INFORMATIZZAZ. DI B. E. DURANTE

Flavio (o Publio) Renato Vegezio visse fra la fine del IV e l'inizio del V secolo d. C. e fu un alto funzionario imperiale, probabilmente comes sacrarum largitionum di Teodosio il Grande.
I suoi scritti di argomento militare sono dettati dal rimpianto per la perduta potenza e efficienza dell'impero romano, che al momento ancora faticosamente cerca di uscire dalla decadenza del III secolo d. C.
L'opera fondamentale di Vegezio, il DE RE MILITARI (IV sec. d.C), oltre ad avere riservata una sezione alla
GUERRA NAVALE o NAUMACHIA cita l'ARS URINATORIA (donde URINATORES) che in antico stava ad indicare l'attività di nuotatori subacquei e che venne illustrata nelle edizioni dell'opera del Vegezio, apparse nel 1553, con incisioni in legno (COME QUELLA SOPRA PROPOSTA) rappresentanti guerrieri equipaggiati con caschi di cuoio riforniti d'aria mediante tubi: questi apparecchi dovevano presentare inconvenienti nella erogazione dell'aria e nella perfetta tenuta all'acqua ma tuttavia rimandavano a tradizioni anche più antiche sull'uso di poter aggredire il nemico sfruttando l'immersione subacquea. Forse si sono volute vedere in alcuni BASSORILIEVI ASSIRI le testimonianze delle prime incursioni di subacquei: anche se sembra infattibile che l'attrezzatura che si intravede potesse in qualche modo convenire ad operazioni belliche di qualsiasi tipo.
Pur prescindendo da possibili amplificazioni erudite come le discese sottomarine di Alessandro Magno entro uno speciale contenitore o di CLEOPATRA che avrebbe preso a soldo QUATTRO URINATORES per motteggiare Marc'Antonio, patito di pesca alla canna, sì che i i subacquei, muniti di otre per la respirazione, gli avrebbero appesero all'amo immerso un giagantesco baccalà salato, occorre sempre tener presente che i GRECI ANTICHI per le immersioni si servivano della CAMPANA PNEUMATICA, grosso contenitore privo di fondo sotto la cui protezione il subacqueo aveva facoltà di immergersi e tornare quindi respirare: la pressione dell'aria contenuta nella campana, infatti, impedisce l'ingresso immediato dell'acqua. Poiché però la quantità di ossigeno presente nel meccanismo è ridotta sì da venir meno abbastanza celermente, lo strumento non aveva grande efficacia per prolungate operazioni subacquee: tuttavia in assenza d'altre risorse tecniche dispositivi di questo tipo sopravvissero per secoli.
E' forse ad uno d'essi che fece riferimento il filosofo Ruggero Bacone quando nel milleduecento scrisse che "si possono pure fare strumenti per camminare sul fondo del mare o dei fiumi senza pericoli per la propria vita", ricordando (sulla scorta di una tradizione culturale vigorosamente veicolata dalla cultura araba) che ALESSANDRO MAGNO se ne serviva spesso per esplorare i fondali marini.
L'argomento dell'ATTIVITA' SOTTOMARINA e soprattutto di possibili incursioni subacquee venne riproposto nel tardo-medioevo e quindi in epoca prerinascimentale sia per effetto di studi specifici come nel caso di MARIANO DI JACOPO che dei PALOMBARI descritti dell'ANONIMO estensore della GUERRA HUSSITA.
Con questi autori si evidenzia la ricerca di compensazione del problema base, quello della respirazione: si ricorse però a soluzioni per molti aspetti inefficienti quali l'adozione di un elmo o cappuccio munito di un tubo sostenuto alla superficie marina da dei galleggianti.
Pure LEONARDO DA VINCI optò in merito all'attività subacquea per la figura del PALOMBARO ma, ispirato dal suo genio scientifico e sperimentale, si convinse rapidamente che il sistema di respirazione a tubo semplice era precario non permettendo il necessario ricambio.
Col passar del tempo infatti l'aria espirata avrebbe preso a ristagnare nel tubo di modo che alla fine avrebbe addirittura inibito l'afflusso di quella fresca.
Era semmai prioritario incanalare aria fresca e aria viziata in dotti distinti e proprio per questo Leonardo prese a valersi di due tubi forniti di una valvola in grado di governarne apertura e chiusura.
Per il funzionamento delle due valvole era bastante il meccanismo della respirazione secondo un processo alternante: quando una si apriva, l'altra doveva ermeticamente chiudersi.
L'aria fresca veniva quindi inspirata dal primo tubo, mentre tramite l'espirazione l'aria viziata era fatta defluire per via del secondo tubo verso l'esterno.
Ad un galleggiante cupoliforme era demandata la funzione di sorreggere il terminale del sistema sulla superficie.
I tubi non potevano essere comuni ma avevano bisogno di una specifica conformazione tramite canne collegate fra loro mediante giunti speciali: Leonardo, soprattutto allo studio dei giunti, rivolse peculiare attenzione. Essi dovevano risultare armati con molle interne di acciaio temperato e quindi ricoperti di una duplice guaina in cuoio sì che sempre fossero idonei a sopportare la pressione dell'acqua senza rischio di schiacciamento con conseguente arresto del flusso d'aria, causa primaria di rischio per l'operatore subacqueo.
























XXXI. PRECETTI DELLA GUERRA NAVALE.
Per ordine della tua Maestà, o invitto imperatore , avendo portato a termine il trattato relativo alla guerra terrestre, manca ancora, a mio avviso, quella parte che riguarda la guerra navale ["navalis belli"], sulla cui dottrina c’è pochissimo da dire, giacché, essendo da un pezzo pacificato il mare ["pacato mari"], non si tratta che di condurre contro i barbari delle battaglie terrestri ["terrestre certamen"].
Il popolo romano, per il suo prestigio e per le esigenze della sua grandezza, pur non essendovi costretto da alcun imminente pericolo, in ogni tempo mantenne allestita la flotta ["classem"], onde averla sempre pronta ["praeparatam"] ad ogni necessità. Indubbiamente, nessuno osa sfidare o arrecare danno a quel regno o popolo, che sa essere pronto a combattere e risoluto a resistere ed a vendicarsi.
Pertanto, con le flotte ["cum classibus"] erano stanziate una legione presso Miseno ed una presso Ravenna, sia perché non si allontanassero eccessivamente dalla difesa di Roma, sia perché, all’insorgere di un’esigenza, potessero recarsi con le navi ["navigio"], senza indugio e senza dover aggirare la Penisola, in qualsiasi parte del mondo.
Infatti la flotta Misenense ["Misenatium classis"] aveva nelle sue vicinanze la Gallia, le Spagne, la Mauretania, l'Africa, l'Egitto, la Sardegna e la Sicilia. La flotta Ravennate ["classis Ravennatium"] soleva raggiungere con navigazione diretta ["directa navigatione"] l'Epiro, la Macedonia, la Grecia, la Propontide, il Ponto, l'Oriente, Creta e Cipro. Ciò perché nelle operazioni belliche la celerità giova di solito più del valore.
XXXII. DENOMINAZIONE DEI COMANDANTI IN UNA FLOTTA.
Il comandante della flotta ["praefectus classis"] Misenense era preposto alle navi da guerra ["liburnis"] che erano di base in Campania, mentre il comandante della flotta Ravennate reggeva quelle che erano nelle acque del mare Ionio [incluso l’Adriatico] .
Alle dipendenze di ciascuno di loro vi erano dieci tribuni ["deni tribuni"] delegati per le singole coorti.
Ogni galea aveva il proprio comandante ["navarchus"], che è all’incirca l’equivalente dell’armatore ["navicularius", per le navi mercantili], il quale, oltre agli altri compiti nautici ["nautarum officiis"], curava l’addestramento quotidiano dei timonieri ["gubernatoribus"], dei rematori ["remigibus"] e dei militi navali ["militibus"].
XXXIII. ORIGINE DEL NOME DI LIBURNA.
Diverse provincie, nelle varie epoche, furono molto potenti per mare; vi furono quindi diversi tipi di navi ["genera navium"]. Sennonché, avendo Augusto combattuto la battaglia navale d'Azio, poiché Antonio venne sconfitto con il concorso determinante dei Liburni , con l'esperienza di sì gran battaglia si rese manifesto che le navi liburniche erano migliori di tutte le altre.
Avendone dunque ripreso la foggia e il nome, gli imperatori romani costruirono le loro flotte avvalendosi di quel modello. La Liburnia, che fa parte della Dalmazia, è amministrata dalla città di Iadera [odierna Zara], ad imitazione della quale si costruirono le navi da guerra e si chiamarono liburne ["liburnae"].
XXXIV. PRECAUZIONI NELLA COSTRUZIONE DELLE NAVI DA GUERRA.
Se nella costruzione delle case è richiesta la buona qualità della sabbia e delle pietre, tanto più nel costruire le navi ["fabricandis navibus"] deve essere diligentemente ricercato ogni materiale, giacché, qualora difettosa, costituisce un maggior pericolo una nave piuttosto che una casa.
La galea si compone principalmente di legno di cipresso e di pino domestico o selvatico, di larice e di abete, ed è più utile che sia connessa con chiodi di rame anziché di ferro. Sebbene la spesa sembri alquanto più gravosa, tuttavia, tenuto conto della maggior durata, ne risulta invece un guadagno; infatti, con il caldo e l’umidità, i chiodi di ferro vengono presto consumati dalla ruggine; quelli di rame si conservano invece integri anche in mezzo ai flutti.
XXXV. IL TAGLIO DEL LEGNAME.
Occorre principalmente assicurare che gli alberi utilizzati per costruire le navi da guerra siano tagliati dal quindicesimo al ventitreesimo giorno dopo la luna nuova, poiché soltanto il legname tagliato in questi otto giorni si conserva immune al tarlo. Tagliato in altri giorni anche nello stesso anno, corroso internamente dai vermi si converte in polvere, come ci ha insegnato la stessa arte e la pratica quotidiana di tutti gli architetti, e come apprendiamo anche dalla considerazione della religione, alla quale piacque celebrare soltanto questi giorni per l'eternità.
XXXVI. MESI NEI QUALI SI TAGLIANO LE TRAVI.
Le travi si tagliano utilmente dopo il solstizio di estate, nei mesi di luglio e di agosto, e nell’equinozio di autunno, sino alle calende [cioè il primo] di gennaio, poiché in questi mesi, asciugatasi l’umidità, il legname è più secco e quindi più resistente.
Occorre inoltre evitare che le travi si seghino subito dopo l’abbattimento dell’albero, e che appena segate non si pongano in opera per la costruzione della nave, giacché il legno degli alberi ancora interi e quello in tavole, per diventare più asciutto, merita una doppia essiccazione. Infatti, le tavole che si commettono verdi, quando abbiano trasudato l'umidità naturale, si contraggono e formano delle fessure più larghe: nulla è più pericoloso ai naviganti ["navigantibus"] che una tavola verde.
XXXVII. TIPI DI NAVI DA GUERRA.
Per quanto attiene alle dimensioni, le navi da guerrae più piccole hanno un sol ordine di remi ["remorum singulos ordines"], due ["binos"] quelle un poco più grandi; quelle di dimensioni convenienti possono averne tre o quattro ["ternos vel quaternos"], e in qualche caso anche cinque ["quinos"]. Né ciò sembri qualcosa di straordinario: difatti si narra che alla battaglia navale d'Azio abbiano partecipato vascelli ["navigia"] di gran lunga maggiori, muniti anche di sei o più ordini di remi ["senorum vel ultra ordinum"].
In ogni modo, alle navi da guerra più grandi si associano delle unità sottili da esplorazione ["scaphae exploratoriae"], con dieci remi per lato, che i Britanni chiamano picati [cioè impeciati]. Queste si usano per fare incursioni e talvolta per intercettare delle vettovaglie delle navi nemiche, mentre, esercitando la sorveglianza, si scopre l’avvicinamento o le intenzioni delle stesse navi nemiche.
Tuttavia, affinché la presenza degli esploratori ["exploratoriae naves"] non sia tradita dal loro stesso chiarore, si tingono le vele ed i cavi delle manovre di colore azzurro ["veneto"], che somiglia a quello delle onde marine ["marinis fluctibus"], e vi si spalma anche quella cera che si usa per gli scafi delle navi. Inoltre, i marinai ["nautae"] ed i militi navali ["milites"] indossano abiti azzurri, per rimanere più facilmente occulti all’osservazione nemica, non solo di notte, ma anche di giorno.
XXXVIII. DENOMINAZIONE DEI VENTI E LORO NUMERO.
Chiunque trasporti un esercito con le navi ["armatis classibus"] deve saper riconoscere i presagi delle tempeste, poiché le navi da guerra andarono miseramente a fondo più spesso a causa delle burrasche e dei marosi che per la forza dei nemici. In ciò si deve adoperare tutta la perizia della filosofia naturale, poiché dalla conoscenza del cielo si desume la natura dei venti e delle tempeste. E quando il mare infuria, come la cautela protegge i previdenti, così l’incuria distrugge i negligenti.
Pertanto, l’arte della navigazione ["ars navigandi"] deve anzitutto considerare attentamente il numero ed i nomi dei venti. Gli antichi credevano che, conformemente alla posizione dei punti cardinali, vi fossero solo quattro venti principali, spiranti dalle singole parti dei cielo; ma l'esperienza posteriore ne trovò dodici. Di questi, per rimuovere ogni dubbio, forniamo non solo i nomi greci, ma anche quelli latini; così, dopo aver mostrato i venti principali, indicheremo quelli che sono ad essi contigui a destra e a sinistra.
Cominciamo pertanto dal solstizio di primavera, cioè dal punto cardinale Est, dal quale si origina il vento Afeliote, vale a dire il Subsolano; alla sua destra è contiguo al Cecia, o Euroboro; alla sua sinistra l’Euro o Volturno.
Il punto cardinale Sud ha il Noto, cioè l'Austro, alla cui destra vi è il Leuconoto , cioè il "bianco Noto"; alla sua sinistra il Libonoto, cioè il Coro.
Il punto cardinale Ovest possiede lo Zeffiro, cioè il Subvespertino, alla cui destra è contiguo il Lips, ossia l'Africo; a sinistra il Giapice, ossia il Favonio.
Al Nord toccò in sorte l'Aparzia o Settentrione, al quale è contiguo a destra il Trascia o Circio, a sinistra il Borea o Aquilone.
Questi venti soffiano spesso da soli, qualche volta in coppia, e nelle grandi tempeste anche in tre simultaneamente. Per il loro impeto, i mari, che sono per loro natura tranquilli e quieti, infuriano con onde ribollenti; quando spirano alcuni di essi, a seconda delle stagioni e delle regioni, dalla tempesta ritorna il sereno, e di nuovo questo si tramuta in burrasca.
Con il vento favorevole le navi ["classis"] raggiungono il porto desiderato, con quello contrario sono costrette a fermarsi, o tornare indietro, o affrontare una prova decisiva. Pertanto, difficilmente compie un naufragio chi ha esaminato con diligenza la natura dei venti.
XXXIX. MESI PIÙ SICURI PER LA NAVIGAZIONE.
Proseguiamo con la trattazione dei mesi e dei giorni, giacché il vigore e la durezza del mare non tollera tutto l'anno i naviganti ["navigantes"], ma per legge di natura alcuni mesi sono adattissimi alle flotte ["classibus"], altri dubbi, altri intollerabili.
La navigazione si reputa sicura ["secura navigatio creditur"] … dopo che sono sorte le Pleiadi, dal giorno VI prima delle calende di giugno [27 maggio] fino al sorgere di Arturo, cioè fino al giorno XVIII prima delle calende di ottobre [14 settembre], giacché per beneficio dell'estate si mitiga l’asprezza dei venti.
Successivamente, la navigazione è incerta ["incerta navigatio est"], e quindi piuttosto critica, fino al giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre], giacché dopo le idi di settembre [13 settembre] nasce Arturo, stella rabbiosissima; poi, il giorno VIII prima delle calende di ottobre [24 settembre] sopraggiunge il pungente maltempo equinoziale, verso le none di ottobre [7 ottobre] appaiono i Capretti piovosi e il giorno V prima delle idi di tale mese [11 ottobre] appare il Toro.
Dal mese di novembre, poi, il tramonto invernale delle Vergilie, le navi ["navigia"] con frequenti tempeste. I mari vengono dunque chiusi alla navigazione dal giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre] fino al giorno VI prima delle idi di marzo [10 marzo]. In effetti, la luce diurna ridotta al minimo, la notte prolungata, la densità delle nubi, l'oscurità dell'aria, la raddoppiata violenza dei venti, delle piogge o delle nevi, respingono non solo le flotte ["classes"] dalle rotte marittime, ma anche i viandanti dai viaggi terrestri.
In realtà, dopo la ripresa della navigazione ["natalem navigationis"], che viene celebrata con solenni giochi e pubblici spettacoli presso molte popolazioni, permane pericoloso cimentarsi in mare fino alle idi maggio [15 maggio], a causa di molteplici costellazioni e della stessa stagione; non lo dico perché cessi il traffico mercantile ["negotiatorum"], ma perché occorre adoperare una maggior cautela quando l'esercito naviga con le navi da guerra, che quando l'audacia accelera i profitti dei commerci privati.
XL. OSSERVAZIONE DEGLI ASTRI RECANTI TEMPESTE.
Inoltre, il sorgere ed il tramontare di molte altre stelle suscitano violentissime tempeste ["tempestates"], di cui sono stati indicati i precisi giorni, per attestazione di molti autori. Tuttavia, poiché tali giorni vengono alquanto cambiati da svariate cause, e poiché, bisogna confessarlo, alla natura umana non è consentito conoscere compiutamente i fenomeni celesti, lo studio delle osservazioni nautiche ["nauticae observationis"] è stato diviso in tre parti. Si è infatti scoperto che le tempeste avvengono o nel giorno stabilito, o prima, o dopo. Quindi, quelle che nascono nel giorno stabilito si chiamano con parola greca cheimaton, quelle che precedono procheimaton, le susseguenti metacheimaton. Comunque, elencare per nome ogni cosa apparirebbe lungo o inopportuno, dato che molti autori hanno descritto non solo la natura dei mesi, ma anche dei giorni.
Anche i transiti degli astri che chiamano pianeti, quando lungo il loro percorso prestabilito per volere divino entrano ed escono da un segno zodiacale, usano spesso turbare il sereno. Per contro, i giorni di interlunio sono valutati, non solo dalla scienza, ma anche dall’esperienza popolare, pieni di tempeste e da temersi al massimo grado da parte dei naviganti ["navigantibus"].
XLI. I PRESAGI DEL TEMPO.
Da molti altri segni si preannuncia l’arrivo delle burrasche dalla calma, e della bonaccia dalle tempeste; tali eventi sono mostrati sul disco della Luna come in uno specchio. Il colore rubicondo annunzia i venti; il ceruleo, le piogge; un colore intermedio, nuvoloni e furenti burrasche. Il disco giocondo e lucente promette alle navi ["navigiis"] la serenità ch’esso reca nel suo stesso aspetto, soprattutto se al primo quarto e non sia né rosseggiante con i corni smussati, né offuscato dall’umidità.
Anche del Sole che sorge o che tramonta, è interessante osservare se splende con raggi uniformi o diversificati da una nube interposta, se è fulgido del consueto splendore o ardente per i venti incalzanti, se è pallido o macchiato per la pioggia imminente.
Indubbiamente anche l'aria e lo stesso mare, così come la grandezza e la qualità delle nuvole, forniscono istruzioni ai marinai ["nautas"] preoccupati.
Alcuni segni vengono indicati dagli uccelli, altri dai pesci: Virgilio, con ingegno quasi divino, li incluse nelle Georgiche e Varrone li perfezionò diligentemente nei sui libri navali ["libris navalibus"].
I timonieri ["gubernatores"] dichiarano di sapere queste cose, ma le conoscono così come le appresero dall’esperienza pratica, e non rafforzate da una più elevata dottrina.
XLII. LE MAREE.
L’elemento marino costituisce la terza parte del mondo, e si anima, oltre che per il soffio dei venti, anche per un suo proprio respiro e movimento. Infatti, a certe ore, di giorno come di notte, un certo moto del mare, che chiamano marea, scorre in un senso e nell'altro e, come un torrente o un fiume, ora inonda le terre, ora rifluisce in alto mare. Questa ambiguità del moto alterno, se favorevole, giova alla rotta delle navi ["cursum navium"], se contrario, la ritarda.
Ciò deve essere evitato con grande cautela da chi sta per combattere. Infatti non si vince con l’ausilio dei remi l'impeto della marea, cui talvolta cedono anche i venti. E poiché nelle varie regioni, nei diversi stati della luna crescente o calante, a certe ore questi fenomeni variano, quindi chi sta per sostenere un combattimento navale ["proelium navale"] deve, prima dell’ingaggio, conoscere la natura del mare e del luogo.
XLIII. CONOSCENZA DELLE ACQUE E IMPORTANZA DEI REMATORI.
La perizia dei marinai ["nauticorum"] e dei timonieri ["gubernatorum"] consiste nel prendere conoscenza delle acque nelle quali si naviga e dei porti, onde evitare i luoghi pericolosi per gli scogli affioranti o sommersi, i bassi fondi e le secche; infatti, si avrà tanta maggior sicurezza quanto il mare sarà più profondo.
Nei comandanti navali ["navarchis"] si predilige la diligenza, nei timonieri ["gubernatoris"] l’esperienza, nei rematori ["remigibus"] la valentia. Infatti, la battaglia navale ["navalis pugna"] si combatte in mare tranquillo; e la mole delle navi da guerra, non per il soffio dei venti, ma per impulso di remi percuote con il rostro gli avversari e schiva invece il loro impeto. In tali circostanze, i muscoli dei rematori ["remigum"] e l'arte del pilota che regge il timone ["clavum regentis magistri"] sono i principali artefici della vittoria.
XLIV. ARMI E MACCHINE BELLICHE NAVALI.
La battaglia terrestre richiede indubbiamente molti generi di armi, ma la lotta navale ["navale certamen"], non solo esige un maggior numero di armi, ma anche macchine d’assalto ["machinas"] e macchine da lancio ["tormenta"], come se si dovesse combattere sulle mura e sulle torri. Che cosa vi è di più crudele, infatti, di un attacco navale ["congressione navali"] in cui gli uomini sono uccisi dalle acque e dalle fiamme?
Pertanto, la principale cura deve essere posta per le armature, di modo che i militi siano protetti da corazze metalliche o di cuoio, ed anche da elmi e schinieri. Nessuno può dolersi del peso delle armi, poiché combatte a bordo delle navi ["in navibus"] mantenendosi sul posto. Si impiegano anche gli scudi più ampi e più resistenti ai colpi delle pietre, oltre che alle falci ["falces"], ai ramponi ["harpagones"] ed agli altri tipi di armi da getto navali ["navalia genera telorum"].
Da parte nostra, si schierano frecce, armi da getto, fionde, mazzafromboli, palle di piombo, onagri, balestre, scorpioni , con proiettili e sassi; e, cosa più importante, coloro che sono resi temerari dal proprio coraggio, accostate le navi da guerra e gettate le passerelle, passano sulle navi avversarie ed ivi, come suol dirsi, ai ferri corti, combattono corpo a corpo con le spade.
Inoltre, nelle navi da guerra più grandi si stabiliscono ripari e torri, per poter più agevolmente ferire o uccidere i nemici dai tavolati più alti, come da un muro. Con le balestre si infiggono nelle carene delle navi nemiche delle frecce avvolte con stoppa - imbevuta di olio incendiario, zolfo e bitume - ed infiammate; e le tavole spalmate di cera, pece e resina, con tanto alimento d'incendio repentinamente prendono fuoco. Alcuni sono uccisi dalla spada e dalle pietre, altri sono costretti ad ardere tra le onde; tuttavia, fra tanti generi di morte, il caso più crudele è quello dei corpi che rimangano insepolti, in pasto ai pesci.
XLV. CRITERI PER TENDERE INSIDIE PER MARE.
A somiglianza dei combattimenti terrestri, si conducono degli assalti improvvisi contro gli equipaggi ["nauticis"] che non se l’aspettano, o si tendono degli agguati negli opportuni passaggi ristretti fra le isole.
E per annientare più facilmente coloro che vengono presi alla sprovvista, si procede come segue: se i marinai nemici ["hostium nautae"] sono affaticati dal lungo vogare, se vengono travagliati dal vento contrario, se la corrente di marea è a favore dei nostri rostri, se i nemici dormono senza alcun sospetto, se l’ancoraggio che occupano non ha vie d’uscita, se si verifica l’auspicata occasione di combattere, allora con il favore della sorte si deve andare all’ingaggio e attaccare battaglia come opportuno.
E a questo proposito, se la cautela dei nemici, evitate le insidie, opponga un combattimento ordinato, allora si deve disporre la formazione delle navi da guerra non in linea retta come sul terreno, ma incurvata a mezza luna, in modo che la forza navale, con i due corni in avanti, sia incavata in centro; così, se i nemici tentassero di sfondare, circondati dalla stessa formazione saranno affondati. D’altra parte, nei corni si pone il nerbo insigne delle navi da guerra e dei militi.
XLVI. CRITERI PER LA BATTAGLIA NAVALE.
Inoltre, è utile che la tua flotta ["classis"] si mantenga sempre al largo ["alto et libero mari"] e spinga verso costa quella nemica, poiché quelli che sono ricacciati a terra perdono l'ardore di combattere. È stato accertato che in tali combattimenti giovarono moltissimo alla vittoria tre generi di armi: le stanghe, le falci e le bipenni.
Si chiama stanga ["asser"] quella trave sottile e lunga, che è appesa all'albero ["malo"] come un pennone ["antemnae"] ed ha entrambe le estremità ferrate. Le navi nemiche, accostandosi da destra o anche da sinistra, sono da essa colpite con forza, come da un ariete; ed essa senza dubbio abbatte ed uccide i combattenti ["bellatores"] o i marinai ["nautas"] nemici, e più spesso sfonda la stessa nave.
La falce ["falx"] è un ferro affilatissimo e curvo come una falce agricola, il quale, fissato su pertiche delle più lunghe, recide d'un tratto le drizze ["chalatorios"] - sono le manovre ["funes"] che tengono sospeso il pennone ["antemna"] - e, avendo fatto cadere le vele della galea avversaria, la rende più indolente ed inutile.
La bipenne ["bipennis"] è una scure che ha una lama larghissima ed affilatissima da entrambe le parti. Con queste armi, nel pieno fervore del combattimento, i marinai ["nautae"] o i militi ["milites"] più esperti, imbarcatisi sulle più piccole imbarcazioni ["scafulis"], tagliano di nascosto i cavi ["funes"] con i quali sono tenuti i timoni ["gubernacula"] delle navi nemiche. Fatto ciò, queste vengono immediatamente catturate, come se fossero navi inermi ed impotenti; ed, infatti, quale mezzo di salvezza rimane a chi ha perduto il timone ["clavum"]?
Delle navi fluviali ["lusoriis"] , che tutelano posti di confine con la vigilanza quotidiana sul Danubio, stimo preferibile tacere, poiché dal loro più frequente uso recente, l'arte nautica ha scoperto più di quanto l'antica dottrina avesse insegnato.