FOTO ANNA DURANTE

VEDI LA VILLA ROMANA DEL CAVALCAVIA DI VENTIMIGLIA: ECCO UNA SUA PLAUSIBILE RICOSTRUZIONE














In netto contrasto con le splendide abitazioni signorili fin qui descritte, la maggioranza del popolo romano alloggiava in grandi casamenti a più piani che sorgevano nei quartieri popolari.
Le
insulae erano sorte nel IV sec. a.C. dall'esigenza di offrire alloggio, entro il ristretto territorio dell'Vrbs, ad una popolazione minuta in continuo aumento.
Nel periodo imperiale queste costruzioni superavano il sesto piano di altezza, come la famosa insula Felicles che si elevava su Roma alla stregua di un grattacielo.
Logicamente esistono dati molto più abbondanti sulle insulae di Roma (ad esempio le case condominiali in Ventimiglia romana non dovevano raggiungere nè le loro dimensioni né la loro vertiginosa altezza) ostruite spesso da imprenditori privi di scrupoli che utilizzavano materiali scadenti, amministrate da proprietari che miravano ad ottenere il massimo profitto da affitti esagerati, le insulae erano spesso preda di incendi e i continui crolli che minacciavano la sicurezza dei cittadini indussero l'imperatore Augusto a proibire ai privati di elevare costruzioni sopra i 70 piedi (21 m. circa).
Le insulae avevano una pianta di circa 300 mq, ma con tali sviluppi verticali sarebbero stati necessari almeno 800 mq di base che assicurassero stabilità all'edificio.
Se si aggiunge che per i muri maestri la legge non richiedeva uno spessore superiore a 45 cm, si può capire che il primo incubo di un inquilino era vedersi crollare la casa addosso.
Ciò avveniva con tanta frequenza, che alcuni speculatori ne avevano fatto la fonte principale dei propri redditi.
Crasso, ad esempio, era famoso per la rapidità con cui accorreva sul luogo di un crollo offrendo allo sfortunato proprietario dello stabile di comprarlo lì stesso, a prezzo stracciato.
Le sue squadre di muratori, poi, lo ricostruivano in un batter d'occhio utilizzandone le stesse macerie e la nuova insula, ancora più traballante, era riaffittata a prezzi maggiori.
L'insula comprendeva, riuniti nei cenacula, corrispondenti all'incirca ai nostri appartamenti, numerosi locali piuttosto angusti, areati da finestre che si affacciavano sulla strada, e non destinati a un uso prefissato come quelli della domus: spesso uno stesso locale fungeva da stanza da pranzo e da letto. Anche per le insulae si poteva comunque effettuare una differenziazione in due categorie: nei palazzi più prestigiosi il pianterreno costituiva un'unità abitativa a disposizione di un singolo locatario e assumeva l'aspetto e i vantaggi di una casa signorile alla base dell'insula; nei palazzi popolari il pianterreno era occupato da magazzini e botteghe, tabernae, in cui gli inquilini non solo lavoravano, ma vivevano e dormivano, poiché una scala di legno univa la bottega ad un soppalco che costituiva anche l'abitazione dei bottegai, tabernarii.
Particolarmente grave era il problema igienico perché gli appartamenti mancavano di condutture d'acqua e di bagni: lo splendore degli acquedotti romani non deve indurre a credere che nelle case private ci fosse acqua corrente; a Roma, infatti, le reti idriche e fognarie erano esclusivamente riservate all'uso pubblico e tali rimasero.
Solo le domus e le case signorili al pianterreno delle insulae potevano usufruire, dietro pagamento di un canone molto alto, di un allacciamento privato.
L'acqua zampillava dalle fontane, entrava nelle terme e nei gabinetti pubblici, ma non arrivava nei cenacula.
Non essendoci acqua corrente, nelle case non v'erano gabinetti nel senso moderno del termine; nelle insulae ci si arrangiava lanciando da balconi e finestre, che a differenza delle case signorili abbondavano, ogni sorta di rifiuti nelle vie sottostanti.

Noi abitiamo in una città, che si regge in gran parte su fragili puntelli; infatti, tramite questi il padrone di casa cerca di rimediare alle mura pericolanti e quando ha ricoperto con della calce la spaccatura di una vecchia crepa, invita a dormire tranquilli anche sotto la minaccia di un crollo improvviso. E' meglio, quindi, vivere dove la notte non scoppiano incendi e non c'è alcun pericolo. Il povero Codro aveva un piccolo letto, sei orioli, un tavolo e, sotto, una modesta coppa; una cesta vecchia conservava dei libretti greci e topi ignoranti rodevano le divine poesie. Niente possedeva dunque Codro, chi lo nega? E tuttavia quel disgraziato ha perduto nell'incendio della sua casa quel poco che aveva. Il colmo della sventura è che nessuno gli darà cibo e ricovero e lui va, nudo, chiedendo per carità un tozzo di pane. Se, però, crolla il grande palazzo del ricco Persico, ecco le donne sconvolte, i patrizi in lutto e il pretore rimanda le udienze. In tal caso piangiamo la sventura della città e malediciamo il fuoco. Ancora l'incendio è acceso e già accorre chi dona marmo o partecipa alle spese; questi porterà nude e candide statue, l'altro qualche capolavoro di noto autore, questa ornamenti antichi di dei asiatici, quello dà libri e scaffali e un busto di Minerva, l'altro una quantità d'argento. E Persico, il più ricco tra i senza figli, recupera più di quanto abbia perduto e già è sospettato, a ragione, di aver bruciato lui stesso la sua casa [così ha lasciato scritto in una delle sue Satire il grande poeta GIOVENALE, qui proposto nella traduzione di S. Bianchi].