non vede da molti anni quelle legali carneficine: si eseguiscano giusti confronti statistici e si vedrà agevolmente che nella Toscana i delitti, che noi puniamo coll'ultimo supplizio, non sono più frequenti di quello, che sono presso di noi.
Le leggi di procedura penale hanno per fine di render pronto lo scuoprimento dei delitti, sicura ed esemplare la punizione dei delinquenti. La prontezza, la sicurezza, l'esempio sono in questa materia elementi della pubblica tranquillità: sia perchè rendono più efficace la pena del colpevole, sia perchè assicurano l'innocente da ogni timore.
Le nostre leggi di procedura penale peccano contro tutti questi elementi: la prova è nei fatti: passano gli anni prima che le sentenze colpiscano gli accusati: spesso i colpevoli vanno impuniti: spesso, pur troppo, condannansi gli innocenti: è orrendo a dire, ma è lagrimevole verità.
Di questi mali enormissimi sono due le principali cagioni: i processi scritti, e il segreto dei giudizi.
La costruzione del processo scritto sta tutta intera nelle mani di un processante, spesso ignorante o mal pratico, peccabile, siccome uomo, e quindi in pericolo di parzialità, di favore, di corruttela. A questi è affidato in segreto l'esame dei testimoni, gli interrogatori degli imputati, l'assunzione, la conservazione, la verificazione dei corpi di delitti, fino i1 potere di escutere i testimoni a loro senno colla morale tortura di un carcere di esperimento: niun tempo è loro prescritto: niuno li invigila: qual garanzia assicura che nulla omettano di quel che devono, che nulla facciano di ciò che loro è vietato, che non s'ingannino, che per ignavia, per poco senno, per mal volere non abbiano, o in vantaggio del reo, o in danno dell'innocente, mostrato il falso, reso impossibile il ritrovamento del vero? Nè a questi pericoli, a questi mali pone rimedio 1'orale dibattimento, in quanto che nella legge sia scritto che, ove contrastino fra di loro, i risultamenti di questo ai risultamenti di quello sieno da preferire: prima di tutto perché il dibattimento non ripara al tempo perduto nella compilazione del processo scritto, nè alle prove perdute, nè alle suggestioni insinuate, nè ai timori incussi, nè agli accordi presi, nè a tutta la serie degli inganni, i quali, col tempo, si possono concertare; inoltre il dibattimento orale è soggetto all'arbitrio del Capo del tribunale, che può chiamare testimonii nuovi ad offesa, e può vietare che a difesa vengano indotti dall'imputato: di più a reprimere nei testimoni qualunque efficacia di rimorso, qualunque impulso della coscienza, qualunque slancio di verità sta imponente, terribile una accusa, un processo, una condanna per titolo di spergiuro, che incontra sempre chi si disdice in favore dell'imputato. Infine: fosse pur vero che il dbattimento ora1e potesse correggere gli errori del processo scritto, non è dunque manifesto che il processo scritto è cosa inutile? perchè dunque serbare una inutilità, che costa spesa e tempo grandissimi? L'Inghilterra, la Francia, il Belgio, Toscana, Napoli, più non conoscono processo scritto: perché noi, o Santissimo, dovremo ancora esserne addolorati?
Il segreto dei giudizi, facendo liberi i giudici dal testimonio del pubblico, dalla sanzione della opinione, toglie agli imputati l'unica garanzia, che può salvarli da errore o da mal volere in un sistema, che pone la facoltà di condannare nell'intimo convincimento, e che nelle sentenze non capitali nega il benefizio della appellazione . E' vero che l'intimo convincimento è opera della coscienza, che non dipende più da una prova che da un'altra, che non può avere per regola nessuna specie determinata di atti esterni; ma è vero ancora che, nei gindizi segreti, alcuni atti esterni possono essere dimenticati, alcune prove lasciate in non cale, il che nella presenza del pubblico non avverrebbe: le severe formalità dei giudizi, i modi d'interrogare e di rispondere, 1a libertà, la solerzia della difesa non hanno, nei giudizi segreti, sanzione alcuna, mentre nei pubblici non si potrebbero impunemente trascurare o violare. E che si oppone alla pubblicità dei giudizi? La spesa più grave pel necessario intervento dei testimoni, la libertà delle testimonianze, il timore che il volgo apprenda e s'addottrini a cuoprire le colpe più astutamente. Obiezioni vane: sia pure grave la spesa del dibattimento orale, ma la retta amministrazione della giustizia penale non è ella la prima necessità di una nazione civile? Perchè s'avrebbe a trascurare per un tenue, o ancora per un grande risparmio? E' risparmio lodevole non ispendere senza ragione: ma privarsi del necessario non è risparmio, è avarizia inescusahile. E d'altronde la spesa sarà ella notabilmente maggiore? Non si compensano i testimoni, se vogliono, ancora nel processo scritto, e nel dibattimento segreto? E non sarà risparmiata la spesa del processo scritto, e del protratto mantenimento degli inquisiti a carico pubblico? La libertà delle testimonianze non è mai posta in pericolo in una nazione civile, sotto un governo forte, dove la morale è in onore, dove la legge è giustamente e fermamente applicata: e ad ogni modo non è forse comunicato agli inquisiti anco il processo scritto? Non e quindi uguale pei testimoni il timore degli effetti possibili delle loro testimonianze? Il volgo non si addottrina a delinquere nei pubblici dibattimenti; sibbene apprende a rispettare la ragion pubblica a convincersi della impossibilità di nascondere le colpe proprie, a tremare dinnanzi all'occhio vigile della giustizia: è nelle carceri che impara i sotterfugi, le sottigliezze, è nelle carceri che, pel continuo nefando contatto, quegli infelici, che vi si chiudono, giungono all'apice del morale pervertimento. Ed ancora non v'ha egli modo di allontanare, se vuolsi, dai tribunali punitivi la presenza del basso volgo? Perchè almeno non si concede l'accesso alle persone di civil condizione, le quali o non delinquono mai, o, se vogliono, hanno ingegno che basta a prepararsi agio allo scampo? Oltre di che si consideri che in buona parte e nella più civile di Europa questi rispetti sono avuti in non cale: fino in Toscana: perchè vorremo essere noi piu savi di tante savie nazioni, perchè vorremo temere quei mali immaginari, che l'esperienza di tanti anni ha mostrato, appo quelle, che non esistono? Ed in fine qual male esser potrebbe, anzi quanto non sarebbe egli piuttosto il bene, se almeno alla Curia esser presente ai giudizi penali si concedesse?
Ma non sono qui tutti i difetti, che si riscontrano nell'attuale sistema di procedura penale: havvene uno specialmente grandissimo in quella parte, che concerne i delitti di Maestà: certamente è grande il delitto perchè pone in pericolo la sicurezza della nazione: pronta ed esemplare ne dovrà essere la pena: ma dovrà esser giusta la verificazione della colpabilità e certo il rinvenimento del colpevole. Perciò se ne porti pure, se vuolsi, la cognizione al Tribunale supremo dello stato per rendere più augusto il giudizio, più imponente l'esempio; ma perchè all'imputato di Maestà, oltre ai giudici naturali, si dovrà togliere ancora la cognizione dell'atto di accusa, il confronto coi testimoni, la libertà e la pubblicità della difesa? E' grande il delitto di Maestà: ma quanto un delitto è più grande tanto meno è probabile o supponibile, tanto le prove dovranno essere più chiare, più certe, più convincenti, tanto più dovrà essere conceduto all'imputato scolparsene: ordinare altrimenti offenderebbe giustizia, lederebbe il decoro del tribunale, toglierebbe l'effetto del pubblico esempio, perchè lascerebbe ingenerare il sospetto nella nazione che si mirasse non a punizione ma a vendetta.
Non tutte le violazioni della legge penale sono delitti, o per dir meglio non tutte le azioni illecite de' cittadini debbono, come delitti, essere portate alla cognizione dei Tribunali Criminali; n'hanno talune, che offendono diritti sì lievi, o che diritti importanti offendono sì lievemente, da meritare piuttosto correzione che pena: per esempio alcune ingiurie di parole, di scritti, o di fatti, le quali non attaccano profondamente l'onore o l'integrità della persona: quelle, che, anche nel codice attuale, punisconsi con multa, con detenzione di pochi giorni, con una ritrattazione: lasciare questi piuttosto mancamenti che delitti alla cognizione del giudice criminale, il comprenderli nel codice penale è male per molti rispetti: perchè tien vivi i privati risentimenti, perchè imprime una macchia indelebile, perchè è cagione di tempo e di spese perduti, perchè chiude la via all'incivilimento de' costumi nazionali: nella Francia queste mancanze conosconsi dai Tribunali di Polizia correzionale, che siedono pubblicamente, e che risolvono seduta stante e con metodo quasi patriarcale.
Deve essere in facoltà degli ufficiali di polizia agire pel mantenimento dell'ordine, per la prevenzione dei delitti: anco, se occorre, di ordinare visite domiciliari, arresti di cittadini: ma questa facoltà degenera in arbitrio se per alcun pretesto, come accade ora sempre, tengono più di ventiquattr'ore un arrestato nella loro giurisdizione senza rimetterlo al tribunale criminale. Dicesi che, per tal modo, si perdono forse le traccie dei delinquenti: non credo, quando i tribunali criminali sieno saviamente composti, quando le leggi di procedura criminale sieno buone ed eseguite: ma fosse: sarebbe meglio correr pericolo di perdere un qualche caso, un qualche lume, che lasciare esposti cittadini all'arbitrio di impiegati, che, delle opere loro fatte sempre in segreto, non danno ragione alcuna.
La tortura è abolita, è abolita la gogna e la berlina, s'intende la tortura legale applicata per ministero di giudice in certi casi, con certe forme, e con certe misure: ma esiste una tortura illegale, anzi più specie di illegali torture, arbitrarie, nascoste: una è quella che usa il gendarme di incatenare a ciascuno arrestato le mani e i polsi, alcuna volta sino a lacerarne le carni, schizzarne il sangue: un'altra è di percuotere gli arrestati e di ferirli per isfogo di ceca rabbia, e per istrapparne di bocca la confessione dei delitti, la manifestazione dei complici: un'altra è di gettarli in umide carceri, e sudicie, e malsane, e lasciarveli con poco cibo, esposti al freddo o al calore eccessivi: un'altra è di condurli da luogo a luogo per lunghi viaggi, o a piedi, o legati su carrette scoperte, al raggio ardente della canicola, o alle pioggie, o ai rigori del vento: torture o pene spesse volte mortali, recate ad uomini, che non sono rei, ma incolpati, e che spesso hanno nel cuore, e spesso riescono a mostrare con buone prove la loro immacolata innocenza.
Non è scritta nel codice la gogna o la berlina pe' condannati: ordinamento savissimo, che risparmia l'infamia a coloro, che, espiata la pena, possono e debbono, purgati e mondi, entrar di nuovo nel civile consorzio: ma ad una gogna , ad una berlina si espongono ogni dì gli accusati, che possono d'ogni colpa essere scevri, strascinandoli di pien meriggio, stretti tn catene, per le vie popolose delle città, al tribunale, innanzi al quale possono essere riconosciuti innocenti.
Questi sono, o Santissimo, immensi mali, ai quali è facile e necessario metter rimedio: ma non saravvi rimedio alcuno, che basti se non sia proveduto al personale de' giudici, degli impiegati politici, e della forza esecutrice, e se non sieno tutti assoggettati ad un sistema uniforme di sorveglianza, di premi, e di pene, che partano tutte con sicurezza e senza riguardo dalla autorità Sovrana, perchè non sono nulla, in uno stato, le buone leggi, quando non sieno giustamente, uniformemente, e conscienziosamente eseguite. Del personale degli impiegati politici e della forza esecutrice dirò soltanto che, essendo tolto dai più bassi ordini de' cittadini, e non avendo per argomento di scelta l'integrità ed il merito ma l'opinione, spesso mentita, non si può averne quella civiltà, quella mitezza, quella imparzialità di servizio, che serve a rendere il ministero stimato e conciliativo, onde è forza tenerli con rigore di disciplina. Quanto al personale dei giudici non avrà mai quella bontà, che richiedono la garanzia degli interessi de' cittadini, l'esecuzione delle paterne sollecitudini del principe, se non sono savi, indipendenti, imparziali; e non saranno tali giammai se non sono retribuiti di stipendi condegni, e tolti, non da chi affetta merito di opinione ma da chi ha merito di onestà e di sapere: e i nostri giudici hanno stipendi magri cotanto, che niuno fra gli avvocati, che sono in fama di principali, potrebbe contentarsene mai; onde raro interviene che al difficile e venerando ministero di giudice s'alzino uomini degni per pratica e per dottrina; e i nostri giudici sono di numero troppo scarsi, onde è venuta in uso quella miseria degli aggiunti e de' supplenti pagati ad opera, o di indecenti stipendi retribuiti, e trovati fra l'ordine deg.li esercenti, o fra quei giovani, i quali possono dare di loro speranze buone per l'avvenire, ma che non presentano al certo fiducia tanta, da farli degni di sedere a decidere delle sostanze, dell'onore, della vita de cittadini .
Nel regno Italico, e non ripugno a mostrarvene, o Santissimo, il chiaro esempio, il personale de' giudici era scelto fra i più degni ed onorevoli: erano larghe le paghe loro per cagion di decoro, per debito di giustizia, per garanzia di integrità: era una certezza di mutazioni prgressive o retrograde secondo i meriti ed i demeriti: era un vivaio negli allunnati, era una sorveglianza attivissima esercitata dal ministro della giustizia mediante l'opera dei regii procuratori, sedenti presso de' tribunali, ma indipendenti dai tribunali, e corrispondenti unicamente col ministro medesimo.
DEI BISOGNI INTELLETTUALI
Allora è buono un governo e serve al fine, pel quale è istituito quando provvede saviamente ai bisogni della nazione. Ma i bisogni delle nazioni non sono materiali soltanto: principalissimo è quello fra tutti di sviluppare le facoltà intellettuali, siccome quelle, che sono seme della umana perfettibilità: i mali principi, che vorrebbero tener le genti al guinzaglio e diriggerle colla sferza cercano quelle facoltà paralizzare o comprimere: i buoni procurano di svilupparle perchè vogliono condurre i popoli al bene e col lume della ragione, il quale, chiunque abbia l'intelletto ottuso, non può vedere. Le facoltà intellettuali di un popolo sviluppansi con buoni studi, con una giusta libertà della pubblicazione de' pensieri, colla garanzia della intangibilità delle proprietà letterarie, coi premi e con gli onori al vero merito conferiti. Gli studi sono elementari, intermedi, maggiori. Gli elementari devono aiutare, dirigere, non comprimere le naturali inclinazioni delle menti de' fanciulli e de' giovanetti, nè modellarli tutti in una stessa forma, in una stessa misura: devono prepararle a studi maggiori, non isnervarle e perderle in inutilità; la facoltà d'insegnare non deve essere ristretta a pochi maestri approvati, perchè, chi ha mezzi, deve essere libero di scegliere a maestro chi, per sapere e per fama, ispira fede. Gli studi intermedi fra gli elementari e i maggiori debbono potersi fare in licei pubblici, non ne' soli seminari ecclesiastici, ai quali ognuno sia ammesso purché sia degno, qualunque sieno le scuole elementari donde sia uscito: gli insegnamenti filosofici debbono esservi fatti da uomini dotti e capaci, e le dottrine debbono essere non retrograde o stazionarie, ma progredenti secondo i progressi dei lumi del secolo. Le universita dello stato, nelle quali si fanno gli studi maggiori debbono essere aperte a tutti, qualunque sia il luogo onde vengano, qualunque sieno gli studi elementari e intermedi, che gli studenti abbiano percorso: i Professori debbono essere scelti fra i più sapienti uomini della nazione.: ove manchino, debbono chiamarsi di fuori: le loro fatiche debbono essere degnamente retribuite: gli insegnamenti si vogliono dare con ordine giusto, cioè progressivo dal noto all'ignoto, e conformi allo stato dell'umano sapere: i gradi accademici debbono darsi non agli anni ma al merito: gratuiti e non per prezzo. Una sola regola ed uniforme dee reggerli in tutto lo stato, anzi che essere abbondonati al pensier vario delle varie autorità de' paesi. Anche i più poveri, anche quelli, che, per la loro condizione sociale, sono destinati al manuale esercizio delle arti meccaniche, devono essere instruiti di leggere, di scrivere, e delle prime operazioni della aritmetica: l'istruzion loro dee essere rapida e gratuita come si ottiene colle mirabili scuole, nelle quali si esercita il mutuo insegnamento.Ma all'uomo non basta l'apprendere, se non può i suoi pensieri, le sue dottrine, le sue opinioni, coi lunghi studi acquistate, liberamente mostrare al pubblico, per altrui bene, per utile e gloria propria. V'hanno tre parti sole, nelle quali questa libertà deve essere raffrenata, e sono la religione, il sovrano, il buon costume: fuori di queste ogni umano pensiero, come può concepirsi, così deve potersi liberamente manifestare. Accadrà forse che si vedranno pubblicati alcuna volta pensieri storti, o che qualche privato potrà alcuna volta restarne offeso: ma è lieve male: perchè dei primi fa presto ragione l'opinion pubblica, dei secondi la legge: per mali piccoli, e rari, e rimediabili non si deve un popolo condannare a perdere l'uso dell'intelletto, che Iddio die' all'uomo per sceverarlo dai bruti!La libertà della pubblicazione delle idee proprie non può star senza una garanzia efficace della letteraria proprietà; imp erocché è dei prodotti dell'intelletto come di ogni altra proprietà nostra: niuno porrebbevi opera e senno se buone leggi dalle usurpazioni degli altri non li assicurano, se ai produttori non ne è garantito il godimento esclusivo. Nè questo dicesi solo per quelle opere dell'intelletto, che si pubblicano cogli scritti e colle stampe, ma ancora tutte le altre: segnatamente delle produzioni teatrali: la garanzia dei diritti d'autore è quella, che ha fatto sorgere in Franca quel largo numero di scrittori drammatici, le cui opere hanno invasa l'Italia.Ultimo mezzo di favorire lo sviluppo delle facoltà intellettuali è quello di incoraggiarne i progressi con onori e con premi: le pensioni, le distinzioni, le cariche sono la meta, cui giungono i chiari ingegni negli stati civili d'Europa.Ma gli studi appo noi sono tutt'altro che buoni: il mutuo insegnamento, che fiorisce in Toscana, nel nostro stato è proscritto: le scuole elementari sono affidate, la più parte, ad uomini di niun sapere: i fanciulli si costringono a studi uniformi ed inutili quasi del tutto: perdono gli anni sotto il peso del materiale insegnamento della aritmetica, che, in pochi mesi, perchè materiale, è scordata: altri anni perdono a studiare, male e precocemente, la lingua 1atina, che, studiata bene ed a tempo, apprenderebbero in breve: nulla è loro mostrato di geografia, di istoria; onde che, fatti adolescenti, anzi giovani, nemmeno sanno perchè si alternino i giorni e le stagioni: ignorano che sono al mondo altri paesi che i1 loro, che altre nazioni abbiano coperta la terra: perfino quello, che, ora fa un secolo, nella loro patria intervenisse. Viene lo studio dell'eloquenza innanzi quello della lingua e delle idee: seguono le metafisiche insegnate per definizioni su' vecchi libri: la logica dei sillogismi: dei lumi della moderna filosofia rimangon ciechi: le università, già sì floride un tempo, sono ridotte quasi a modo di scuole private: pochi uomini celebri vi siedono fra molti incogniti: le scuole più necessarie soppresse: le lauree date per prezzo: inutile il saper molto se ad una età, uniforme per tutti, non è congiunto.La pubblicazione del pensiero è impedita per una censura oltre ogni dire arbitraria, tormentatrice; arbitraria, perchè in un luogo concede quello, che in altro nega: tormentatrice, perchè ogni utile idea n'è proscritta: fu soppresso un giornale perchè descrisse la formazione dell'iride: fin le parole di nazione, di patria, di diritti vengono cancellate, come se non avessimo patria e diritti, e come se gl'Italiani, benchè parlanti una lingua, benché viventi su quel classico suolo "che Appennin parte e il mar circonda e l'Alpe " fatti pari al popolo ingrato, che uccise il Cristo, abbiano, per maledizione di Dio, perduto quello di chiamarsi nazione! E se altro manca, non c'è perfin negato cantare, o Santissimo, le vostre lodi: le vostre lodi, che traboccano dagli esultanti petti, e che da tre milioni di bocche salirebbero a coro infino al Cielo, se dalla tormentatrice censura non ci venissero respinte in gola?La proprietà letteraria è ristretta alle opere, che pubblicansi colla stampa: ma la strettezza del nostro stato la rende inutile per difetto di convenzioni con gli altri stati d'Italia: i diritti di autore per ogni altra pubblicazione letteraria non si conoscono.Onorare e premiare gli uomini sapienti non è massima riconosciuta per esempi frequenti: Voi, o Santissimo, Voi siete il primo, che, in questi pochi ma gloriosissimi giorni del vostro regno, abbiate mostro volerli giustamente distribuire.
DEI BISOGNI MORALI
Perchè una nazione sia veramente felice non basta che la governino buone leggi civili, amministrate da uomini savi con savio metodo, che l'assicurino buone leggi penali, prontamente e conscienziosamente applicate, che la arricchiscano il commercio e l'industria ed una buona politica economia, che non sia esposta agli arbitri, che buoni studi, universalmente diffusi, la rendano intelligente e colta; queste sono certamente ottime parti di buon governo; ma ve n'ha un'altra egualmente importante: quella della pubblica rnoralità. L'inferma nostra natura ci sospinge, o più vero, ci lascia essere arrendevoli al male o per noia dell'ozio, o per allettamento de' vizi, o per facilità di occasioni o per corruttela di mali esempi. A questi impulsi maligni è necessario proveggasi per chi governa: i quali provvedimenti costituiscono altrettanti bisogni morali: a trascurarli la nazione corrompesi, snervasi, s'indebolisce, e non c'è che, alla lunga, non cada in rovina.Alla infermità della natura, oltre la religione, ripara l'abito, che si contrae, per una buona educazione, fin da fanciulli; questa è difficile che possano dare le persone del volgo a' figliuoli: prima, perchè non ne conoscono l'importanza bastevolmente: poi perchè occorrono pensieri e spese, ai quali ed alle quali non possono, per povertà, sopperire. E la classe del volgo è la più numerevole nelle città, e dalla classe del volgo escono, la più parte, quegli infelici, che vanno a popolare le carceri ed i postriboli, i bagni e gli spedali. Però è un morale bisogno della nazione che il volgo sia educato all'abito della virtù e ciò si ottiene in ispecial modo colle sale d'asilo, ove i fanciulli d'amendue i sessi, distintamente, suggono, quasi col latte, le idee della religione, dell'ordine, della operosità, dell'amore del prossimo; dico colle sale d'asilo più che con altri modi, perchè l'essere gratuite le fa al volgo ac.ettevoli, e perchè custodiscono i fanciulletti dall'alba alla sera.All'ozio pone rimedio, ne' ricchi come ne' poveri, la facilità di occuparsi in cose lodevoli e profittevoli.All'allettamento de' vizi si oppone l'aspetto continuo dei pregi e dei premi della virtù.La facilità delle occasioni e la corruttela dei mali esempi son tolte via quando sieno impediti que' luoghi, ove del vizio si fa pompa o mercato, e quando in ogni tempo sia offerta al pubblico comodità di onesti piaceri.Ma noi non abbiamo sale d'asilo, onde i figli del povero, abbandonati a se stessi, siccome i bruti, non tardano a imbestialire: niuna carriera è aperta ai giovani, de' quali regurgita ogni città, ogni terra, per cui possano, onestamente occupandosi, o negli impieghi, o nell'industria, o nell'arti, o nel commercio o nell'armi procacciarsi gloria o danaro, perchè manchiamo di impieghi, d'industria, d'arti, di commercio, di armi: le belle azioni, gli studi, l'operosità non hanno premio di lode nè di pecunia, onde la gioventù ricca e la povera, per difetto di allettamento, n'è fatta schiva o non curante, e ne' materiali piaceri dei sensi s'ingolfa e perde: sono aperte sempre le bettole ove il volgo profonde danaro e senno, e quasi sempre i teatri, che di morale o sono o esser possono pubblica scuola, rimangon chiusi.Che se dalle generalità passeremo a considerare quello, che accade in ispecie ne' varii ordini de' cittadini, vedremo demoralizzarsi tutti, se non provedesi: nobiltà e medio ceto, e ricchi e poveri, e gl'impiegati e le truppe: entrare il tarlo nelle professioni, nelle industrie, nell'arti; vedremo demoralizzarsi i ricchi perchè non curando le scienze, o le arti, o le lettere, nè della cosa pubblica occuparsi o volendo o potendo, consumano nell'ozio aperto od in vizi nascosti le facoltà dell'animo, i doni della fortuna: il medio ceto, perchè, i più ricchi emulando nel vivere disordinato e nel lusso, eccedente i giusti mezzi, sono costretti correr dietro agli ingiusti: vedremo regnare negli impiegati corruttela ed ignavia per difetto di ordine, di emulazione, di speranze, di sorveglinnza, e le truppe indigene, poco in onore per essere raccogliticce, disanimarsi per poco numero, per trattamento non degno, e, più che tutto, per isdegno profondo di vedersi, come sono, posposte all'estere: le professioni onorevoli fatte mestieri l'arti neglette: gli operai crapulanti: ed i mendichi, per licenza di oziare accattando, dismisuratamente moltiplicare.E un'altra causa della immoralità del popolo è in quel lezzo delle prigioni, dove ogni cosa concorre a degradarlo, a corromperlo. L'uomo, che la pubblica forza. vuole in sua mano, è tosto carco di £erri: qualunque sia la sua condizione, qualunque la colpa, della quale è sospetto, forse d'una parola di collera, di un atto di sdegno, di una semplice contravvenzione, e di meriggio, come di sera, obbligato di traversare ogni pubblica via, che meni alle carceri, fatto spettacolo al popolo, fatto oggetto di obbrobrio, di vitupero: nelle carceri di polizia è consegnato a un custode, che vilmente lo fruga come frugasi un ladro: è cacciato in un antro dove ha compagni i falsari, i lenoni, e gli omicidi: in quella nefanda congrega è lasciato, finché forse è dimesso come innocente. Se è passato alle carceri criminali quivi ripetonsi le stesse forme, quivi è piombato fra simiglianti compagni: nell'ozio dei lunghi giorni e delle notti interminabili, nelle sozzure del luogo e delle cose, ogni infame proposito lo assale e contamina: quivi ode ed apprende a beffarsi del giusto e dell'onesto, a bestemmiare la religione, e la virtù spregiare: onorar di coraggio la temerità dell'assassino, e di prudenza la vile astuzia del ladro: e questi fatti ripetonsi ogni giorno dell'anno, ogni ora del giorno sopra migliaia di prigionieri, che, nelle carceri dello stato putriscono, ingangreniscono: e cotestoro, quando ne sono di mano in mano regurgitati, tornano, fatti pessimi, nel civile consorzio, e nelle loro famiglie, e, carchi de' vizi propri e degli altrui, portano seco d'ogni sozzura li frutti e il seme! Ma colla lagrimevole dipintura di queste luride piaghe del popol vostro, ho il vostro pietoso animo, o Santissimo Padre, conturbato abbastanza; onde il lamentarne molt'altre ommetterò volontieri, perchè vi verranno certamente scorte e sanate quando porrete la vostra potente mano alla grande opera della nostra rigenerazione: a quell'opera grande, che ha germogliato nel vostro cuore paterno spontaneamente, e che, fecondata da quel raggio d'amore, che v'arde pe' vostri figli, assicurata dalla fiducia che avete nella loro interminata riconoscenza, protenderà larghi rami a cuoprir noi, e i figli nostri ed i lontani nepoti. Seguendo l'orme di quel Principe santo, dal quale, con presagio lietissimo, toglieste nome, deponete, o Santissimo, ogni rispetto: abbattete uomini e cose, se cose ed uomini sono contrari alla felicità della nazione, che è vostra per sangue, per diritto, per carità; ché vi protegge la onnipotente mano di Dio, e i caldi petti di tre milioni di sudditi vi saranno, se occorre, difesa e scudo. Ma poscia riedificate: l'opera è grande ma in Voi più grande è i1 potere: che, solo fra i Sovrani del Mondo, avete il doppio regno, dei cuori e delle coscienze.Dateci leggi che ci assicurino, dateci lumi che ci istruiscano, dateci libertà giusta di scrivere e di parlare, dateci commercio ed industria che ci arricchiscano, dateci una prudente amministrazione che le sostanze nostre, nelle pubbliche, sanamente conservi, dateci, sopra tutto, uomini, che, in governarci per Voi, ci amino come Cristiani, poi dateci armi ed insegne, e noi giuriamo di serbarle onorate e fedeli, non per vil prezzo, ma per amore, per gratitudine, per divozione al Vicario del Cristo, al benefattore de' popoli, al primo Principe della Cristianità.
Per comprendere questo argomento è assai più utile che l'opera di Mario Caravale e Alberto Caracciolo ("Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX", in "Storia d'Italia", a c. di G. Galasso, UTET, Torino, 1978, XIV) il lavoro "Considerazioni sulla "parte generale" del Regolamento gregoriano" / Tullio Padovani in "I regolamenti penali di papa Gregorio XVI per lo Stato Pontificio (1832) ". ristampa anastatica con scritti di S. Ambrosio [et al.] ; raccolti da Sergio Vinciguerra., P. XLIII-LIV e comunque in senso più esteso la variegata evoluzione della giustizia in seno allo Stato della Chiesa.
Dopo la caduta di Napoleone l'intransigente cardinale Rivarola, appena rientrato in Roma, soppresse i "Codici francesi", sancendo la riapplicazione del diritti feudali.
Con il ritorno dell'esule Pio VII sembrò poter essere mitigato il clima poliziesco introdotto dal Rivarola con la pubblicazione del "Motuproprio" del 6 luglio 1816: l'idea di base risiedeva nel ripristino di amministrazioni locali su base francese e soprattutto la realizzazione di un complesso giudiziario molto vicino a quello del Bonaparte e per la cui onerosa lavorazione operassero ben tre commissioni. Allo sforzo teorico non risposero proporzionali risultanze: videro la luce solo il "Codice di procedura penale" ("Motuproprio" del 22-XI-1817) e nel 1821 (primo di Aprile) un "Regolamento di commercio" peraltro provvisorio.
L'autore si riferisce al "Codice civile del regno delle Due Sicilie" che venne promulgato nel 1819: con legge 26-III-1819 i "Codici francesi" vennero surrogati dal primo settembre dello stesso anno dal "Codice del Regno delle Due Sicilie", distinto in 5 parti. tale legislazione, per quanto influenzata da quella francese, se ne discostava per vari aspetti e contenuti, senza escludere i dettami dello "Statuto militare penale" del 1819 e quelli compresi nella rinnovata normativa allestita in merito dalla legge sul registro e sulle ipoteche risalente al 21 giugno del 1919.
Nel Regno Sabaudo (quindi in Piemonte, Liguria, Sardegna e territori collegati) il 20-IV-1837 fu promulgato il "Codice civile" mentre quello penale data ad un biennio dopo (26-X-1839): si ebbero poi le promulgazioni di cu "Codice penale militare" (28-VII-1840) e successivamente di un "Codice di commercio" (30-XII-1842).
Per quanto celebrata dal Pizzoli in materia di modernità la Toscana non godeva di un autonomo "Codice civile": peraltro nel Granducato giammai venne abolito il francese "Codice di commercio". E' tuttavia vero che il 2-VIII-1838 alla Toscana venne concesso un "Motuproprio" sull'"Ordinamento giudiziario e la procedura civile e criminale": a questo, meno di una decina d'anni dopo (1847) successe la nomina di due commissioni preposte alla stesura di un "Codice civile e penale" (solo il "penale" venne però pubblicato nel 1853). Dal 1847 si andò poi lavorando alla realizzazione di un "Progetto di codice di polizia fiorentina e corregionale" pubblicamente sanzionato però solo nel 1850.
Parma fu certo all'avanguardia in Italia per la stesura dei "Codici": si possono elencare infatti un "Codice civile"(23-III-1820), uno di "procedura civile"(6-VI-1820), un "Codice penale" (5-XI-1820) ed ancora un "Codice penale" (13-XII-1820).
Un "Codice civile" vigeva a Modena dal 1846: si trattava comunque della ripresa, dopo la parentesi dei "Codici francesi", di un "Codice civile" del 1771 ripreso nel 1814 da Francesco IV. Per le altre competenze ci si valeva di leggi speciali: in effetti solo nel 1850 Francesco V diede al suo Stato una moderna codificazione giuridica.
Il Pizzoli, spinto dall'entusiasmo, come si può constatare valutò oltre l'effettiva portata diversi "Codici" degli altri Stati dell'Italia preunitaria. Fu altresì vero che Gregorio XVI inasprì il clima poliziesco inaugurato dal suo predecessore anche a causa dei moti del 1831 e delle pressioni subite dalle potenze europee (Francia, Austria, Russia, Prusia, Sardegna e Gran Bretagna) che nello stesso anno delle sommosse (21 maggio) gli presentarono congiuntamente un "Memorandum" con cui gli venivano suggerite le vie opportune per tracciare una linea organica di politica interna. La mancanza di una vera e propria codificazione, come fatto notare dal Pizzoli, fu indiscutibile anche se non si può sottacere (come fece lo stesso Pizzoli) il pur laborioso tentativo di colmare le crescenti lacune nel diritto dello stato emanando vari "Editti". Si citano qui un "Editto del Segretario di Stato sull'ordinamento delle comunità e delle provincie" (5-VII-1831), un "Editto che riformava la procedura civile" (5-X-1831), ancora un "Regolamento per la procedura penale" (5-XI-1831) ed infine un "Regolamento sui delitti e sulle pene" (20-XI-1832): oggettivamente, pur restando al di qua delle sternazioni del Pizzoli, si riscontra evidentemente una confusione dei legislatori almeno sin alla regolarizzazione, per tutto il territorio pontificio, almeno della riforma del procedimento civile che comunque raggiunse solo col "Motuproprio" del 10-XI-1834 una sua compattezza quale "Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili" in cui oltre alla procedura civile erano incluse varie norme di diritto civile ed ordinamento giudiziario. La severità patriottica del Pizzoli (che comunque trovava corposa giustificazione quale emotiva risposta alla dura enciclica "Mirari vos" del 1832) si vede anche laddove non parla di un "Codice di commercio" vigente nella formulazione francese ancora nel 1846 ed il fatto che il citato "Motuproprio" del 1834 comportava una normativa abbastanza moderna in merito a "stato delle persone" (Titolo II), "successioni" (Tit. III e IV), "fedecommessi" (Tit.V), "contratti" (Tit. VI), "Privilegi ed ipoteche" (Tit. VII): è altresì da rammentare (correggendo ancora il Pizzoli) che il "Corpus juris civilis" ed il diritto canonico avevano assunto funzione eminentemente interpretativa.
Nato a Genga , Annibale della Genga, figlio del Conte Flavio e dalla Contessa Maria Luisa Periberti di Fabriano, che fu Pontefice con il nome di Leone XII.
Ordinato sacerdote a Roma nel 1783, Annibale fu nominato Vescovo dal Papa Pio VI nel 1794 e successivamente inviato in Germania in qualità di Nunzio Apostolico. Chiusa la parentesi tedesca, in seguito all'esilio di Pio VII, che era succeduto a Pio VI, si ritirò nella sua Genga, nella ridente località di Moncelli, ove intendeva trascorrere il resto della sua vita. Non fu così. Nel marzo 1816 Pio VII lo proclamò Cardinale e sarà proprio lui, nel 1823, a sostituirlo sul trono pontificio. Nel suo breve pontificato (morirà infatti sei anni dopo, nel 1829, all'età di 69 anni) lavorò con spirito sostanzialmente conservatore aprendo la via all'intransigente pontificato di Gregorio XVI. Tentò in effetti di riformare l'amministrazione vaticana, portando a termine la riforma tributaria e promulgò la "Reformatio Tribunalium" che contro l'apparenza agiografica costituì un passo indietro rispetto alle opzioni ed alle scelte dello stesso Pio VII. Riordinò sì le Università del suo Stato con la bolla "Quod divina sapientia", dell'agosto 1824, ma fece ciò per esercitare (come sostenne già il Pizzoli) un controllo dell'istruzione e non a caso si valse "Congregazione degli Studi" onde sorvegliare l'operato dei docenti delle Università che peraltro divise in due classi: alla prima assegnò quelle di Roma e Bologna, con trentotto cattedre; alla seconda quelle di Ferrara, Perugia, Camerino, Macerata e Fermo, con diciassette cattedre). Rivide anche l'"indice dei libri proibiti" e adeguandosi alle indiscutibili quanto assodate verità mscientifiche fece sopprimere dall'elenco alcune opere di Galileo. Definì anche un progetto di riforma delle parrocchie romane, eliminandone 17 e creandone 9 e fissando per i parroci dovessero la stessa percentuale di congrua. Si alimentò comunque in modo quasi irreversibile l'astio di patrioti e carbonari sorattutto perchè sempre nel tra i suoi primi atti pubblici aveva sancito la condanna di tutte le società segrete contribuendo a fomentare un clima di sospetti e un formidabile regime di reazione poliziesca soprattutto in Emilia e Romagna, le regione ritenute più facili ad insurrezioni (non a caso nell'opera dello Scalchi si legge, da parte del plenipotenziario pontificio, il minaccioso monito a "Felsina" cioè Bologna resasi per prima "rea" di insurrezione all'autorità pontificia): dapprima Leone XII provvide in effetti a condannare la massoneria con la bolla "Quo graviora" e poco dopo la carboneria con altra bolla la "Ecclesiam a Jesus Christo fundatam".
Gregorio XVI (Bartolomeo Alberto, poi fra Mauro Cappellari) [Belluno 1765 - Roma 1846], papa (1831-1846). Entrato nel 1783 nel convento dei camaldolesi di San Michele di Murano, ordinato sacerdote nel 1787, pubblicò nel 1799 Il trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori, difesa del potere temporale e dell'infallibilità papale contro febroniani e giansenisti. Chiamato a Roma nel 1814, ricoprì varie cariche e divenne vicario generale dei camaldolesi (1823). Creato da Leone XII cardinale con il titolo di San Callisto (1826) e prefetto di Propaganda Fide, candidato al conclave del 1829, fu eletto papa dopo la morte di Pio VIII, in un lungo conclave (14 dicembre 1830 - 2 febbraio 1831) dominato dagli “zelanti”. All'inizio del suo pontificato sentì il contraccolpo della rivoluzione di luglio in Francia, con le insurrezioni di Bologna, Pesaro, Urbino, Fano, Fossombrone, Sinigaglia e Osimo, che decretarono la fine del potere temporale dei Papi e proclamarono in Bologna lo Statuto costituzionale provvisorio delle province italiane. Ma le armi austriache e i Sanfedisti, a cui il papa ricorse, ristabilirono in breve il potere pontificio. Uomo colto (era un orientalista e un teologo), era però impari al suo compito di sovrano temporale: respinse infatti qualsiasi progetto di ammodernamento delle invecchiate strutture del suo Stato, seguendo una linea di intransigenza antiliberale che stimolò le opposizioni e provocò una serie di torbidi (moti di Romagna del 1843 e 1845, ecc.). Il suo pontificato fu caratterizzato dalla condanna del cattolicesimo liberale del Lamennais (enciclica "Mirari vos", 1832) e delle dottrine del tedesco G. Hermes, sostenitore di un indirizzo teologico a base razionalista (breve del 26 settembre 1835), e da aspri contrasti con alcuni paesi europei (rottura delle relazioni diplomatiche con Spagna e Portogallo per la legislazione anticlericale dei governi di Maria Cristina e Maria da Gloria, 1835- 1840; frizione con la Prussia per la questione dei matrimoni misti; scontro con il governo russo, che mirava a riportare all'ortodossia la chiesa rutena greco-uniate). Gregorio XVI impresse un vivo impulso all'azione missionaria cattolica, specie nell'America del Nord e in Inghilterra. Ricostruì la basilica di S. Paolo fuori le Mura, fondò in Roma l'Orto botanico, il Museo etrusco e una Scuola di agricoltura.
"Mirari vos" (Enciclica di Gregorio XVI)
Non riteniamo che voi vi meravigliate perché, da quando è stato imposto alla Nostra pochezza l’incarico del governo di tutta la Chiesa, non vi abbiamo ancora indirizzato Nostre lettere, secondo la consuetudine introdotta fin dai primi tempi e come la benevolenza Nostra verso di voi avrebbe richiesto. Era questo per la verità uno dei Nostri più vivi desideri: dilatare senza indugio sopra di voi il Nostro cuore, e parlarvi in comunione di spirito con quella voce con la quale nella persona del Beato Pietro fu divinamente ingiunto a Noi di confermare i fratelli (Lc 22,32).
Ma voi ben sapete per quale procella di mali e di calamità fin dai primi momenti del Nostro Pontificato fummo d’improvviso balzati in un mare così tempestoso, che se la destra del Signore non avesse testimoniato la propria virtù, avreste dovuto per la più perversa cospirazione degli empi compiangere il Nostro fatale sommergimento. L’animo rifugge dal rinnovare con l’amara esposizione di tanti infortuni il dolore vivissimo che ne provammo; e piuttosto Ci piace innalzare riconoscenti benedizioni al Padre di ogni consolazione, il quale con la dispersione dei ribelli Ci trasse dall’imminente pericolo e sedata la furiosa tempesta Ci fece respirare. Noi Ci proponemmo immediatamente di comunicarvi le Nostre idee relative al risanamento delle piaghe di Israele: ma la grave mole di cure che sopraggiunse per conciliare il ristabilimento dell’ordine pubblico pose un ostacolo alla realizzazione del Nostro proposito.
Un nuovo motivo per tenerci silenziosi giunse dalla insolenza dei faziosi, che tentarono di alzare nuovamente il vessillo della fellonia. Vero è che, vedendo Noi che la lunga impunità e la costante Nostra benigna indulgenza, anziché ammansire, alimentavano piuttosto lo sfrenato furore dei ribelli, dovemmo infine, sebbene con acerbissimo dispiacere, ricorrere alle armi spirituali (1Cor 4,21) per frenare tanta loro pervicacia, valendoci dell’autorità conferitaci a tal fine da Dio: ma da questo appunto potete agevolmente comprendere quanto più laboriosa e pressante sia resa la Nostra quotidiana sollecitudine.
Ma giunti finalmente, secondo il costume dei Predecessori, a prendere nella Nostra Basilica Lateranense quel possesso che per le citate ragioni avevamo dovuto differire, troncato ogni indugio Ci rivolgiamo sollecitamente a voi, Venerabili Fratelli, e quale testimonianza della Nostra volontà vi indirizziamo questa Lettera fra l’esultanza di questo giorno lietissimo, in cui festeggiamo il trionfo della Vergine Assunta in Cielo, onde Ella, che fra le più dolorose calamità Noi sperimentammo sempre Avvocata e Liberatrice, tale pure Ci assista propizia nello scrivere a voi, e con la sua celeste ispirazione fecondi la Nostra mente di quei consigli che siano sommamente salutari per il gregge cristiano.
Dolenti invero, e col cuore sopraffatto dall’amarezza, veniamo a voi, Venerabili Fratelli, che, atteso il vostro zelo ed il vostro attaccamento alla Religione, ben sappiamo essere sommamente angustiati per l’acerbità dei tempi in cui essa versa miseramente, poiché davvero potremmo dire che questa è l’ora delle tenebre per vagliare come grano i figli di elezione (Lc 22,53). A ragione si può ripetere con Isaia: "Pianse, e la terra avvelenata dai suoi abitanti scomparve, perché avevano mutato il diritto, avevano rotto il patto sempiterno" (Is 24,5).
Venerabili Fratelli, diciamo cose che voi pure avete di continuo sotto i vostri occhi e che deploriamo perciò con pianto comune. Superba tripudia la disonestà, insolente è la scienza, licenziosa la sfrontatezza. Viene disprezzata la santità delle cose sacre: e l’augusta maestà del culto divino, che pur tanto possiede di forza e di necessità sul cuore umano, viene indegnamente contaminata da uomini ribaldi, riprovata, messa a ludibrio. Quindi si stravolge e perverte la sana dottrina, ed errori d’ogni genere si disseminano audacemente. Non leggi sacre, non diritti, non istituzioni, non discipline, anche le più sante, sono al sicuro di fronte all’ardire di costoro, che solo eruttano malvagità dalla sozza loro bocca. Bersaglio di incessanti, durissime vessazioni è fatta questa Nostra Romana Sede del Beatissimo Pietro, nella quale Gesù Cristo stabilì la base della Chiesa; i vincoli dell’unità di giorno in giorno maggiormente s’indeboliscono e si sciolgono. La divina autorità della Chiesa viene contestata e, calpestati i suoi diritti, si vuole assoggettarla a ragioni terrene; con suprema ingiustizia si vuole renderla odiosa ai popoli e ridurla ad ignominiosa servitù. Intanto s’infrange l’obbedienza dovuta ai Vescovi, e viene conculcata la loro autorità. Le Accademie e le Scuole echeggiano orribilmente di mostruose novità di opinioni, con le quali non più segretamente e per vie sotterranee si attacca la Fede cattolica, ma scopertamente e sotto gli occhi di tutti le si muove un’orribile e nefanda guerra. Infatti, corrotti gli animi dei giovani allievi per gl’insegnamenti viziosi e per i pravi esempi dei Precettori, si sono dilatati ampiamente il guasto della Religione ed il funestissimo pervertimento dei costumi. Scosso per tal maniera il freno della santissima Religione, che è la sola sopra cui si reggono saldi i Regni e si mantengono ferme la forza e l’autorità di ogni dominazione, si vedono aumentare la sovversione dell’ordine pubblico, la decadenza dei Principati e il disfacimento di ogni legittima potestà. Ma una congerie così enorme di disavventure si deve in particolare attribuire alla cospirazione di quelle Società nelle quali sembra essersi raccolto, come in sozza sentina, quanto v’ha di sacrilego, di abominevole e di empio nelle eresie e nelle sette più scellerate.
Queste cose, Venerabili Fratelli, ed altre forse più gravi che al presente sarebbe troppo lungo annoverare e che voi ben conoscete Ci addolorano, di un dolore tanto più acerbo e continuo in quanto, posti sulla cattedra del Principe degli Apostoli, Ci sentiamo obbligati a tormentarci più di ogni altro dallo zelo per tutta la Casa di Dio. Ma scorgendoci collocati in una sede ove non basta piangere soltanto queste innumerabili sciagure, ma occorre compiere ogni sforzo per procurarne l’estirpamento, ricorriamo a tal fine al sussidio della vostra Fede, ed eccitiamo la vostra sollecitudine per la salvezza del gregge cattolico, Venerabili Fratelli, la cui specchiata virtù, religione, prudenza ed assiduità Ci danno coraggio, ed in mezzo all’afflizione che Ci cagionano circostanze così disastrose, dolcemente Ci confortano e consolano. È Nostro obbligo, infatti, alzare la voce e tentare ogni prova, perché né il cinghiale della selva devasti la vigna, né i lupi rapaci piombino a fare strage del gregge. A Noi spetta guidare le pecore soltanto a quei pascoli che siano per esse salubri, e scevri d’ogni anche lieve sospetto d’essere dannosi. Dio non voglia, o carissimi, che mentre premono tanti mali e tanti pericoli sovrastano, manchino al proprio ufficio i Pastori che, colpiti da sbigottimento, trascurino le pecore o, deposta la cura del gregge, si abbandonino all’ozio ed alla pigrizia. Trattiamo anzi, perciò, nell’unità dello spirito la comune causa Nostra, o per meglio dire la causa di Dio, e contro i comuni nemici si abbiano per la salute di tutto il popolo la medesima vigilanza in tutti e il medesimo impegno.
Ciò poi adempirete felicemente se, come esige la ragione del vostro incarico, attenderete indefessamente a voi stessi e alla dottrina, richiamando spesso al pensiero che "la Chiesa Universale riceve l’urto di ogni novità" [S. CELESTINO papa, Ep. 21 ad Episc. Galliae] e che, secondo il parere del Pontefice Sant’Agatone, "delle cose che furono regolarmente definite, nessuna dovessi diminuire, nessuna mutare, nessuna aggiungere, ma tali esse debbono essere custodite intatte nelle parole e nei significati" [S. AGATONE papa, Ep. ad Imp.]. Integra rimarrà così la fermezza di quella unità che ha il proprio fondamento e si esprime in questa Cattedra di Pietro, donde appunto derivano su tutte le Chiese i diritti della veneranda comunione e dove tutte "possono rinvenire muro di difesa e sicurezza, porto protetto dai flutti e tesoro d’innumerevoli beni" [S. INNOCENZO papa, Ep. II]. A rintuzzare pertanto la temerità di coloro i quali adoperano tutti i mezzi o per abbattere i diritti di questa Santa Sede, o per sciogliere il rapporto delle Chiese con la stessa (rapporto in forza del quale esse hanno fermezza, solidità e vigore), inculcate il massimo impegno di fedeltà e di venerazione sincera verso la stessa Sede, facendo chiaramente intendere con San Cipriano che "falsamente confida di essere nella Chiesa chi abbandona la Cattedra di Pietro, sopra la quale è fondata la Chiesa" [San CIPRIANO, De unitate Ecclesiae].
A tale obiettivo debbono perciò tendere i vostri travagli, le vostre cure sollecite e l’assidua vostra vigilanza, affinché gelosamente sia custodito il santo deposito della Fede in mezzo all’infernale cospirazione degli empi, che con Nostro estremo cordoglio vediamo intenta a derubarlo e a perderlo. Si ricordino tutti che il giudizio intorno alla sana dottrina da insegnare ai popoli, non meno che il governo ed il giurisdizionale reggimento della Chiesa sono presso il Romano Pontefice, "a cui fu conferita da Gesù Cristo la piena potestà di pascere, reggere e governare la Chiesa universale" [CONC. FLOR., sess. 25] come dichiararono solennemente i Padri del Concilio di Firenze . È poi obbligo di ogni Vescovo tenersi fedelissimamente attaccato alla cattedra di Pietro, custodire santamente e scrupolosamente il deposito della Fede, e pascere il gregge di Dio affidatogli. I Sacerdoti debbono stare soggetti ai Vescovi i quali, avverte San Girolamo [S. GIROLAMO, Ep. 2 ad Nepot. a. I, 24], devono essere considerati dagli stessi come "padri della loro anima": né si dimentichino mai che anche dagli antichi Canoni è loro vietato d’intraprendere azione alcuna nel sacro Ministero, e di assumersi l’ufficio d’insegnare e di predicare "senza il consenso del Vescovo a cui il popolo fu affidato ed al quale si domanderà conto delle anime"[Ex can. ap. 38]. Infine si tenga presente quale regola certa e sicura che tutti coloro che osassero macchinare qualche cosa contro questo ordine così stabilito perturberebbero lo stato della Chiesa.
Sarebbe poi cosa troppo nefanda ed assolutamente aliena da quell’affetto di venerazione con cui si debbono rispettare le leggi della Chiesa, il lasciarsi trasportare da forsennata mania di opinare a capriccio, permettendo a qualcuno di disapprovare, o di accusare come contraria a certi principi di diritto di natura, o di dire manchevole e imperfetta e dipendente dalla civile autorità quella sacra disciplina che la Chiesa fissò per l’esercizio del culto divino, per la direzione dei costumi, per la prescrizione dei suoi diritti, e per il gerarchico regolamento dei suoi Ministri.
Essendo inoltre massima irrefragabile, per valerci delle parole dei Padri Tridentini, che "la Chiesa fu erudita da Gesù Cristo e dai suoi Apostoli, e che viene ammaestrata dallo Spirito Santo, il quale di giorno in giorno le suggerisce ogni verità" , appare chiaramente assurdo ed oltremodo ingiurioso per la Chiesa proporsi una certa "restaurazione e rigenerazione", come necessaria per provvedere alla sua salvezza ed al suo incremento, quasi che la si potesse ritenere soggetta a difetto, o ad oscuramento o ad altri inconvenienti di simil genere: tutte macchinazioni e trame dirette dai novatori al malaugurato loro fine di gettare le "fondamenta di un recente umano stabilimento" onde avvenga quello che era tanto condannato da San Cipriano, "che la Chiesa divenisse cosa umana" [S. CIPRIANO, Ep. 52], quando, al contrario, è cosa tutta divina . Ma coloro che vanno meditando siffatti disegni considerino che per testimonianza di San Leone, al solo Romano Pontefice "è affidata la disciplina dei Canoni" e che a lui solo appartiene, e non a privato uomo chicchessia, i1 definire sulle regole "delle paterne sanzioni", e, come scrive San Gelasio [S. GELASIO, papa, Ep. ad Episcopum Lucaniae] "bilanciare in tal maniera i decreti dei Canoni e commisurare in tal modo i precetti dei Predecessori: dopo diligenti riflessioni si dia un conveniente temperamento a quelle cose che la necessità dei tempi richiede di dover moderare prudentemente per il bene delle Chiese".
E qui vogliamo eccitare sempre più la vostra costanza a favore della Religione, affinché vi opponiate all’immonda congiura contro il celibato clericale: congiura che, come sapete, si accende ogni dì più estesamente, unendo ai tentativi dei più sciagurati filosofi dell’età nostra anche alcuni dello stesso ceto ecclesiastico: di persone che, dimentiche della loro dignità e del loro ministero, trascinate dal lusinghiero torrente delle voluttà, proruppero in tale eccesso di licenziosa impudenza che non ristettero dal presentare in più luoghi pubbliche reiterate domande ai Governi, onde venisse abrogato ed annientato questo santissimo punto di disciplina. Ma troppo C’incresce di trattenervi lungamente sopra questi turpi attentati, e piuttosto con fiducia incarichiamo la religione vostra affinché impieghiate ogni vostro zelo per mantenere sempre, secondo quanto prescritto dai Sacri Canoni, intatta, custodita, ferma e difesa una legge di tanto rilievo, contro la quale da ogni parte si scagliano gli strali degli impudichi.
Inoltre, l’onorando matrimonio dei Cristiani esige le Nostre comuni premure affinché in esso, chiamato da San Paolo "Sacramento grande in Cristo e nella Chiesa" (Eb 13,4), nulla s’introduca o si tenti introdurre di meno onesto che sia contrario alla sua santità o leda l’indissolubilità del suo vincolo. Vi aveva già raccomandato insistentemente questo nelle sue lettere il Nostro Predecessore Pio VIII di felice memoria: ma continuano a moltiplicarsi tuttavia contro di esso gli attentati dell’empietà. È perciò necessario istruire accuratamente i popoli che il matrimonio, una volta legittimamente contratto, non può più sciogliersi, e che Dio ha ingiunto ai coniugati una perpetua unione di vita ed un tal legame che solo con la morte può rompersi. Rammentando che il matrimonio si annovera fra le cose sacre, e che per questo è soggetto alla Chiesa, essi abbiano di continuo presenti le leggi da questa stabilite in materia, e quelle adempiano santamente ed esattamente come prescrizioni, dalla cui osservanza fedele dipendono la forza, la validità e la giustizia del medesimo. Si astenga ognuno dal commettere per qualsivoglia motivo atti che siano contrari alle canoniche disposizioni e ai decreti dei Concilii che lo riguardano, ben conoscendosi che esito infelicissimo sogliono avere quei matrimoni che o contro la disciplina della Chiesa o senza che sia stata implorata prima la benedizione del Cielo, o per solo bollore di cieca passione vengono celebrati senza che gli sposi si prendano alcun pensiero della santità del Sacramento e dei misteri che vi si nascondono.
Veniamo ora ad un’altra sorgente trabocchevole dei mali, da cui piangiamo afflitta presentemente la Chiesa: vogliamo dire l’indifferentismo, ossia quella perversa opinione che per fraudolenta opera degl’increduli si dilatò in ogni parte, e secondo la quale si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto. Ma a voi non sarà malagevole cosa allontanare dai popoli affidati alla vostra cura un errore così pestilenziale intorno ad una cosa chiara ed evidentissima, senza contrasto. Poiché è affermato dall’Apostolo che esiste "un solo Iddio, una sola Fede, un solo Battesimo" (Ef 4,5), temano coloro i quali sognano che veleggiando sotto bandiera di qualunque Religione possa egualmente approdarsi al porto dell’eterna felicità, e considerino che per testimonianza dello stesso Salvatore "essi sono contro Cristo, perché non sono con Cristo" (Lc 11,23), e che sventuratamente disperdono solo perché con lui non raccolgono; quindi "senza dubbio periranno in eterno se non tengono la Fede cattolica, e questa non conservino intera ed inviolata" [Symbol. S. Athanasii]. Ascoltino San Girolamo il quale - trovandosi la Chiesa divisa in tre parti a causa dello scisma - racconta che, tenace come egli era del santo proposito, quando qualcuno cercava di attirarlo al suo partito, egli rispondeva costantemente ad alta voce: "Chi sta unito alla Cattedra di Pietro, quegli è mio" [S. GIROLAMO, Ep. 58]. A torto poi qualcuno, fra coloro che alla Chiesa non sono congiunti, oserebbe trarre ragione di tranquillizzante lusinga per essere anche lui rigenerato nell’acqua di salute; poiché gli risponderebbe opportunamente Sant’Agostino: "Anche il ramoscello reciso dalla vite ha la stessa forma, ma che gli giova la forma se non vive della radice?"[S. AGOSTINO, Salmo contro part. Donat.].
Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione. "Ma qual morte peggiore può darsi all’anima della libertà dell’errore?" esclamava Sant’Agostino [Ep. 166]. Tolto infatti ogni freno che tenga nelle vie della verità gli uomini già diretti al precipizio per la natura inclinata al male, potremmo dire con verità essersi aperto il "pozzo d’abisso" (Ap 9,3), dal quale San Giovanni vide salire tal fumo che il sole ne rimase oscurato, uscendone locuste innumerabili a devastare la terra. Conseguentemente si determina il cambiamento degli spiriti, la depravazione della gioventù, il disprezzo nel popolo delle cose sacre e delle leggi più sante: in una parola, la peste della società più di ogni altra esiziale, mentre l’esperienza di tutti i secoli, fin dalla più remota antichità, dimostra luminosamente che città fiorentissime per opulenza, potere e gloria per questo solo disordine, cioè per una eccessiva libertà di opinioni, per la licenza delle conventicole, per la smania di novità andarono infelicemente in rovina.
A questo fine è diretta quella pessima, né mai abbastanza esecrata ed aborrita "libertà della stampa" nel divulgare scritti di qualunque genere; libertà che taluni osano invocare e promuovere con tanto clamore. Inorridiamo, Venerabili Fratelli, nell’osservare quale stravaganza di dottrine ci opprime o, piuttosto, quale portentosa mostruosità di errori si spargono e disseminano per ogni dove con quella sterminata moltitudine di libri, di opuscoli e di scritti, piccoli certamente di mole, ma grandissimi per malizia, dai quali vediamo con le lacrime agli occhi uscire la maledizione ad inondare tutta la faccia della terra. Eppure (ahi, doloroso riflesso!) vi sono taluni che giungono alla sfrontatezza di asserire con insultante protervia che questo inondamento di errori è più che abbondantemente compensato da qualche opera che in mezzo a tanta tempesta di pravità si mette in luce per difesa della Religione e della verità. Nefanda cosa è certamente, e da ogni legge riprovata, compiere a bella posta un male certo e più grave, perché vi è lusinga di poterne trarre qualche bene. Ma potrà mai dirsi da chi sia sano di mente che si debba liberamente ed in pubblico spargere, vendere, trasportare, anzi tracannare ancora il veleno, perché esiste un certo rimedio, usando il quale avviene che qualcuno scampa alla morte?
Ma assai ben diverso fu il sistema adoperato dalla Chiesa per sterminare la peste dei libri cattivi fin dall’età degli Apostoli, i quali, come leggiamo, hanno consegnato alle fiamme pubblicamente grande quantità di tali libri (At 19,19). Basti leggere le disposizioni date a tale proposito nel Concilio Lateranense V, e la Costituzione che pubblicò Leone X di felice memoria, Nostro Predecessore, appunto perché "quella stampa che fu salutarmente scoperta per l’aumento della Fede e per la propagazione delle buone arti, non venisse rivolta a fini contrari e recasse danno e pregiudizio alla salute dei fedeli di Cristo" [Act. Conc. Lateran. V, sess. 10]. Ciò stette parimenti a cuore dei Padri Tridentini al punto che per applicare opportuno rimedio ad un inconveniente così dannoso, emisero quell’utilissimo decreto sulla formazione dell’Indice dei libri nei quali fossero contenute malsane dottrine [CONC. TRID., sess. 18 e 25]. Clemente XIII, Nostro Predecessore di felice memoria, nella sua enciclica sulla proscrizione dei libri nocivi afferma che "si deve lottare accanitamente, come richiede la circostanza stessa, con tutte le forze, al fine di estirpare la mortifera peste dei libri; non potrà infatti essere eliminata la materia dell’errore fino a quando gli elementi impuri di pravità non periscano bruciati" [Christianae reipublicae, 25 novembre 1766]. Pertanto, per tale costante sollecitudine con la quale in tutti i tempi questa Sede Apostolica si adoperò sempre di condannare i libri pravi e sospetti, e di strapparli di mano ai fedeli, si rende assai palese quanto falsa, temeraria ed oltraggiosa alla stessa Sede Apostolica, nonché foriera di sommi mali per il popolo cristiano sia la dottrina di coloro i quali non solo rigettano come grave ed eccessivamente onerosa la censura dei libri, ma giungono a tal punto di malignità che la dichiarano perfino aborrente dai principi del retto diritto e osano negare alla Chiesa l’autorità di ordinarla e di eseguirla.
Avendo poi rilevato da parecchi scritti che circolano fra le mani di tutti propagarsi certe dottrine tendenti a far crollare la fedeltà e la sommissione dovuta ai Principi, e ad accendere ovunque le torce della guerra, vi esortiamo ad essere sommamente guardinghi, affinché i popoli, a seguito di tale seduzione, non si lascino miseramente rimuovere dal diritto sentiero. Riflettano tutti che, secondo l’ammonimento dell’Apostolo, "non vi è potere se non da Dio, e le cose che sono furono ordinate da Dio. Perciò chi resiste al potere, resiste all’ordinamento di Dio, e coloro che resistono si procurano da se stessi la condanna" (Rm 3,2). Il divino e l’umano diritto gridano contro coloro i quali, con infamissime trame e con macchinazioni di ostilità e di sedizioni impiegano i loro sforzi nel mancare di fede ai Principi, ed a cacciarli dal trono.
Fu appunto per non contaminarsi di tanto obbrobrioso delitto che gli antichi Cristiani, pur nel bollore delle persecuzioni, sempre bene meritarono degl’Imperatori e della salvezza dell’Impero, adoperandosi con fedeltà nell’adempiere esattamente e prontamente quanto veniva loro comandato che non fosse contrario alla Religione: impegnandosi con costanza ed anche con il sangue abbondantemente sparso in battaglie per essi. "I soldati cristiani - afferma Sant’Agostino - servirono l’Imperatore infedele; quando si toccava la causa di Cristo, non conoscevano che Colui che è nei Cieli. Distinguevano il Signore eterno dal Signore temporale, tuttavia proprio per il Signore eterno ubbidivano quali sudditi anche al Signore terreno" [Salmo 124, n. 7]. Tali argomenti aveva sotto gli occhi l’invitto martire San Maurizio, capo della Legione Tebana, allorché - come riferisce Sant’Eucherio - così rispose all’Imperatore: "Imperatore, noi siamo tuoi soldati, però siamo al tempo stesso servi di Dio, e lo confessiamo liberamente... Eppure, neanche questa stessa dura necessità di serbare la vita ci spinge alla ribellione: ecco, abbiamo le armi, eppure non facciamo resistenza, perché reputiamo sorte migliore il morire che l’uccidere" [S. EUCHERIO, apud Ruinart, Act. SS. MM. de SS. Maurit. et Soc., n. 4]. Tale fedeltà degli antichi Cristiani verso i loro Principi risplende anche più luminosa se si riflette con Tertulliano che a quei tempi "non mancava ai Cristiani gran numero di armi e di armati se avessero voluto farla da nemici dichiarati. Siamo usciti da poco all’esterno, egli dice agli Imperatori, e già abbiamo riempito ogni vostro luogo, le città, le isole, i castelli, i municipi, le adunanze, gli accampamenti stessi, le tribù, le curie, il palazzo, il senato, il foro... A qual guerra non saremmo stati idonei e pronti, quando pure fossimo inferiori di numero, noi che ci lasciamo trucidare tanto volonterosamente, se dalla nostra disciplina non fosse permesso più il lasciarsi uccidere che l’uccidere? Se tanta moltitudine di persone, quale noi siamo, allontanandosi da voi, si fosse rifugiata in qualche remotissimo angolo dell’orbe, avrebbe certamente recato vergogna alla vostra potenza la perdita di tanti cittadini, quali che fossero; anzi l’avrebbe punita con lo stesso abbandono. Senza dubbio vi sareste sbigottiti di fronte a tale solitudine... e avreste cercato a chi poter comandare: vi sarebbero rimasti più nemici che cittadini, mentre ora avete minor numero di nemici, tenuto conto della moltitudine dei Cristiani" [TERTULLIANO, Apologet., cap. 37].
Esempi così luminosi d’inalterabile sommissione ai Principi, che necessariamente derivavano dai santissimi precetti della Religione Cristiana, condannano altamente la detestabile insolenza e slealtà di coloro che, accesi dall’insana e sfrenata brama di una libertà senza ritegno, sono totalmente rivolti a manomettere, anzi a svellere qualunque diritto del Principato, onde poscia recare ai popoli, sotto colore di libertà, il più duro servaggio. A questo scopo per verità cospirarono gli scellerati deliri e i disegni dei Valdesi, dei Beguardi, dei Wiclefiti e di altri simili figli di Belial, che furono l’ignominia e la feccia dell’uman genere, meritamente perciò tante volte colpiti dagli anatemi di questa Sede Apostolica. Né certamente per altro motivo codesti pensatori moderni sviluppano le loro forze, se non perché possano menar festa e trionfo con Lutero, e compiacersi con lui di "essere liberi da tutti", disposti perciò decisamente ad accingersi a qualunque più riprovevole impresa per giungere con più facilità e speditezza a conseguire l’intento.
Né più lieti successi potremmo presagire per la Religione ed il Principato dai voti di coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno, e troncata la mutua concordia dell’Impero col Sacerdozio. È troppo chiaro che dagli amatori d’una impudentissima libertà si teme quella concordia che fu sempre fausta e salutare al governo sacro e civile.
Ma a tante e così amare cause che Ci tengono solleciti e nel comune pericolo Ci crucciano con dolore singolare, si unirono certe associazioni e determinate aggregazioni nelle quali, fatta lega con gente d’ogni religione, anche falsa e di estraneo culto, si predica libertà d’ogni genere, si suscitano turbolenze contro il sacro e il civile potere, e si conculca ogni più veneranda autorità, sotto lo specioso pretesto di pietà e di attaccamento alla religione, ma con mira in fatto di promuovere ovunque novità e sedizioni.
Queste cose, Venerabili Fratelli, con animo dolentissimo, ma pieni di fiducia in Colui che comanda ai venti e porta la tranquillità, vi abbiamo scritto affinché, impugnato lo scudo della Fede, seguitiate animosi a combattere le battaglie del Signore. A voi sopra ogni altro compete stare qual muro saldo di fronte ad ogni superba potenza che si voglia alzare contro la scienza di Dio. Da voi si brandisca la spada dello Spirito, che è la parola di Dio, e siano da voi provveduti di pane coloro che hanno fame di giustizia. Chiamati ad essere coltivatori industriosi nella vigna del Signore, occupatevi di questo solo, e a questo solo volgete le comuni vostre fatiche: cioè che ogni radice di amarezza sia divelta dal campo a voi assegnato e, spento ogni seme vizioso, cresca in esso, abbondante e rigogliosa, la messe delle virtù. Abbracciando con paterno affetto coloro che si applicano agli studi filosofici, e più ancora alle sacre discipline, inculcate loro premurosamente che si guardino dal fidarsi delle sole forze del proprio ingegno per non lasciare il sentiero della verità e prendere imprudentemente quello degli empi. Si ricordino che Dio "è il duce della sapienza e il perfezionatore dei sapienti" (Sap 7,15), e che non può mai avvenire che senza Dio conosciamo Dio, il quale per mezzo del Verbo insegna agli uomini a conoscere Dio [S. IRENEO, lib. 14, cap. 10]. È proprio del superbo, o piuttosto dello stolto, il volere pesare sulle umane bilance i misteri della Fede, che superano ogni nostra possibilità, e fidare sulla ragione della nostra mente, che per la condizione stessa della umana natura è troppo fiacca e malata.
Per il resto, i Nostri carissimi figli in Cristo, i Principi, assecondino questi comuni voti - per il bene della Chiesa e dello Stato - con il loro aiuto e con quell’autorità che devono considerare conferita loro non solo per il governo delle cose terrene, ma in modo speciale per sostenere la Chiesa. Riflettano diligentemente su quanto deve essere fatto per la tranquillità dei loro Imperi e per la salvezza della Chiesa; si persuadano anzi che devono avere più a cuore la causa della Fede che quella del Regno, come ripetiamo con il Pontefice San Leone: "Al loro diadema per mano del Signore si aggiunga anche la corona della Fede". Posti quasi come padri e tutori dei popoli, procureranno a questi quiete e tranquillità vera, costante e doviziosa, particolarmente se si adopreranno a far fiorire tra essi la Religione e la pietà verso Dio, il quale porta scritto nel femore: "Re dei Re, e Signore dei Signori".
Ma per impetrare successi così prosperi e felici, solleviamo supplichevoli gli sguardi e le mani verso la Santissima Vergine Maria, la quale sola vinse tutte le eresie, ed è la massima Nostra fiducia, anzi la ragione tutta della Nostra speranza . Ella, la grande Avvocata, col suo patrocinio, in mezzo a tanti bisogni del gregge cristiano, implori benigna un esito fortunatissimo a favore dei Nostri propositi, sforzi ed azioni. Tanto con umile preghiera domandiamo ancora al Principe degli Apostoli San Pietro e al suo Co-Apostolo San Paolo, affinché rimaniate tutti saldi come solido muro, e non si ponga altro fondamento diverso da quello che fu già posto. Animati da questa serena speranza, confidiamo che l’Autore e il Perfezionatore della Fede Gesù Cristo consolerà finalmente noi tutti nelle tribolazioni che troppo ci tengono bersagliati. Intanto, foriera ed àuspice del celeste soccorso, a voi, Venerabili Fratelli, e a tutte le pecore affidate alla vostra cura impartiamo affettuosamente l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 15 agosto, giorno solenne dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, dell’anno 1832, anno secondo del Nostro Pontificato.