Come si evince dal titolo stesso, questo contributo ha una giustificazione epocale che trae la sua ragion d'essere proprio nel XVII secolo, quel secolo del barocco che, per alcuni aspetti, si può definire centripeto rispetto alla sequenza delle riflessioni che seguiranno.
Nelle celebrazioni in essere, la fine del Millennio è collegata facilmente alle sanzioni spirituali del Giubileo cattolico sì che per una specie di sinergia i due straordinari momenti sembrano speculari.
Ciò non è, o perlomeno non è compiutamente nella sostanza storica.
E parimenti il Giubileo non può essere soltanto la replicazione cerimoniosa, ed a volte persino stereotipata, di quelle grandi manifestazioni di fede che furono, soprattutto fra '200 e '300, i Pellegrinaggi nei Luoghi Santi, Roma, Gerusalemme o S.Giacomo di Compostela che fossero.
Il Giubileo deve essere il pensamento critico di tutto un complesso di atteggiamenti fideistici, un complesso di cui il Pellegrinaggio votivo costituì davvero momento storico-culturale eclatante ma -e questo è importante- non fu l'attimo conclusivo ed estremo in cui si esaurirono tutte le sublimazioni del cattolicesimo.
E pur riducendo l'indagine critica alle espressioni popolari di fede si nota quasi subito -seppur dopo una lettura non superficiale- che nemmeno queste manifestazioni di peregrinazione votiva possono essere ricondotte alla sola cifra del "Viaggio ai Luoghi cardine della Cristianità".
Il Pellegrinaggio votivo fu un fenomeno variamente sfaccettato che assunse indubbiamente coloriture straordinarie in occasione degli eventi giubilari e nel contesto storico di grandi vittorie -anche storico-politiche oltre che spirituali- della Cristianità ma che tuttavia seguì una variabile tanto estesa di espressioni formali e sostanziali che sarebbe improprio ed anche ingiusto costringerle tutte nello spazio ecumenico del "Viaggio Santo".
Per certi aspetti, in Liguria, proprio il '600 -travolto da grandi paure collettive -per la peste, per le invasioni dei pirati turcheschi, per le guerre rovinose e le tante carestie- risultò al centro di questa diversa valutazione del pellegrinaggio.
Nel XVII secolo -nel Ponente ligure come in tante altre contrade italiane- si assistette per esempio ad una nuova intitolazione di antiche chiese: di modo che spesso un S.Rocco -protettore delle genti contro la peste e le epidemie- finì per surrogare patroni di più antica tradizione come S.Vincenzo.
Allo stessa maniera un S.Giacomo -in parte taumaturgo ed in parte culturalmente connesso alla nuova cultura del pellegrinaggio- sostituì, nella nominazione di alcuni edifici di culto, il "vecchio" S. Cristoforo che pure, come protettore dei viandanti e, a suo tempo, dei cavalieri Templari "custodi" degli stessi viandanti, aveva avuto un sostanziale "momento di gloria" sì da conferire patronato ad ospizi, chiese e "cappelle di via", cioè ai fattori strumentali e in qualche modo trainanti, perchè assolutamente necessari, del complesso apparato dei grandi viaggi nella sacralità.
Similmente nel '600 sorsero molti santuari, mariani e non, nel contesto di una diversa tradizione votiva processionale.
Senza che il viaggio estremo, quello in Terrasanta, perdesse la sua funzione carismatica e significante, dal '600 la Peregrinatio fidei
fu restituita, anche per evidenti ragioni storiche, a quella dimensione primigenia, formale ed effettuale, che era diventata in apparenza una variante.
Il "grande viaggio della fede" era stato un fenomeno epocale, storicamente iscritto ai registri storici del XIII-XIV secolo: esso non inaugurava però una peculiare espressione religiosa.
Antecedentemente, all'epoca della civiltà medievale e curtense, quella degli spazi chiusi e degli scambi interrotti, la manifestazione coreografica della fede non aveva affatto ignorata la cifra della Peregrinatio.
Questa però era mediamente orchestrata, da secoli, sulla topografia angusta della villa e della pieve, della chiesa di valle a fronte dell'impianto demico, del sito sacrale, eretto in qualche modo a santuario, cui era attribuita una particolare valenza.
Molto spesso questo pellegrinaggio locale spaziava su minime aree geografiche e tante volte era finalizzato a scopi non così altamente spirituali come avrebbe poi suggerito la filosofia del "Viaggio di fede" dal XIII secolo.
Era però un pellegrinaggio -per così dire- alla portata di tutti, a tal punto ramificato da non lasciare, a volte, tracce architettoniche o documentarie.
Esso avveniva da sempre e per sempre sarebbe avvenuto.
In uno dei casi più emblematici si trattava dei "Pellegrinaggi di fede per la guarigione".
Essi avvenivano da epoche lontane -erano nati ancor prima dei vagiti della civiltà cristiana- ma da questa tali esperienze religiose acquisirono una dimensione organica ed una motivazione catechistica che finivano per interpretare a livelli superiori la primaria esperienza taumaturgica.
I "Pellegrinaggi per la guarigione", così intimamente collegati alla tradizione culturale italiana, sono stati abbastanza relegati nel limbo del secondario dalla asfissiante ricerca dei grandi percorsi del sacro.
Eppure quella stessa sacralità che esternavano i "Pellegrini di Terrsanta" -come genericamente si definivano i viandanti di fede del '200 anche se avevano per meta, ad esempio, la sola Roma- era propria, per secolari vicissitudini, del credo dei "Pellegrinaggi della guarigione".
Per quanto possa sembrare strano l'iridescente barocco costituì una fucina di recupero istituzionale di questa sorta di micropellegrinaggi di fede.
Dopo la definitiva perdita della Palestina -e quindi di tutto l'Oriente- saldamente in mano all'Islam ed ai Turchi, il "Pellegrinaggio verso la Terrasanta" decadde a fenomeno di recupero archeologico o a sublimazione mistica di poche esperienze elette, talora guidate da drammatica visione missionaria.
Il tornare in Europa, soprattutto nell'Europa cattolica e mediterranea, di peste e invasori islamici -espressioni storiche esorcizzate nella fantasia parareligiosa sin ai limiti della premonizione apocalittica- rinvigorì contestualmente la ricerca di approdi facili, di santuari prossimi ai borghi abitati, lontani da terre deserte ed abitate da predoni.
Spaventata -giustamente- e titubante difronte ad eventi impensati nel medioevo -come lo scisma luterano- la popolazione, specie nelle sue frange più semplici, scoprì o meglio incentivò le mai dismesse espressioni di "Pellegrinaggio per lo star bene ed il guarire".
Ed ecco allora in tutto il Ponente ligure quel trionfante spettacolo di frequentazione popolare di quelle chiese, cappelle e santuari a volte costruiti ex novo ma spesso eretti su siti in cui la tradizione -si dica pure una tradizione che affondava in vari aspetti delle antiche fedi precristiane- aveva individuato la persistenza di aree sacrali taumaturgiche o apotropaiche.
Il brillante Giovanni Meriana, autore dei migliori e più estesi contributi sui "Santuari Liguri"(1) ha anche affrontato il tema di quelli connessi all'acqua lustrale e taumaturgica.
All'interno delle specifiche storie di numerosi santuari liguri lo studioso ha poi costruito uno schema interpretativo che lo ha appunto guidato -in sintonia con parecchi altri studiosi- a progettare un meccanismo di interazioni fra i siti eletti onde erigervi edifici cristiani ed i relitti, mai sopiti, di una spiritualità pagana connessa al culto dei boschi e dei luci, delle zone solitarie e rocciose, soprattutto di quelle "fonti terapeutiche" che ai tempi dell'Impero romano, pur essendo un prestito della religione celtica delle Matres, costituivano una vigorosa alternativa, di forte ascendenza popolare, alla molle religione di stato. (2)
Il Meriana sempre lucidissimo, sulla soglia di un'affermazione quasi scontata, l'ha poi, con sorpresa di chi legge, demotivata quasi di colpo, determinando -con un procedimento linguistico e logico che recupera le procedure dalla fisica e dalla chimica- un'accelerazione dell'entropia.
Non entro nelle ragioni dello studioso, di cui non sembrano mai disconoscibili nè la competenza nè la serietà.
Credo tuttavia che non sia irrilegioso affermare quanto è tradizionalmente sostenuto dall'etnologia comparata: non penso che coniugare col cristianesimo delle origini una lotta al paganesimo che spesso fu sconsacrazione nell'apostolato ma che finì per essere anche assimilazione nella liturgia risulti blasfemo.
Senza ricorrere al magistero di Gregorio Penco (3) una semplice indagine comparativa che proceda da Gregorio Magno ai movimenti monastici benedettini e giunga sin al XII-XIII secolo suggerisce su un piano geografico estesissimo le sovrapposizioni cultuali di fatto documentabili fra stazioni pagane ed aree religiose cristiane: e di ciò si son fatti carico -con esauriente documentazione- vari studiosi moderni(4).
Peraltro lo stesso Meriana nel passo citato elenca con intelligente minuzia quei santuari che a suo dire potrebbero esser stati connessi con una sottile continuità dell'universale religione delle acque.
E metodicamente elenca, nel genovesato, i santuari dell'Acquasanta di Voltri, della Madonna dell'Acqua in Valbrevenna, delle Tre Fontane di Montoggio, della chiesa di Apparizione, a N.S. del Bosco a Lumarzo,a Montallegro.
Cita quindi nell'area di La Spezia, Nostra Signora dell'Acquasanta a Marola e quindi nel savonese segnala la Madonna della Misericordia ed il santuario del Deserto.
Per quanto poi concerne il Ponente ligure menziona ancora Nostra Signora della Neve a Triora, la Madonna dell'Acquasanta a Dolcedo, la Madonna dei Fanghi a Pieve di Teco ed inoltre Nostra Signora dell'Acquasanta a Montalto Ligure.
Rassegna che sarebbe stata interessante e utile per sorreggere l'assunto che il Meriana non ha poi fatto suo.
Assunto che peraltro avrebbe tratto ulteriore energia da una ancor più esaustiva inchiesta sul Ponente estremo di Liguria tenendo conto, per esempio, che il Santuario di Nostra Signora delle Grazie ad Isolabona fu storicamente connesso alla fruizione d'una fonte termale, detta "Gonteri", che l'Assunta di Castelvittorio di val Nervia fu chiesa romanica benedettina eretta ad Lacum Putidum nei pressi d'una base termale in cui si riconobbero evidenti tracce di frequentazione cultuale romana, che ancora la "chiesa della Rota" -parte sostanziale dell'annesso ospedale per pellegrini del XIII secolo- fu edificata non lungi da un'altra meno nota fonte termale (5).
Tutto ciò senza menzionare altri casi evidenti del Ponente Ligure: e tenendo sempre fermo il rilevante significato di continuità cultuale tra mondo celto-ligure fortemente romanizzato ed ambiente cristiano-medievale che, come ha dimostrato padre Avena Benoit, in vari modi -anche sotto il profilo archeologico- si legge, neppur lontano dal terminale di val Nervia, nella chiesa brigasca di Nostra Signora delle Fontane(6).
Sulla linea di un riconoscimento -fortunatamente effettuale ai giorni nostri- di quella spiritualità metastorica che si coniuga con un anelito sostanziale verso il divino, non sembra affatto irriverente ammettere che, nell'interminabile succedersi di culture e tradizioni spirituali, nella coreografia cristiano-cattolica ligure siano filtrate innocue positure delle religioni preesistenti.
Del resto in vari casi quegli edifici religiosi erano accompagnati da un ospizio, da un elementare luogo di cura.
Sarebbe davvero risultato illogico ed impopolare che la gerarchia ecclesiastica negasse all'opinione pubblica quanto era bagaglio di una tradizione che comunque non nuoceva, del buon senso e soprattutto di un'elementare, ma solida, tradizione curativa popolare: che cioè fosse vantaggioso curarsi con acque cui, peraltro, indagini biochimiche contemporanee -come nel caso della fonte ad Lacum Putidum- hanno riconosciuto sostanziali potenzialità terapeutiche.
Eludendo comunque queste dissertazioni sulla genesi di siffatte chiese -disquisizioni che corrono troppo spesso il rischio d'apparire inutili esercizi d'ermeneutica- è sostanziale il fatto -confortato da indagine storica ed approfondamento etnografico- che la cultura popolare e una ritualità cattolica fortemente marcata di folklore, nei secoli scorsi, hanno individuato in tali luoghi di culto dei veri e propri "Santuari della guarigione".
E questo -in modo eclatante- si scopre specialmente nel XVII secolo, tanto nella rivisitazione architettonica delle chiese che del loro significato ideologico e spirituale: basti per ciò l'esempio di "Nostra Signora della Muta di Dolceacqua", già parte di una struttura conventuale benedettina di matrice novaliciense, nel XVII secolo trasformata dagli Agostiniani, cui ne era passato il controllo, in un "Santuario della guarigione" collegato ad una miracolosa sorgente terapeutica di cui avanzano tuttora resti significativi (vedi I SCHEDA CRITICA a fine del presente saggio).
Queste chiese e santuari, che vivevano in simbiosi con sorgenti ed acque termali, erano e, in parte sono, "segni della fede" eretti, ampliati, abbelliti, ornati di ex voto in concomitanza con grandi manifestazioni patologiche, soprattutto con le due principali cause storiche di panico e mortalità di massa: la peste bubbonica per quanto concerne il periodo che va dal XIV al XVII secolo ed il colera relativamente al XVIII e XIX secolo.
Nella continuazione di questo lavoro -sul prossimo numero- pubblicando (con le dovute integrazioni critiche) il manoscritto inedito di un medico-ricercatore operante tra Ventimiglia e Perinaldo a cavallo del '700 e del primo '800 si avrà direttamente occasione di leggere il peso attribuito dalla scienza di quel tempo ad una pur elementare idroterapia.
Era una forma di cura che la povera gente poteva esercitare quasi soltanto presso questi luoghi di culto.
Ben sapendo quanto fosse importante per difendersi dal colera bere (e comunque utilizzare per vari scopi, comprese le abluzioni) acqua pura come quella che sgorgava presso le fonti di siffatte chiese, è ben evidente -come si evince dalla lettura del manoscritto appena citato- che davvero, non solo secondo l'opinione della gente comune ma anche per il giudizio di medici ancora in possesso di armi limitate contro il colera, quelle chiese meritassero, alternativamente, gli appellativi di "Santuari della guarigione" e di "Segni della fede".
Per quanto possa sembrare prosaico, ci perdoni il Meriana che ha spesso slanci di autentica spiritualità e d'un invidiabile convincimento, le processioni a siffatti simulacri della speranza erano periodicamente sancite da grandi tributi d'affetto orchestrati sì dalla liturgia ma in massima parte permeati di umanissimo pragmatismo: la ricerca dell'estremo bene terreno, il "guarire" o, comunque, lo "stare in apprezzabile salute".
Anche se, per postazione ideologica e pregiudizio intellettuale, piace talora illudersi su straordinari, collettivi slanci esclusivamente fideistici, la massa fu mediamente spinta, come in minor misura lo è tuttora, a questi pellegrinaggi verso "Santuari della guarigione" dalla giustificata, compassionevole volontà di guarire o comunque dissipare da sè o dal corpo dei propri cari il lugubre "segno della morte": e per guarire bisognava sì credere e pregare, ma non bastava, bisognava soprattutto bere l'"acqua miracolosa" dei "Santuari della guarigione"(7).
I SEGNI DELLA MORTE
Ogni epoca ha avuto i suoi "Segni della fede", i fari di quella speranza, che è poi parte ineliminabile della fede.
Purtroppo ogni epoca -anche la nostra- ha avuto -ed ha- i suoi "Segni di morte": a volte sono risultati degni di bolge dantesche, con l'accumulo di cadaveri putrescenti e insepolti, in altre circostanze son stati pietosamente mascherati in qualche appassita bellezza, come nel caso della madre di Lucia, la bimba falciata dalla peste nei Promessi Sposi.
La sostanza non cambia: piccoli o grandi che fossero quei "Segni di morte" portavano alla disperazione, alla follia delle coscienze.
Contro di essi si poteva combattere solo appellandosi, quando i medici -come quasi sempre accadeva- erano impotenti, a un simulacro da venerare, a un'acqua da bere, ad un "Santuario" presso cui altri erano guariti -o così si diceva, credeva o sperava- od ancora ad un uomo straordinariamente caritatatevole, quasi sempre un religioso destinato a diventare santo, morendo della morte da cui aveva salvato altri: e questa non è solo figura letteraria, in maniera speculare -ma nella realtà- al manzoniano Fra Cristoforo, che concilia corpi e spiriti col volto segnato dalla morte, si oppone l'ottocentesco Padre Santo di Camporosso che tra i colerosi del porto di Genova correva instancabile, lui che per tutti era un "segno della fede" che guarisce ma che, fingendo di ignorarlo, a sua volta portava ormai un "marchio di morte".
Un elenco ragionato dei "segni della morte" che contraddistinsero le grandi patologia dal XIV secolo sin all''800 può essere un modo per recuperare la drammatica di vittime impotenti di fronte al male e contestualmente scoprire la gran forza che ad esse conferiva la possibilità d'accedere entro un meccanismo liturgico alla fruizione di qualche "Santuario della Guarigione".
A proposito della prima, ma non unica epidemia di peste bubbonica, quella del 1347-1348 (nel '49 a differenza che per il Piemonte non era più attestata nel Ponente ligure) la mancanza di drammatiche relazioni entro documenti originali fu dovuta al fatto che le autorità, fra incomprensione e paura, non vollero sollevare il panico sulle popolazioni già depresse da gravi eventi ambientali e bellici.
Tra le varie calamità che precedettero la peste bubbonica, si menziona nel 1230 una siccità di otto mesi che rovinò i raccolti e fu causa di grave carestia.
Nel 1330 si ebbero piogge e alluvioni sì che molti campi furono spazzati via dalle inondazioni e le sementi andarono disperse.
Nel 1339 sopraggiunse un'invasione di locuste, probabilmente arrivate dalle coste africane sulla scia di una stagione ventosa: un certo recupero pareva avvenire se di colpo le piogge del 1345-6 non avessero aggravata la situazione.
Poco prima della peste del 1348, secondo documenti letti da G. Rossi, si sarebbe manifestato per queste contrade un indecifrabile morbo epidemico che dapprima colpì i gallinacei per poi falcidiare i bambini piccoli ed i lattanti: esistono dati insufficienti per stabilire la correlazione dell'epidemia, forse generata da un morbo aviare trasmissibile all' uomo.
Notizie più precise riguardano la morte nera di poco oltre metà '300, quella che Hecker ed Heser han dimostrato esser stata la prima manifestazione di peste bubbonica in Europa e che sarebbe stata portata dai Tartari in Crimea e successivamente dai ratti, che infestavano le navi genovesi, nell'Occidente europeo.
Approdata a Messina la malattia si estese all' Italia (ove morì presumibilmente più di un terzo della popolazione) e quindi giunse in Francia e Provenza, donde penetrò nelle valli del Ponente ligure.
Le manifestazioni cliniche, per la concezione che nell'epoca si aveva della malattia risultavano sconvolgenti agli occhi dei medici incapaci -per limiti culturali e diagnostici- di qualsiasi terapia: si ricorse ai salassi, all'assunzione di erbe e pozioni erroneamente ritenute profilattiche , in particolare i medici per non essere contagiati visitavano i malati tenendo davanti alla bocca una spugna imbevuta di aceto, espediente ritenuto, naturalmente a torto, di una qualche utilità contro le incomprensibili esalazioni pestilenziali.
Generalmente in 2 - 5 giorni sopraggiungeva in quanti eran stati contagiati, o dalle pulci del ratto o da individui malati per via di ectoparassiti, una febbre altissima, quasi concomitante alla comparsa di linfonodi: la violenta reazione infiammatoria, susseguente al processo di fusione dei linfonodi, generava la formazione di un "bubbone", frequentemente localizzato in sede inguinale e capace di raggiungere la dimensione di un'arancia.
Gli appestati se per cause naturali non resistevano al morbo, conseguendo poi una buona immunità (dai pochi che ebbero tale ventura derivarono poi i "monatti" di manzoniana memoria) eran destinati alla morte, che giungeva dopo un periodo di gran sete e disidratazione, spesso congiunte ad uno stato stuporale o confusionale.
La peste del '48 doveva esser stata terribile se dopo dieci anni ancora gran parte del territorio agricolo del contado intemelio era in crisi: secondo alcuni interpreti il morbo sarebbe stato introdotto dalla Provenza mentre altri, tenendo conto dei commerci centralizzati sul porto canale di Nervia, ipotizzano un contagio portato, come nel caso di Marsiglia, da qualche nave genovese, sì da sostenere non senza fondamento che il Male sia risalito per le vie del Sale e la valle del Nervia fin nel Basso Piemonte dove peraltro si manifestò un anno più tardi che nel resto d'Italia, verso il pieno '49.
Dal martirologio trecentesco, che il Rossi scoprì nella cattedrale ventimigliese, si apprende che l' epidemia dapprima era giunta nella valle (1347) e successivamente in Ventimiglia (20 aprile 1348) e quindi nelle sue ville, dove si sarebbe conclusa un anno dopo (1349) rispetto a Dolceacqua, Pigna ed altri borghi: in assenza di barriere sanitarie la diffusione del morbo procedeva quindi sulle linee commerciali e questa anticipazione di contagio in val Nervia sembrerebbe da collegare all'intensità di mercanti da terre lontane che vi giungevano, in numero superiore che a Ventimiglia città murata, procedendo per la via di sublitorale o risalendovi dopo esser giunti per mare all'approdo di Nervia.
Negli agri vallivi, a differenza che a Ventimiglia e nell'area marinara di Bordighera, si viveva soprattutto di agricoltura e zootecnia; le terre inaridirono presto perché la popolazione temeva, lavorandole, di esporsi al contagio: divennero deserte anche le bandite dei pastori, si arrestò la transumanza, molti animali rimasti senza cure o morirono o, fuggendo, ritornarono allo stato selvatico.
La peste a Dolceacqua dovette peraltro avere esiti terrificanti: Girolamo Rossi pubblicò nel testo originale latino l' unico documento davvero importante sull'epidemia in val Nervia: era una "Sentenza arbitrale tra Ruffino vescovo intemelio, i canonici della cattedrale e la comunità di Dolceacqua" (25 settembre 1358) motivata dalla risoluzione di controversie fiscali (il Vescovo non percepiva da anni il censo o decime dovute dalla comunità alla Cattedrale ed aveva interdetto dal culto abitanti di Dolceacqua: questi al contrario adducevano l'impossibilità di corrispondere il dovuto per la gravissima situazione socioeconomca che persisteva ancora 10 anni dopo la fine dell' epidemia).
Il notaio Vivaldo Rubia, nel palazzo episcopale di Ventimiglia, alla presenza del Vescovo, dei Sindaci e Procuratori di Dolceacqua oltre che di testimoni di rango, redasse dopo il vespro la conclusione pacifica della vertenza.
Per descrivere la grave situazione del borgo egli annotò "...dal giorno della mortalità portata dalla peste, che devastò grandemente le terre tutte del mondo ed in particolare i luoghi di Dolceacqua nell' intiero anno 1348.....ed anche a riguardo delle guerre e delle liti che, durante il persistere della controversia [col Vescovo], sorsero tra detti uomini di Dolceacqua sì da favorire il nemico che fomentava le discordie, di modo che detti uomini diminuirono in numero ed in beni, poiché a ragione della loro miseria e povertà non furono in grado di versare il reddito dovuto [al Vescovo] né possono versarlo ora e tantomeno potranno in futuro pagare i menzionati seicento quartini di frumento, mentre gli stessi uomini di Dolceacqua, per la miseria e la mancanza di gente nei campi e per l'aridità delle terre che coltivano, le quali peraltro danno pochi frutti se non e spesso alcun frutto, a malapena sono in grado di sostenere se stessi ed il vitto dei congiunti...".
Non esiste la necessità di commentare questo quadro disastroso di morbo e carestia: lo stesso Vescovo di fronte ad inoppugnabili testimonianze dovette ridimensionare la pretesa di decime che da secoli la sua chiesa raccoglieva nel territorio dolceacquino.
Egli rinunciò ad esigere il frumento di produzione locale [300 mine] ed accettò il pagamento delle decime secondo un nuovo canone, per cui ad ogni "mina" venne dato il valore di un fiorino d' oro.
Concordate le parti in Dolceacqua fu salvato il patrimonio delle sementi (dato il rincaro del grano conveniva versare denaro liquido secondo il valore teorico che il prodotto aveva prima della pestilenza): gli abitanti del borgo poterono così rientrare nella Cristianità, essendo stato tolto l'interdetto, sì da cominciare a rivivere i sacramenti e l'ordinaria vita socio-comunitaria degli Ordinamenti ecclesiastici.
I Francescani acquisirono grandi meriti pei soccorsi portati alle popolazioni derelitte sia di Ventimiglia che dei centri rurali delle ville come dell'entroterra e vennero presto gratificati di gran seguito e varie donazioni: il Rossi sostenne al riguardo che grazie a ciò essi avrebbero potuto erigere in Ventimiglia una più ampia casa conventuale anche se a parere di ricercatori più moderni si va sostenendo che con quei donativi i Frati minori avessero semmai ristrutturata la Casa in cui già vivevano ed in cui risulterebbero ancora visibili facies di interventi architettonici di rammodernamento.
La II metà del 1300, come testimoniano il calo demografico e l' abbandono di alcuni siti, fu caratterizzata da altre grandi paure che condizionarono vari atteggiamenti culturali.
Al primo posto, fra i terrori estranei ai contagi ed alla lebbra, nel medioevo e nell'età intermedia si collocava il timore delle carestie e della fame; documento utile risulta al riguardo una pergamena contenente una sentenza di concordato fra Imperiale Doria ed i Procuratori del Comune dolceacquino del 31 maggio 1364.
Oltre a varie norme conciliatrici, che permettono di intuire come addirittura 15 anni dopo la grande peste se ne dovessero riparare i danni ambientali , si legge che il Doria era tenuto a concedere libertà di commercio ai suoi sudditi con la sola eccezione del tempo di carestia.
Per intendere giuridicamente il concetto di carestia il notaio e cancelliere Raffaele di Casanova precisò "che si giudica carestia ogni volta che una mina di grano costa in detta terra di Dolceacqua due fiorini d'oro o più di tal prezzo".
In poche parole si apprende che il Signore aveva facoltà di interdire le attività commerciali solo in ragione di emergenze assolute: contestualmente si nota che Dolceacqua in tempi normali produceva beni per commercio ed autoconsumo. Nel documento si ricordò la consuetudine signorile di rinchiudere nei magazzeni del castello il vino e le vettovaglie in casi di assedio o carestia: fermo restando l'obbligo, appena finita l'emergenza, di restituire subito i beni ai legittimi proprietari.
Dopo il "terrore di pesti e fame" veniva quella "delle malattie contagiose ed endemiche".
Fra le patologie endemiche la lebbra, dovuta ad ingestione di cereali di bassa qualità ed a pessime condizioni esistenziali ed ambientali, aveva iniziato a regredire in Europa proprio da questo periodo, anche se l'esistenza a Ventimiglia di un hospitalis per leprosi intitolato a S. Lazzaro e l' ordinanza delle autorità di Dolceacqua che i lebbrosi sian separati dal popolo affermano che il vecchio terrore per il morbo fosse ancora vivissimo.
L'impaludamento del porto canale sul Nervia e sul Roia, il proliferare di canneti selvatici (come nell'area di Bordighera ma anche alle foci di Nervia e Roia, specie nel sito dei "Paschei" area dell'attuale casa comunale di Ventimiglia ed ancora non lungi dalla chiesa vallecrosina di S.Rocco, nell'area bonificata solo a metà '700 detta di "Piazza d'armi") l'ignoranza delle tecniche romane sulle arginature di acque fluviali avevano determinato la riproduzione della zanzara anofele.
Sia la malaria maligna (terzana continua) che la benigna (duplicis o triplicis) vennero citate fra le cause di morte, anche se a volte si alluse solo ad "inspiegabili febbri": le comunità non furono tuttavia molto spaventate da questo pericolo, anche se le norme pubbliche ribadivano l'utilità di canalizzare le acque e prosciugare i luoghi paludosi.
L'ergotismo o "fuoco di S.Antonio" nel XIII-XIV sec. risultava assai temuto: il male dipendeva da un'alimentazione di farina di segale e di sorgo contaminata dal fungo simbiante della Claviceps Purpurea.
Le manifestazioni dell'ergotismo erano così gravi da sgomentare chiunque: sia nella forma convulsiva con terribili dolori che in quella cancrenosa, con necrosi di volto e arti.
La presenza di monaci antoniani nell'estremo Ponente ligure coincise con l'evoluzione colturale della segala (XII - XV sec.): questo Ordine preposto alla cura del "male ardente" fu spesso favorito dai patrizi locali (non si dimentichi che la parrocchiale di Dolceacqua è evoluzione di una cappella feudale dedicata a S.Antonio dai Signori del luogo e che i Conti intemeli eran votati a S. Antonio ed avevano lo stemma araldico della lotta contro l'ergotismo).
I frati antoniani godevano di alcuni previlegi per la loro attività terapeutica: la concessione più vistosa era la libertà di circolazione pei loro maiali, segnati con il "tau" antoniano o con l'orecchio mozzato.
Lo sviluppo dell'allevamento dei maiali in queste terre fu collegato proprio con l'influsso locale delle precettorie antoniane.
Il grasso suino costituiva infatti l'elemento base di tutti gli unguenti usati contro le irritazioni erpetiche e cancrenose dell'ergotismo (anche se i religiosi di questo Ordine, a differenza d'altri monaci, caldeggiavano l'abluzione in acque terapeutiche o termali da quella celebre di Lago Pigo a Pigna in alta valle del Nervia, utile contro dermatosi e dermatiti, a quelle di altre numerosi sorgenti, compresa la fonte solforosa che sorgeva non lontano dall' ospedale di N.S. della Rota tra Bordighera ed Ospedaletti).
Diversa è a questione a riguardo delle grandi epidemie di peste bubbonica tra XVI e XVII secc. in Liguria.
Nel 1564 un terremoto aveva minato Ventimiglia ed il suo territorio. Poco dopo si sparse per la Liguria la peste del 1579/'80 (destinata a un "tragico ritorno" a metà '600) che fece solo a Genova diecine di migliaia di vittime nonostante l'opera di medici che si accostavano ai malati indossando una sorta di tuta protettiva con un bizzarro casco provvisto di una sorta di filtro riempito di sostanze aromatiche, ritenuto erroneamente di una qualche efficacia contro i miasmi pestilenziali.
Il Capitanato di Ventimiglia rimase immune dal contagio per la solerzia degli Ufficiali di Sanità ai cui ordini erano le guardie armate ai rastrelli, o cavalli di frisia, disposti su tutte le vie d'accesso e transito onde controllare i viandanti e verificare se fossero o no in possesso delle necessarie lettere patenti, i documenti che attestavano la loro provenienza ed il loro stato di salute.
Chi non fosse trovato in possesso di queste certificazioni o non potesse dar prova alternativa del proprio buono stato di salute veniva istradato nel "lazzareto" per la quarantena o in mancanza di questa struttura, peraltro non comune, era rinchiuso in un qualche edificio preposto alla custodia ed alla sorveglianza dei sospetti.
Peraltro in tempo di pestilenza, alla minuziosità dei controlli, corrispondeva una notevole severità dei provvedimenti, di modo che quanti cercavano di sfuggire al controllo delle guardie dei rastrelli potevano esser subito passati per le armi e mediamente uccisi ad archibugiate onde evitare qualsiasi contatto fisico: il fuoco appiccato ai poveri resti -compreso l'eventuale bagaglio- avrebbe poi purificato l'ambiente da ogni possibile, ulteriore relazione di causa-effetto con il contagio.
In occasione di questa pestilenza del XVI secolo i risultati positivi della profilassi furono in stretto rapporto con la positiva collaborazione fra i vari Stati coinvolti: ed al proposito con le autorità del Capitanato di Ventimiglia, importante emanazione di frontiera della Signoria genovese, collaborarono strettamente, ancor più dei Savoia, i Doria di Dolceacqua ed i Grimaldi di Monaco.
Tuttavia, nonostante queste funzionali previdenze, per il comprensibile timore della peste -che viste le tragiche, pregresse esperienze aveva ormai edificato nelle coscienze un vero e proprio teorema degli orrori- la popolazione di tutto l'agro intemelio abbandonò la linea costiera con grave detrimento per le colture, specie nella buona piana nervina: tutti temevano i contagiati di peste che effettivamente, di notte e per via mare, cercavano, anche a costo della vita, di sfuggire all'internamento sbarcando sulle zone meno custodite della spiaggia.
Il 26-IV-1580 il Signore di Monaco, Onorato Grimaldi scrisse preoccupato agli Ufficiali di Sanità intemeli che "...quelli di Nizza tengano il male nascosto per conto delli vicini e che sotterrano li morti di notte....".
Lo stesso Signore invitava gli Ufficiali di Ventimiglia a star ben attenti a quanto arrivasse dal mare, magari rovesciato o gettato da navi in corsa od in fuga: il suo consiglio era quello di raccogliere con lunghe pertiche il materiale portato a riva dal mare e di non toccarlo assolutamente con le mani ma di provvedere immediatamente a bruciarlo.
Le cose non peggiorarono a metà '600 (1656/1657) quando una seconda temibile epidemia di peste, che ancora prostrò Genova e gran parte della Liguria, lasciò immune il territorio del Capitanato di Ventimiglia: nemmeno in questa circostanza però si potè frenare la paura collettiva e la conseguente fuga della gente dai luoghi più esposti, con indubbi danni per la vita di relazione, il commercio e la cura dei campi.
A livello popolare la causalità delle malattie, specie delle malattie inspiegate ed ispiegabili e tuttavia iridescenti proprio perchè di conclamata epidemicità, si caricò gradualmente di valenze magiche e di un bagaglio di superstizione che affondava le radici colte nella cultura dell'aretalogia greco-romana e di una medicina popolare antica in base alla quale, con vari espedienti (anche non privi di fondamento come il lavaggio nelle acque termali) si guariva da determinate malattie ma per cui, talora, la malattia era punizione divina per una colpa propria o della famiglia.
Da qui, specie nei paesi mediterranei, si sviluppò, a livello di cultura popolare la consuetudine di nascondere, ad opera della famiglia stessa, la malattia di un congiunto, come effetto della malvagità di un demone o di un dio pagano divenuto demone per effetto della cristianizzazione od ancora quale artificio di magia nera praticata da streghe, fattucchiere o masche, specie in caso di patologia inspiegabile come una forma epidemica [ma anche di impotenza a procreare, di tendenza ad abortire, di disturbo mentale specie se conclamato nella forma temibile della melanconia/ melancolia, che era poi la depressione ma che si ritenne a lungo effetto di malefici] od un cancro, la malattia che, per elezione, demoni e streghe avrebbero scatenato contro le loro vittime.
Per questa ragione, dopo la graduale scomparsa della lebbra, l'avvento nel XVI di una nuova malattia, la sifilide, seppur per mortalità e forza di contagio neppur lontanamente paragonabile alla peste, finì per acquisire nel giudizio di molti la cifra di una punizione divina (od in altri casi -la distinzione teologicamente parlando resta però minima- l'eziologia di una esplosione di forze demoniache) per i peccati degli uomini.
Non si dimentichi peraltro che il '500, se da un lato rappresentò il trionfo del Rinascimento e delle energie creative dell'intelletto umano, sotto un'altra prosettiva comportò il seme della degenerazione e della putredine preannunciate, nelle ricorrenti visioni apocalittiche dei mistici, dalle lotte di religione fra cristiani e dai reiterati conflitti fra due sovrani cattolici, come Carlo V re di Spagna ed Imperatore e Francesco I di Francia che, nell'ottica ecumenica del cattolicesimo romano più ortodosso, avrebbero dovuto costituire un antemurale contro i Turchi e non al contrario favorire, con uno scisma politico che affiancava apertamente la spaccatura religiosa, l'avvento degli infedeli contro una Cristianità mutilata.
Il nome "sifilide" (malattia che col suo dirompente "arrivo" in Europa quasi sconvolse i teoremi della medicina ufficiale) deriva dal poema dell'autore italiano Gerolamo Fracastoro cioè Syphilis seu de morbo gallico, Padova, 1530: "Morbo gallico italianizzato in 'Mal franzese' altra denominazione ritendensosi l'infezione introdotta i Europa dagli esploratori francesi delle Americhe: per ragioni pressoché identiche fu anche detta 'Mal napoletano': si cita poi anche la denominazione di 'lue'".
La variabilità del nome, che alludeva spesso alla provenienza, era dovuta appunto al fatto che, per quanto si può dedurre dalle prime notizie storiche, la malattia sembrerebbe esser stata importata dalle Americhe e, addirittura, si ritennero responsabili della primitiva diffusione gli equipaggi di Cristoforo Colombo.
Il contagio dipende dal batterio Treponema pallidum e la malattia può esser trasmessa alla prole.
In effetti essa ha avuto larga diffusione soprattutto nel XIX sec. con conseguenze devastanti fino all'introduzione in terapia degli arsenobenzoli e quindi dei sali di bismuto ed infine della penicillina.
Tuttavia anche dalla metà del '500, in Liguria come in tutta Europa, gli effetti della malattia diventarono oggetto di grave preoccupazione della Sanità pubblica.
La ragione dipendeva sia dalla patologia complessa, latente e ripugnante del morbo (che effettivamente rimandava a giudizi di possessioni diaboliche tanto che, nell'iconografia cattolica e protestante, alla strega, al mago come al presunto "untore" si conferirono spesso i tratti del sifilitico) sia dal fatto che, vieppiù si diffondeva, sempre maggiormente appariva come una maledizione per le cresciute colpe della lussuria sia ancora per il motivo che, non avendo una storia clinica pregressa, i rimedi elaborati risultavano di volta in volta inutili se non dannosi (9).
La peste (che in Liguria come in tutta Italia lasciò tracce iconografiche popolari-religiose a testimonianza di un incubo secolare) non tornò dopo le rovine fatte tra XVI e XVII secolo: questo fu un consistente vantaggio per l'incremento demografico del territorio compreso fra Marsiglia e Genova, senza escludere tutto il Basso Piemonte.
Ma i problemi epidemici e le emergenze sanitarie non cessarono: presto la peste venne surrogata da altre pericolose forme di contagio.
In particolare, tra '700 ed '800, si segnalò, per il tributo di vittime umane, il colera, una malattia epidemica caratteristica dei paesi asiatici, il cui agente eziologico è il Vibro cholerae asiatique, bacillo dalla forma a virgola.
Il contagio avviene attraverso l'alimentazione e dopo un breve periodo di incubazione (3-5 giorni) la malattia si scatena attraverso distinte manifestazioni patologiche (disturbi gastro-intestinali, ipotensione, ipotermia, crampi muscolari, altissima disidratazione) sino ad esiti frequentemente mortali.
Il colera fu un incubo per la Liguria nel XVIII secolo e per tutto il XIX : e contro esso non si conoscevano difese efficienti.
Quando il pericolo si fece imminente vari Commissariati locali di Sanità (gli organi di pubblica profilassi istituiti dal Regno Sabaudo dal 1814 padrone della Liguria) promulgarono precise ordinanze.
Per quanto concerne il Ponente ligure si legge: "La malattia chiamata Collera morbus comparsa la prima volta in Silla nel 1817 sulle rive del Gange ed avanzata d'indi in appresso verso l'Europa, donde minaccia ora d'invadere la nostra bella Penisola è un di quelle malattie contagiose, che con i mezzi della Polizia Sanitaria, si può tenere andarne immune, per i provvedimenti più efficaci, che ha ordinato di porre in opera il Paterno animo di S.M. il Re nostro Signore; pur nel caso che Dio non voglia, d'una qualche manifestazione d'un tal morbo, siccome tende a dilattarsi, ed a cogliere un maggiore, o minore numero d'individui, secondo le disposizioni più o meno salubri della località e degli abitanti così si facciamo con dovere di far noto quanto segue; ben persuasi che l'uomo dabbene e l'uomo religioso, che nutre in cuore nobili sentimenti d'amor Patrio s'assoggetterà ben volentieri all'incomodo delle regole sanitarie, non per temere soltanto delle pene che la legge stabilisce ["R.D. del 1831"], ma per onore, per spirito di dedizione, per la tema di farsi autori della disgrazia degli amici, dei congionti, di coloro in una parola, per cui egli esporrebbe generosamente la vita, dove li vedesse in pericolo.
A preservarsi dal Collera morbus conviene prima di tutto evitare le
azioni predisponenti al medesimo.
Tali sono l'intemperanza d'ogni genere di cibi, o di bevande, e specialmente l'ubbriachezza, le vestimenta troppo leggiere, la sucidezza del corpo, il libertinaggio, il troppo faticare, le veglie
protrate, la tristizia, la paura.
Conviene non dormire all'aria, specialmente di notte, non usare alimenti pingui difficili a digerirsi, che fermentano facilmente, tali sono... le frutta immature, le bevande, che non hanno finita la loro fermentazione, od acide, o corrotte.
S'eviterà l'aria umida, e fredda, quando si è in sudore specialmente.
Non si dovranno mangiare frutta immature, né abusare delle matture,
come pure delle cose acri come sarebbero l'aglio, cipolla, pepe e simili.
Dovrà ognuno mantenere la nettezza, la ventilazione della propria Casa.
S'ordina la maggiore polizia possibile in tutti i luoghi abitati, l'allontanamento dai medesimi di tutte le immondizie, e sozzure, che ammorbando l'aria divengono potenti germi d'infessione, e predispongono facilmente a ricevere il morbo contaggioso minacciando serie punizioni ai contravventori.
Tutti i viaggiatori, ed i stessi nativi di codesto Comune [il documento riguarda il borgo di Vallecrosia ma è simile nella forma e nella sostanza a quelli promulgati dalle altre municipalità] che trovansi in oggi assenti se vorranno penetrare a Vallecrosia, deggiono in prima provare mercè dei documenti a tale scopo chiesti dalle relative leggi Sanitarie, o di aver subito la loro quarantina, se provengano da Paese infetto, o vero che arrivano da Regione pienamente libera dal morbo.
Nessuno potrà perciò essere ricoverato negli alberghi, o case private, senza un permesso speciale della Commissione.
Coloro che sono destinati a girare per il paese durante la notte, che
dovranno eseguire gli ordini, che dalla Commissione, le verranno imposti.
Conchiuderemo col ricordare, che gli uomini inutilmente veglierebbero alla Custodia dei luoghi, se Dio medesimo non gli costodisse.
Commissione locale di Sanità /Vallecrosia agosto 1835".
Ma il colera rimase in agguato ed ancora nel 1884 il Prefetto di Porto Maurizio inviò ai Sindaci della Provincia le sue ordinanze concernenti i provvedimenti contro il morbo: tra tante rigorose osservazioni meritano un cenno gli inviti a vegliare in modo speciale sulle carni porcine, su tonni, stoccafissi, baccalà, ed altri pesci conservati i quali presentino un'alterazione qualsiasi.
Eppure, in un manoscritto di un medico-filosofo del tempo, erano state raccolte tante ricette per affrontare i "segni della morte" che il colera portava con sè: l'opera che, come preannunciato, completerà questo lavoro come sua "Appendice Documentaria" sul prossimo numero è così piena di riferimenti critici, formule, riflessioni di varia natura, registrazioni di atti pubblci sulle varie apparizioni del colera che non si è potuta unire a questa parte del lavoro anche per non dover riassumere o ridurre alcuna parte.
Essa costituisce uno spaccato sulla realtà medica di XVIII-XIX secolo alla cui interezza non si può rinunciare sia perché analizza in loco le patologie sia perchè non è dissertazione solo cattedratica che non accetta i suggerimenti della medicina popolare e rigetta nel superstiziosamente vano gli slanci vitali e fideistici di quanti cercavano la vita, anche rischiando il contagio, nelle processioni verso i "Santuari della Guarigione", i "Segni della Fede" allora più ambiti e manifesti o forse, semplicemente, gli unici in cui credere davvero.
E proprio a tal proposito -in sintonia perlatro con la prospettiva di inquadramento che ha inizializzato questa indagine- giova ricordare che in tale manoscritto vien citato (come un dato di fatto, senza particolari coinvolgimenti emozionali ma anche senza spocchioso e aristocratico disprezzo per le fragilità dell'ignoranza) un "Santuario della guarigione" (propriamente detto "Patronato contro il cholera morbo") di non antica tradizione ma particolarmente venerato nel XIX secolo.
I cortei devozionali all'ormai purtroppo abbandonata e sconsacrata "Chiesa della S.Croce", nel territorio di S.Biagio, su una dorsale della valle del Crosa, provenivano, ai primi del XIX secolo un pò da tutti i paesi del circondario e quindi, verso la metà dell'800, sarebbero addirittura procedute un pò da tutto il territorio di costa, tra Ventimiglia e Bordighera.
Il documento, al punto attuale delle indagini, non ha rivelato il motivo di tanta credenza popolare: non vi si parla di guarigioni taumaturgiche ma solo di una fede assoluta nella protezione della Croce, una fede sublimata probabilmente dalla speranza o forse ancora, ma è ipotesi da sussurrare soltanto, dal fatto che la storia religiosa del S. Croce, più correttamente chiamato "Cima della Crovairola", affonda addirittura nella notte dei tempi quale retaggio di più culture, quale area devozionale ove, nel nome della pietà, si intersecarono, attraverso il lento sovrapporsi di secoli e costumanze spirituali, i sogni e le aspettative di una moltitudine di generazioni (vedi qui: II SCHEDA CRITICA)