informatizz. a cura di B. Durante

Al centro della fotografia, datata 4 marzo 1898, si vede ALESSANDRO MORESCHI (1858 - 1922), soprano evirato della Cappella Sistina che, oltre a quello con cui fu poi universalmente noto di ULTIMO DEI CASTRATI, meritò anche l'appellativo di ANGELO DI ROMA, registrò nel 1902-3 circa dieci dischi G&T. Tali incisioni sono state riportate nel CD The last castrato, assai diffuso negli USA. Recentemente il 'Crucifixus' della Petite Messe Solennelle di Rossini (in origine G&T 54764 aut 54773) è stato inserito nella 'compilation' EMI Classics NS01 L'epoca dei castrati. Tutte le incisioni effettuate da Moreschi sono contenute nel CD della Fonit Cetra Alessandro Moreschi, Le registrazioni integrali - coll. Le grandi voci Italiane, vol.9, CDO 519 (1997).
In basso della stessa immagine, tra altri cantori della Cappella Sistina, si riconosce poi un altro celebre evirato, DOMENICO MUSTAFA' (1829 - 1912) che fu Direttore perpetuo della Sistina ed apprezzatissima voce soprano. [ARCHIVIO MUSEO DELLA CANZONE - VALLECROSIA (IM)]






<





Nel suo fondamentale saggio CONSIDERAZIONI SULLA TECNICA DEL CANTO ITALIANO DAL SEC. XVI AI GIORNI NOSTRI (che è parte essenziale del volume Celebri Arie Antiche: le piu' note arie del primo Barocco italiano trascritte e realizzate secondo lo stile di Claudio Dall'Albero e Marcello Candela, per i tipi dell'editrice Rugginenti) scrive la soprano "Individuare il mezzo sonoro originale della musica del passato è una delle esigenze primarie al fine di ricreare interpretazioni esteticamente e storicamente corrette. Tuttavia non sempre è possibile stabilire ciò con esattezza, soprattutto per quel che concerne le composizioni vocali. Infatti, mentre si ha a disposizione un campionario relativamente vasto di strumenti musicali dell'epoca in grado di fornire dati reali e oggettivi delle proprie peculiarità, nel canto si identifica il suono prodotto con l'esecutore stesso. La voce umana è estremamente duttile, e varia in base alle caratteristiche anatomiche, al gusto e al bagaglio tecnico del cantante. Intervengono inoltre fattori molteplici di ordine culturale, sociale, antropologico, etc., mutevoli nel tempo.
Sintomatico di tale variabilità si presenta l'ascolto delle prime incisioni fonografiche: le voci di celebri cantanti dell'inizio del nostro secolo vengono generalmente ritenute non aderenti al gusto odierno; se si riscontra una grande differenza dopo appena cento anni, c'è da chiedersi quale potrebbe essere la sorpresa ascoltando musica cantata in un passato ancora più remoto.
Le posizioni dibattute da musicisti e studiosi per definire un'appropriata esecuzione vocale all'antica sono discordanti. Dall'area culturale nordeuropea provengono accreditate opinioni in merito, secondo le quali è necessaria un'emissione con poco vibrato quando non del tutto assente. Quantunque consenta una pulizia estrema nell'intonazione, tale pratica si discosta fortemente dalla consuetudine del canto italiano di tradizione, pur rispecchiando i costumi musicali dei popoli nordici.
Nel crocevia delle controversie filologiche ancora irrisolte una direzione alquanto precisa è indicata dagli scritti dell'epoca. Fra il XVI e il XVII secolo diverse opere, pur se brevemente, trattano dell'arte del canto. Su Prattica di Musica, uno dei primi testi in cui si trovino ampi accenni all'argomento, Ludovico Zacconi afferma:
"Il tremolo nella musica non è necessario; ma facendolo oltra che dimostra sincerità, e ardire; abbellisce le cantilene [...] dico ancora, che il tremolo, cioè la voce tremante è la vera porta d'intrar dentro a passaggi, e d'impatronirsi delle gorge [...] Questo tremolo deve essere succinto, e vago; perché l'ingordo e forzato tedia, e fastidisce: Ed è di natura tale che usandolo, sempre usar si deve [sic]; accioché l'uso si converti in habito; perché quel continuo muover di voce aiuta, e volentieri spinge la mossa delle gorge, e facilita mirabilmente i principij de passaggi [...]".
Considerando le indicazioni riportate è lecito desumere che il 'tremolo' zacconiano non è né un mezzo enfatico da usarsi quale effetto in funzione espressiva, né tantomeno un ornamento, come il trillo o il mordente: si pone invece quale attributo costante e ideale della voce. I tratti paradigmatici con i quali Zacconi delinea il 'tremolo' coincidono quasi integralmente con quelli caratterizzanti l'odierno vibrato. è però doveroso distinguere il vibrato naturale da quell'effetto sonoro per cui si producono oscillazioni tanto ampie (frutto, in genere, di tentativi di aumentare il volume del mezzo vocale), da pregiudicare l'intonazione e la qualità del suono. Ulteriori motivi di confusione provengono poi da varie pratiche artificiose, come l'impiego del diaframma per 'muovere' intenzionalmente il suono tramite piccoli impulsi, similmente alla tecnica di alcuni strumentisti a fiato, oppure contrarre più o meno rapidamente i muscoli laringei, costume relativamente diffuso tra i cantanti di musica pop, leggera e popolare. Questi espedienti non abbelliscono la voce né danno enfasi al canto; si può congetturare che Zacconi si riferisse a qualcosa di analogo parlando di tremolo 'ingordo e forzato' che 'tedia e fastidisce'.
Una ragionevole supposizione è che anche i cantanti del passato praticassero un controllo della respirazione: "L'ottava [regola è n.d.r.] che spinga appoco appoco con la voce il fiato [...]". Le parole di Camillo Maffei sembrano descrivere una tecnica di emissione simile a quella usata per il canto odierno, nel quale il dosaggio del fiato provoca la vibrazione involontaria della voce. Anche nel periodo barocco probabilmente il vibrato faceva parte del bagaglio tecnico del cantante, senza correlazioni con finalità espressive. Si può affermare che - contrariamente all'opinione invalsa anche presso i musicisti - fissare la voce sia un effetto alquanto innaturale e meccanico, conseguente all'irrigidimento dei muscoli laringei e all'espulsione incontrollata del fiato. Cantando è possibile sospendere la vibrazione del suono volontariamente o meno, ma va detto che la voce della maggior parte di coloro che cantano senza cognizione è invece sempre fissa in quanto generata da un'emissione errata.
Nonostante le proposte vocali trasmesse dai mezzi di comunicazione negli ultimi decenni, ancora oggi esistono persone che, senza avere mai affrontato studi specifici, e per di più prescindendo dall'ascolto di voci colte, cantano con franchezza, manifestando un morbido e fresco vibrato. Riesce difficile credere che un ipotetico ascoltatore del passato stimasse una voce dalle siffatte caratteristiche difettosa e inutilizzabile a fini artistici, come ancora sostenuto da qualche studioso.
Le registrazioni effettuate dai cantanti dell'inizio del nostro secolo, palesano degli 'specimina' assai diversi dallo standard vocale della cultura musicale contemporanea. Si possono riconoscere i suddetti suoni 'fermi' o anche non vibrati, che si configurano però come episodi occasionali, dettati da situazioni contingenti l'esecuzione stessa. Se la voce non vibra a causa di una necessità espressiva o di pronunzia del testo (si ascoltino ad es. le Lamentationes Jeremiae declamate/cantate da Alessandro Moreschi, o le altre incisioni dello stesso cantore) il suono rimane comunque morbido, e le note non vibrate non sono mai fisse. Questa vocalità diverge dalle consuetudini del canto lirico odierno, ma è anche ben lontana dalle voci dure proposte da molti esecutori nordeuropei. Nel '500 la polifonia vocale rappresentò quasi la totalità della produzione musicale. Usualmente l'esecuzione 'a cappella' non teneva conto dell'altezza assoluta delle note; l'unica raccomandazione era di 'avere riguardo a quelli che hanno da cantare, che stiano commodi di tuono, né troppo alto, né troppo basso' (nel corso dei secoli questi suggerimenti rimarranno sempre validi; si veda ad es. Scola di Canto Fermo del 1715, o la prefazione di Raffaele Casimiri alle 'opera omnia' palestriniane più sotto citate alla nota 15). La tipologia classica dei ruoli in polifonia prevedeva la parte del 'bassus' eseguita da un basso, il 'tenor' cantato da una voce virile centrale, l''altus' da un tenore acuto che sfruttava le risonanze di testa in una tessitura molto alta, e infine un 'puer' o un falsettista per la parte del 'cantus'. Spesso si trovano scritture polifoniche apparentemente molto acute rispetto ad una siffatta distribuzione delle voci. Tali ambiti melodici non sono però da considerarsi riferiti alle altezze reali; infatti in presenza delle cosiddette 'chiavette' o 'chiavi trasportate' l'esecuzione vocale avveniva solitamente alla quarta o alla quinta inferiori.
Non sempre i cantori si identificavano rigidamente con il ruolo vocale che sostenevano:
"Or dico dunque, che queste voci nascono dalla propria materia della canna; et intendo per la canna tutte le parti sopradette, che concorrono a far la voce, si che, se quella sarà molle, farà la voce flessibile, pieghevole, e variabile. Ma se per sorte sarà dura, farà la voce riggida, e dura. Percioche essendo duro l'istromento, non puo (come bisognaria) piegarsi; si come essendo molle, aggevolmente piegandosi, puo formare, e fingere ogni sorte di voce. E di qui nasce, che molti sono i quali non ponno altra voce ch'il basso cantare. E molti anchora se ne veggono che non sono, se non ad una delle voci del conserto inchinati, e quella con grandissimo fastidio dell'orecchia, appena cantano. E per il contrario, poi se ne trovano alcuni, ch'il basso, il tenore, et ogni altra voce, con molta facilità cantano; e fiorendo, e diminuendo con la gorga, fanno passaggi, hora nel basso, hora nel mezzo, et hora nell'alto, ad intendere bellissimi.".
Nella musica profana la parte superiore poteva essere cantata anche da donne , ma verso la fine del XVI secolo sulla scena musicale italiana comparvero i cantori evirati, 'terzo sesso' a cui venivano affidati i ruoli di soprano e di contralto . La maggior parte delle arie composte nel '600 e nel '700 - come molte di quelle contenute in questa raccolta - furono a loro destinate. Un approccio alla vocalità di questi esecutori leggendari si rivelerà indubbiamente proficuo al fine di determinare una corretta linea interpretativa.
Gli evirati cantori potevano sostituire egregiamente bambini e falsettisti. In special modo il 'puer' rappresentava un investimento svantaggioso, in quanto la 'muta' sopraggiungeva in età puberale troncando irreversibilmente quella carriera di soprano intrapresa solo pochi anni prima.
I castrati, come ha scritto Rodolfo Celletti , professavano la loro arte con una dedizione assoluta 'giacché l'altro punto di forza dei castrati fu che l'orchiotomia, precludendo certi rapporti, certi obiettivi dell'uomo normale - uno per tutti: la famiglia - fatalmente li destinava ad assumere, nel mondo dell'opera, una funzione che potremmo quasi definire sacerdotale. Di qui studi ed esercitazioni di particolare rigore che assorbivano praticamente tutta la giornata del neofita'. Il Bontempi, nell' Historia Musica , scrive:
"Le scuole di Roma obbligavano i discepoli ad impiegare ogni giorno un'ora nel cantar cose difficili e malagevoli per l'acquisto dell'esperienza. Un'altra nell'esercizio del trillo . Un'altra in quello de' passaggi. Un'altra negli studi delle lettere ed un'altra agli ammaestramenti ed esercizi del canto, e sotto l'udito del Maestro ed avanti ad uno specchio per assuefarsi a non far moto alcuno inconveniente né di vita né di fronte né di ciglia né di bocca. E tutti questi erano gli impieghi della mattina. Dopo il mezzodì si impiegava mezz'ora negli ammaestramenti appartenenti alla teorica: un'altra mezz'ora nel contrappunto sopra il canto fermo, un'ora nel ricevere e mettere in opera i documenti del contrappunto sopra la cartella [tavoletta smaltata per scrivere e cancellare esercizi musicali; n.d.r.]; un'altra negli studi delle lettere; ed il rimanente del giorno nell'esercitarsi nel suono del clavicembalo, nella composizione di qualche salmo o mottetto, o canzonetta, o altra sorta di cantilena secondo il proprio genio. E questi erano gli esercizi ordinari di quel giorno nel quale i discepoli non uscivano di casa. Gli esercizi poi fuori di casa erano l'andar spesse volte a cantar, e sentire risposta da un'eco fuori della Porta Angelica verso Monte Mario, per farsi giudicare da se stesso de'propri accenti: l'andar a cantare quasi in tutte le musiche, che si facevano nelle chiese di Roma: e l'osservare le maniere del canto di tanti cantori insigni, che fiorivano nel pontificato di Urbano VIII, l'esercitarsi sopra quelle; e renderne le ragioni al Maestro, quando si ritornava a casa, il quale poi per maggiormente imprimerle sulla mente dei discepoli, vi faceva sopra i necessari discorsi e ne dava gli opportuni avvertimenti."....
Uno fra i più illustri esponenti degli evirati cantori fu Pier Francesco Tosi, celebre soprano, didatta e autore delle Opinioni de' Cantori Antichi e Moderni, prima esposizione metodica circa la tecnica del canto. Pubblicate nel 1723, le Opinioni costituiscono una fonte preziosa sugli insegnamenti impartiti nella seconda metà del '600; Tosi nacque infatti nel 1653, e quando pubblicò il suo metodo aveva settant'anni. Il canto che egli descrive si differenzia dalla pratica odierna soprattutto per l'uso combinato dei registri di petto e di testa e per la pronunzia delle vocali.
"Un diligente Istruttore sapendo, che un soprano senza falsetto bisogna che canti fra l'angustia di poche corde non solamente procura di acquistarglielo, ma non lascia modo intentato acciò lo unisca alla voce di petto in forma che non si distingua l'uno dall'altra, che se l'unione non è perfetta, la voce sarà di più registri e conseguentemente perderà la sua bellezza [...] Se tutti quegli che insegnano i princìpi sapessero prevalersi di questa regola, e far unire il falsetto alla voce di petto de' loro Allievi, non vi sarebbe in oggi tanta scarsezza di soprani.[...] quanto più le note son'alte, tanto più bisogna toccarle con dolcezza, per evitare gli strilli [...] Nelle femmine che cantano il soprano sentesi qualche volta una voce tutta di petto, ne' maschi sarebbe però una rarità, se la conservassero, passata che abbiano l'età puerile.".
La fusione dei due registri, che secondo l'antica scuola costituiva la condizione imprescindibile per l'estensione della gamma vocale, nelle epoche successive andò sempre più in declino fino a venire sostituita da una tecnica volta all'utilizzo della voce principalmente su di un unico registro. Il canto di petto non era una novità; già alla fine del '500 lo stesso Zacconi così affrontava l'argomento:
"[...] in fra tanti diversi pareri (osservando), ho trovato che tra le voci di testa e quelle di petto, quelle di petto sono le migliori per comun parere. [...] Quelle poi che sono meramente di petto sono quelle che nel intonar che fanno, uscendo dalle fauci, par ch'eschino fuori cacciate da vehemenza pettorale; le quali sogliono assai più dellettare che le di testa[...]"
Anche se a queste asserzioni non si vuole dare valore assoluto, esse testimoniano che la tecnica del canto di petto, in una accezione forse analoga alla nostra, nell'Italia tardorinascimentale era comunque già in uso.
Alimentando la confusione generata dal termine 'passaggio', a volte si ritiene impropriamente che questo si trovi all'ottava alta nelle voci femminili rispetto a quelle maschili. Il registro misto, che permette d'innestare con gradualità e dolcezza i suoni di petto in quelli di testa dissimulando la cesura tra i registri è invece situato ad altezze medesime per entrambi i sessi; grazie ad esso le donne possono cantare con vigoria anche le note gravi, mentre tenori, baritoni e bassi acquistano grande estensione e facilità verso l'acuto.
Il falsetto del Tosi non è quello usato dagli odierni sopranisti e contraltisti, né tantomeno la voce 'che l'uomo può fare quando burlescamente vuole imitare la donna'.
I moderni falsettisti usano prevalentemente il registro di testa puro, senza mescolarlo con quello di petto; inoltre 'coprono' i suoni, pratica non suffragata dai documenti del periodo barocco. A volte l'emissione che ottengono è piuttosto dura, mentre morbida e pastosa è quella che si ode, ad esempio, nelle incisioni di famosi falsettisti italiani della Cappella Pontificia realizzate nei primi decenni del '900, o da Alfred Deller, che mostra chiarezza di timbro e, pur appartenendo alla tradizione vocale inglese, notevole dolcezza di suono.
"Le voci ordinariamente si dividono in due registri, che chiamansi, l'uno di petto, l'altro di testa, ossia falsetto. Ho detto ordinariamente, perché si dà anche qualche raro esempio, che qualcheduno riceve dalla natura il singolarissimo dono di poter eseguire tutto colla sola voce di petto. Di questo dono non parlo. Io parlo solo della voce in generale divisa in due registri, come comunemente succede. [...] La grande arte de' cantanti dev'esser quella di rendere impercettibile a chi li sente, o li vede cantare la minore o maggiore difficoltà, con cui cavano le voci dei due differenti registri di petto e di testa. Ciò solo può ottenersi unendole finemente [...]".
Giambattista Mancini, autore delle Riflessioni Pratiche da cui è tratto questo passo, si riallaccia manifestamente ai principii di Tosi. Egli tuttavia scrive:
"Farà meraviglia a molti de' miei Leggitori, come mai, dopo un sì gran numero di valorosi cantanti, che tuttora fioriscono, possa essere invalsa l'opinione, in cui da qualche tempo sono, non solo gli'Italiani, ma anche gli Oltramontani stessi, che la nostra Musica sia affatto decaduta, e che vi manchino buone scuole, e buoni cantanti. Convien però confessare, che se tale opinione è falsa rispetto alle scuole, purtroppo è vera rispetto ai cantanti, de' quali nessuno si vede sottentrare per riempire con onore il vuoto lasciato dai vecchi artisti." .
Fiorente al tempo di Zacconi ma già in declino all'epoca di Tosi , il CANTO ITALIANOdescritto da Mancini sullo scorcio del XVIII secolo non godeva più del prestigio precedentemente accordatogli; forse la colpa non era solo dei malvezzi dei 'cantori moderni' che avevano abusato dei virtuosismi canori. La rutilante vocalità italiana oramai al tramonto, suo malgrado, cedeva ai nuovi bagliori d'oltralpe.
Disattese le speranze dei vecchi maestri che auspicavano il ripristino delle antiche regole del canto, si cercarono alternative che potessero assecondare i desideri della nuova e composita società europea. Antagonisti storici e insofferenti, i Francesi da tempo avevano adottato direttive stilistiche ed estetiche autonome rispetto all'Italia; già nel 1638 alcuni madrigali monteverdiani presentavano in didascalia - vera e propria indicazione di prassi esecutiva - la frase 'Canto a voce piena, alla francese'.
Al 1840 risale la pubblicazione parigina del celebre Traité complet de l'Art du Chant di Manuel Garcìa , che può essere considerato il manifesto delle nuove tendenze del canto. In esso sono definite delle normative aliene dai parametri ortofonici della lingua italiana e che non hanno precedenti teorici nei trattati dei maestri del belcanto. Continuando il percorso didattico tracciato da Tosi e Mancini, il Garcìa prescriveva ancora l'unione dei registri, ma del tutto irrelate alla tradizione vocale e alla lingua italiana erano alcune indicazioni riguardanti la pronunzia delle vocali. La ricerca del 'timbro' adatto era codificata come un vero e proprio 'mécanisme', che sicuramente raccoglieva consuetudini precedentemente diffuse ma non ancora ufficializzate: "l'a s'approche de l'o ouvert; l'è ouvert s'approche de l'é, puis de l'eu; l'i s'approche de l'u sans le secours des lèvres; l'o s'approche de l'ou" . Consono soprattutto all'idioma francese, sembra che questo criterio sia stato enunciato da Garcìa non tanto in relazione alla lingua, quanto con finalità espressive:
"[...] le timbre de la voix doit se modifier autant que nos passions l'exigent. Si la mélodie et les paroles exprimaient une profonde douleur, le timbre qui ferait briller l'instrument fausserait la pensée [...] Si la mélodie, au contraire, exprime des sentiments brillants, le timbre clair peut seul fournir et la couleur de la passion et l'émission éclatante du son. Le timbre couvert produirait l'effet de l'enrouement".
Nell'opera seria ottocentesca gli argomenti e le situazioni erano presi a prestito prevalentemente dal romanticismo letterario e dal romanzo storico. Grandi eroine, violente emozioni, tragici epiloghi costituivano gli ingredienti irrinunciabili per librettisti e compositori. Le passioni erano atteggiate più spesso a dolore che a gioia e i momenti di travaglio interiore erano assai più frequenti della scanzonata spensieratezza di tanti personaggi che avevano caratterizzato opere semiserie e buffe del '700 italiano.
Il cuore geografico dell'Europa del XIX secolo coincideva con quello politico e culturale e il gusto musicale del grand-opéra prediligeva apparati scenografici, corali e orchestrali imponenti. Per quanto opportuno, era impossibile mutare la struttura anatomica dell'organo vocale solista per adeguarne in proporzione il volume; tale risultato è ottenibile oggigiorno unicamente ricorrendo a supporti di amplificazione artificiale, impensabili per l'epoca. Le differenti tecniche di costruzione degli strumenti musicali finalizzate all'accrescimento della potenza sonora, la dilatazione degli organici orchestrali, e l'edificazione di teatri in dimensioni più vaste, furono senz'altro determinanti per la diffusione delle modificazioni vocaliche statuite dal Garcìa. Forse concepito inizialmente solo per esigenze interpretative, tale orientamento pragmatico si rivelò vantaggioso per il potenziamento della voce, soprattutto nelle note acute. Inoltre, la fortuna dilagante della lingua francese nel melodramma, unita alla genesi sempre più frequente di opere in lingua non italiana, acuirono i cambiamenti nella fonazione cantata: tutto ciò non fece che intaccare ulteriormente la comprensibilità del testo. Va poi sottolineato che le nuove tendenze del canto esponevano i cantanti ad un rischio maggiore, relativo all'insorgenza di patologie sia funzionali che organiche, a carico dell'apparato vocale.
Dalla prima metà dell'800 si ebbe così un mutamento nello stile e nella vocalità, con una spiccata preferenza di 'suoni oscuri, voce di petto e declamazione' , al canto settecentesco italiano virtuosistico e fiorito.
Fra i cantanti prevalse l'uso della voce di petto, meno pronta all'agilità 'di gorgia' ma più potente di quella di testa. Per cantare le note acute con tale registro è necessario 'girare' i suoni applicando il sistema di pronunzia esposto da Garcìa per il 'colore oscuro'. La nuova moda della 'voix sombrée' non prese piede improvvisamente, né segnò un cambiamento repentino in contrasto con la vocalità precedente. Seguendo l'antica tecnica dell'impasto dei registri che facilita l'emissione di note anche molto acute mantenendo un timbro chiaro, Mattia Battistini ottenne risultati di dolcezza e intellegibilità difficilmente udibili da un cantante odierno dello stesso registro vocale . Il celebre FRANCESCO TAMAGNO fu scelto da Verdi per la parte di protagonista nell'Otello. Tale ruolo viene oggi notoriamente considerato eroico sia drammaticamente che vocalmente. Eppure nelle incisioni di questo leggendario cantante si possono ascoltare acuti di grande squillo come di suggestiva morbidezza, eseguiti mescolando sapientemente il suono di petto con quello di testa . Oggidì i tenori considerati idonei per ruoli drammatici difficilmente riescono a cantare piano e con grazia, e in particolar modo su tessiture alte; la responsabilità di tale inattitudine viene erroneamente attribuita non all'imperizia tecnica, bensì alla natura vocale congenita.
Da un'incisione del 1906 presente in una diffusa antologia discografica , si può agevolmente constatare che lo storico soprano Adelina Patti all'età di sessantatré anni possedeva una freschissima voce, estesa e robusta anche sulle note basse, similmente ad altre cantanti che figurano nella raccolta. Complessivamente la vocalità della Patti è affine a quella del suo contemporaneo ALESSANDRO MORESCHI : cantore della Cappella Pontificia, fu l'ultimo e unico castrato di cui si abbiano testimonianze registrate. Ancora due secoli dopo le Opinioni del Tosi, Moreschi mischia gradatamente l'emissione naturale o 'di petto' nel registro grave con quella 'di testa' nella regione più acuta della voce. 'L'angelo di Roma', come questi era meritatamente appellato, la Patti e tutti i cantanti coevi pronunziano le vocali aperte con una nettezza inequivocabile, caratteristica negletta dal canto lirico odierno. Oggi infatti le cantanti alterano la dizione in modo sistematico al di fuori di reali esigenze espressive, uniformandosi pedissequamente al colore scuro dei cantanti di sesso maschile, soprattutto baritoni e bassi. Solamente i tenori, unici fra tutti i ruoli vocali, hanno mantenuto una sufficiente equivalenza fonematica fra parola cantata e parola parlata. Purtroppo la difformità della pronunzia sul registro di testa prevalentemente usato dalle voci femminili - è ancor più evidente; le conseguenze sono palesi a tutti e sgradite a molti: 'casta diva' si canta sempre più spesso 'costa düva'; 'kyrie' 'korüe', e 'di primavère' 'do promovére'... Alla luce di una lettura esegetica, questo artificio appare filologicamente scorretto anche per l'esecuzione di composizioni di Rossini, Bellini, Donizetti, o di altri compositori ottocenteschi italiani. Lo studio attuale del canto mira a rendere omogenea la voce, ma giustifica eccessi tali da sublimarla in modo quasi astratto, alienandola dalla natura primaria dell'organo vocale, che dovrebbe sempre tener ben presente che la sua scintilla vitale è la parola. Molti reputano che una 'è' o una 'ò' aperte disturbino con la loro chiarezza la conformità dell'emissione e del timbro, e, allo scopo di perseguire un suono 'nobile' e levigato, si discostano dalla giusta pronunzia provocando l'incomprensibilità del testo...": testo da CONSIDERAZIONI SULLA TECNICA DEL CANTO ITALIANO DAL SEC. XVI AI GIORNI NOSTRI di Antonella Nigro in Celebri Arie Antiche: le piu' note arie del primo Barocco italiano trascritte e realizzate secondo lo stile di Claudio Dall'Albero e Marcello Candela. - casa editrice Rugginenti.



Per quanto riguarda la composizione, sappiamo che essa si mantenne fedele a moduli tradizionali fino alla fine del V secolo a.C.: questa fedeltà dovette necessariamente significare la ripetizione continua di schemi strutturali e melodici che costituivano gli elementi caratterizzanti dei particolari generi di canto.
Platone (Leg. III 700a sgg.) ricorda che in passato i diversi generi musicali erano ben distinti e ciascuno aveva il suo carattere specifico: la preghiera agli dei, l’inno, non si confondeva con il lamento funebre, con il peana, con il ditirambo, con il nomos; non era lecito al compositore attribuire a queste forme di canto una destinazione diversa da quella stabilita dalla tradizione.
Per Platone, trasgredire questa norma comportava anche la dissoluzione dell’ordine politico e sociale.
La composizione musicale in Grecia mantenne fino al IV sec. a.C. questi caratteri di improvvisazione - variazione secondo le esigenze del momento e nel contempo di ripetitività nell’ossequio della tradizione: dunque il compositore adeguava il canto all’occasione senza modificare gli elementi caratterizzanti del genere che non dovevano in alcun modo essere alterati.
Una svolta importante nell’ambito della cultura musicale greca si ebbe nel VI sec. a.C. In questo periodo si inquadra l’evoluzione del coro ditirambico (legato al culto dionisiaco) : i coreuti non eseguivano più la loro danza spostandosi secondo una linea retta, con gli stessi movimenti che caratterizzavano le danze processionali, ma disposti attorno all’altare del dio compivano le loro evoluzioni secondo una linea curva, prima in un senso (strofe), poi nell’altro, riprendendo lo stesso schema ritmico (antistrofe), e infine limitando il loro spostamento in un’area ristretta (epodo).
Dopo la metà del VI secolo, con l’istituzione dei concorsi ditirambici, il clima di contesa agonistica che si instaurò tra gli autori partecipanti dovette favorire l’attenuazione del carattere rituale - ripetitivo del canto ditirambico.
Questo nuovo modo di intendere la fedeltà alla tradizione si trasmise presto anche agli altri generi lirici e musicali: al nomos, al canto rituale che per la sua stessa natura doveva rimanere sostanzialmente immutato nei suoi elementi melodici, si sostituì come struttura portante delle nuove composizioni l’harmonia .
Il significato originario di questo termine era quello di "giuntura, connessione, adattamento", e quindi di "patto, convenzione"; in senso musicale il suo primo valore fu quello di "accordatura di uno strumento" e di conseguenza "disposizione degli intervalli all’interno della scala": ma il significato di harmonia nelle opere degli scrittori del VI - V secolo a.C. ebbe uno spazio semantico molto più esteso di quello di "scala modale" attribuitole dai teorici di età greca e romana.
Harmonia indicava infatti un complesso di caratteri che concorrevano a individuare un certo tipo di discorso musicale: non solo una particolare disposizione degli intervalli, ma anche una determinata altezza dei suoni, un certo andamento melodico, il colore, l’intensità, il timbro che erano gli elementi distintivi della produzione musicale di uno stesso ambito geografico e culturale.
Il sistema musicale si fondava sui cosiddetti tetracordi, cioè su successioni di quattro suoni discendenti. A seconda dell’ampiezza degli intervalli che separavano tra di loro questi quattro suoni, si avevano vari tipi di tetracordo: quando la successione degli intervalli era di tono, tono e semitono, il tetracordo era detto dorico; quando la successione degli intervalli era di tono semitono, tono, il tetracordo era detto frigio; quando la successione degli intervalli era di semitono, tono, tono, il tetracordo era detto lidio.
"Agganciando" assieme due tetracordi dello stesso tipo, si aveva una harmonia che prendeva anch’essa il nome di dorica, frigia, lidia.
La prima aveva un carattere energico e severo, la seconda dolce e piacevole, la terza invece delicato e lamentoso.
Le harmoniai sono dotate ciascuna di un particolare ethos, ossia di uno specifico "carattere", in grado di agire emozionalmente in senso positivo o negativo sull’animo umano e pertanto di importanza fondamentale in ambito pedagogico.
La dottrina di Damone, maestro e consigliere di Pericle, prende avvio dal principio fondamentale della psicologia pitagorica, che cioè vi sia una sostanziale identità tra le leggi che regolano i rapporti tra i suoni e quelle che regolano il comportamento dell’animo umano.
La musica può incidere sul carattere, soprattutto quando esso è ancora plasmabile e malleabile per la giovane età (fr.7 Lasserre): è necessario individuare tra i vari tipi di melodie e di ritmi quelli che hanno il potere di educare alla virtù, alla saggezza e alla giustizia (fr.6 Lasserre).
Nel definire e analizzare i generi delle harmoniai Damone afferma che solo la dorica e la frigia hanno una funzione paideutica positiva per il comportamento valoroso in guerra e saggio e moderato in pace (fr.8 Lasserre). In un passo della Repubblica (IV 424c) a Damone è attribuito anche un giudizio sul rapporto musica - società che sarà poi ripreso e sviluppato altrove dallo stesso Platone: non si deve mutare il modo di fare musica se non si vuole correre il rischio di sovvertire anche le istituzioni e le leggi dello stato.
La classificazione sistematica delle harmoniai secondo criteri etici oltre che formali costituì la base della teorizzazione musicale posteriore, ellenistica e romana, orientata verso i problemi di matematica e etica musicale.




Per quanto riguarda la composizione, sappiamo che essa si mantenne fedele a moduli tradizionali fino alla fine del V secolo a.C.: questa fedeltà dovette necessariamente significare la ripetizione continua di schemi strutturali e melodici che costituivano gli elementi caratterizzanti dei particolari generi di canto.
Platone (Leg. III 700a sgg.) ricorda che in passato i diversi generi musicali erano ben distinti e ciascuno aveva il suo carattere specifico: la preghiera agli dei, l’inno, non si confondeva con il lamento funebre, con il peana, con il ditirambo, con il nomos; non era lecito al compositore attribuire a queste forme di canto una destinazione diversa da quella stabilita dalla tradizione.
Per Platone, trasgredire questa norma comportava anche la dissoluzione dell’ordine politico e sociale.
La composizione musicale in Grecia mantenne fino al IV sec. a.C. questi caratteri di improvvisazione - variazione secondo le esigenze del momento e nel contempo di ripetitività nell’ossequio della tradizione: dunque il compositore adeguava il canto all’occasione senza modificare gli elementi caratterizzanti del genere che non dovevano in alcun modo essere alterati.
Una svolta importante nell’ambito della cultura musicale greca si ebbe nel VI sec. a.C. In questo periodo si inquadra l’evoluzione del coro ditirambico (legato al culto dionisiaco) : i coreuti non eseguivano più la loro danza spostandosi secondo una linea retta, con gli stessi movimenti che caratterizzavano le danze processionali, ma disposti attorno all’altare del dio compivano le loro evoluzioni secondo una linea curva, prima in un senso (strofe), poi nell’altro, riprendendo lo stesso schema ritmico (antistrofe), e infine limitando il loro spostamento in un’area ristretta (epodo).
Dopo la metà del VI secolo, con l’istituzione dei concorsi ditirambici, il clima di contesa agonistica che si instaurò tra gli autori partecipanti dovette favorire l’attenuazione del carattere rituale - ripetitivo del canto ditirambico.
Questo nuovo modo di intendere la fedeltà alla tradizione si trasmise presto anche agli altri generi lirici e musicali: al nomos, al canto rituale che per la sua stessa natura doveva rimanere sostanzialmente immutato nei suoi elementi melodici, si sostituì come struttura portante delle nuove composizioni l’harmonia .
Il significato originario di questo termine era quello di "giuntura, connessione, adattamento", e quindi di "patto, convenzione"; in senso musicale il suo primo valore fu quello di "accordatura di uno strumento" e di conseguenza "disposizione degli intervalli all’interno della scala": ma il significato di harmonia nelle opere degli scrittori del VI - V secolo a.C. ebbe uno spazio semantico molto più esteso di quello di "scala modale" attribuitole dai teorici di età greca e romana.
Harmonia indicava infatti un complesso di caratteri che concorrevano a individuare un certo tipo di discorso musicale: non solo una particolare disposizione degli intervalli, ma anche una determinata altezza dei suoni, un certo andamento melodico, il colore, l’intensità, il timbro che erano gli elementi distintivi della produzione musicale di uno stesso ambito geografico e culturale.
Il sistema musicale si fondava sui cosiddetti tetracordi, cioè su successioni di quattro suoni discendenti. A seconda dell’ampiezza degli intervalli che separavano tra di loro questi quattro suoni, si avevano vari tipi di tetracordo: quando la successione degli intervalli era di tono, tono e semitono, il tetracordo era detto dorico; quando la successione degli intervalli era di tono semitono, tono, il tetracordo era detto frigio; quando la successione degli intervalli era di semitono, tono, tono, il tetracordo era detto lidio.
"Agganciando" assieme due tetracordi dello stesso tipo, si aveva una harmonia che prendeva anch’essa il nome di dorica, frigia, lidia.
La prima aveva un carattere energico e severo, la seconda dolce e piacevole, la terza invece delicato e lamentoso.
Le harmoniai sono dotate ciascuna di un particolare ethos, ossia di uno specifico "carattere", in grado di agire emozionalmente in senso positivo o negativo sull’animo umano e pertanto di importanza fondamentale in ambito pedagogico.
La dottrina di Damone, maestro e consigliere di Pericle, prende avvio dal principio fondamentale della psicologia pitagorica, che cioè vi sia una sostanziale identità tra le leggi che regolano i rapporti tra i suoni e quelle che regolano il comportamento dell’animo umano.
La musica può incidere sul carattere, soprattutto quando esso è ancora plasmabile e malleabile per la giovane età (fr.7 Lasserre): è necessario individuare tra i vari tipi di melodie e di ritmi quelli che hanno il potere di educare alla virtù, alla saggezza e alla giustizia (fr.6 Lasserre).
Nel definire e analizzare i generi delle harmoniai Damone afferma che solo la dorica e la frigia hanno una funzione paideutica positiva per il comportamento valoroso in guerra e saggio e moderato in pace (fr.8 Lasserre). In un passo della Repubblica (IV 424c) a Damone è attribuito anche un giudizio sul rapporto musica - società che sarà poi ripreso e sviluppato altrove dallo stesso Platone: non si deve mutare il modo di fare musica se non si vuole correre il rischio di sovvertire anche le istituzioni e le leggi dello stato.
La classificazione sistematica delle harmoniai secondo criteri etici oltre che formali costituì la base della teorizzazione musicale posteriore, ellenistica e romana, orientata verso i problemi di matematica e etica musicale.



Scrive, nel saggio (on line sul WEB) LA MUSICA NEL MONDO ROMANO Considerazioni su alcune categorie di musicisti , la studiosa EMANUELA GRASSI:
. "Nel mondo antico la musica rivestì un ruolo di primaria importanza sia nella vita pubblica che in quella privata: nonostante l' assenza di testimonianze dirette del repertorio musicale romano, dalle fonti letterarie ed archeologiche apprendiamo che la musica nella società romana, originariamente presente solo in occasione di solennità religiose, riti funebri e trionfi, ricevette un forte impulso in seguito ai contatti con la civiltà greca, diffondendosi in numerosi settori della vita collettiva quali la sfera militare, le manifestazioni pubbliche, i banchetti, gli spettacoli scenici ed anfiteatrali. E' opportuno osservare che esisteva una differenza sostanziale tra Greci e Romani nella valutazione dell' elemento musicale: infatti a Roma la pratica di quest' arte non faceva parte integrante, come in Grecia, dell' educazione del cittadino libero,ma aveva essenzialmente un fine pratico o ludico. Proprio per questo motivo, in particolare dal III sec. a.C. in poi, la musica si diffuse gradualmente a Roma come genere artistico indipendente soprattutto in ambito teatrale e privato con la conseguente creazione, in età imperiale, di figure di musicisti professionisti. Il panorama musicale romano presenta quindi innumerevoli aspetti interessanti: in questa sede mi sembra opportuno soffermarci sui musicisti particolarmente significativi all' interno delle categorie dei suonatori di strumenti a fiato (tibicines), a corda (
suonatori di cetra e di lira) e a percussione(scabillarii). La classe di suonatori di strumenti a fiato maggiormente attestati a Roma dalle fonti letterarie, figurative ed epigrafiche sono senza dubbio i tibicines, suonatori di tibia, strumento a fiato corrispondente all' aulós greco. Questa circostanza, piuttosto che ad una casualità, si deve attribuire al fatto che numerosi erano gli ambiti in cui i tibicines svolgevano la loro professione (pubblico, privato, teatrale), come si desume dalle diverse denominazioni delle tibiae, classificate in base al materiale ed alla differente destinazione: grazie a Plinio, che fornisce anche indicazioni sul tipo di canna o di legno più idoneo alla costruzione di questo strumento, siamo a conoscenza dell' esistenza di tibiae sacrificae, in legno di bosso, usate nei sacrifici religiosi, di tibiae ludicrae, in legno di loto o di osso d' asino od in argento, impiegate durante gli spettacoli. Ovidio parla inoltre di tibiae funebres, suonate in occasione dei funerali: a questo proposito sappiamo da Cicerone che, nell' ambito delle norme che regolamentavano lo svolgimento dei funerali, il numero dei suonatori di tibia fu limitato a dieci per limitare le manifestazioni di lusso.
In ambito scenico, in particolare durante le rappresentazioni tragiche, il tibicen introduceva lo spettacolo esibendosi in un a solo dal quale gli spettatori più preparati erano in grado di riconoscere la tragedia, prima che ne fosse annunciato il titolo. Nelle commedie invece, oltre ad accompagnare i cantica, parti cantate che si alternavano a quelle recitate, deverbia, il tibicen si esibiva generalmente durante gli intervalli tra un atto e l' altro e come apprendiamo dalle didascalie delle commedie di Terenzio, contenenti il nome del tibicen e la menzione di vari tipi di tibiae utilizzate a seconda della melodia da eseguire (pares di uguale lunghezza, impares, sarranae o fenicie), l' esecutore era pure autore delle musiche. Il suonatore di tibia rivestiva un ruolo di primo piano anche nelle rappresentazioni pantomimiche, al pari del moderno direttore d' orchestra.
Tra i tibicines più famosi si annoverano Tigellio, morto nel 40 o 39 a.C., molto stimato da Cesare e Cleopatra, poi da Ottaviano, e Princeps, d' età augustea, che accompagnava il celebre pantomimo Bathyllus.
I suonatori di tibia costituivano inoltre un' organizzazione ufficiale il cosiddetto collegium tibicinum Romanorum, uno degli antichi collegi istituiti secondo la leggenda da Numa ed esonerato dai vari provvedimenti legislativi emanati nel I sec. a.C. per eliminare i focolai di agitazioni politiche che si fossero celati dietro apparenti fini corporativi. Questi musicisti facevano parte degli apparitores religiosi ed accompagnavano, al suono della tibia, lo svolgimento dei trionfi, delle processioni, dei sacrifici agli dei celebrati in occasione delle cerimonie sacre pubbliche. Infatti numerosi rilievi e vari passi degli autori antichi documentano che i tibicines assistevano i sacerdoti durante i sacrifici, come indica la formula qui sacris publicis praesto sunt, parte integrante della denominazione collegiale ufficiale; la loro funzione era divenuta così importante che quando nel 312 a.C. protestarono per essere stati privati dell' antico diritto di partecipare al banchetto in onore di Giove Capitolino, ritirandosi a Tivoli, fu necessario ricorrere ad uno stratagemma ed approfittare del loro stato di ebbrezza per riportarli a Roma. Oltre che a Giove il collegium tibicinum era anche devoto a Minerva: infatti alle Quinquatrus Minusculae (Idi di giugno), i tibicines celebravano la propria festa con una processione in maschera nel Foro fino al tempio della dea sull' Aventino.
Tra gli strumenti a corda, la cetra e la lira furono quelli maggiormente apprezzati nell' antichità: nel mondo greco la prima era soprattutto utilizzata, nelle manifestazioni agonistiche, da musicisti professionisti, mentre la seconda, non a caso ritenuta d' origine autoctona, veniva suonata soprattutto nei banchetti per accompagnare i canti conviviali ed era considerata lo strumento nobile per eccellenza adatto, a differenza dell' aulós, all' educazione degli uomini liberi. Nel mondo romano la cetra conobbe una maggiore predilezione, assumendo una funzione di primo piano, oltre che nei ricevimenti privati, nelle esibizioni solistiche destinate ad esecutori professionisti (citharistica) ed in quelle in cui questo strumento accompagnava il canto (citharoedia). Per quanto riguarda le tecniche esecutive sappiamo che entrambi gli strumenti venivano suonati sia stando in piedi che seduti e che il musicista poteva pizzicare le corde con le sole dita oppure utilizzare il plectrum, un piccolo oggetto di forma allungata di osso, avorio o metallo. A Roma i suonatori/-trici di cetra erano denominati psaltai e psaltriae: il termine yalth indicava originariamente colui che suonava la cetra servendosi solamente delle dita, per distinguerlo dal ciqapisth , che invece si avvaleva dell' uso del plectrum. Successivamente queste denominazioni, perduto il loro significato specifico, finirono per designare colui che cantava con l' accompagnamento di uno strumento a corda. Questi musicisti, riuniti associazione professionale denominata synhodus magna psaltum, non si esibivano in contesti drammatici od agonistici come in Grecia, ma svolgevano la loro attività presso ricchi cittadini romani tra i quali era invalsa l' abitudine di organizzare banchetti sempre più sontuosi, come se la nobiltà si misurasse dalla sfarzosità di tali avvenimenti.
In età cristiana sorse un' accesa polemica nei confronti dei musicisti conviviali, tra cui le psaltriae, che la Chiesa consigliava di sostituire con esecutori di inni e canti spirituali; a questo proposito apprendiamo dalle fonti letterarie che si ricorse anche a sinodi e concili per limitare il diffuso fenomeno dei banchetti musicali pagani, considerati pericolosi per l'integrità morale dei fedeli. Nella seconda metà del IV sec. d.C. San Gerolamo, in un' epistola, ammoniva i fedeli ad espellere dalle proprie case le suonatrici di lira e di cetra, definendole "coro diabolico".
Successivamente l' imperatore Teodosio II emanò un provvedimento, rielaborato e maggiormente definito nel Codice Teodosiano [vedi = LIBRO XV - 5.10, DE SPECTACULIS - CAPO 7.10 DELL' IMPERATORIS THEODOSIANI CODEX]
con il quale si vietava a chiunque di comprare, istruire, vendere ed impiegare in banchetti o spettacoli cantanti e musicisti di sesso femminile. Un' altra testimonianza su questo argomento è l' elogio di Sidonio Apollinare nei confronti di Teodorico II, re dei Visigoti (seconda metà del V sec. d.C.), che, discostandosi dall' usanza comune, non accoglieva a corte musicisti virtuosi e grandi complessi strumentali, ma, durante i banchetti, consentiva solo l' esecuzione di melodie al suono sobrio della lira.
Tutta una serie di restrizioni legislative avverso le donne teatranti e le cantanti professioniste (peraltro acclarata da una certa visione sociale romana e sancita dalla stessa legislazione imperiale, pur senza l'applicazione di divieti tanto imperiosi) che sarebbe stata destinata a prolungarsi nel tempo, di volta in volta raggiungendo apici di aggressività antifemminista: come nel caso di autori medievali citati e recuperati non solo dall'Aprosio ma dalla cultura tutta o quasi del suo tempo.
Per quanto concerne i suonatori di lira sappiamo che costituivano il collegium fidicinum Romanorum indicato con la formula abbreviata q(ui) s(acris) p(ublicis) p(raesto) s(unt), che contraddistingue anche la denominazione del collegium tibicinum Romanorum, insieme al quale, ma anche singolarmente, accompagnava lo svolgimento dei sacra publica.
All' interno della categoria dei suonatori di strumenti a percussione degno di nota è il cosiddetto collegium scabillarorum costituito dai suonatori di scabellum, uno strumento d' origine greca formato da una coppia di tavolette lignee sovrapposte, contenenti dei crotala, che, azionato con il piede serviva a scandire il ritmo e dirigere i movimenti dell' attore durante le esibizioni mimiche e pantomimiche. Questo strumento che in Grecia aveva una funzione pressocchè marginale, a Roma, con il progressivo aumento del numero dei musicisti impiegati negli spettacoli teatrali, portò alla formazione di una vera e propria orchestra composta da suonatori di cetra, cymbala, fistula, tympana, crotala, tibia, diretti da uno scabillarius: è questo infatti, oltre a funzioni secondarie come dare il segnale per l' apertura e la chiusura del sipario, il ruolo principale di questo musicista, che talvolta suonava sia lo scabillum, fissato al piede, che la tibia assumendo un ruolo paragonabile a quello del direttore d' orchestra moderno.
In conclusione, dall' analisi delle suddette categorie di suonatori, si desume che nel mondo romano, questi musicisti professionisti partecipavano alle manifestazioni pubbliche, oppure, svolgevano la loro attività in ambito privato, come musicisti conviviali, o teatrale, accompagnando l' orchestra durante le rappresentazioni comiche o tragiche, ma soprattutto, in seguito al declino in età imperiale di questi due generi di spettacolo, durante quelle mimiche e pantomimiche. Un ultimo aspetto significativo è la notevole diffusione del fenomeno associativo all'interno del panorama musicale romano: infatti, come accennato, sopra era molto frequente che alcune classi di musicisti costituissero collegi professionali col preminente scopo di assicurare una sepoltura ad ogni membro dell' associazione.
Fu in questo ambiente culturale così vario e composito che si formò nel I-II secolo il primo nucleo dei canti cristiani. I primi fedeli che costituirono la chiesa di Roma erano ebrei, e nella salmodia ebraica noi possiamo senz’altro individuare uno degli elementi fondamentali delle primitive espressioni musicali cristiane; tuttavia il canto liturgico si arricchì di motivi eterogenei, cui certamente non fu estranea la influenza della musica greco - romana. La contrapposizione ideologica tra cristiani e pagani condizionò tuttavia anche la musica del culto. Nel 313 Costantino concesse ai cristiani la libertà di culto e più tardi Teodosio fece del Cristianesimo la religione ufficiale dello Stato: per soddisfare l’esigenza di una partecipazione corale al rito, accanto alla salmodia solistica e al canto responsoriale, si introdusse nella liturgia cristiana anche il canto antifonale, eseguito da tutti i fedeli divisi in due semicori. Questi modi di esecuzione vocale costituirono i punti di partenza perla successiva evoluzione delle forme musicali del Medioevo: alla caduta dell’Impero d’Occidente, solo la musica della Chiesa si salvò dall’offuscamento e dalla scomparsa della tradizione musicale classica e fu in grado di fornire un contributo determinante alla formazione delle nuove culture musicali nazionali.









La musica prima del 1000: il CANTO GREGORIANO
Il medioevo è un'epoca che copre quasi 1000 anni di storia: va infatti all'incirca dalla fine del V secolo a.d. fino al xv secolo. Questo lungo periodo storico è ricchissimo di musica. Tuttavia nella maggior parte dei casi questa musica non aveva la funzione che noi moderni le attribuiamo. Anche la musica medievale come quella antica, è ancora buona parte musica di "vita", da suonare per il tramite di STRUMENTI in parte ora scomparsi, per accompagnare un lavoro, una battaglia, un banchetto, una festa o una celebrazione. Musica insomma che aveva una funzione pratica più esterna. Questa musica veniva spesso improvvisata o composta per delle occasioni particolari. Non aveva quindi bisogna di essere scritta e tramandata ai posteri, essendo destinata a essere eseguita una sola volta. Per questo della musica medievale si hanno pochi documenti. Così non era per la musica sacra che doveva resistere a lungo nel tempo, poiché le varie cerimonie religiose dovevano resistere a lungo perché erano ripetute nel tempo. Anche la musica sacra aveva uno scopo: quella di arricchire la preghiera e dargli più importanza. I primi canti religiosi erano quasi parlati e si ispiravano ai testi biblici. In seguito al IV secolo si diffusero altri tipi di musica religiosa tra i quali "l'inno" che data la sua facilita melodica si diffusero facilmente. Intanto in occidente si erano sviluppate tradizioni liturgiche locali, e anche il canto religioso si era sviluppato, ma con diverse caratteristiche in base alla regione. Per esempio a Roma il canto religioso si ispirava alla musica ebraica e e greca. Qui alcuni pontefici tra cui papa Gregorio Magno (590-604) fecero una revisione dei canti liturgici. Dall'evoluzione del canto religioso romano nacque il canto gregoriano che prese il nome proprio da Gregorio Magno. In questo periodo nacque la notazione neumatica che permise di ricordare con più precisione le melodie. Il canto gregoriano era basato su un testo latino ( lingua ufficiale della chiesa) ed era monodico ( cioè tutti i cantori cantavano la stessa melodia). A volte la melodia era semplice e il canto poteva sembrare una recitazione intonata, a volte poteva essere ricco di fioriture e note. Il canto gregoriano era usato per le cerimonie religiose. C'erano i canti d'ufficio, che venivano recitati dai religiosi in vari momenti della giornata, e i canti usati per le messe.
Dopo il 1000; la POLIFONIA
Dal tronco del gregoriano col tempo nacquero delle derivazioni: la polifonia. Si ha la polifonia quando due o più persone cantano o suonano insieme una diversa melodia. Il gregoriano era monodico anche se i cantori che cantavano erano molti. Alla metà del XII secolo presso la cattedrale di Notre-Dame nasce una importante scuola polifonica grazie a due grandi musicisti che ci lavoravano: Leonino e Perotino. Essi scrivevano musiche a due o più voci che venivano chiamate oragna. Parigi assunse molta importanza in questa fase della storia della musica, perché era uno dei centri universitari d'Europa. La polifonia sottintendeva proprio una concezione della musica meno ideale, meno spirituale, più matematica, infatti comporre a 2 voci richiedeva di calcolare la durata dei suoni con la massima precisione. Proprio per questo nacque la cosiddetta notazione mensurale.
La musica profana: TROVATORI - TROVIERI
Poco dopo il 1000 la musica profana cominciò ad arricchirsi soprattutto in Francia con dei poeti-musicisti che scrivevano poesie che in seguito cantavano con delle melodie fatte da loro.
Questi musicisti erano nobili, feudatari, cavalieri e dame che non facevano il musicista di mestiere ma si dilettavano a comporre raffinate musiche da cantare ad esempio ad una festa.
A seconda della zona in cui vivevano essi erano chiamati
trovatori o trovieri.
Gli argomenti trattati dai trovatori e dai trovieri erano vari ma soprattutto parlavano d'amore.
Gli sviluppi della musica nel trecento: ARS NOVA
Nel 1300 si sviluppò un'arte nuova che prese il suo nome da un trattato di un'insegnante francese.
Con l'espressione "arte nuova" Vitry voleva intendere le progressioni fatte nella scrittura della musica.
La caratteristica dell'Ars Nova fu quella di attribuire la polifonia a la musica profana.
L'Ars Nova si sviluppò soprattutto in Italia e in Francia.
Il massimo esponente di questa nuova corrente musicale fu Guillame de Machault, che lascio numerose composizioni sia sacre che profane particolarmente raffinate e complesse.
In Italia il culmine dell'Ars Nova fu Francesco Landino a Firenze.
Questo musicista, cieco dalla nascita fu autore di moltissima musica da organo.
Poiché Landino improvvisava la sua musica non ci è pervenuta.
Invece conosciamo le sue composizioni vocali che stranamente erano profane.
LA DANZA
Gaia e festosa fino a tutto il Trecento, veloce e geometrica nel Quattrocento, la danza tra medioevo e Rinascimento è un fenome storico del quale solo da pochissimo tempo forse un decenio si è intrapreso in Italia uno studio organico che tiene conto di tutto i punti di riferimento storici, iconografici, poetico utili per arrivare alla comprensione e alla riproposizione al publico. Si parte con la ricostruzione di movimenti e coreografie delle danze medievali, possibile solo con l'analisi del materiale iconografico disponibile e la comparazione con le musiche da danze più antiche. Un esempio è il "codice London", conservato al British Museum: redatto in Italia, nel sud della Toscana o in Umbria, tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV, contiene una raccolta di "Istanpitte" o "Estampide", "Saltarelli", "Trotto" e due composizioni più lunghe "Lamento di Tristano e Rotta", "Manfredina e Rotta della Manfredina". Su alcuni di questi reperti musicali è stato possibile ricostruire alcuni momenti di danza: balli in cerchio, danze processionali, a catena aperta che si snodano passando sotto l'arco formato da una coppia che, a braccia levate, si tiene per mano o per un corto bastoncino, come nel celebre affresco di AMBROGIO LORENZETTI ( il Buon Governo) nel Palazzo Publico di Siena. L'altro riferimento e filone di ricerca, molto più ampio è quello sulla danza del Quattrocento italiano. In questo periodo compaiono i primi codici, opera dei maestri attivi alle corti dei signori del tempo. In particolare "DE ARTE SALTANDI ET CHOREAS DUCENDI" di Domenico da Piacenza, " DE PRATICA SEU ARTE TRIPUDII VULGARE OPUSCULUM" di Guglielmo Ebreo da Pesaro e "LIBRO DELL'ARTE DEL DANZARE" di Antonio Cornazano. I testi erano scritti per essere donati ai principi, "datori di lavoro" dei maestri di ballo, e allora erano ricercati e miniati, oppure erano semplici promemoria per i maestri, e quindi redatti con la scrittura diplomatica dell'epoca. In entrambi i casi la descrizione delle danze era precisa, ma sintetica, con scarsi riferimenti a particolari come la posizione delle mani, l'orientamento interno della sala o negli altri luoghi deputati al ballo, la posizione delle coppie e cosi via. Particolari che possono essere ricostruiti oggi grazie ai molti dipinti, miniature e affreschi, giunti fino a noi, spesso di straordinaria precisione di particolari. Il patrimonio costituito dalle danze italiane del Quattrocento non è soltanto un'inesauribile miniera di movenze, coreografie, musiche, è anche un modo per riscoprire, nella maniera più genuina e innovativa, il modo di essere e di pensare che caratterizzò la vita sociale e di corte dell'Umanesimo. La danza non era solo un passatempo, un divertimento, una tecnica di corteggiamento, una forma ludica. In quelle coreografie geometriche, nella matematica rispondenza di musica e passo, di partizioni del terreno e di movenze, c'è tutta la poesia e la concretezza del Rinascimento.









"Con la Controriforma, la Chiesa di Roma persegue un programma di centralizzazione culturale a tutto campo, e ciò é più che mai evidente nei rapporti con le Arti figurative e la Musica sacra. Per quanto riguarda il Rito e il Cerimoniale della Liturgia, ed il ruolo che la Musica vi svolge, la Chiesa romana tenterà naturalmente di imporre una regolamentazione in senso unitario: nella realtà, essa dovrà scendere a patti con la molteplicità delle locali tradizioni liturgiche, che in Italia corrispondono ai centri politici, culturali ed economici più rilevanti. Se il Palestrina, morto sul finire del '500, é per eccellenza il Musicista esemplare riconosciuto come tale dal Papato, certo la sua auctorictas non limiterà di molto la prassi della Musica seicentesca, nella quale é innegabile una strisciante secolarizzazione. Venezia é da sempre gelosa della propria autonomia da Roma, ed il Patriarcato non é da meno: il processo di secolarizzazione in atto, viene certo stigmatizzato anche nella città lagunare, quando ad esempio si lamentano gli " abusi non solo negli abiti de' Musici medesimi, ma eziandio negli strumenti e nelle parole che si cantano, si vede anzi riguardarsi il diletto degli ascoltanti più che la divozione...". Ma, nonostante le reprimende dei Procuratori, i margini di tolleranza nei confronti delle" licenze" seicentesche sono certamente più ampi che a Roma. Licenze, che si concretizzavano non solo nell'abbigliamento dei Musici o nel generico "ricercare il diletto": nel Seicento, scompaiono quasi del tutto le Raccolte sistematiche di brani che coprivano il fabbisogno del Calendario sacro,( come erano gli Offertorii del Palestrina stesso) e i Compositori seguitano a produrre per l'Ordinarium Missae e per i Salmi maggiormente frequentati, ma oltre a ciò si pubblicano in gran copia Raccolte di Mottetti atti a sostituire i testi del Proprium Missae e dei Vespri. Le preoccupazioni della Chiesa si rivolgono soprattutto ai testi di queste composizioni che sono mariani, cristologici o più genericamente agiografici, una prassi non sempre inattaccabile dal punto di vista liturgico, testi che potevano anche provenire dalla Letteratura devozionale contemporanea e non essere teologicamente "garantiti". Nella prassi liturgica si arriva comunque al compromesso, fatta salva la validità del Rito con la lettura sottovoce del Proprium da parte del celebrante mentre la Cappella intona il Mottetto sostitutivo, così che tra Canto e Liturgia si instaura un rapporto di simultaneità più che di identità. Problema altro, é un uso estensivo degli strumenti e degli stili extra-ecclesiastici, tanto che, sempre per citare Venezia, i Procuratori sono costretti a decretare l'astensione in Basilica " particolarmente dall'uso di instrumenti bellici, come sono Trombe, Tamburi et altri simili...". Venezia, in questi primi decenni del Seicento, é in ogni caso la città più "libera" e la Cappella Marciana é la più rilevante tra quelle del Nord Italia, dove ferve peraltro una intensa attività nella produzione di Musica sacra: nel 1613, viene chiamato a dirigere la Cappella Claudio Monteverdi, onorato e pagato più di tutti i suoi predecessori, e messo nella condizione di poter comporre opere per loro natura solenni, eccezionali,dai procedimenti formali inadatti ad imitazioni e riprese frequenti, opere adatte ad una Cappella di altissimo rango, in una città fiera delle proprie particolarità. Del resto, tradizioni e specifiche identità potevano vantare, come si é detto, tutte le grandi Chiese degli altri grandi centri ( Napoli, Bologna), tradizioni abbastanza superbe di sé stesse da ostacolare una circolazione agevole del repertorio. Ma nel caso delle Chiese minori e delle Cappelle musicali di provincia, la libera circolazione di un repertorio di largo consumo, é invece assicurata dagli spostamenti frequenti dei Maestri, molti dei quali religiosi, taluni routiniers espertissimi. Alessandro Grandi, é sopra tutti costoro il compositore di maggior talento nel panorama della Musica sacra dell'Italia settentrionale, un valente melodista che darà il suo contributo alla musica vocale in molti generi differenti,dal Mottetto a voce sola ai lavori d'insieme con o senza archi obbligati, dalle Messe orchestrate ai Salmi prodotti negli ultimi anni di attività, senza trascurare che nel periodo veneziano egli é anche uno dei primi produttori di Cantate profane. Presentiamo, con questa incisione monografica a lui dedicata, Mottetti a voce sola, a 4 e 5 voci, Duetti ,Terzetti e Cantilene, tratti dal primo Libro di Mottetti del 1610, dal Quarto, Sesto e dai" Celesti fiori" del 1619, nonché da una Raccolta del 1620. Le molte stampe contemporanee dei suoi Libri di Mottetti e la loro presenza nelle Raccolte, ci mostrano quanto il suo talento fosse ammirato e quanto questo particolare tipo di composizione sacra venisse considerato funzionale. Poco si conosce della sua biografia, né la data di nascita precisa ( comunque tra il 1577 e il 1585 ), né il luogo , da alcuni studiosi genericamente indicato in Sicilia. A Palermo vengono infatti ristampati i suoi primi cinque Libri di Mottetti a 2-3-4-5 voci composti tra il 1610 e il 1619, ma ciò, più che comprovare il luogo di nascita, testimonia la già citata fortuna editoriale di Grandi , le cui opere compariranno in antologie almeno fino al 1670, quarant'anni dopo la morte del musicista. Più probabilmente settentrionale, forse allievo di Giovanni Gabrieli, lo sappiamo prima Musico e poi Maestro di due Confraternite benefiche ferraresi, l'Accademia della Morte e l'Accademia dello Spirito Santo. Ferrara, ceduta dagli Estensi al Papato, non é più la Corte cinquecentesca ma nonostante le risorse più limitate é ancora in grado di attrarre musicisti di talento come Grandi, Donati e Crivelli. Le Confraternite di Ferrara, fondate sul finire del '500, sono caratterizzate dalla forte presenza di interessi e attività musicali, componenti essenziali come testimoniano i Libri delle Regole che i devoti avevano l'obbligo di osservare: Grandi produce, specialmente per l'Accademia dello Spirito Santo, tre volumi di Mottetti tra il 1610 e il 1614. Nel 1617, viene chiamato a Venezia nel ruolo di Vice-Maestro della Cappella Marciana, dove vigeva un sistema assolutamente "professionale" di assunzione basato sull'istituzione di veri e propri concorsi, un sistema diverso da quello in uso nella maggior parte delle Corti dell'epoca, presso cui nomine, favori o rotture di rapporto erano sempre condizionati dall' arbitrio del Signore. A Venezia, le assunzioni presso la Cappella di San Marco sono inoltre vincolate all'assenso del Maestro e Alessandro Grandi lavorerà quindi al fianco di Monteverdi per dieci anni, godendone stima e fiducia. Nella città lagunare, non gli spetta la produzione di Musiche liturgiche per la Basilica: si dedicherà a perfezionare la forma del Mottetto devoto a voce sola, con o senza violini, in grado di esaltare le doti dei migliori solisti marciani ma in realtà funzionale agli spazi più modesti delle Cappelle conventuali, delle Scuole delle Confraternite, degli Oratori delle Ville private in terraferma. Quest'ultima tipologia di edilizia sacra, nata in seguito all'istituzione della Regola di San Filippo Neri nel 1575 e diffusasi in area veneta dai primi anni del Seicento, integrante il sistema-Villa come luogo di culto privato, semipubblico o pubblico, costituisce l'ideale sede ricettiva per il Mottetto a voce sola. I testi non sono liturgici ma semplicemente agiografici,( in taluni casi é prescritto siano " da cantar e sonar col Chitarrone " e non con l'Organo), queste composizioni di Grandi alimenteranno un genere moderno, destinato a lunga vita e fortuna, grazie alle caratteristiche stilistiche che le accomunano alle precedenti Raccolte a più voci e, in generale all'intera opera del Musicista, caratteristiche che oppongono Grandi al "pathos superbamente indecoroso" del Monteverdi sacro, dando vita ad uno stile che é stato definito " intermedio " perché lontano dagli eccessi del virtuosismo canoro e compositivo come dalla severità dello " stile osservato". L'ideale di sobrietà oratoria, che egli cercherà di raggiungere anche quando potrà applicarsi alle grandi composizioni dell'Ordinarium, rivela quello che era il suo pensiero nei confronti del rapporto Musica-Parola e Parola sacra specialmente: il topos cinquecentesco, che esige la Musica serva dell'Orazione per giustificare poi le licenze più ardite del comporre, per Grandi diviene dare opportuno ed elegante risalto ai momenti essenziali del testo mediante le adeguate configurazioni melodiche, armoniche o ritmiche. La dedica dei Mottetti a 5 voci del 1614, così infatti recita con bel linguaggio tornito e abbastanza esplicito da illustrare la sua poetica: " Qui la chiarezza delle parole, non fugge con le fughe del Musico, né l'arte del Parlare perde i suoi pregi con l'Arte del Canto, ma questa s'innalza con quella, s'umilia con lei, corre con lei, piange con lei, ed in qualunque altra maniera quella si disponga, questa più efficacemente promuove gli affetti di lei...Vuolsi da valoroso Compositore rompere sì col Canto la corrente dell'orazione, ma in quella guisa che piacevole ruscelletto, fra pietre minute frange il passaggio dell'acqua...". Sobrietà, eleganza e chiarezza evidentemente ben apprezzate, tanto che quando con la morte di Giovanni Cavaccio si rende disponibile il posto di Maestro a Santa Maria Maggiore di Bergamo, Alessandro Grandi al culmine della sua carriera, offre i suoi servizi e viene subito assunto senza formalità o audizioni di sorta. L'abbandono di Venezia e del ruolo di assistente di Monteverdi, nel 1617, dimostra come egli fosse ormai ansioso di avere un Coro di sua competenza con il quale lavorare stabilmente, in questa città importante del territorio della Serenissima, la cui Cappella di Santa Maria Maggiore, pur attraverso alterne fortune, é comunque considerata illustre e prova ne sia proprio la presenza di Grandi o del suo successore, un compositore valente come Tarquinio Merula. La musica sacra moderna non vi era ancora ben conosciuta, ed anche questo può forse aver attratto Grandi che, in tre anni, vi produrrà tre Messe, tre Magnificat e 34 Salmi. In ogni caso, si ha notizia di una sua visita veneziana nella quale respinge i tentativi fatti per farlo tornare, rimanendo con evidente soddisfazione a ricoprire il nuovo ruolo: la scarna biografia, segnala ancora la sua presenza a Mantova per la celebrazione dell'Assunta nel 1628, chiamatovi dai Cantori della Corte che presumibilmente l'avevano conosciuto grazie a Monteverdi. La grande peste del 1630 pone una cesura brutale al gran fiorire di attività musicali nelle Cappelle del Nord Italia e al loro prosperare. A Bergamo, solo cinque membri del Coro di Santa Maria Maggiore sopravvivono, tra le vittime vi é anche Alessandro Grandi." (Francesca Pisani Doni )