INFORMATIZZAZ. A C. DI B. DURANTE

RITRATTO DI FRANCESCO REDI
LEGGI QUI IL TESTO INTEGRALE DEL REDI
ESPERIENZE INTORNO ALLA GENERAZIONE DEGL’INSETTI


























ESPERIENZE INTORNO ALLA GENERAZIONE DEGL’INSETTI
fatte da Francesco Redi,
Gentiluomo Aretino e Accademico della Crusca,
e da lui scritte in una Lettera all’Illustrissimo Signor Carlo Dati

Chi fa esperienze accresce il sapere;
Chi è credulo aumenta l’errore.

Proverb. Arab. Erpen. 57
Rerum natura nusquam magis quam in minimis Tota est. Quapropter quaeso ne nostra legentes (quoniam ex his spernuntur multa) etiam relata fastidio damnent; quum in contemplatione naturae nihil possit videri supervacuum.
Plinio nel principio del Lib. XI
dove comincia a trattar degl’insetti
Mio Signore.
È non ha dubbio alcuno che nell’intendimento delle cose naturali dati sono dal supremo Architetto i sensi alla ragione come tante finestre o porte per le quali o ella si affacci a mirarle, o elleno entrino a farsi conoscere. Anzi, per meglio dire, sono i sensi tante vedette o spiatori che mirano a scoprire la natura delle cose e ‘l tutto riportano dentro alla ragione la quale, da essi ragguagliata, forma di ciascuna cosa il giudizio, altrettanto chiaro e certo quanto essi sono più sani e gagliardi, e liberi da ogni ostacolo ed impedimento. Onde acciocché restino sincerati, molto spesso ci avviciniamo o ci discostiamo, mutando lume e posto a quelle cose che da noi si riguardano, e molte altre azioni facciamo, non solamente per soddisfare la stessa vista, ma e l’odorato e ‘l gusto e l’udito e ‘l tatto in guisa tale ch’e’ non è uomo alcuno, il quale abbia fior d’ingegno, che ricerchi dalla ragione il giudizio delle cose sensibili per altra via che per quella più facile e più sicura da’ propri sensi aperta e spianata. Per lo che ottimamente, a mio credere, disse colui, che se alla nostra natura si desse l’elezione, ovvero qualche mente superiore ricercasse da essa se sia contenta de’ suoi sensi incorrotti ed interi o se pure cosa miglior desideri, ei non vedeva ch’ella potesse domandar di vantaggio. Di così proporzionati strumenti guernito l’uomo, chi non vede quanto travierebbe se, la verità della storia naturale ansiosamente ricercando, ponesse da banda il chiarir bene i sensi, e sovra una superficiale e lieve apprensione de’ propri, o non sincera ed appassionata relazione degli altrui, facesse fare alla ragione l’ufizio suo, la quale, ingannata da’ sensi male informanti, pronunziar potrebbe una precipitosa e fallace sentenza. Quindi avviene che niuno è in oggi nelle filosofiche scuole sì giovane che non porti un così fatto parere, instillato dalla natura stessa e dettato da quegli antichi savissimi uomini che nelle cose della filosofia sentirono molto avanti; tra’ quali quel grandissimo ingegno, che tutto seppe e di tutto maravigliosamente seppe scrivere, nel secondo del Paradiso ebbe a dire:
Ella sorrise alquanto, e poi, s’egli erra
L’opinion, mi disse, de’ mortali
Dove chiave di senso non disserra,
Certo non ti dovrien punger li strali
D’ammirazione omai, poi dietro a’ sensi
Vedi che la ragione ha corte l’ali.

Ha corte l’ali la ragione andando dietro a’ sensi, perché più oltre di quello ch’eglino apprendono ella in cotale inchiesta non può comprendere. E s’ella stessa è così debole, anche quando è fatta forte da’ sensi, per penetrare nel segreto delle mondane cose, quanto sarà di peggior condizione, priva del necessario aiuto di quegli? Se i sensi dunque non battono bene la strada, se non iscuoprono bene il paese, se non s’informano bene di tutto quello che passa nella natura e s’alla ragione non porgono la mano, che maraviglia poi se o per balze strabocchevoli ed oscure ella s’incammini, o se ne’ lacci delle fallacie e negli agguati degli errori si trovi còlta ed inviluppata? Laonde ancorché io con più fervore di animo che con altezza d’ingegno seguitati abbia gli studi della filosofia, nientedimeno ho posta sempre ogni possibile pena ed ogni sollecitudine in far sì che gli occhi miei corporali in particolare si soddisfacciano bene, prima per mezzo di accurate e continue esperienze, e poi somministrino all’estimazione della mente materia di filosofare. Per questa via, quantunque per avventura al perfetto conoscimento di niuna cosa io sia arrivato, con tutto ciò son pervenuto tant’oltre che m’avveggio e so che di molte cose, le quali io mi dava ad intendere di sapere, ne sono del tutto ignorante: e se talvolta scuopro evidentemente qualche menzogna, o dagli antichi scritta o da’ moderni creduta, ne sto così dubbioso ed irresoluto ch’appena m’ardisco farne motto senza l’amichevole consiglio di saggi e prudenti amici. Che perciò, avendo ora di fresco fatte molte esperienze, e molte intorno al nascimento di que’ viventi che infino al dì d’oggi da tutte le scuole sono stati creduti nascere a caso e per propria loro virtude, senza paterno seme, non fidandomi di me medesimo e volendo pur ad altrui conferirle, m’è venuto in mente di ricorrere a voi, o Signor Carlo, che per vostra mercé m’avete dato luogo tra’ vostri più cari amici; a voi, dico, in cui tutti gli uomini dotti veggon risplendere un sovrano sapere dalla filosofia fatto robusto, e da varia erudizione così nobilmente adornato che, pregiandosene la nostra Toscana, non invidia i Varroni al Lazio ed i Plutarchi alla Grecia. Io vi prego dunque a prendervi la fatica di leggere nell’ore meno occupate questa mia Lettera, ma di leggerla con animo di dirmene il vostro sincerissimo parere, e con esso di darmi quegli ch’io vi chieggio amorevoli ed al vostro solito dottissimi consigli, coll’aiuto de’ quali riuscendomi di tor via il troppo ed il vano, ed aggiugnendo ciò che sarebbe di mestiere,
Forse che ancor con più solerti studi Poi ridurrò questo lavor perfetto.
Crederono molti che per questa bella parte dell’universo che noi comunemente chiamiamo terra, tosto che dalla mano dell’eterno Maestro uscì stabilita, o in qualsisia altro modo col quale follemente farneticassero che ciò potesse essere avvenuto, crederono, dico, che ella in questo stesso momento cominciasse a vestirsi da sé medesima d’una certa verde lanugine somigliantissima a quella vana peluria ed a quel primo pelame di cui, subito che nati sono, si veggon ricoperti gli uccelli ed i quadrupedi; e che poi a poco a poco quella verde lanugine, dalla luce del sole e dall’alimento materno fatta più vigorosa e più robusta, si cangiasse e crescesse in erbe ed in alberi fruttiferi abili a somministrare il nutrimento a tutti gli animali che la terra avrebbe poscia prodotti; e dicono che ella cominciasse dalle viscere sue a produrne di tutte quante le spezie; cioè dall’elefante infino alle più minute e quasi invisibili bestiuole: ma che non contenta della generazione degli animali irragionevoli, volesse ancor la gloria che gli uomini stessi in quei primi tempi la riconoscessero per madre. Onde affermano gli Stoici, come racconta Lattanzio, che in tutte le montagne, in tutte le colline e pianure si vedeano spuntar fuori gli uomini come veggiamo nascere i funghi. Vero è che non fu di tutti opinione che e’ nascessero da per tutto, ma in una sola e determinata parte, o provincia: quindi gli Egizzi, gli Etiopi ed i Frigi donavano questo vanto al lor proprio paese; ed al loro ancora gli Arcadi, i Fenici e gli abitatori dell’Attica; tra’ quali gli Ateniesi, per dare un contrassegno che in Grecia i primi padri dell’uman genere fossero nati da sé medesimi in quella maniera che dalla terra si crede che ancor oggi nascano le cicale, portavano, com’è noto, su’ capelli alcuni fermagli d’oro in forma di cicale effigiati; e Platone nel Menexeno, e Diogene Laerzio nel proemio delle Vite de’ filosofi concedono anch’essi al paese de’ Greci quest’onore dell’avervi la terra partoriti i primi uomini: ma in qualsisia paese che potessero esser nati, fu dottrina d’Archelao, scolare d’Anassagora, che non ogni terrenello magro ed arenoso, non ogni morto sabbione fosse il caso, ma che ci volea una maniera di terreno caldo ed allegro e di sua natura poderoso a germinare, producente una certa poltiglia simile al latte e che, in vece di latte, potesse alle bestie ed a gli uomini somministrare il primo alimento.
Questi viventi, per testimonianza d’Empedocle e d’Epicuro, ne’ primi giorni del mondo alla rinfusa nascevano senz’ordine e senza regola dagli uteri della terra, madre non ancor ben esperta di questo mestiere. Né furono soli que’ due gran savi ad aver così strana opinione, imperocché fu tenuta anticamente da molti, ed in particolare dal Rodio Apollonio nel quarto dell’Argonautiche imprese:
Non le belve voraci all’altre belve.
Né l’uomo all’uomo era simil;
scambiati confusamente l’un l’altro le membra andavan,
come dalle stalle in frotta sbucan le gregge al pasco:
in quella guisa la terra stessa germinò dal fango
con miste membra i primi abitatori
.
Sicché talvolta vedevansi animali senza bocca e senza braccia, altri senz’occhi e senza gambe; alcuni con istrano innesto di mani e di piedi brancolavano, privi di ventre e di testa; molti nascevano col capo d’uomo e coll’altre membra di fiera; alcuni aveano l’anteriori parti di fiera e le diretane d’uomo, e certi altri erano forse fatti come descritti furono da’ poeti il Minotauro di Creta, la Sfinge, la Chimera, le Sirene e l’alato Cavallo di Perseo, o pure come quel favoloso Atlante di Carena, di cui l’Ariosto:
Non è finto il destrier, ma naturale,
Ch’una giumenta generò d’un grifo;
Simile al padre avea la piuma e l’ale,
Li piedi anteriori, il capo e ‘l grifo;
In tutte l’altre membra parea quale
Era la madre, e chiamasi Ippogrifo.

Ma questa gran madre, accorgendosi che sì fatti abbozzi di generazioni mostruose non erano né buoni né durevoli, ed essendosi già con essi a bastanza dirozzata e fattasi, per così dire, maestra più pratica, produceva poscia gli uomini e gli altri animali tutti nella loro spezie perfetti; e gli uomini, secondo che recita Democrito, nascevano quasi tanti piccioli vermi che a poco a poco ed insensibilmente l’umana figura prendevano; ovvero, come diceva Anassimandro, scappavano dal seno materno rinchiusi dentro a certe ruvide cortecce spinose, non molto forse dissimili da quei ricci co’ quali dal castagno vestiti sono i propri suoi frutti. Dottrina da questa diversa fu predicata da Epicuro e da’ seguaci suoi, i quali vollero che dentro agli uteri della terra se ne stessero gli uomini e gli altri animali tutti rinvolti in certe tuniche ed in certe membrane, dalle quali rotte e lacerate nel tempo della maturità del parto uscivano ignudi, ed ignudi ancora e non offesi da caldo o da gielo andavano or qua ed or là suggendo i primi alimenti dalla madre; la quale, avendo per qualche tempo durato ad essere di così maravigliose generazioni feconda, in breve, quasi fatta vecchia e sfruttata, diventò sterile; e non avendo più forza da poter generare gli uomini e gli altri grandi animali perfetti, le rimase però tanto di vigore da poter produrre (oltre le piante, che spontaneamente senza seme si presuppone che nascano) certi altri piccioli animaletti ancora; cioè a dire le mosche, le vespe, le cicale, i ragni, le formiche, gli scorpioni, e gli altri tutti bacherozzoli terrestri ed aerei che da’ Grecioentoma zùa e da’ Latini insecta animalia furono chiamati. Ed in questo convengono tutte quante le scuole, o degli antichi o de’ moderni filosofi; e costantissimamente insegnano che infino al giorno d’oggi ell’abbia continuato a produrne, e sia per continuare quanto durerà ella medesima. Non son però d’accordo nel determinare il modo come questi insetti vengano generati, o da qual parte piovano l’anime in essi: imperocché dicono che non è sola la terra a possedere questa nascosta virtude, ma che la posseggono ancora tutti gli animali e vivi e morti e tutte le cose dalla terra prodotte, e finalmente tutte quelle che sono in procinto, putrefacendosi, di riconvertirsi in terra; e per possente cagione adducono alcuni la putredine stessa, ed altri la naturale cozione; e molti a queste cagioni, secondo la diversità delle loro sette e de’ loro pensieri, ne congiungono molt’altre che attive ed efficienti appellano, come sarebbe a dire l’anima universale del mondo, l’anima degli elementi, l’idee, l’intelligenza donatrice delle forme, il calore de’ corpi putrefatti, il calore dell’ambiente e del cielo, e del medesimo cielo il moto, la luce e le superiori influenze; non essendovi mancato chi abbia detto la generazione di tutti gli entomati esser fatta dalla virtù generatrice dell’anima sensitiva e vegetabile, della quale alcuni piccoli avanzi per qualche tempo dopo la morte rimangono ed abitano ne’ cadaveri degli animali e delle piante; e mentre quivi da un calor debolissimo rattenute se ne stanno come in un vaso oziose e quasi addormentate, sopravvenendo il calore ambiente e disponendo la materia, si risentono quegli estremi residui d’anime e si risvegliano a dar novella vita a quella corrotta materia e organizzarla in foggia di proprio strumento. Egli c’è ancora un’altra maniera di savie genti, le quali tennero e tengono per vero che tal generazione derivi da certi minimi gruppetti ed aggregamenti di atomi, i quali aggregamenti sieno i semi di tutte quante le cose, e di essi semi le cose tutte sien piene. E che ne sieno piene lo confessano ancora molti altri dicendo che sì fatte semenze nel principio del mondo furono create da Dio, e da lui per tutto disseminate e sparse, per render gli elementi fecondi, non già d’una fecondità momentanea e mancante, ma bensì durevole al pari degli elementi stessi; ed in questa maniera dicono potersi intendere quello che ne’ Sacri Libri si legge, avere Iddio create tutte le cose insieme. Ma quel grandissimo filosofo de’ nostri tempi, l’immortale Guglielmo Arveo, ancor egli ebbe per fermo che fosse a tutti quanti i viventi cosa comune il nascere dal seme, come da un uovo; o che venga questo seme dagli animali della medesima spezie, o che d’altronde a caso derivi e proceda. Quippe omnibus viventibus id commune est (dice egli), ut ex semine, ceu ovo, originem ducant: sive semen illud ex aliis eiusdem speciei procedat, sive casu aliunde adveniat. Quod enim in artes aliquando usu venit, id idem quoque in natura contingit: nempe, ut eadem casu sive fortuito eveniant quae alias ab arte efficiuntur: cuius rei (apud Arist.) exemplum est sanitas. Similiterque se habet generatio (quatenus ex semine) quorumlibet animalium; sive semen eorum casu adsit, sive ab agente univoco eiusdemque generis proveniat. Quippe etiam in semine fortuito inest principium generationis motivum, quod ex se et per se ipsum procreet; idemque quod in animalium congenerum semine reperitur; potens scilicet animal efformare. E prima avea detto quegli invisibili semi, quasi atomi per l’aria volanti, esser da’ venti or qua ed or là disseminati e sparsi; ancorché mai non si dichiari donde e da chi abbiano la loro origine; solamente pare che si raccolga dalle suddette citate parole che egli creda che quei semi fortuiti volanti per l’aria e traportati da’ venti procedano e nascano da un agente non già univoco, per parlar con le scuole, ma bensì equivoco; ed in miglior maniera forse, e con più soda e stabil chiarezza detto avrebbe la sua opinione, se tra’ tumulti delle guerre civili non gli fossero andate male, con deplorabile pregiudicio di tutta la repubblica filosofica, quelle molte osservazioni che intorno a questa materia egli avea raccolte e notate. Se bene a molti sembrerà cosa dura e malagevole a credere che l’Arveo potesse dare nel segno; imperciocché ostinatamente affermano che la cagione efficiente procreatrice degli insetti naturalmente additar non si possa; onde il più sottile di tutti i filosofi de’ secoli trapassati, dopo averla nel mondo nostro indarno cercata, ebbe a dire che la cagione immediata promovente la generazione degl’insetti e producente nella materia disposta le loro anime non essere altra che la mano onnipotente di colui il saper del quale tutto trascende, cioè a dire Iddio ottimo e grandissimo; dal quale parimente essere infuse l’anime in tutti gli animali volanti fu opinione d’Ennio, se crediamo a Varrone che nel quarto libro della Lingua latina scrisse: Ova parire solet genus penneis condecoratum; Non animas, ut ait Ennius. Et post: Inde venit divinitu’ pulleis, Insinuans se ipsa anima. Quindi alcuni altri soggiungono maraviglia non essere se Galeno modestamente ne’ suoi libri confessasse di non aver mai saputo ritrovarla, e che perciò porgesse preghiere a tutti i filosofi che, se mai vi s’imbattessero, di volere a lui darne la notizia; egli però, contro l’opinione de’ Platonici, confessa di non poter indursi a credere che quella possanza e quella sapienza che fa produrre gli animali perfetti sia quella stessa la quale si abbassi a formare gli scorpioni, le mosche, i vermi, i lombrichi, ed altri somiglianti che imperfetti dagli Scolastici sono appellati. Qual sia la vera tra tante opinioni, o qual per lo meno più dell’altre alla verità si sia avvicinata, io per me non saprei indurmi a dirlo; e non è ora di mia possanza né di mia intenzione il deciderlo; e se vengo a palesarvi la credenza ch’io ne tengo, lo fo con animo peritoso e con temenza grandissima, parendomi sempre di sentirmi intonare agli orecchi ciò che già dal nostro divino Poeta fu cantato:
Sempre a quel ver, ch’ha faccia di menzogna
Dee l’uom chiuder le labbra quanto ei puote
Però che senza colpa fa vergogna.

Pure contentandomi sempre in questa ed in ciascuna altra cosa da ciascuno più savio, là dove io difettosamente parlassi, esser corretto, non tacerò che per molte osservazioni molte volte da me fatte mi sento inclinato a credere che la terra, da quelle prime piante e da que’ primi animali in poi, che ella nei primi giorni del mondo produsse per comandamento del sovrano ed onnipotente Fattore, non abbia mai più prodotto da sé medesima né erba, né albero, né animale alcuno perfetto o imperfetto che ei si fosse; e che tutto quello che ne’ tempi trapassati è nato, e che ora nascere in lei o da lei veggiamo, venga tutto dalla semenza reale e vera delle piante e degli animali stessi, i quali col mezzo del proprio seme la loro spezie conservano. E se bene tutto giorno scorghiamo da’ cadaveri degli animali e da tutte quante le maniere dell’erbe e de’ fiori e de’ frutti imputriditi e corrotti nascere vermi infiniti,
Nonne vides quaecunque mora fluidoque calore
Corpora tabescunt in parva animalia verti?

io mi sento, dico, inclinato a credere che tutti quei vermi si generino dal seme paterno, e che le carni e l’erbe e l’altre cose tutte putrefatte o putrefattibili non facciano altra parte né abbiano altro ufizio nella generazione degl’insetti se non d’apprestare un luogo o un nido proporzionato in cui dagli animali nel tempo della figliatura sieno portati e partoriti i vermi o l’uova o l’altre semenze dei vermi, i quali, tosto che nati sono, trovano in esso nido un sufficiente alimento abilissimo per nutricarsi; e se in quello non son portate dalle madri queste suddette semenze, niente mai, e replicatamente niente, vi s’ingeneri e nasca. Ed acciocché, o Signor Carlo, ben possiate vedere che quello è vero ch’io vi dico, vi favellerò ora minutamente d’alcuni pochi di questi insetti che, come più volgari, agli occhi nostri son noti.
Secondo adunque ch’io vi dissi, e che gli antichi ed i novelli scrittori e la comune opinione del volgo voglion dire, ogni fracidume di cadavero corrotto ed ogni sozzura di qualsisia altra cosa putrefatta ingenera i vermini e gli produce; sicché, volendo io rintracciarne la verità, fin nel principio del mese di giugno feci ammazzare tre di quelle serpi che angui d’Esculapio s’appellano; e tosto che morte furono le misi in una scatola aperta acciocché quivi infracidassero; né molto andò di tempo che le vidi tutte ricoperte di vermi che avean figura di cono e senza gamba veruna, per quanto all’occhio appariva, i quali vermi, attendendo a divorar quelle carni, andavano a momenti crescendo di grandezza; e da un giorno all’altro, secondo che potei osservare, crebbero ancora di numero, onde, ancorché fossero tutti della stessa figura d’un cono, non erano però della stessa grandezza, essendo nati in più e diversi giorni, ma i minori d’accordo coi più grandi, dopo d’aver consumata la carne e lasciate intatte le sole e nude ossa, per un piccolo foro della scatola che io avea serrata se ne scapparon via tutti quanti, senza che potessi ritrovar giammai il luogo dove nascosti si fossero; per lo che fatto più curioso di vedere qual fine si potessero aver avuto, di nuovo il dì undici di giugno misi in opra tre altre delle medesime serpi; su le quali, passati che furono tre giorni, vidi vermicciuoli che d’ora in ora andarono crescendo di numero e di grandezza; ma però tutti della stessa figura, ancorché non tutti dello stesso colore, il quale ne’ maggiori per di fuora era bianco e ne’ minori pendeva al carnicino. Finito che ebbero di mangiar quelle carni, cercavano ansiosamente ogni strada per potersene fuggire; ma, avendo io benissimo serrate tutte le fessure, osservai che il giorno diciannove dello stesso mese alcuni de’ grandi e de’ piccoli cominciarono, quasi addormentatisi, a farsi immobili; quindi raggrinzandosi in sé medesimi insensibilmente pigliarono una figura simile all’uovo; ed il giorno ventuno si erano trasformati tutti in quella figura d’uovo di color bianco da principio, poscia dorato, che a poco a poco diventò rossigno; e tale si conservò in alcune uova: ma in altre andando sempre oscurandosi, alla fine diventò come nero: e l’uova, tanto nere quanto rosse, arrivate a questo segno, di molli e tenere che erano, diventarono di guscio duro e frangibile; onde si potrebbe dire che abbiano qualche somiglianza con quelle crisalidi, o aurelie o ninfe che se le chiamino, nelle quali per qualche tempo si trasformano i bruchi, i bachi da seta ed altri simili insetti. Per lo che, fattomi più curioso osservatore, vidi che tra quell’uova rosse e queste nere v’era qualche differenza di figura, imperciocché, se ben pareva che tutte indifferentemente composte fossero quasi di tanti anelletti congiunti insieme, nulladimeno questi anelli erano più scolpiti e più apparenti nelle nere che nelle rosse, le quali a prima vista parevano quasi lisce, ed in una delle estremità non avevano, come le nere, una certa piccola concavità non molto dissimile a quella de’ limoni o d’altri frutti quando sono staccati dal gambo. Riposi quest’uova separate e distinte in alcuni vasi di vetro ben serrati con carta, ed in capo agli otto giorni da ogn’uovo di color rossigno, rompendo il guscio, scappava fuora una mosca di color cenerognolo, torbida, sbalordita e, per così dire, abbozzata e non ben finita di farsi, con l’ale non ancora spiegate, che poi nello spazio d’un mezzo quarto d’ora, cominciando a spiegarsi, si dilatavano alla giusta proporzione di quel corpicello che anch’esso in quel tempo s’era ridotto alla conveniente e naturale simmetria delle parti, e quasi tutto raffazzonatosi, avendo lasciato quello smorto colore di cenere, si era vestito d’un verde vivissimo e maravigliosamente brillante; ed il corpo tutto erasi cosi dilatato e cresciuto che impossibile parea il poter credere come in quel piccolo guscio fosse mai potuto capire. Ma se nacquero queste verdi mosche dopo gli otto giorni da quell’uova rossigne, da quell’altre uova poi di color nero penarono quattordici giornate a nascere certi grossi e neri mosconi listati di bianco e col ventre peloso e rosso nel fondo, di quella razza istessa la quale vediamo giornalmente ronzare ne’ macelli e per le case intorno alle carni morte; ed allora che nacquero erano mal fatti e pigrissimi al moto e coll’ali non ispiegate, come avvenuto era a quelle prime verdi che di sopra ho mentovate. Non però tutte quell’uova nere nacquero dopo i quattordici giorni; anzi che una buona parte indugiarono a nascere fino al vigesimoprimo: nel qual tempo ne scapparono fuora certe bizzarre mosche in tutto dalle due prime generazioni differenti e nella grandezza e nella figura, e da niuno istorico giammai, che io sappia, descritte; imperocché elle son molto minori di quelle mosche ordinarie che le nostre mense frequentano ed infestano; volano con due ali quasi d’argento che la grandezza non eccedono del loro corpo, che è tutto nero di color ferrigno brunito e lustro, nel ventre inferiore, il quale rassembra nella figura a quello delle formiche alate, con qualche rado peluzzo mostrato dal microscopio. Due lunghe corna o antenne (così le chiamano gli scrittori dell’istoria naturale) su la testa s’inalzano: le prime quattro gambe non escono dall’ordinario dell’altre mosche; ma le due diretane sono molto più lunghe e più grosse di quello che a sì piccolo corpicciuolo parrebbe convenirsi; e son fatte per appunto di materia crostosa simile a quella delle gambe della locusta marina; hanno lo stesso colore, anzi più vivo, e così rosso che porterebbe scorno al cinabro; e, tutte punteggiate di bianco, paiono un lavoro di finissimo smalto.
Queste così differenti generazioni di mosche uscite da un solo cadavero non m’appagarono l’intelletto; anzi stimolo mi furono a far nuove esperienze: ed a questo fine apparecchiate sei scatole senza coperchio, nella prima riposi due delle suddette serpi, nella seconda un piccion grosso, nella terza due libbre di vitella, nella quarta un gran pezzo di carne di cavallo, nella quinta un cappone, nella sesta un cuore di castrato; e tutte, in poco più di ventiquattr’ore, inverminarono, e i vermi, passati che furono cinque o sei giorni dal loro nascimento, si trasformarono al solito in uova; e da quelle delle serpi, che tutte furono rosse e senza cavità, nacquero in capo a dodici giorni alcuni mosconi turchini ed alcuni altri violati. Da quelle del piccion grosso, delle quali alcune erano rosse ed altre nere, nacquero dalle rosse in capo a gli otto giorni mosche verdi, e dalle nere nel decimoquarto giorno, avendo rotto il guscio in quella punta dove non è la concavità, scapparono fuora altrettanti mosconi neri listati di bianco; e simili mosconi listati di bianco si videro usciti nell’istesso tempo da tutte quell’altr’uova delle carni della vitella, del cavallo, del cappone e del cuore di castrato; con questa differenza però, che dal cuor di castrato, oltre i mosconi neri listati di bianco, ne nacquero ancora alcuni di que’ turchini e di quei violati.
In questo mentre riposi in un vaso di vetro certi ranocchi di fiume scorticati e, lasciato aperto il vaso e riconosciutolo il seguente giorno, trovai alcuni pochi vermi che attendevano a divorargli e alcuni altri nuotavano nel fondo del vaso in cert’acqua scolata dalla carne de’ suddetti ranocchi. Il giorno appresso erano i bachi tutti di statura cresciuti; e n’erano nati infiniti altri che pur nuotavano sotto ed a galla di quell’acqua, dalla quale talvolta uscendo andavano a cibarsi sopra l’ultime reliquie di quei ranocchi; e nello spazio di due giorni avendole consumate, se ne stavano poscia tutti nuotando e scherzando in quel fetido liquore; e talvolta sollevandosene, tutti molli ed imbrattati, ancorché non avessero gambe, salivano, serpeggiando a lor voglia, scendevano e s’aggiravano intorno al vetro e ritornavano al nuoto, infin a tanto che, non essendomene accorto in tempo, vidi il susseguente giorno che, superata l’altezza del vetro, tutti quanti se n’erano fuggiti. In quello stesso tempo furono riserrati da me alcuni di quei pesci d’Arno, che barbi s’appellano, in una scatola tutta traforata e chiusa con coperchio traforato esso ancora; e quando, passato il corso di quattr’ore, l’apersi, trovai sopra i pesci una innumerabile moltitudine di vermi sottilissimi, e nelle congiunture della scatola per di dentro ed all’intorno di tutti i buchi vidi appiccate ed ammucchiate molte piccolissime uova, delle quali, essendo altre bianche ed altre gialle, schiacciate da me fra l’unghia, sgretolandosi il guscio, gettavano un certo liquore bianchiccio più sottile e men viscoso di quella chiara che si trova nell’uova de’ volatili. Raccomodata la scatola come in prima ella si stava, ed il dì vegnente riapertala, mirai che da tutte quell’uova erano nati altrettanti vermi, e che i gusci vòti stavano per ancora attaccati là dove furono partoriti; e quei primi bachi veduti il giorno avanti eran cresciuti di grandezza al doppio: ma quello che più mi sembrò pieno di maraviglia si fu che il seguente giorno arrivarono a tal grandezza che ciascuno di loro pesava intorno a sette grani; e pure il giorno avanti ne sarebbono andati venticinque e trenta al grano; ma gli altri usciti dell’uova erano piccolissimi e tutti insieme, quasi in un batter d’occhio, finiron di divorare tutta quanta la carne de’ pesci, avendo lasciate le lische e l’ossa così bianche e pulite che parevano tanti scheletri usciti dalla mano del più diligente notomista d’Europa: e quei bachi posti in luoghi di dove non potessero fuggire, ancorché sollecitamente se n’ingegnassero, dopo che furon passati cinque o sei giorni dalla loro nascita, diventarono al solito altrettante uova, altre rosse, altre nere; e tanto quelle tanto queste di differente grandezza; dalle quali poi, ne’ giorni determinati, uscirono fuori mosche verdi, mosconi turchini ed altri neri listati di bianco; ed altre mosche ancora di quelle che simili in qualche parte alle locuste marine ed alle formiche alate di sopra ho descritte. Oltre queste quattro razze vidi ancora otto o dieci di quelle mosche ordinarie che intorno alle nostre mense ronzano e s’aggirano: e perché, passato il ventunesimo giorno, m’accorsi che tra l’uova nere più grosse ve n’erano alcune che per ancora non eran nate, le separai dall’altre in differente vaso; e due giorni appresso cominciarono da quelle ad uscir fuora certi piccolissimi e neri moscherini, il numero de’ quali in due altri giorni essendo divenuto di gran lunga maggiore di quello dell’uova, apersi il vaso e, rotte cinque o sei di quell’uova istesse, le trovai piene zeppe dei suddetti moscherini a tal segno che ogni guscio n’avea per lo meno venticinque o trenta ed al più quaranta: e continuando a far simili esperienze molte e molt’altre volte, or colle carni e crude e cotte del toro, del cervio, dell’asino, del bufolo, del leone, del tigre, del cane, del capretto, dell’agnello, del daino, della lepre, del coniglio, del topo, or con quelle della gallina, del gallo d’lndia, dell’oca, dell’anitra, della cotornice, della starna, del rigogolo, della passera, della rondine e del rondone, e finalmente con varie maniere di pesci, come tonno, ombrina, pesce spada, pesce lamia, sogliola, muggine, luccio, tinca, anguilla, gamberi di mare e di fiume, granchi ed arselle sgusciate, sempre indifferentemente ne nacque ora l’una ora l’altra delle suddette spezie di mosche; e talvolta da un solo animale tutte quante le mentovate razze insieme; ed oltre ad esse molt’altre generazioni di moscherini neri al colore, alcuni de’ quali erano così minuti che a pena dagli occhi poteano esser seguiti per la picciolezza loro; e quasi sempre io vidi su quelle carni e su quei pesci, ed intorno ai forami delle scatole dove stavan riposti, non solo i vermi, ma ancora l’uova, dalle quali, come ho detto di sopra, nascono i vermi: le quali uova mi fecero sovvenire di quei cacchioni che dalle mosche son fatti o sul pesce o sulla carne, che divengon poi vermi: il che fu già benissimo osservato da’ compilatori del Vocabolario della nostra Accademia; e si osserva parimente da’ cacciatori nelle fiere da loro negli estivi giorni ammazzate, e da’ macellai e dalle donnicciuole che, per salvar la state le carni da quest’immondizia, le ripongono nelle moscaiuole o con panni bianchi le ricuoprono.
Laonde con molta ragione il grande Omero nel libro diciannovesimo dell’Iliade fece temere ad Achille che le mosche non imbrattassero co’ vermi le ferite del morto Patroclo in quel tempo che egli s’accingeva a farne contro d’Ettore la vendetta. Timor, dice egli parlando con Tetide,
Ma timor mi grava, che nelle piaghe di Patroclo
intanto vile insetto non entri,
che di vermi generator,
la salma (ahi! Senza vita) ne guasti sì,
che tutta imputridisca
.
E perciò la pietosa madre gli promesse che, colla sua divina possanza, avrebbe tenute lontane da quel cadavero l’impronte schiere delle mosche, e contro l’ordine della natura l’avrebbe conservato incorrotto ed intiero anco per lo spazio d’un anno.
Pensier di questo non ti prenda, o figlio,
gli rispose la Dea: l’infesto sciame
divoratore de’ guerrieri uccisi io ne terrò lontano.
Ov’anco ei giaccia intero un anno,
farò sì che il corpo incorrotto ne resti e ancor più bello.

Di qui io cominciai a dubitare se per fortuna tutti i bachi delle carni dal seme delle sole mosche derivassero e non dalle carni stesse imputridite, e tanto più mi confermava nel mio dubbio quanto che, in tutte le generazioni da me fatte nascere, sempre avea io veduto sulle carni, avanti che inverminassero, posarsi mosche della stessa spezie di quelle che poscia ne nacquero; ma vano sarebbe stato il dubbio se l’esperienza confermato non l’avesse. Imperciocché a mezzo il mese di luglio in quattro fiaschi di bocca larga misi una serpe, alcuni pesci di fiume, quattro anguillette d’Arno ed un taglio di vitella di latte; e poscia, serrate benissimo le bocche con carta e spago e benissimo sigillate, in altrettanti fiaschi posi altrettante delle suddette cose e lasciai le bocche aperte: né molto passò di tempo che i pesci e le carni di questi secondi vasi diventarono verminose; ed in essi vasi vedevansi entrare ed uscir le mosche a lor voglia, ma ne’ fiaschi serrati non ho mai veduto nascere un baco, ancorché sieno scorsi molti mesi dal giorno che in essi quei cadaveri furono serrati: si trovava però qualche volta per di fuora sul foglio qualche cacchione o vermicciuolo, che con ogni sforzo e sollecitudine s’ingegnava di trovar qualche gretola da poter entrare per nutricarsi in quei fiaschi dentro a’ quali di già tutte le cose messevi erano puzzolenti, infracidate e corrotte; ed i pesci di fiume, eccettuate le lische, s’erano tutti convertiti in un’acqua grossa e torbida che a poco a poco, dando in fondo, divenne chiara e limpida con qualche stilla di grasso liquefatto notante nella superficie; dalla serpe ancora scolò molt’acqua, ma il cadavero di lei non si disfece, anzi si conserva ancora sano quasi ed intiero, con gli istessi colori, come se ieri là dentro fosse stato rinchiuso; pel contrario l’anguille fecero pochissim’acqua; ma rigonfiando e ribollendo, ed a poco a poco perdendo la figura, diventarono com’una massa di colla o di pania tenace assai e viscosa; ma la vitella, dopo molte e molte settimane, rimase arida e secca. Non fui però contento di queste esperienze sole; anzi che infinite altre ne feci in diversi tempi e in diversi vasi; e per non tralasciar cosa alcuna intentata, infin sotto terra ordinai più d’una volta che fossero messi alcuni pezzi di carne che, benissimo colla stessa terra ricoperti, ancorché molte settimane stessero sepolti, non generarono mai vermi, come gli produssero tutte l’altre maniere di carni sulle quali s’erano posate le mosche: e di non lieve considerazione si è che del mese di giugno, avendo messo in una boccia di vetro di collo assai lungo ed aperto l’interiora di tre capponi, colà dentro bacarono; e non potendo tutti quei bachi per la soverchia altezza del collo scapparne fuora, ricadevano nel fondo della boccia, e quivi morendo servivano di pastura e di nido alle mosche, le quali continuarono a farvi bachi non solo tutta la state, ma ancora fino agli ultimi giorni del mese d’ottobre. Feci ancora un giorno ammazzare una buona quantità di bachi nati nella carne di bufolo; e riposti parte in vaso chiuso e parte in vaso aperto, in quei primi non si generò mai cosa alcuna, ma ne’ secondi nacquero i vermi che, trasmutatisi in uova, diventarono in fine mosche ordinarie: e lo stesso per appunto avvenne d’un gran numero delle suddette mosche ordinarie ammazzate e riposte in simili vasi aperti e serrati: imperciocché nulla nascer mai si vide nel vaso serrato; ma nell’aperto vi nacquero i bachi da’ quali, dopo esser diventati uova, nacquero mosche della stessa spezie di quelle sulle quali erano nati i bachi: di qui potrei forse conghietturare che il dottissimo padre Atanasio Chircher, uomo degno di qualsivoglia lode più grande, prendesse, non so come, un equivoco nel libro duodecimo del Mondo sotterraneo, dove propone l’esperimento di far nascere le mosche dai loro cadaveri. S’irrorino, dice questo buon virtuoso, i cadaveri delle mosche e s’inzuppino con acqua melata; quindi sopra una piastra di rame s’espongano al tiepido calore delle ceneri, e si vedranno insensibilmente nascere da essi alcuni minutissimi e per mezzo del solo microscopio visibili vermicciuoli che, a poco a poco spuntando l’ali dal dorso, pigliano la figura di piccolissime mosche; le quali pure, a poco a poco crescendo, diventano mosche grandi e di perfetta statura. Ma io per me mi fo a credere che quell’acqua melata non serva ad altro che ad invitar più facilmente le viventi mosche a pascersi di quei cadaveri ed a lasciare in quegli le loro semenze; e poco, anzi nulla, tengo che importi il farne la sperienza in vaso di rame ed al tiepido calor delle ceneri; imperocché sempre, ed in ogni luogo, da que’ cadaveri nasceranno i vermi, e da’ vermi le mosche, purché su quegli dalle stesse mosche sieno stati partoriti i vermi o i semi de’ vermi. Io non intendo già come que’ sottilissimi vermi descritti dal Chircher si trasformino in picciole mosche senza prima, per lo spazio d’alcuni giorni, essere stati convertiti in uova; e non intendo ancora, ingenuamente confessando la mia ignoranza, come quelle mosche possano nascere così piccole e poi vadano crescendo: imperocché le mosche tutte, i moscherini, le zanzare e le farfalle, per quanto mille volte ho veduto, scappano fuora dal loro uovo di quella stessa grandezza la quale conservano tutto il tempo di loro vita. Ma, oh quanto a questa sola esperienza non ben considerata delle mosche rinate da’ cadaveri delle mosche si sarebbono rallegrati e, per così dire, ringalluzzati coloro che dolcemente si diedero ad intendere di poter far rinascere gli uomini dalla carne dell’uomo per mezzo della fermentazione, o d’altro somigliante o più strano lavoro. Io son di parere che vi avrebbon fatto sopra un fondamento grandissimo e, con vanagloriosa burbanza raccontandola, avrebbon poscia esclamato:
Così per gli gran savi si confessa
Che la Fenice muore e poi rinasce.

Quindi si sarebbon forse messi a quell’incredibil cimento tentato fin ad ora da più d’uno, siccome io già bugiardamente ascoltai ragionare. Ma non merita il conto l’affaticarsi per confutar le ridicolose ciance di costoro, imperocché, come disse Marziale,
Turpe est difficiles habere nugas, Et stultus labor est ineptiarum. E tanto più che il celebratissimo padre Atanasio Chircher nel libro undecimo del Mondo sotterraneo ha nobilmente confutata, e con sodezza di ragioni, la follia del parabolano Paracelso, il quale empiamente volle darci ad intendere una ridicolosa maniera di generare gli omiciatti nelle bocce degli alchimisti. Rimango bene molto più scandalizzato di alcuni altri, che sopra somiglianti menzogne gettano i fondamenti e le conghietture di quell’altissimo misterio nella fede cristiana della resurrezione de’ corpi alla fine del mondo. Il greco Giorgio Pisida si fu uno di costoro, esortando a crederla coll’esemplo della Fenice, ed il famosissimo e celebratissimo signor de’ Digbì col rinascimento de’ granchi dal proprio lor sale con manifattura chimica preparato e condotto. Ah che i santi e profondi misteri di nostra fede non possono dall’umano intendimento essere compresi e non camminano di pari con le naturali cose, ma sono speciale e mirabil fattura della mano di Dio; il quale, mentre che venga creduto onnipotente, l’altre cose tutte facilissimamente e a chius’occhi creder si possono e si debbono; e credute a chius’occhi più s’intendono: onde quel gentilissimo italiano poeta cantò:
I segreti del Ciel sol colui vede
Che serra gli occhi e crede.

Ma tralasciata questa lunga digressione, per tornare al primo filo fa di mestiere ch’io vi dica che, quantunque a bastanza mi paresse d’aver toccato con mano che dalle carni degli animali morti non s’ingenerino i vermi se in quelle da altri animali viventi non ne sieno portate le semenze, nientedimeno per tor via ogni dubbio ed ogni opposizione che potesse esser fatta per cagione delle prove tentate ne’ vasi serrati, ne’ quali l’ambiente aria non può entrare e uscire, né liberamente in quegli rinnovarsi, volli ancora tentar nuove esperienze col metter le carni ed i pesci in un vaso molto grande, e, acciocché l’aria potesse penetrarvi, serrato con sottilissimo velo di Napoli e rinchiuso in una cassetta, a guisa di moscaiuola, fasciata pure con lo stesso velo; e non fu mai possibile che su quelle carni e su quei pesci si vedesse né meno un baco: se ne vedevano però non di rado molti aggirarsi per di fuora sopra il velo della moscaiuola, che, tirati dall’odor delle carni, talvolta dentro di quella penetravano per i sottilissimi fori del fitto velo; e, chi non fosse stato lesto a cavargli fuora, sarebbon forse ancora arrivati ad entrar nel vaso, con tanto studio ed industria facevano ogni loro sforzo per arrivarvi; ed una volta osservai che due bachi, avendo felicemente penetrato il primo velo ed essendo caduti sopra il secondo che serrava la bocca del vaso, anco su questo s’erano tanto aggirati che già con la metà del corpo l’avevano superato, e poco mancava che non fossero su quelle carni andati a crescere. E curiosa cosa era in questo mentre il veder ronzare intorno intorno i mosconi che, di quando in quando posandosi sul primo velo, vi partorivano i bachi; e posi mente che taluno ve ne lasciava sei o sette per volta, e taluno gli figliava per aria, avanti che al velo s’accostasse; e questi forse erano di quella razza stessa della quale racconta lo Scaligero essersi per fortuna imbattuto, che un moscone da lui preso gli partorisse nella mano alquanti di quei piccoli vermi; e da tale avvenimento suppose egli che tutte le mosche generalmente figliassero bachi viventi e non uova: ma quanto quel dottissimo uomo s’ingannasse a bastanza si può conoscere per quello che di sopra ho scritto. Ed in vero alcune razze di mosche partoriscono vermi vivi, ed alcune altre partoriscono uova, e me ne son certificato con l’esperienza e su ‘l fatto; né mi convince punto né poco l’autorevolissima testimonianza del sapientissimo padre Onorato Fabri della venerabile Compagnia di Giesù il quale, al contrario di quel che tenne lo Scaligero, ha creduto nel libro della generaz. degli anim. che le mosche figlino sempre l’uova e non mai i vermi. È può ben essere che le stesse razze delle mosche (io non affermo e non nego) alle volte facciano l’uova ed alle volte i vermi vivi, e che di lor natura farebbon forse sempre l’uova se ‘l caldo maturativo della stagione non gliele facesse nascere in corpo, e per conseguenza elle partorissero poi i vermi vivi e semoventi, come mille volte effettivamente ho veduto.
S’ingannò altresì l’accuratissimo Giovanni Sperlingio avendo scritto nella Zoologia che que’ bachi delle mosche non son partoriti da esse mosche, ma bensì che e’ nascono dallo sterco delle medesime; e per renderne la ragione, con falso presupposto soggiunse: Ratio huius rei animis candidis obscura esse nequit; muscae enim omnia liguriunt, vermiumque materiam una cum cibo assumunt, assumptamque per alvum reddunt. Non osservò lo Sperlingio quel ch’ognuno può giornalmente osservare, ed è che le mosche hanno la loro ovaia divisa in due celle separate le quali contengono l’uova o cacchioni, e gli tramandano ad un solo e comune canaletto, giù per lo quale son tramandate fuor del corpo ed in quantità così grande che par cosa incredibile, essendoché certe mosche verdi son tanto feconde che ognuna di esse avrà nell’ovaia fino a dugento cacchioni; s’ingannò dunque lo Sperlingio credendo che i vermi delle mosche nascessero dallo sterco di esse mosche, e con lo Sperlingio s’ingannò forse ancora il dottissimo padre Atanasio Chircher, che ebbe una non molto dissimile opinione. Ma non meno di questi due famosi scrittori andò lontano dal vero un grandissimo virtuoso e mio carissimo amico il quale, avendo veduto che un moscone incappato nella rete, ogni volta che dal ragno era morso, gettava qualche verme, venne in opinione che le morsure del ragno virtude avessero e possanza di fare inverminare i corpi delle mosche. Non invermina adunque, per quanto ho riferito, animale alcuno che morto sia.
Or come potrà esser vero ciò che dagli scrittori vien riferito e creduto delle pecchie, che elle nascano dalle carni de’ tori imputridite, e che perciò, come racconta Varrone, i Greci le chiamassero nate da buoi? Questa è una di quelle menzogne che anticamente a caso da qualcuno favolosamente inventate, da altri, come se fossero mere veritadi, furono poi raffermate e di nuovo scritte, e sempre con qualche giunta, imperciocché non tutti gli autori raccontano ad un modo la maniera di questa maravigliosa generazione, e non sono tra di loro d’accordo. Columella si dichiarò che non voleva perderci il tempo, aderendo all’opinione di Celso, il quale non credette che si potesse mai del tutto spegnere la razza delle pecchie: onde superfluo sarebbe stato il cercarle tra le viscere de’ tori. Magone però, citato da Columella, insegna i soli ventri del toro essere a quest’opra sufficienti; e Plinio aggiugne esser necessario che ricoperti sieno di letame. Antigono Caristio, in quella sua Raccolta delle maravigliose narrazioni, vuole che un intero giovenco si seppellisca sotto terra, ma che però rimangano scoperte le corna; dalle quali, tagliate a suo tempo con la sega, ne volano fuora (come egli dice) le api.
Ad Antigono aderisce in gran parte Ovidio nel primo libro de’ Fasti:
Qua, dixit, repares arte, requiris, apes?
Obrue mactati corpus tellure iuvenci.
Quod petis a nobis, obrutus ille dabit.
Iussa facit pastor, fervent examina putri
De bove: mille animas una necata dedit.

Varrone nel libro secondo e nel terzo Degli affari della villa non si dichiara se necessario sia il seppellirlo, o se pure sia bene il lasciarlo imputridir sopra terra.
Columella anch’egli di questa particolarità non parla; e non ne parla ancora Eliano nel secondo libro della Storia degli animali; e Galeno lo tace nel capitolo quinto di quel libro che egli scrisse: Se animale sia ciò che nell’utero si contiene.
Virgilio però, nel fine del quarto della Georgica, pare che tenesse opinione che non fosse necessario il sotterrarlo, ma che bastasse lasciarlo nel bosco all’aria libera ed aperta:
Quattuor eximios praestanti corpore tauros,
Qui tibi nunc viridis depascunt summa Lycaei,
Delige, et intacta totidem cervice iuvencas.
Quattuor his aras alta ad delubra dearum
Constitue, et sacrum iugulis demitte cruorem,
Corporaque ipsa boum frondoso desere luco.

E appresso:
Post, ubi nona suos, aurora induxerat ortus,
Inferias Orphei mittit, lucumque revisit.
Heic vero subitum ac dictu mirabile monstrum
Adspiciunt, liquefacta boum per viscera toto
Stridere apes utero et ruptis effervere costis,
Immensasque trahi nubes, iamque arbore summa
Confluere et lentis uvam demittere ramis.

E pure non molti versi avanti detto avea che necessario era eleggere un luogo murato e coperto:
Exiguus primum atque ipsos contractus ad usus Eligitur locus; hunc angustique imbrice tecti Parietibusque premunt arctis, et quattuor addunt, Quattuor a ventis obliqua luce fenestras.
Ma Iuba, re della Libia, appresso Fiorentino, nel quintodecimo libro degli Ammaestramenti dell’agricoltura, attribuiti all’imperadore Costantino Pogonato, voleva che si rinchiudesse il vitello in un’arca di legno, se bene il soprammentovato Fiorentino pare che non l’approvi; anzi, con l’opinione di Democrito e di Varrone, attenendosi al detto di Virgilio, afferma che questa faccenda far si dee in una stanza fabbricata a posta per quest’effetto, e n’insegna il modo minutamente di giorno in giorno dal principio insino al fine; quindi soggiugne che la plebe delle pecchie nasce dalle carni del toro, ma che i re s’ingenerano e nel cervello e nella spinal midolla, ancorché quegli del cervello sieno maggiori, più belli e più forti. Ma del numero de’ giorni ne’ quali resta compiuta l’opera, egli è molto lontano da quel che ne scrisse Virgilio, il quale ne assegnò nove; ed egli arriva sino al numero di trentadue; e Gio. Rucellai nel suo gentilissimo poemetto dell’Api, senza farne menzione, sotto silenzio gli passa, ancorché tutto quanto questo magistero diffusamente descriva:
Ma però s’elle ti venisser meno
Per qualche caso, e destituto fossi
Dalla speranza di poter averne
D’alcun luogo vicino, io voglio aprirti
Un magistero nobile e mirando
Che ti farà col putrefatto sangue
Da i morti tori ripararle ancora,
Come già fece il gran pastor d’Arcadia
Ammaestrato dal ceruleo vate,
Che per l’ondoso mar Carpazio pasce
Gli armenti informi de le orribil foche:
Perciò che quella fortunata gente
Che beve l’onde del felice fiume
Che stagna poi per lo disteso piano
Presso al Canopo, ove Alessandro il grande
Pose l’alta città ch’ebbe il suo nome,
La quale ha intorno sé le belle ville
Che la riviera de le salubri onde
Riga e le mena le barchette intorno;
Questo venendo lunge fin da gl’lndi,
Ch’hanno i lor corpi colorati e neri,
Feconda il bel terren del verde Egitto
E poi sen’ va per sette bocche in mare.
Questo paese adunque intorno al Nilo
Sa il modo che si dee tener chi vuole
Generar l’api e far novelli esami.
Primieramente eleggi in picciol loco,
Fatto e disposto sol per tale effetto,
E cingi questo d’ogni parte intorno
Di chiusi muri, e sopra un picciol tetto
D’embrici poni, ed indi ad ogni faccia
Apri quattro finestre che sian vòlte
A i quattro primi venti, onde entrar possa
La luce che suol dar principio e vita
E moto e senso a tutti gli animanti;
Poi vo’ che prenda un giovanetto toro,
Che pur or curvi le sue prime corna
E non arrivi ancora al terzo maggio,
E con le nari e la bavosa bocca
Soffi mugghiando fuori orribil tuono;
D’indi con rami ben nodosi e gravi
Tanto lo batterai che caschi in terra,
E fatto questo chiudilo in quel loco,
Ponendo sotto lui popoli e salci,
E sopra cassia con serpillo e timo;
E nel principio sia di primavera
Quando le grue tornando a le fredde alpi
Scrivon per l’aere liquido e tranquillo
La biforcata lettera de i Greci.
In questo tempo da le tenere ossa
Il tepefatto umor bollendo ondeggia
(O potenza di Dio quanto sei grande,
Quanto mirabil!): d’ogni parte allora
Tu vedi pullular quegli animali,
Informi prima, tronchi e senza piedi,
Senz’ali, vermi, e ch’hanno appena il moto.
Poscia in quel punto quel bel spirto infuso
Spira e figura i piè, le braccia e l’ale,
E di vaghi color le pinge e inaura.
Ond’elle fatte rilucenti e belle
Spiegano all’aria le stridenti penne,
Che par che siano una rorante pioggia
Spinta dal vento in cui fiammeggi il sole,
O le saette lucide che i Parti,
Ferocissima gente, ed ora i Turchi
Scuoton da i nervi degl’incurvat’archi
.
Non mancarono molt’altri poeti e tra i Greci e tra’ Latini che accennassero questo nascimento dell’api, e particolarmente Fileta di Coo, che fu maestro di Tolomeo Filadelfo, Archelao Ateniese, o Milesio citato da Varrone, Filone Tarsense nella descrizione del suo famosissimo antidoto, Giorgio Pisida, Nicandro e gentilmente Ovidio nel decimoquinto delle Trasformazioni:
I quoque, delectos mactatos obrue tauros
(Cognita res usu), de putri viscere passim
Florilegae nascuntur apes, quae more parentum
Rura colunt operique favent in spemque laborant.

Lo confermano ancora molti prosatori, tra’ quali è da vedersi Origene, Plutarco nella Vita del secondo Cleomene, Filone Ebreo nel trattato delle vittime; ed a questi antichi aderiscono tutti i filologi e tutti i filosofi moderni che ammettono questa favola per vera e sovente, sul di lei fondamento, pretendono di fabbricare macchine grandissime; ed insino quel sublime scrittore, quel fulgidissimo lume delle scuole moderne, Pietro Gassendo, per cosa vera la racconta; ed avendo osservato che Virgilio dà per precetto che tale operazione si faccia al principio della primavera e prima che l’erbe fioriscano,
Hoc geritur Zephyris primum impellentibus undas,
Ante novis rubeant quam prata coloribus, ante
Garrula quam tignis nidum suspendat hirundo,

dice che con molta ragione ciò viene avvertito, conciossiecosaché in quel tempo il giovenco ha pasciuto l’erbe pregne di vari semi, che sarebbon poi germogliati in fiori; e soggiugne che dallo stesso Virgilio e da Fiorentino con molta ragione parimente fu comandato che il morto vitello sopra uno strato di timo e di cassia s’adagiasse; imperocché il timo e la cassia contengono semi abilissimi alla generazione delle pecchie; i quali tutti spiritosi e odoriferi, penetrando nel fracidume di quel cadavero, lo dispongono a vestir la forma di quegl’industriosi animaletti.
Molti furono e sono di tale opinione imbevuti, come sarebbe a dire Pietro Crescenzi, Ulisse Aldovrando, Fortunio Liceti, Girolamo Cardano, Tommaso Moufeto, Giovanni Jonstono, Francesco Osvaldo Grembs, Tommaso Bartolini, Francesco Folli inventore dello strumento da conoscer l’umido e ‘l secco dell’aria, ed il curiosissimo Filippo Iacopo Sachs, il quale nella sua erudita Gamberologia fa ogni sforzo possibile per mantenerla in concetto di vera: e se bene Giovan Batista Sperlingio, molto accorto e diligente scrittore, nella Zoologia saggiamente detto avea che in una grande e pestilenziosa mortalità di armenti non si era nel paese di Vittemberga né veduta mai né osservata questa generazione di api fattizie, contuttociò il Sachs, chiamando in aiuto Gherardo Giovanni Vossio nel quarto libro dell’Idolatria, risponde esser ciò potuto avvenire per la freddezza di quel paese inabile a poter generare e nutrire que’ volanti insetti; e lo stesso padre Atanasio Chircher credé verissima quella nascita artificiosa delle pecchie; anzi, nel libro duodecimo del Mondo sotterraneo, insegnò ancora che dallo sterco de’ buoi pullulano alcuni vermi a guisa di bruchi i quali, in breve tempo mettendo l’ali, si cangiano in api. Io non so se questo commendabile autore ne abbia mai fatta oculatamente la sperienza; so bene che quando ho fatto tenere in luogo aperto, come vuole esso padre Chircher, lo sterco e de’ buoi e di qualsivoglia altro animale, sempre ne son nati i bachi e di primavera e di state e d’autunno; e da’ bachi ne son sorte le mosche ed i moscherini, e non l’api; ma se l’ho fatto conservare in luogo chiuso, dove le mosche ed i moscherini non abbian potuto penetrare né figliarvi sopra le loro uova, non vi ho mai veduto nascere cosa alcuna: e di qui si scorge evidentemente quanto senza ragione Frate Alberto Tedesco, cognominato Magno, affermasse che dal letame putrefatto nascer sogliano le mosche. Ma, per non uscir del filo, vi torno di nuovo a scrivere che infiniti sono gli autori moderni che si persuadono che dalle carni de’ tori abbian vita le pecchie: nel libro Della generazione degli animali se lo persuade il dottissimo padre Onorato Fabri, le di cui opere famose non saran mai sepolte nelle tenebre della dimenticanza. Molti e molti altri ancora vi potrei annoverare se non fossi chiamato a rispondere alle rampogne di alcuni che bruscamente mi rammentano ciò che si legge nel capitolo quattordicesimo del Sacrosanto Libro de’ Giudici: che Sansone colà nelle vigne di Tannata, avendo ammazzato un leone, e volendo dipoi rivederne il cadavero, ritrovò in quello uno sciame bellissimo di api le quali vi aveano fabbricato il mele; dal che fu indotto Tommaso Moufeto a scrivere nel suo Teatro degl’insetti che le api, altre nascono dalla carne de’ tori, e son chiamate nate da tori, ed altre dalla carne de’ leoni, e son dette nate da leoni, e che queste son di miglior razza e più generose e più forti: e di qui avviene che, ribollendo loro in seno i semi della paterna ferocia, non temono di assalire, se irritate sieno, gli uomini stessi e di ammazzare ancora ogni animale più grande; onde Aristotile e Plinio fanno testimonianza da quelle essere stati uccisi infin de’ cavalli: quindi soventi fiate ne’ Sacrosanti Libri vengon paragonati i più forti ed i più terribili nemici alle pecchie e particolarmente in Isaia: Sibilabit Dominus api, quae est in terra Assur; il che da’ Caldei fu interpretato: Darà voce il Signore a poderosissimi eserciti, che son forti come le pecchie, e gli condurrà da’ confini della terra d’Assiria. E ‘l rabbino Salomone, spiegando questo passo, dice: Darà voce all’api, cioè ad un esercito di uomini fortissimi, che feriscono come le api.
Questa difficultà fu considerata dall’eruditissimo e sapientissimo Samuel Bociarto nella seconda parte del suo famoso Ierozoico, e saggiamente da lui fu risposto esser vero che nel cadavero del leone furon trovate dal suo uccisore le pecchie, ma che per questo non si dee argomentare che elle vi fossero nate, né il Sacro Testo lo dice: anzi dal Sacro Testo si può cavare che allora quando Sansone volle riveder quella morta bestia, ella non era più, per così dire, un cadavero, ma uno scheletro d’ossa senza carne; e scheletro appunto vuol intendere il siriaco interprete con quelle parole [parola in lingua siriaca tradotta in latino come “cadaver osseum”]. Soggiunge poscia il medesimo Bociarto che ben poteva il leone esser divenuto uno scheletro arido e nudo, conciossiecosaché quando Sansone ritornò per vederlo, ciò avvenne, come si legge nel testo ebreo, dopo giorni, cioè dopo un anno; e questo modo di favellare, e di prendere i giorni per l’anno, afferma esser frequentissimo nella Sacra Scrittura, e dottamente ne cita molti e molti passi che per brevità tralascio.
Se dunque Sansone ritornò dopo un anno a riveder quel cadavero, verisimil cosa è che non fosse allora altro che un nudo scheletro, dentro al quale non abborriscono le pecchie di fare il mele; e ne fa testimonianza Erodoto, raccontando che gli Amatusi, avendo tagliato il capo ad un certo Onesilo, e confittolo sopra le porte di Amatunta, ed essendo di già inaridito, uno sciame di api vi fabbricò i suoi favi; ed un altro gli fabbricò medesimamente nel sepolcro del divino Ippocrate, se crediamo a Sorano nella di lui vita; ed io mi ricordo aver più volte udito dire al Cavalier Francesco Albergotti, letterato di non ordinaria erudizione, ch’ei ne vide un giorno un non piccolo sciame appiccato al teschio d’un cavallo.
Potrebbe qui forse esser mosso un altro dubbio, se per fortuna fosse avvenuto che le pecchie si fossero gettate a mangiar le carni di quel leone, ed in mangiandole vi avessero fatti sopra i loro semi o partoriti i loro cacchioni, da’ quali nate poi le giovanette api avessero potuto nella tessitura di quell’ossa fabbricare i fiali del mele; e tanto più che questa fu l’opinione del Franzio, allora che nella Storia degli animali ebbe a favellare delle carni de’ buoi. Ma io risponderei che le pecchie sono animali gentilissimi, e così schivi e delicati che non solo non si cibano delle carni morte, ma né meno su quelle si posano, e l’hanno incredibilmente a schifo. N’ho più volte in vari tempi ed in luoghi diversi fatta esperienza, attaccando de’ pezzi di carne sopra ed intorno agli alveari; e mai le pecchie ad esse carni non si son volute accostare; e se voi, Signor Carlo, non lo voleste totalmente credere a me, datene fede per lo meno ad Aristotile nel cap. quarantesimo del IX lib. della Storia degli animali; credetelo a Varrone, a Didimo, che lo copiò da Varrone, al greco Manuel File che, cavando quasi interamente la su’ opera da Eliano, fiorì ne’ tempi o di Michele Curopalata, o vero di Michel Balbo imperatori di Costantinopoli:
.......................................................... [e la saggia ape vive una vita quasi pura, dal momento che non si ciba di resti di cadaveri] e finalmente a Plinio, che nell’undecimo libro lasciò scritto: Omnes carne vescuntur, contra quam apes, quae nullum corpus attingunt. Ma il buon Plinio, scordatosi forse poi di aver ciò riferito, contraddicendo a sé medesimo nel capitolo decimoquarto del ventunesimo libro scrisse: Si cibus deesse censeatur apibus, uvas passas siccasve ficosque tusas ad fores earum posuisse conveniet. Item lanas tractas madentes passo aut defruto, aut aqua mulsa. Gallinarum etiam crudas carnes.
Considerando questa così manifesta contraddizione di Plinio, meco medesimo più volte ho temuto che nel ventunesimo libro potesse essere errore di scrittura, ma son uscito di dubbio imperocché, avendo confrontato questo passo con molti antichi testi a penna delle più celebri librerie d’ltalia, in tutti ho trovato costantemente le stesse parole, sì come le trovo nell’antico Plinio stampato in Roma nel 1473 ed in quello di Parma del 1480. Vi è però questa differenza, che in tutti gli stampati ha: Gallinarum etiam crudas carnes; ma ne’ manuscritti per lo più, e nelle Osservazioni del Pinziano si legge: Gallinarum etiam nudas carnes. Qual sia la miglior lezione lo potranno giudicare i critici; io quanto a me credo che Plinio scrivesse crudas carnes, e lo imparasse da Columella il quale nel capitolo quattordicesimo del libro nono insegnò che, quando mancava il cibo alle pecchie, alcuni costumavano intromettere degli uccelli morti non pelati negli alveari; e son queste esse le sue parole: Quidam exemptis interaneis occisas aves intus includunt, quae tempore hyberno plumis suis delitescentibus apibus praebent teporem: tum etiam si sunt assumpta cibaria, commode pascuntur esurientes, nec nisi ossa earum relinquunt. Ma strana cosa è il prurito grande che hanno gli scrittori di contraddirsi l’un l’altro; e di qui avvenne forse che Pietro Crescenzi volle che fosse data alle pecchie affamate non la cruda carne, ma il pollo arrostito. Quando (dice egli) molto impoveriscono del mele, il quale si conosce al vedere, se di sotto si ragguardi, o al peso: o vero meglio facendo un foro sopra la parte mezzana, e per questo un fuscel netto dentro messo dia loro del mele o vero pollo arrostito, o vero altre carni. Crederei dunque, per salvare il detto di Plinio, che le pecchie non mangiassero mai carne se non cacciate dalla carestia e dalla fame, e ben lo disse Columella nel soprammentovato capitolo, parlando di que’ morti uccelli: Si autem favi sufficiant, permanent illibatae.
Anzi Columella conobbe molto bene che era forse una vanità ed un voler far contro alla natura delle pecchie, dando loro le carni per cibo, e perciò soggiunse: Melius tamen nos existimamus tempore hyberno fame laborantibus ad ipsos aditus in canaliculis, vel contusam et aqua madefactam ficum aridam, vel defrutum aut passum praebere; e di tal credenza forse furono Varrone, Virgilio e Palladio, i quali non fanno mai menzione di somministrar la carne all’api nella mancanza del mele. In somma le api hanno differente natura da quella de’ calabroni e delle vespe; imperocché e queste e quegli avidamente assaporano tutte quante le carni e tutte quante le carogne che loro si paran davanti, ed io più volte ne ho fatta la prova; e non si contentano di mangiarne ma, razzolandole e facendone alcune piccole pallottole, se le portano per avventura ne’ loro vespai; e ne son queste bestiuole così rottamente golose che talvolta per cibarsene hanno ardire d’affrontare gli animali viventi; e Tommaso Moufeto nel Teatro degl’insetti racconta essere stato osservato in Inghilterra che un calabrone, perseguitando una passera, e finalmente avendola ferita e morta, fu veduto satollarsi del di lei sangue. Non la perdonano altresì alle carni umane: quindi è che Cointo Smirneo disse che i Greci in compagnia di Neoptolemo si scagliavano alla battaglia, come fanno per appunto le vespe quando, spiccandosi da’ loro vespai, bramano pascersi di qualche corpo umano; e quel sovrano Poeta, che nelle sue divine opere
Mostrò ciò che potea la lingua nostra,
prese argomento di descriver favoleggiando le pene d’alcuni che nella prima entrata dell’lnferno erano tormentosamente puniti:
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
Erano ignudi e stimolati molto
Da mosconi e da vespe ch’eran ivi;
Elle rigavan lor di sangue il volto,
Che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
Da fastidiosi vermi era ricolto.

Son ghiottissime le vespe de’ serpenti, se merita fede Plinio, e con questo alimento, dic’egli, si rendono più velenose le loro punture: il che vien confermato da Eliano nel capitolo quintodecimo del libro nono della Storia degli animali, e nel capitolo decimosesto del libro quinto, dove rapporta che a bella prova corrono ad infettare il lor pungiglione col tossico della morta vipera: dal che l’umana malizia apprese poi l’arte d’avvelenar le frecce; ed Ulisse, come racconta Omero nell’Odissea, navigò in Efira per impararla da un cert’Ilo Mermerida; e d’Ercole, molto prima che d’Ulisse, si racconta che rendesse mortifere le sue saette col sangue dell’ldra. Non è però già da credere che diventino avvelenate le punture delle vespe e de’ calabroni per essersi cibati della carne di qualsisia serpe indifferentemente; imperocché questo caso allora solamente si può dare quando abbiano tuffati gli aghi loro in quel pestifero liquore che sta nascosto nelle guaine che cuoprono i denti canini della vipera o degli altri a lei simili serpentelli, come fu da me accennato nelle mie Osservazioni intorno alle vipere. Se poi veramente i calabroni e le vespe (conforme vuole Eliano) abbiano questa malvagia inclinazione di natura, io non vorrei crederlo. Teofrasto, per quanto si legge nel frammento del libro che scrisse degli animali che son creduti invidiosi, conservato nella Libreria di Fozio, saggiamente tien per fermo che tal maligna invidia non si trovi mai negli animali, che son privi di discorso: e se lo stellione si mangia la propria spoglia; se ‘l vitello marino preso da’ cacciatori vomita il gaglio; se le cavalle strappano dalla fronte de’ figliuoli e si divorano la favolosa ippomane; se il cervio (il che pure è menzogna) nasconde sotterra il corno destro quando gli cade; se ‘l lupo cerviere cela alla vista degli uomini la propria orina; e se ‘l riccio terrestre tra le mani de’ cacciatori si guasta coll’orina la pelle, ei crede che lo facciano o per timore o per qualch’altra cagione appartenente a loro stessi, e non perché vogliano invidiosamente privar gli uomini di que’ loro escrementi, dal volgo creduti giovevoli per alcune malattie e per le ridicolose fatture degli stregoni. Ad imitazione di Teofrasto ancor io direi che le vespe e i calabroni ronzassero intorno a’ cadaveri de’ serpenti non per avvelenare i loro pungiglioni, ma per lo sol fine di nutricarsi, e per lo stesso fine avessero nimicizia e perseguitassero ostinatamente i mosconi e le pecchie. Non è però che le vespe non vivano ancora di fiori e di frutti e freschi e secchi; ma l’uva, ed in particolare la moscadella, troppo ingordamente la divorano, come ne fan testimonianza Cointo Smirneo e Nicandro negli Alessifarmaci, e si vede tutto giorno per esperienza.
Or se, come dissi, è menzogna che le pecchie nascano dalla carne imputridita de’ tori, favola non men credo che sia quel che da alcuni si narra, che nelle parti della Russia e della Podolia si trovi una certa maniera di serpenti che si nutriscono di latte ed anno il capo ed il becco simile all’anitre, e son chiamati zmija, i quali generano dentro de’ loro corpi viventi e partoriscono poi per bocca, o per meglio dire, vomitano ogni anno a poco a poco due sciami di pecchie almeno, che in lingua del paese dette sono zmijoiocki, e ritenendo molto della natura serpentina s’armano d’un pungiglione velenoso e poco men che mortale.
Questo racconto in quelle provincie è tenuto per cosa certissima, e molti riferiscono d’aver veduti di que’ sì fatti serpenti; e fu ancora confermato in Parigi dalla testimonianza d’un tal Signor Szizucha, per quanto mi viene scritto in una lettera dal dottissimo ed eruditissimo Signor Egidio Menagio.
Il Signor Menagio però non vi presta fede, anzi tien per verisimile, se sia vero però che que’ serpenti vomitino di tempo in tempo delle pecchie, che ciò avvenga perché le abbiano prima inghiottite vive nel tempo forse che rubano il mele dagli alveari. Il n’y a point d’apparence (dic’egli) de croire que ces abeilles s’engendrent dans le corps de cette sorte de serpens; et il est vraisemblable que ces serpens les ayant avallées avec leur miel, car la plus part des serpens aiment les choses douces, ils les revomissent de suite, en estant piquez. E una sola volta forse che ciò sia accaduto e che sia stato osservato, può aver dato luogo alla favola ed all’universale credenza.
Sia com’esser si voglia, che io tra queste suddette favole novero ancora quell’altra, che le vespe e i calabroni riconoscano il loro nascimento da alcune maniere di carni putrefatte, ancorché dal consenso universalissimo d’infiniti autori venga affermata per vera ed infallibile. Antigono, Plinio, Plutarco, Nicandro, Eliano ed Archelao citato da Varrone, insegnano che le vespe abbiano origine dalle morte carni de’ cavalli. Virgilio lo confessa non solo delle vespe, ma ancora de’ calabroni. Ovidio, tacendo delle vespe, fa menzione de’ calabroni solamente:
Pressus humo bellator equus crabronis origo est.
Tommaso Moufeto riferisce che dalla carne più dura de’ cavalli nascono i calabroni, e dalla più tenera le vespe. Ma i greci chiosatori di Nicandro attribuiscono cotal virtude non alla carne, ma alla pelle, con questa condizione però, che il cavallo sia stato morso ed azzannato dal lupo. Giorgio Pachimero afferma che non dalla pelle, né dalle carni, ma dal solo cervello nascono le vespe; e il Lando fa nascere i calabroni dal cervello dell’asino. Ma Servio gramatico, sconvolgendo ogni cosa, disse che da’ cavalli nascono i fuchi, e da’ muli i calabroni, e dagli asini le vespe; e quanto alle vespe Isidoro si ristrigne al solo cuoio dell’asino; e pure Olimpiodoro, Plinio, il Cardano, il Porta vogliono che dall’asino prendano il nascimento i fuchi, gli scarafaggi, e non le vespe; ed Oro, nel capitolo ventesimoterzo del secondo libro de’ Geroglifici, parla delle vespe nate dalle carni del coccodrillo; e Antigono, nel capitolo ventesimoterzo delle Storie maravigliose, ebbe a dire che dal coccodrillo non le vespe, ma gli scorpioni terrestri spontaneamente nascono. Se ciò veramente nelle carni di questo serpente avvenga, non voglio intrigarmi a favellarne perché non ne ho fatto l’esperienza, né credo per ora di poterla fare: voglio bene dentro all’animo mio fermamente credere che, siccome ho trovata essere una menzogna la nascita di tutti quegli altri insetti dalle carni de’ muli, degli asini e de’ cavalli, così favoloso non meno sia dal morto ed imputridito coccodrillo il nascimento delle vespe e degli scorpioni. Favoloso nella stessa maniera con più e diversi esperimenti ho ritrovato che gli scorpioni possano nascere da’ granchi sotterrati, come lo scrissero Fortunio Liceto, Gio. Batista Porta, il Grevino, il Moufeto ed il Nierembergio, i quali con troppa credulità e troppo alla buona impararono questa dottrina da Plinio, e Plinio forse da Ovidio nelle Trasformazioni:
Concava littoreo demas si brachia cancro,
Caetera supponas terrae, de parte sepulta
Scorpius exibit caudaque minabitur unca.

Ma Plinio al detto da Ovidio aggiunse una di quelle condizioni che tanto dalla plebe son tenute in venerazione, cioè che quest’opera si facesse in quei giorni appunto che il Sole fa il suo viaggio nel segno del Granchio: Sole Cancri signum transeunte, et ipsorum, cum exanimati sint, corpus transfigurari in scorpiones, narratur in sicco.
Questa favola non fu mica creduta da Tommaso Bartolino, uomo per universale consentimento annoverato tra’ maggiori e più rinomati medici e notomisti dell’età presente e della passata; conciossiecosaché in una lettera scritta all’eruditissimo Filippo Jacopo Sachs afferma costantemente di aver osservato che in Danimarca, dov’è grandissima abbondanza di granchi, da’ lor cadaveri putrefatti e corrotti non nascono gli scorpioni.
Ma il Sachs non aderisce né punto né poco al detto del Bartolino; anzi possibilissima crede così fatta generazione, soggiugnendo che nulla contro di quella provano l’esperienze fatte in Danimarca, per essere i paesi settentrionali in ogni tempo privi affatto di scorpioni. Io nulla di meno mi sento inclinato a credere (e sia detto con pace di tanto virtuoso e così benemerito delle buone lettere), mi sento, dico, inclinato a credere che il Sachs forse s’inganni, come con tutti i soprammentovati moderni autori s’ingannarono forse ancora Ovidio e Plinio.
Non fu però Plinio contento di far nascere gli scorpioni solamente da’ granchi, che volle ancora che il bassilico pestato e poscia coperto con una pietra gli generasse, ed ebbe per aderente in gran parte ne’ susseguenti tempi il greco compilatore de’ Precetti dell’agricoltura, il quale non fa seppellire il bassilico sotto la pietra, ma bensì insegna che si mastichi e poscia al sole si esponga. Gio. Batista Porta seguitò l’opinione di costui, ma il Mattiuolo ed il Liceto s’attennero a quella di Plinio, ed in somma infiniti altri moderni, e tra essi il Nierembergio, l’Elmonzio, il Sachs ed il Chircher, attribuiscono tal virtude a questa odorifera erba; e gliele attribuisce parimente il celebratissimo padre Onorato Fabri nel 2 lib. Delle piante, prop. 84, opinando che nel bassilico si trovino insieme e le semenze degli scorpioni e le disposizioni necessarie per farle nascere; e Volfango Oeffero, citato nella Cammarologia del Sachs, racconta che a’ nostri tempi un certo speziale più saccente degli altri nel paese d’Austria aveva trovato il modo di far nascere artifiziosamente quelle paurose bestiuole. Del mese di luglio e di agosto, essendo il sole in Granchio, pestava ben bene il bassilico, e con esso così pestato spalmava, alla grossezza di tre dita, un tegolo rovente, lo copriva subito con un altro simil tegolo e stuccava le congiunture con loto fatto di sabbione e di sterco di cavallo; quindi metteva que’ tegoli in cantina per lo spazio d’un mese, e poscia aprendogli vi trovava dentro gli scorpioni belli e nati, onde quel buon uomo se ne serviva a tutti quegli usi pe’ quali gli scorpioni son bisognevoli nella medicina.
Un’invecchiata, ancorché falsa opinione, fa gran forza nelle menti degli uomini; perciò maraviglia non è se Jacopo Ollerio, medico di altissimo grido, nel primo libro della Pratica medicinale si credesse che, per aver soverchiamente odorato il bassilico, nascesse uno scorpione nel cervello di un cert’uomo italiano:
Forse era ver, ma non però credibile
A chi del senso suo fosse signore.

E se l’Ollerio avesse dato fede a quel che del bassilico fu scritto da Galeno nel secondo libro Delle potenze degli alimenti, non si sarebbe lasciata scappar dalla penna una baia cotanto incredibile. Fu più di lui accurato ed avveduto, e però più commendabile, Giovan Michele Fehr citato nella Cammarologia del litteratissimo Sachs; imperocché, avendo letto in Galeno che dal bassilico non son generati gli scorpioni, volle con tutte le circostanze richieste farne la prova, e ritrovò che Galeno era veridico e tutti gli altri menzogneri, siccome lo sono ancora tutti coloro i quali affermano che non è solo il bassilico a saper produrre queste bestiuole, ma che le produce il crescione ed ogni sorta di legno fracido e corrotto; anzi Fortunio Liceto racconta che Jacopo Antonio Marta napoletano faceva nascere gli scorpioni dalla terra inaffiandola col sugo della cipolla; e un di questi forse, o qualsisia altro simile, era quel maraviglioso e gran segreto di cui fa menzione Avicenna.
Miglior pensiero fu quello del grande Aristotile che insegnò esser generati gli scorpioni dalla congiunzione de’ maschi e delle femmine, le quali non figliano poi l’uova, come costumano molti altri insetti, ma bensì partoriscono gli scorpioncini vivi e secondo la loro spezie perfetti. Il che non fu negato né da Plinio nel capitolo venticinque del libro undecimo, né da Eliano nel libro sesto del capitolo ventesimo, e fu minutamente osservato da Tommaso Furenio e dall’eruditissimo Giovanni Rodio nelle sue Osservazioni medicinali.
Ancora io, provando e riprovando, ne feci l’esperienza; ed essendomi stata portata una gran quantità di scorpioni dalle montagne di Pistoia, scelsi alcune femmine, le quali, più grandi e più grosse de’ maschi, benissimo si distinguono da essi maschi, ed il giorno venti di luglio separatamente le serrai, senza dar lor cosa alcuna da potersi cibare, in alcuni vasi di vetro, ne’ quali alcune morirono avanti al parto; ma una il dì cinque di agosto partorì non undici scorpioncini, come crederono Plinio ed Aristotile, ma bensì trentotto benissimo formati e di colore bianco lattato che di giorno in giorno si cangiava in color di ruggine; ed un’altra femmina, in un altro vaso rinchiusa, il dì sei del suddetto mese ne figliò venzette dello stesso colore de’ primi; e tanto gli uni quanto gli altri stavano appiccati sopra il dorso e sotto il ventre della madre, ed il giorno decimonono erano tutti vivi; ma da lì avanti ne cominciò ogni giorno a morir qualcheduno; e due soli arrivarono ad esser vivi il giorno ventiquattro di agosto; il quale passato, furono anch’essi da me trovati morti. In quel tempo io volli medesimamente vedere come nel ventre della madre avanti al parto questi insetti si stessero: perloché ne sparai molte e trovai diverso il loro numero, ma però mai minore di venzei né maggiore di quaranta; e stanno tutti attaccati insieme in una lunga filza, vestiti di una sottilissima e quasi invisibile membrana, dentro alla quale si veggono benissimo distinti e separati per un ristrignimento simile ad un sottilissimo filo ch’ella fa tra l’uno scorpione e l’altro. Con questa occasione io mi accorsi non esser vero quel che Aristotile ed Antigono Caristio raccontano, che le madri sono ammazzate da’ nati figliuoli; né quel che scrisse Plinio, che i figliuoli sono tutti dalla madre uccisi eccetto che uno, il quale, più scaltrito degli altri, si salva sopra il dorso di essa madre, ponendosi in luogo dove non possa esser ferito né dal morso né dal pungiglione della coda; e questo dappoi, vendicatore de’ fratelli, ammazza la propria genitrice.
Osservai se dopo questa prima figliatura, passati alcuni giorni, altri scorpioncini dalla stessa madre fossero partoriti, conforme racconta il Rodio essergli intervenuto che ne vide gran numero della grandezza de’ lendini; ma io, per qualsisia diligenza, non potei mai imbattermi a vedergli, e di più, avendo aperto il ventre a molte femmine pregne, non vi ho mai trovato altro che quella bianca filza di scorpioncini tutti di ugual grandezza e sempre quasi dello stesso numero da venzei, come dissi, a quaranta; può nulla di meno essere avvenuto che quelle che io avea per le mani avessero fatte per lo passato molte altre figliature, e che io sempre mi fossi imbattuto nell’ultima, che perciò lascio a ciascuno la libertà di credere in questo ciò che più gli sia per essere a piacere.
Non vorrei già che voi, Signor Carlo, credeste che nella nostra Italia fosse così poca dovizia di scorpioni, come pare che ne’ suoi tempi l’accennasse Plinio nel libro undecimo della Storia naturale, dicendo: Saepe Psylli, qui reliquarum venena terrarum invehentes, quaestus sui causa peregrinis malis implevere Italiam, hos quoque importare conati sunt. Sed vivere intra Siculi coeli regionem non potuere. Visuntur tamen aliquando in Italia, sed innocui; imperciocché oggigiorno nella sola città di Firenze se ne consumeranno ogni anno, per far l’olio contro veleni, vicino a quattrocento e forse più libbre.
Io credo però che Plinio avesse ragione quando affermò che quegli che si trovano in Italia sono innocenti e non velenosi; imperocché infinite volte ho veduto quei contadini, che in Firenze pel sollione gli portano a vendere, liberamente maneggiargli e razzolar colle mani ignude ne’ sacchetti pieni, ed esserne sovente punti, e sempre senza un minimo ribrezzo di veleno: e pure tutti questi scorpioni di Toscana sono di quegli che hanno sei nodi, o vertebre che voglian dire, nella coda, i quali per sentimento d’Avicenna son molto più velenosi degli altri. Se si trovino scorpioni che abbiano più o meno di sei vertebre nella coda, io non lo so, perché non ne ho mai veduti di tal fatta; so bene che gli scrittori non ben s’accordano fra di loro; e Plinio racconta trovarsene di quegli che ne hanno sette e di quelli che ne hanno sei; ed i primi da lui, al contrario di quel che disse Avicenna, sono chiamati più mortiferi degli altri. Strabone similmente ed i talmudisti, citati da Samuel Bociarto nel Jerozoico, ne noverano di sette vertebre, e Nicandro pare che faccia menzione d’una certa razza di scorpioni che ne ha nove:
.......................................................................
[Nove spondili si innalzano sopra la testa] ancorché il di lui greco scoliaste, come eruditissimamente osservarono il Bociarto, il Gorreo e l’Aldrovando, dica in questo verso di Nicandro la voce .......... [con nove vertebre] significare lo stesso che poludesmoi. Quindi soggiugne lo scoliaste:......................., cioè: usa la voce ™ nne£desmoi, non perché gli scorpioni abbiano nove congiunture, come dice Antigono; né perché abbiano nove vertebre, come vuole Demetrio; imperocché non si vede mai scorpione che abbia più che sette vertebre; il che avvien di rado, per quanto scrive Apollodoro. E per prova di questo pensiero dello scoliaste molti pellegrini luoghi di vari scrittori apporta il Bociarto, i quali voi molto bene avrete veduti appresso quel grandissimo letterato, onde per brevità maggiore gli tralascio.
Non voglio già tralasciar di dirvi, che siccome tutti quegli scorpioni dell’Italia che da me sono stati osservati hanno sei sole vertebre o spondili o nodi nella coda, così parimente gli scorpioni dell’Egitto non ne hanno più di sei, come ho potuto vedere in alcuni che l’anno 1657 da quel paese furon mandati al Serenissimo Granduca mio Signore. Vi è però tra gli egizi ed i nostrali non poca differenza: imperocché, quantunque e quegli e questi sien dello stesso colore nericcio, quegli d’Egitto son di gran lunga più grandi e più grossi di questi; ed avendo messo nelle bilancine uno di quegli d’Egitto, trovai che, così secco e netto da tutte le ‘nteriora, pesava venti grani; ed uno di questi d’Italia, morto pochi giorni avanti, appena arrivava a cinque. Gli spondili o le vertebre della coda di que’ d’Egitto son tutte quasi di lunghezza e di grossezza uguali tra di loro; ed appena si scorge che, quanto più son lontane dal dorso, più si allungano: ma negli scorpioni de’ nostri paesi la quinta vertebra avanti al pungiglione è sempre il doppio più lunga di tutte l’altre.
Ho veduto un’altra spezie di scorpioni alquanto differente dalle due suddette, e me l’ha mandata dal Regno di Tunisi, dov’al presente si trova, il dottor Giovanni Pagni celebre professore di medicina nella famosa Accademia Pisana. Tutto ‘l Regno di Tunisi produce fecondissimamente questi scorpioni, chiamati in lingua barbaresca akrab; ma particolarmente se ne trova un’infinita moltitudine in una piccola città, detta Kisijan; e son molto più lunghi e molto più grossi di que’ d’Egitto. Ne pesai due de’ vivi, e ciascuno di essi arrivò alla quinta parte d’un’oncia, ed è credibile che fossero smagriti e scemati di peso, essendo stati più di quattro mesi senza mangiare: uno de’ quali vive ancora tre altri mesi dopo, non si cibando. Il lor colore è per lo più un verdegiallo dilavato e quasi trasparente, come d’ambra, fuorché nel pungiglione e nelle due forbici o chele, che son di color più sudicio e simile alla calcidonia oscura; la cuspide però del pungiglione è affatto nera. Se ne trovano talvolta alcuni de’ bianchi; ma de’ neri non se ne vede se non di rado. Il tronco delle forbici è di quattro nodi o congiunture. Le gambe son’ otto, e le due prime vicine a’ tronchi delle forbici son più corte di tutte, le due seconde son più lunghe delle prime, e le terze più delle seconde, siccome le quarte son più lunghe di tutte l’altre e son composte di sette fucili, e tutte l’altre suddette di sei solamente. Tutto ‘l dorso è fabbricato di nove commessure per lo più in foggia d’anelli, e sovr’esso dorso, in quella parte ch’è tra’ due tronchi delle forbici, scorgonsi due piccolissime eminenze ritonde, nere e lustre. Sotto ‘l ventre, ch’è composto di cinque commessure, veggonsi due lamette dentate che paion appunto due seghe, le quali quando lo scorpione cammina le distende e le dibatte, com’egli se ne volesse servire quasi che fossero due ali. La coda ha sei vertebre o spondili, e l’ultimo d’essi è il pungiglione molto grande e uncinato: l’altre cinque vertebre nella parte superiore sono scanalate, e con orli o sponde dentate, e per di sotto tondeggiano, e son convesse e rigate per lo lungo con alcune linee rilevate composte di punti nericci. Questi scorpioni di Barberia non solo quando stanno rannicchiati, ma ancora quando camminano, tengon la coda alzata e piegata in arco, il che per lo più è comune quasi a tutte l’altre generazioni; onde Tertulliano nello Scorpiaco: Arcuato impetu insurgens hamatile spiculum in summo, tormenti ratione, restringens; ed Ovidio, lib. 4 de’ Fasti:
Scorpius elatae metuendus acumine caudae.
Gran disputa è tra gli scrittori se la punta del pungiglione abbia forame alcuno da cui possa uscir qualche stilla di liquor velenoso, quando lo scorpione ferisce: ed in vero che quella punta termina così pulita e sottile che si rende impossibile agli occhi il rinvenire se veramente sia forata: Galeno, nel libro sesto De l. aff., cap. 5, disse che non ha foro né apertura veruna. Per lo contrario Plinio, Tertulliano, S. Girolamo, S. Basilio, Eliano, il greco chiosatore di Nicandro, il Gorreo, l’Aldrovando e molt’altr’ moderni vogliono che lo scorpione non solamente ferisca con la punta dell’ago, ma che ancora con essa versi e infonda nelle ferite un liquido veleno; e maestro Domenico di maestro Bandino d’Arezzo, scrittor famoso de’ suoi tempi per le molte, varie e faticose opere che lasciò composte, alcune delle quali io conservo manuscritte nella mia libreria, affermò che ‘l veleno dell’ago dello scorpione è un liquor bianco e sottilissimo; i poeti però dicono che sia nero:
. . . nigrumque gerens in acumine virus
cantò un di loro. Onde per chiarirmi della verità, tra molti e molti microscopi del Serenissimo Principe di Toscana, ne scelsi due con tutta perfezione lavorati da due famosissimi maestri di quest’arte, uno in Roma e l’altro in Inghilterra, con l’aiuto de’ quali indarno tentai di veder l’apertura dell’estrema cuspide del pungiglione degli scorpioni di Tunisi, d’Egitto e d’Italia; e se io avessi avuto a dar fede a quello che a me e ad altri miei amici mostravano quegli squisitissimi microscopi, avrei potuto non senza qualche ragione affermare che ella non era pertugiata; ma non mi piacque contentarmi del veduto, e perciò cominciai a premere il pungiglione d’uno scorpione di Tunisi; ma né anche per questa via potei soddisfarmi, imperocché, essendo il pungiglione durissimo e di sustanza crostosa, come quella delle locuste marine, non cedeva al tatto e non riceveva compressione veruna, abile a poter fare schizzar fuora ciò che nella cavità di esso pungiglione si contiene. Adizzai lo scorpione e l’irritai ad avventar molte punture sopra una lama di ferro, ma non vi lasciò mai segno né di liquore né di umido; ed io stava già per credere, anzi di già lo credeva, che l’opinione di Galeno fosse la vera, quando improvvisamente vidi una volta comparir sulla punta una minutissima e quasi invisibile gocciolina d’acqua bianca, quale poi molte e molt’altre fiate ho veduta, allora quando ho stuzzicato lo scorpione ed egli, incollorito, ha fatto forza di ferire con la coda. E di qui raccolgo che non dissero menzogna Eliano e ‘l greco scoliaste di Nicandro affermando l’ago o pungiglione degli scorpioni esser forato di un pertugio così insensibile che si rende vano all’occhio il poterlo vedere.
In questo tempo nel quale io faceva queste esperienze, morì uno degli scorpioni di Tunisi ammazzato da un altro scorpione suo compagno; onde col di lui morto pungiglione punsi quattro volte nel petto un piccion grosso ed un calderugio, e mentre alcuni credevano che fossero per morirsene, s’accorsero che le punture non avean portato loro detrimento di sorta alcuna. Per la qual cosa cominciò a poco a poco a nascermi un leggier dubbio, se per avventura potess’essere che anche gli scorpioni di Barberia non fossero velenosi. Mi scrive di Tunisi il soprammentovato dottor Pagni che i Mori di quel paese affermano costantemente che non passa anno che non periscano molti uomini feriti dagli scorpioni, e che il lor veleno è terribilissimo e operante con indicibil prestezza e con violenza d’accidenti fierissimi; e agli anni addietro furon provati da Pietro de Santis, mercante in quella città, il quale, ferito da una di quelle bestiuole nel piede sinistro, patì punture atrocissime non solo nella parte offesa, ma ancora per tutta la coscia sino alla spalla; e non ostante che il dolore fosse acutissimo, si lamentava nondimeno e gli pareva che tutto il lato sinistro fosse intormentito e senza forza; ed ebbe di buono a poter guarirne dopo molte scarificazioni fatte sopra la ferita e dopo un replicato beveraggio di teriaca, con la quale ancora gli fu impiastrato tutto quanto il piede, oltre molti e molt’altri medicinali provvedimenti. Mi scrive altresì che que’ barbari van dicendo, e lo costumano ancora, che, per preservarsi da questo pestifero veleno, è necessario portare addosso, ovvero attaccar sopra le porte delle case, un certo bullettino fatto con un pezzo di cartapecora quadra tagliata un poco da una banda, in cui sono scritti certi nomi arabici, ed impressi alcuni sigilli e pentacoli. Così fatto preservativo di que’ superstiziosi, vani e ridicoli bullettini, accoppiato con un altro rimedio creduto sicurissimo, e comunemente usato da’ medici affricani, di dare a bere l’acqua tenuta nelle inutili tazze lavorate di corno d’alicorno, mi fece crescere il dubbio, ma non osava dirlo contro una credenza così altamente radicata: pure fattomi animo, ed accomodato uno scorpione vivo in modo che non potesse pugnermi, dopo averlo benbene irritato ed inasprito, lo necessitai a ferir quattro volte profondamente il petto d’un piccion grosso il quale, con maraviglia di molti, non ebbe né pur minima offesa di veleno; ed il simile avvenne ad una pollastra e ad un cagnuolo nato di poche settimane. Qui mi veggio venir addosso la piena di tutti i filologi, di tutti i medici e di tutti gli scrittori della storia naturale, i quali, facendo delle braccia croce, mi gridano che lo scorpione ammazza non solamente le bestiuole minute, ma che non la perdona altresì alle più feroci e alle più grandi, tra le quali noverano lo stesso leone; e il dottore Kemal Eddin Muhammed Ben Musa Ben Isa Eddemiri vi aggiugne il cammello e l’elefante. Quindi alcun’altri sorridendo mi dicono che non fu gran fatto se non morirono gli animali colpiti da quello scorpione di Tunisi, conciossiecosaché eran più di quattro mesi che stava racchiuso in un vaso senza cibarsi, onde poteva aver perduto la velenosa malizia: di più avend’io fatta l’esperienza nel mese di novembre, mi rammentano che Tertulliano, il qual pur era nato nell’Affrica, parlando degli scorpioni, ci lasciò scritto nel principio dello Scorpiaco: Familiare periculi tempus aestas; austro et africo saevitia velificat.
Mi riducono parimente alla memoria che Macrobio, Saturn., lib. I, cap. 21, ebbe a dire: Scorpius hyeme torpescit, et transacta hac, aculeum rursus erigit vi sua, nullum natura damnum ex hyberno tempore perpessa. E che Leone Affricano racconta che nella città di Pescara in Affrica son così numerosi e pestiferi gli scorpioni che quasi tutti gli abitanti vengono sforzati nel tempo della state ad abbandonarla e non vi ritornano se non al novembre.
Questa opposizione non solo è saggiamente fondata, ma ell’è parimente verissima e più e più volte dalla sperienza confermata, come son ora per riferirvi. Quello stesso scorpione le di cui punture nel mese di novembre non aveano avvelenato né il piccion grosso, né la pollastra, né il cagnuolo, continuò a vivere senza cibo tutto l’inverno, serrato in un gran vaso di vetro e, del mese di gennaio, si ridusse cosi grullo e sbalordito che sembrava se ne volesse morire; ma arrivato al febbraio, ancorché non avesse di che cibarsi, cominciò a ripigliar fiato e spirito bizzarrissimo con forza non ordinaria delle membra, che sempre andò crescendo; quindi avvenne che il dì 23 di febbraio, trovandomi in Pisa con la corte, deliberai di esperimentare se egli avea per ancora ripresa la velenosa e mortifera sua malizia, ed essendo per avventura venuto quella mattina a trovarmi Monsù Carlo Maurel, dotto ed esperimentato chirurgo franzese, strappò la piuma dal petto d’un piccion grosso, e nella parte di già pelata e quasi sanguinosa fece tre volte penetrar profondamente l’ago di quell’iracondo ed arrabbiato scorpione; dal che il piccion grosso cominciò subito a vacillare e con frequenti ansamenti e tremiti andava quasi balordo movendosi in giro. A sedici ore cadde, senza più potersi riavere, in terra; dove patì molte convulsioni sino alle diciott’ore, nel qual punto allungò le gambe e le cosce intirizzate e fredde, sicché parea morto dal mezzo in giù; continuavano però di quando in quando i tremiti e le convulsioni nell’ali con qualche poca di vivezza nella testa, e così dimorò fino a vent’ore e tre quarti, e allora si morì, essendo scorse appunto cinqu’ore da quel momento nel qual fu ferito. Tosto che fu morto, essendo venuto a trovarmi il dottissimo e celebratissimo Signor Niccolò Stenone, curioso di osservare in quale stato si sarebbon trovate le viscere ed il sangue di quel piccione avvelenato, mi consigliò a farne pugnere, senz’altro indugio, un altro, come feci, con tre ferite nella stessa parte del petto dove fu punto il primo, ma però senza strappargli penne: e questo secondo piccione si morì in capo a mezz’ora, avendo intirizzate e distese le cosce e le gambe come il primo; onde rifeci subito l’esperienza in due altri, i quali, ancorché feriti tre volte per uno, non solo non morirono, ma non parve né meno che se ne sentissero male.
Lasciai riposar lo scorpione tutta la notte, e la mattina seguente, alle quattordici ore, lo necessitai a pugnere un altro piccion grosso: prima che lo pugnesse, vidi nella cuspide del pungiglione una gocciolina minutissima di liquor bianco, la quale nel ferire entrò nella carne; e di più lo scorpione di sua spontanea volontà fece due altre ferite, ed il piccione, passato lo spazio d’un’ora, cominciò a soffrir certi moti convulsivi; quindi, come gli altri due, intirizzò le gambe e le cosce, e a diciott’ore si morì. Non morì già un altro, che fu ferito alle quindici ore della stessa mattina, e né meno morì il terzo, che fu ferito cinqu’ore dopo del secondo. Perloché volli lasciar ripigliar forze allo scorpione, ed in questo mentre osservai che que’ piccion grossi, che erano morti, non aveano enfiato né livido veruno nel luogo delle ferite, e le viscere loro non eran punto mutate dallo stato naturale. Il sangue solamente si era mantenuto liquido in tutte le vene, e di esso sangue pur liquido n’era corsa e ritiratasi una gran quantità ne i ventricoli del cuore, il quale perciò appariva molto tumido e gonfio, senza però essersi cangiato né punto né poco dal solito suo natural colore.
Sapendo io per certezza infallibile e mille volte provata e riprovata che gli animali fatti morire col morso della vipera e col veleno terribilissimo del tabacco si posson sicuramente mangiare, donai questi piccioni avvelenati dallo scorpione ad un pover’uomo, a cui parve di toccare il cielo col dito, e se gli trangugiò saporitissimamente, e gli fecero il buon prò.
Riposatosi lo scorpione fin’ al giorno seguente, che fu il venticinquesimo di febbraio, a ventun’ora ferì cinque volte una cervia nel costato, e cinqu’altre volte nelle natiche, dove la pelle è men dura e senza peli. Ma la cervia non ne rimase né morta né danneggiata. Ed in questa esperienza osservai che lo scorpione, avendo tirato tre colpi di sua volontà, poco o nulla penetrò nella pelle della cervia; io però feci sempre penetrar per forza il pungiglione in essa pelle. Quindi dubiterei se possa esser vero che gli scorpioni di Barberia abbian forza d’uccidere i leoni, i cammelli e gli elefanti, che sono armati d’un cuoio durissimo e grossissimo: pure mi rimetto alla fede di quegli autori che lo scrivono, e tanto più me ne rimetto, mentre considero che questo mio scorpione, col quale ho fatte le suddette esperienze, è fuor del suo paese nativo in un clima differente ed è stato già più d’otto mesi senza cibo, stracco e strapazzato: al che si aggiunga che, quando ferì la cervia e gli altri piccion grossi, che non morirono, avea forse consumato tutto quel velenoso liquore che stagna nella cavità del pungiglione e non avea per ancora avuto tanto tempo da poterne rigenerare; e ciò verrebbe riconfermato dall’avergli fatto ferire il giorno seguente una folaga ed un piccion grosso che non morirono; e due giorni appresso, a’ vent’otto di febbraio, due altri piccion grossi, e a’ sei di marzo una grand’aquila reale, senza che né l’aquila né i piccioni ne perdessero la vita. Due giorni dopo aver ferito quella grand’aquila, trovai morto inaspettatamente lo scorpione; per la qual cosa non ho potuto certificarmi se, lasciandolo ripigliar fiato per qualche settimana, avesse recuperato il veleno. Spero contuttociò a suo tempo di chiarirmi non solo di questa, ma d’altre curiosità ancora, avendo scritto di nuovo in Tunisi ed in Tripoli che mi sia fatta provvisione di questi animaletti, de’ quali intanto vi mando qui la figura delineata a capello nella loro grandezza naturale.
Per dire tutto quello che ‘ntorno agli scorpioni esperimentando ho veduto, ell’è una novella da vegghie puerili quella che dicevano alcuni appresso di Plinio, che gli scorpioni morti bagnati col sugo dell’elleboro bianco si ravvivino, e che, legando dieci granchi di fiume ad un mazzo di bassilico, tutti quanti gli scorpioni che sono in quel luogo si radunino intorno a quel ridicoloso incantesimo; e se vi si radunassero, farebbe loro il mal prò, narrando Avicenna che cert’uni stimarono verissimo che quando il granchio s’accosta col bassilico allo scorpione, lo scorpione cade improvvisamente morto,
ed egli ha detto che esso, quando si sia accostato con la cedrina allo scorpione, muore lo scorpione sul posto.
il che avendo io trovato falsissimo, passai ad altre esperienze; e feci ammazzare una mezza libbra di scorpioni, e postala al sole in vaso di vetro aperto, in breve tempo inverminò; ed i vermi si trasmutarono al solito in uova nere, dalle quali, passato che fu il decimoquarto giorno della loro trasformazione, nacquero altrettanti mosconi listati di bianco.
E perché il padre Atanasio Chircher avea detto nel libro duodecimo del Mondo sotterraneo che, per esperienza provata, rinascono gli scorpioni da’ cadaveri degli scorpioni stessi esposti al sole ed inaffiati con acqua in cui sia stato macerato il bassilico, mi arrischiai di nuovo a farne il secondo ed il terzo esperimento, e sempre deluso attesi indarno la desiderata nascita degli scorpioni; in vece de’ quali sempre mi comparvero mosche: e quando la quarta volta ne feci la prova in orinaletto da stillare ben serrato col suo antenitorio, non vidi mai né bachi né mosche né scorpioni; onde io sempre più mi andava confermando nella mia opinione che da’ cadaveri, se non vi è portato sopra il seme, non nasca mai animale di sorta alcuna.
In questa congiuntura volli rinvenire se dall’anitra putrefatta sotto al letame si generi veramente il rospo, come lo credé e lo scrisse Gio. Batista Porta; ed avendone fatta sino alla terza esperienza, mi trovai sempre ingannato, e toccai con mano che il Porta, per altro uomo curioso e molto dotto, in questa ed in altre cose molte era stato troppo credulo, siccome fu credulissimo il greco scoliaste di Teocrito, quando scrisse che dal corpo della morta lucertola nascer solevano le vipere; e non meno di lui l’arabo Avicenna affermante i capelli delle donne in luogo umido e percosso dal sole convertirsi in serpenti.
I serpenti, a mio credere, non nascono se non sono generati per mezzo del coito; e tutte l’altre generazioni serpentine, o per putredine o per qualsivoglia altra maniera menzionate dagli scrittori, son favolose e lontane molto dall’esser credute: onde non so rinvenirmi come il padre Atanasio Chircher voglia insegnarcene una fattizia e, com’egli stesso riferisce, a lui per esperienza riuscita. Piglia, dice quest’autore nel libro duodecimo del Mondo sotterraneo, de’ serpenti di qual razza tu vorrai, arrostiscili e riducigl’in minuzzoli, e que’ minuzzoli seminagli in terreno uliginoso; quindi leggiermente bagnalo d’acqua piovana con un annaffiatoio, e questo terreno così annaffiato fa’ che tu lo metta al sole di primavera; e tra otto giorni vedrai che tutta quella massa di terra diverrà gremita di piccoli vermicciuoli, i quali, nutriti di latte mescolato coll’acqua sparsavi sopra, ingrosseranno e diventeranno serpenti perfettamente figurati che, usando poi tra di loro il coito, potranno multiplicare in infinito. Tutta questa faccenda, soggiugne, me l’insegnò la prima volta il cadavero d’un serpente che, da me trovato alla campagna, era tutto pieno e circondato di vermi, alcuni de’ quali eran minutissimi, altri più grandi e altri in fine aveano evidentissimamente pigliata la figura di serpente. E quel che più si rendeva maraviglioso si è che, tra que’ serpentelli, v’eran tramischiate certe razze di mosche, le quali io sarei di parere non d’altronde esser nate che dalle semenze rinchiuse in quell’alimento di cui si nutriscono le serpi.
Fin qui il Chircher; ed io, mosso dall’autorevole testimonianza di questo dottissimo scrittore, n’ho fatta più volte la prova e non ho mai potuto vedere la generazione di questi benedetti serpentelli fatti a mano.
E se il padre Chircher vide alla campagna il cadavero di quella serpe circondato da’ vermi, quei vermi vi erano stati partoriti dalle mosche; e se erano di diverse grandezze, quest’avveniva perché non erano stati figliati tutti nello stesso tempo; e se tra quei vermi vi ronzavano delle mosche, elle lo facevano o per cibarsi di quel cadavero putrefatto, ovvero ell’eran mosche le quali allora allora potevano esser nate da quegli stessi bachi: ma che vi si vedessero de’ piccoli serpentelli nati su quella corrotta fracidezza, oh questo non mi sento da crederlo.
Plinio forse di buona voglia l’avrebbe creduto, imperocché nel libro decimo della Storia naturale affermò che le serpi nascon sovente dalla spinal midolla de’ cadaveri umani, e tale opinione di Plinio fu secondata da Eliano, con aggiunta che era necessario che que’ cadaveri fossero d’uomini facinorosi, scelerati ed empi; se bene avendo Eliano considerato poi meglio il fatto suo, ed a più sano intelletto, pare che lo mettesse in dubbio e temesse che potesse essere un trovato favoloso: ma questo trovato, prima di Plinio e d’Eliano, fu da Ovidio messo in bocca di Pittagora nel decimoquinto libro delle Trasformazioni:
Sunt qui, cum clauso putrefacta est spina sepulcro,
Mutari credant humanas angue medullas.

Fortunio Liceto lo tiene per vero, e dopo di lui lo confessò per verissimo il savio Marc’Aurelio Severino nel capitolo decimo nella Vipera Pitia, dove espressamente fa una galante ed ingegnosa digressione a tale effetto e mostra essere naturalissima questa così fatta generazione, con argumenti però fondati per lo più su presupposti non veri.
Ond’io volentierissimo porto credenza che non solo da’ cadaveri umani non nascano mai serpenti né anguille, come vuole Fortunio Liceto, ma che né anche s’ingenerino in essi spontaneamente vermi di spezie alcuna.
Di soverchio ardita parrà quest’ultima proposizione, avvegnaché ne’ Sacri Libri, per rintuzzar l’orgoglio dell’umana superbia, ci venga spesso rammemorato che la nostra carne esser dee alla fine pastura de’ vermi; onde nell’Ecclesiastico al capitolo diciannovesimo: Qui se iungit fornicariis erit nequam: putredo et vermes haereditabunt illum.
E in Isaia, capitolo decimoquarto: Detracta est ad inferos superbia tua, concidit cadaver tuum: subter te sternetur tinea et operimentum tuum erunt vermes.
Ed in Giob al capitolo decimosettimo: Putredini dixi: Pater meus es; mater mea et soror mea vermibus.
Tutto è vero, ma però il Sacro Testo parla generalmente, e non si ristringe a dire se que’ vermi nasceranno spontaneamente e senza paterno seme dalle nostre carni, o se pure d’altronde correranno a divorarle, o nasceranno in esse per cagione della semenza portatavi sopra da altri animali; il che è più probabile, anzi verissimo: e chi pur creder volesse in contrario, bisognerebbe che credesse ancora che non solo i vermi spontaneamente nascessero dagli umani cadaveri, ma vi si generassero ancora le tignuole, i serpenti e tutte l’altre maniere di bestie, leggendosi nell’Ecclesiastico al capitolo decimo: Cum enim morietur homo, haereditabit serpentes et bestias et vermes: ma questa minaccia di Sirachide si dee intender come quell’altra di Geremia al capitolo decimo sesto numero quarto: Erit cadaver eorum in escam volatilibus coeli et bestiis terrae. E altrove: Erit morticinum eorum in escam volatilibus coeli et bestiis terrae.
Ed oltre di queste bestie sarà pastura ancora de’ vermi partoritivi sopra da varie generazioni di mosche, e che ciò sia il vero evidentemente si raccoglie considerando che tutti quei bachi non son altro che uova semoventi dalle quali a suo tempo nascono le mosche: ed in tal maniera si verifica ciò che nell’Encomio della mosca fu testimoniato da Luciano, che ella nasca dagli umani cadaveri.
Non è già da credersi che si verifichi quanto fu da Kiranide scritto delle carni del tonno, che gettate dal mare sovra il lido di Libia imputridiscano e poscia inverminino; ed i vermi si cangino prima in mosche, quindi in cavallette, e finalmente in quaglie si trasformino.
Niuno oggi si troverà di sì poco ingegno, né di sì grosso, il quale non prenda a riso queste baie; e pure io che, come voi sapete, son tenuto nelle cose naturali il più incredulo uomo del mondo, volli più volte vedere oculatamente ciò che su le carni de’ tonni s’ingenerava, e sempre ne rinvenni il solo nascimento di vermi, i quali secondo la loro spezie si trasformarono poi in mosconi ed in altre razze di mosche.
E mi ricordo che, volendo far prova se l’olio, che è tanto nemico degl’insetti, ammazzava quei bachi e se altri liquori ancora gli ammazzassero, ne riscelsi molti de’ più grossi tra quegli che erano nati nel tonno, ed alcuni ne bagnai e tuffai nel greco, altri nell’aceto, altri nel sugo di limone e nell’agresto, e molti altri nell’olio, e molti ancora ne serrai in vasi di zucchero, di sale e di salnitro, e nessuno ne vidi mai morire; anzi tutti al dovuto lor tempo si trasformarono in uova nere con la concavità in uno degli estremi, e da esse, passato che fu lo spazio di quattordici giorni, nacquero altrettanti di quei mosconi de’ quali altre volte ho favellato; con questa differenza però, che tutti continuarono a vivere, eccetto che quegli, i di cui bachi furono unti coll’olio: imperocché i mosconi di questi appena furono usciti del guscio che incontanente si morirono, anzi alcuni morirono prima che dal guscio fossero finiti d’uscire.
Di qui argomentai esser veridico il detto di Galeno, di Luciano, di Alessandro Afrodiseo, di Ulisse Aldrovando e di Giovanni Sperlingio affermanti che le mosche, se gustano dell’olio, o se con quello sono unte, si muoiono. Ed in vero che, fattane da me l’esperienza, ogni qualvolta che io faceva che da una sola gocciola di olio fosse tocca ed inzuppata una mosca, in quello stesso momento ella cadeva fuor d’ogni credere morta.
E perché Ulisse Aldovrando e lo Sperlingio soggiungono che le mosche, in così fatta maniera estinte, ritornano in vita se al sole si espongano o di ceneri calde si aspergano, non mi piacque di starmene al loro detto, ma ebbi curiosità di vederne la prova co’ propri occhi; e non ebbi fortuna mai di poterne vedere né pur una ritornare in vita, ancorché ostinatamente facessi infinite volte replicarne l’esperienza; laonde, avendo ancor letto in Eliano, in Plinio, in Isidoro ed in molti moderni che questi stessi animaletti, affogati nell’acqua o in altro liquore, a’ raggi del sole ed al tiepido calor delle ceneri si ravvivano e da morte a vita ritornano, per certificarmene, in un vaso di vetro ammezzato di acqua fatta freddissima col ghiaccio feci mettere otto mosche dell’ordinarie; in capo ad un’ora e mezza trovai che una di quelle era andata sott’acqua nel fondo del vaso, ed una delle galleggianti si movea qualche poco e dava segno per ancora di esser viva, l’altre sette parevano tutte morte; le cavai dell’acqua e le posi al sole, ed appena fu passato un mezzo minuto che due cominciarono a muoversi ed indi a un momento se ne volarono via; dell’altre sei, quella che era andata al fondo dell’acqua, insieme con tre altre delle galleggianti, in capo a tre minuti o poco meno cominciarono a dar segni di vita, movendo le gambe e cavando fuora la lor proboscide, ed anco rivoltolandosi, quasi volessero volare; ma poco dopo si fermarono morte da vero e più non si mossero, siccome non si mossero mai punto né risuscitarono mai le altre due che compivano il numero dell’otto.
Alcuni giorni dopo, ne feci far molti e molt’altri esperimenti, tenendo le mosche e più breve e più lungo spazio di tempo nell’acqua, ora ghiacciata, or col suo freddo naturale ed or tiepida, or lasciandole galleggiare, or per forza tenendole sott’acqua; onde in fine appresi che, quando elle son’ affogate da vero, a nulla è lor profittevole la forza e la potenza del sole; per lo che non so come creder si possa a Columella, il quale riferisce che le pecchie ritrovate morte sotto i favi, e conservate così morte tutto l’inverno in luogo asciutto, ritornano in vita se, allora quando coll’equinozio comincia a tornar la temperie dell’aria, si espongano al sole impolverate colla cenere di legni di fico.
Io non l’ho esperimentato, ma parmi cosa lontana da ogni credere.
Torno alle mosche nate dal tonno; queste, siccome tutte l’altre, subito che scappano fuori del guscio cominciano a sgravarsi delle naturali immondizie del ventre, cagionate credo dal cibo che presero quando erano in forma di vermi; e tanto più perché in quel tempo nel quale son vermi non ho mai veduto che gettino escrementi di sorta alcuna.
Campano dopo il nascimento, chiuse ne’ medesimi vasi ne’ quali son nate, quattro o cinque giorni al più senza mangiare; il che non è fuora dell’ordinarie regole della natura. Cosa più stravagante mi pare che i ragni nati ne’ vasi chiusi dall’uova de’ ragni possano vivere tanti mesi senza apparente cibo. Io avea il dì cinque di luglio fatto rinchiudere un ragno femmina in un vaso di vetro serrato con carta; osservai che il giorno dodici dello stesso mese avea sul foglio, che copriva il vaso, dalla parte di sotto fabbricato un certo lavorio di sua tela, in foggia di mezzo guscio di nocciuola rotonda attaccato intorno intorno nel mezzo del foglio; e dentro alla cavità di questo lavoro, chiamato da Aristotile seno orbiculato, si vedeano trasparire moltissime uova bianche perfettamente rotonde, e grosse non più de’ granelli del panìco: da queste uova il giorno ultimo di agosto cominciarono a nascere altrettanti piccolissimi e bianchi ragni, che subito nati dieron principio a gettare qualche filuzzo di tela, il che fu osservato ancora da Aristotile, che disse: subito salta ed emette un filo.
Ne’ due giorni seguenti finiron di nascere tutte l’uova che erano cinquanta e, volendo pur vedere quanto i piccoli ragni sapevan campare senza cibo, non posi nel vaso cosa alcuna da poter nutricarsi; onde il giorno otto di settembre ne cominciò qualcuno a morire e la prima settimana di ottobre erano quasi tutti morti, eccetto che tre soli rimasi vivi in compagnia della madre, la quale morì poi il dì trenta di dicembre, ed i tre piccoli, che manifestissimamente si conosceva essere qualche poco ingrossati e cresciuti, vissero fino a gli otto di febbraio.
Se voi mi dimandaste per qual cagione quei tre qualche poco crescessero ed ingrossassero, io ne darei forse la colpa ad aver succiato qualche poco di alimento da’ cadaveri de’ morti fratelli e della madre; che se questo non fosse, l’estensione forse de’ loro corpi potea far parere che fossero cresciuti; ma io mi attengo più al primo pensiero che a questo secondo, e non mi dà fastidio che il volgo creda, e molti autori lo abbiano scritto, che verun animale mangia gl’individui della propria spezie; imperciocché, per molti esperimenti fatti, io trovo che nessuna favola fu mai più favolosa di questa e niuna bugia fu mai udita più bugiarda.
Mi sovviene d’aver fatto mangiare al leone della carne d’una leonessa, e pure non è credibile che la mangiasse sollecitato dalla fame, conciossiecosaché quello stesso giorno erasi pasciuto con molte e con molte libbre di carne di castrato.
Ogni più trivial cacciatore sa per prova che, se muore qualche cinghiale ne’ boschi, vien divorato dagli altri cinghiali viventi.
Gli orsi mangiano la carne degli orsi, e le tigri quella delle tigri: e posso dirvi che questo stesso anno, avendo Meemet Beì, o generale delle milizie del Regno di Tunisi, mandato a donare al Serenissimo Granduca mio Signore molti strani e curiosi animali d’Affrica, fra’ quali in una gran gabbia era una tigre femmina con un suo piccolo figliuolo partorito di pochi mesi, la buona tigre, avvicinandosi da Livorno a Firenze, non so se per rabbia o per ischerzo l’azzannò così gentilmente che gli spiccò di netto una zampa e quasi tutta la spalla che a quella era congiunta, e la tranghiottì ingordissimamente, ancorché nella gabbia avesse altra carne morta da potersi sfamare.
I gatti quando son castrati si trangugiano i loro propri testicoli, e le loro femmine sogliono talvolta divorarsi i figliuoli appena nati; ed il simile fanno le cagne.
Il luccio, che è pesce fierissimo di rapina, non la perdona agli altri lucci; anzi così golosamente questi così fatti pesci si perseguitano l’un l’altro che non di rado avviene che un luccio di sette o d’otto libbre ne predi uno di tre o di quattro; e curiosissima cosa è a vedere, quando il luccio maggiore ha afferrato il minore, che per la lunghezza sua non gli può entrar tutto nello stomaco, cosa curiosa, dico, è a vedere il luccio vittorioso nuotar per l’acqua con l’altro luccio che gli avanza fuor della gola uno o due palmi, e così tenerlo molt’e molt’ore, infino a tanto che il capo del luccio ingoiato ed introdotto nello stomaco a poco a poco s’intenerisca, ed intenerito si consumi, e consumato lasci lo stomaco vòto, acciocché insensibilmente possa sdrucciolarvi quel residuo di busto e di coda che prima non avea potuto capirvi.
I gavonchi altresì, che sono una razza d’anguille che vivono di preda, ingoiano gli altri gavonchi minori, l’anguille gentili e quell’altre che son dette musini: ed io più e più volte n’ho trovate ne’ loro lunghissimi stomachi.
Altri ragnateli ancora, e maschi e femmine, feci rinchiudere ne’ vasi di vetro, ma non trovai altro da osservare che la lunghezza della lor vita senz’alimento, essendo che alcuni presi a’ quindici di luglio camparono sino alla fine di gennaio.
Osservai parimente che uno di quegli, dopo essere stato rinchiuso un mese, gettò la spoglia sana ed intera, la quale un altro ragno pareva; ed un altro indugiò a spogliarsene dopo i cinquanta giorni.
Questo spogliarsi de’ ragnateli fu prima di me considerato dal dottissimo Tommaso Moufeto inglese nel suo celebre Teatro degl’insetti, dove afferma che non una sola volta l’anno mutano la spoglia, ma bensì ogni mese; ed io non ardirei negarlo, né meno affermarlo, non l’avendo veduto.
Vidi bene le diverse figure e fogge di quelle bolge, sacchetti e bozzoli ne’ quali le femmine, come in un nido, ripongono e covano l’uova, e gli strani e diversi e fortissimi attaccamenti delle fila anco ne’ vetri più lisci; del che non vi parlerò di vantaggio, siccome né anco dell’industria e del maraviglioso artifizio geometrico usato nella fabbrica delle tele, avendone fatta gentilmente menzione Tommaso Moufeto ed il padre Chircher, e prima di loro Plinio, Plutarco, Eliano e tra gli Arabi il dottore Kemal Eddin Muhammed Ben Musa Ben Isa Eddemiri, volgarmente chiamato Damir, e ‘l dottore Zaccaria Ben Muhammed Ibn Mahmud, che per essere della città di Casbin in Persia è citato sotto nome d’Alcazuino: e voi stesso dottamente n’avete scritto in una delle vostre eruditissime Veglie toscane, intitolata La natura geometra.
Osservai il gran numero d’uova che ripongono in que’ nidi: afferma il Moufeto che arrivano sovente fino a trecento, ed io ne ho contate fino al numero di censessanta fatte da un solo di quegli animaletti, il quale, di tutte unite insieme e strettamente rinvolte in un lavoro della sua tela, ne avea formata una piccola pallottola, ed intorno a quella pallottola avea poscia fabbricato un grande e bianco bozzolo, nel di cui mezzo l’avea situata pendente.
Mentre che e’ tesseva quel bozzolo, ebbi occasione di vedere che non si cavava lo stame fuor della bocca, ma bensì fuor del fondo del ventre, ed in ciò trovai verissima l’osservazione fatta da Eliano e dal Moufeto.
Plinio scrisse che nell’utero o matrice si conserva la materia di quello stame: Orditur telas, tantique operis materiae uterus ipsius sufficit.
Ma il Moufeto, addottrinato dal Bruero, avendo considerato che i maschi, che pur non hanno matrice, fanno le tele al pari delle femmine, non approva il parere di Plinio e l’accusa d’errore; a torto però, e senza ragione: imperocché la voce uterus, della quale quel grandissimo scrittore in quest’occasione si serve, è usata dagli autori latini non solamente in significato di matrice, ma ancora di ventre per testimonianza d’Isidoro, II, I, che disse: Uterum solae mulieres habent etc., auctores tamen uterum pro utriusque sexus ventre ponunt, e molti esempli se ne trovano in Virgilio, ma particolarmente nel settimo dell’Eneide dove, parlando d’un cervio maschio che fu ferito da Ascanio:
Ascanius curvo direxit spicula cornu:
Nec dextrae erranti deus abfuit, actaque multo
Perque uterum sonitu perque ilia venit arundo
.
Ed il gran Tertulliano, cap. 10 Della fuga nelle persecuzioni, favellando di Giona: Sed illum non dico in mari et in terra, verum in utero etiam bestiae invenio.
Apuleio ancora, nel lib. 4 della Metamorf., adoprò questa voce nella stessa significazione; perloché son degne di vedersi sopra questo luogo l’eruditissime note di Giovanni Priceo, famosissimo letterato inglese e nostro comune amico.
Non errò dunque Plinio, quando scrisse che il ragnatelo orditur telas, tantique operis materiae uterus ipsius sufficit.
Errò bene Aristotile, quando nel libro nono della Storia degli animali, contraddicendo al sapientissimo Democrito, fu d’opinione che i ragnateli non si cavino il filato dalle parti interne del ventre, ma dall’esterne di tutto quanto il loro corpo, quasi che la materia di quel filo fosse una certa lanugine o peluria che gli vestisse per di fuora come una scorza; ma Tommaso Moufeto si avvide dell’errore di Aristotile, s’accorse parimente, facendone l’esperienza, il celebre e dottissimo padre Giuseppe Blancano della venerabil Compagnia di Gesù ne’ suoi stimatissimi Commentari sopra le cose matematiche scritte da Aristotile. Lo stesso Aristotile errò eziandio, allor che volle insegnarci che i ragni partoriscono i vermi vivi e non le uova: imperocché per qualsisia diligenza non mi son mai potuto abbattere a vederne figliar né pur uno, ma sempre ho veduto che i ragni fanno l’uova e da quelle uova, come ho detto di sopra, nascono i lor piccoli figliuoli. E se certuni scrivono che da’ semi aerei e volanti per l’aria e dall’immondizie putrefatte si generino i ragni, io non posso indurmi a crederlo se altra ragione non m’è addotta che quella la quale volgarmente suole addursi: che nelle case fabbricate di nuovo si veggono i ragni e le lor tele, anco in quegli stessi giorni che sono intonacate e che è stato dato loro di bianco; imperocché non potendosi fabbricar le case ed i palazzi in un batter d’occhio, come già ne’ tempi antichi le fabbricavano Alcina ed Atlante, non è da farsi le maraviglie se tra’ calcinacci, tra la polvere e tra l’immondizie, i ragni abbiano fatto i lor nidi e i lor covili, da’ quali uscendo possano in un momento rampicarsi sopra qualsivoglia più alto muro ed in un momento ancora ordirvi e tesservi le lor tele.
Un’altra favolosa generazione di ragni fu mentovata dagli autori e dataci ad intendere per vera; e tra essi Pietro Andrea Mattiuoli, secondato da Castor Durante, da Giovanni Bauino, da Enrico Cherlero, dal padre Atanasio Chircher e dal padre Onorato Fabri, afferma che le gallozzole delle querce non solamente producono vermi e mosche, ma ragni ancora, e soggiugne aver veduto assaissime volte per esperienza che tutte quante le gallozzole non pertugiate si trovano pregne di uno di questi tre animaletti, dalla differente natura de’ quali ei ne cava un certo suo spaventevole pronostico, dicendo che se nelle gallozzole nasceranno le mosche, in quell’anno si ha da far guerra; se vi si alleveranno i vermi, la ricolta sarà magra, e se vi si troveranno i ragnateli, l’annuale sarà pestilente e contagioso. Si ride però il dottissimo padre Fabri di questo pronostico, ed io alle moltissime esperienze fatte dal Mattiuolo facilissimamente risponderò con altrettanti esperimenti fatti in contrario e, fiancheggiato dalla mera e pura verità, ardirò di dire francamente che, nello spazio di tre o quattro anni, credo di aver aperto più di ventimila gallozzole, e non ho mai potuto trovare in esse un sol ragno, ma sempre mosche e varie generazioni di moscherini e di vermi, secondo la diversità di quei mesi ne’ quali io le apriva; e pure in Italia e ne’ paesi fuor d’ltalia è vagata la peste, ed in Toscana non si è mai fatta sentire né la guerra né la carestia, anzi tutti quegli anni furono molto ubertosi. Egli è però vero che alle volte in qualche gallozzola, ma però sempre pertugiata, io vi ho trovato alcun ragnateluccio, il quale, nato ed allevato fuor di quella, si è per avventura intanato nel suo foro per ripararsi dalle ingiurie della stagione, in quella guisa appunto che giornalmente veggiamo negli screpoli degli alberi e ne’ buchi delle muraglie quasi tutti gli altri ragni ricoverarsi. Bastevolmente adunque sia per ora risposto alle sperienze del Mattiuolo con replicate esperienze: e quanto alle mosche, a’ moscherini ed a’ vermi che nascono e si trovano nelle gallozzole, riserbo a favellarvene poco appresso.
Alquanto più malagevole è il rispondere ad alcuni che bramerebbono di sapere come faccia il ragno a tirare da un albero all’altro i capi della sua tela, non avendo l’ali da poter volare. Il Moufeto porta credenza che i ragni saltino e che si lancino da un luogo all’altro; al sua opinione ha del credibile, parlandosi di qualche piccolo salto: e mi ricordo che una volta mi fu raccontato da un Signore grande che, mentre egli viaggiava, un ragno distese i fili della sua tela da un lato all’altro d’uno sportello della carrozza, la quale essendosi fermata, quel ragno improvvisamente si lanciò sul cappello d’un Cavaliere che, venendo da un altro cammino, a quella carrozza si avvicinava; può esser dunque che saltino, e può esser parimente che, volendo tendere il filo da un albero all’altro, l’attacchino prima ad un ramo e poscia giù per quel filo si calino in piana terra, e per terra si conducano a trovare il pedale del più vicino albero ed, inarpicandovi sopra, raggomitolino il lor filo e lo tirino disteso alla giusta e necessaria proporzione ed altezza. Mi vien detto da un amico che egli vide un giorno due ragni che, attaccati al lor filato, penzolavano da’ rami di due alberi non molto lontani; ed osservò che si lanciarono l’un contra l’altro, ed essendosi aggavignati per aria, annodarono insieme i lor fili e amenduni d’accordo si misero a tessere una gran tela. Si potrebbe anco dire che quando un ragno fa la sua tela tra’ rami di due alberi lontani, sia caso fortuito, cioè che prima, ciondolando da un albero, esso ragno attaccato al suo filo, sia stato traportato dal vento nell’albero più vicino e, non essendosi strappato lo stame, abbia potuto in quella distanza ordire il suo lavoro.
Il padre Blancano nel libro sopraccitato afferma, per provata da lui e più volte riprovata esperienza, che il filo del ragno non è un semplice filo e pulito, ma ramoso e sfilacciato, o per meglio dire ch’egli è un filo dal quale hanno origine molti altri sottilissimi fili che, per la loro innata leggierezza, quasi galleggianti nell’aria per ogni verso si stendono; e se avviene che il capo di un di quei fili trasversali si intrighi tra’ rami di qualche albero vicino, incontanente per quel filo s’incammina il ragno e di quello si serve per primo filo dell’orsoio della futura sua tela; quindi soggiugne il Blancano che alle volte il filo del ragno non è un filo solo, ma che e’ son dua, ad uno de’ quali il ragno sta sospeso, e l’altro filo, vagante or qua e or là, svolazza per l’aria fin tanto che incontri qualche cosa da potervisi appiccar sopra. Che ciò possa esser vero ha molto del ragionevole e del verisimile, e particolarmente se il ragno si penzoli da un albero altissimo; io però non ho avuto il tempo di farne l’osservazione, come volentierissimo avrei voluto; ho bene molte e molte volte osservato che i ragni tirano i lor fili da una banda all’altra delle strade maestre e che raccomandano i capi de’ fili alle cime de’ pali che reggon le viti; perloché, se que’ pali non si alzano da terra più che tre o quattro braccia, e se la larghezza delle strade sia per lo meno otto o dieci, non so rinvenire come que’ ragni, penzolandosi da così basso luogo, abbiano avuto valeggio di dare al filo maestro tanta lunghezza, onde i fili laterali di esso abbiano potuto arrivare all’altra parte della strada. Sia dunque come esser si voglia, e creda pure ogn’uno ciò che più gli aggrada, che io per poter rattaccare il primiero mio ragionamento vi dirò che, avendo fatto mettere insieme una buona quantità di ragni ed avendogli fatti ammazzare, gli lasciai in un vaso aperto dove correvan baldanzosamente le mosche a pasturarsi ed a farvi sopra, quasi per vendetta, i lor cacchioni; per la qual cosa que’ cadaveri in breve tempo inverminarono, ed i vermi, induriti poi in uova o crisalidi, dalle crisalidi nacquero altrettante mosche, di quelle che per le nostre case s’aggirano.
Lasciando stare adesso di più ragionare de’ ragni, parendomi aver a bastanza mostrato che le carni non inverminano e che tutti i soprannominati insetti dalla sostanza di quelle non nascono, giudico che sia tempo ormai di far passaggio ad alcune altre cose, le quali comunemente e dal volgo e da uomini famosi e reverendi sono tenute che bachino, e tra esse più di tutte il formaggio, sul quale i ghiotti si vantano di saper il modo di far nascere i vermi per allettamento della gola: e la cagione efficiente di tal generazione la riducono ad una di quelle che nel principio di questa Lettera vi noverai; ma il sapientissimo Pietro Gassendo accenna che forse le mosche ed altri animali volanti, avendo impresse e disseminate le loro semenze sopra le foglie dell’erbe e degli albori, e queste pasciute poi dalle vacche, dalle capre e dalle pecore, possano introdurre nel latte e nel formaggio quei semi abili in progresso di tempo a produrre i vermi; e certo tale opinione a molti non ispiace, né io vo’ negar ora così poter essere; ma tuttavia non so, colla dovuta riverenza che a questo grandissimo ed ammirabile filosofo io porto, non so, dico, in qual maniera que’ semi tritati e masticati da’ denti degli animali, e nel loro stomaco ritritati e cotti e spremuti, quindi alterati forse di nuovo e dirotti e snervati nell’intestino duodeno per quel ribollimento che vi fanno il sugo acido del pancreas e l’umore bilioso, e di nuovo rialterati nel passar per quelle strade che dallo stomaco e dagl’intestini vanno alle mammelle, abbiano potuto conservar sana e salva ed intera la loro virtude; che se ciò fosse potuto avvenire, si potrebbe sperare che, fatto una volta il formaggio di latte di donna, fosse per produrre in vece di vermi altrettanti muggini o lucci, se quella donna ne avesse mangiate l’uova, ovvero altrettanti galletti e pollastre per cagione dell’uova di gallina bevute; che se bene poté berle allora che eran cotte, nulladimeno vi sono di quelle femmine che le pigliano crude, e subito cavate dal nido intere se l’inghiottiscono; oltre che la cottura, secondo la dottrina del Gassendo, non pare che porti pregiudizio alla virtù generativa che posseggono i semi, conciossiecosaché ogn’uno sa ed ogn’uno vede che sulla ricotta e sulle torte di latte nascono i bachi; e pure la ricotta altro non è che il fiore del siero rappreso al fuoco, e le torte di latte son cotte e rosolate ne’ forni; perloché sarei forse di parere che l’inverminamento del latte, del formaggio e della ricotta abbia quella stessa cagione da me soprammentovata nelle carni e ne’ pesci, cioè a dire che le mosche ed i moscherini vi partoriscano sopra le loro uova, dalle quali nascano i vermi, e da’ vermi le mosche; e ciò manifesto appare a ciascuno che voglia guardarlo con occhio ragionevole; imperocché né il latte, né il formaggio, né la ricotta, né questi altri tutti latticini mai non inverminano se tenuti sieno in luogo in cui le mosche ed i moscherini entrar non possano; del che mi pare esser molto certo per le fatte esperienze; e pel contrario, se questi animaletti giungono a posarsi sopra quei cibi, in breve tempo ne segue lo inverminamento; e perché alla memoria mi tornano alcune cose da me osservate, intendo al presente darvi ragguaglio non già di tutte, perché troppo lungo sarei e rincrescevole, ma bensì di certe poche intorno a quei vermi che son nati.
Aveva io in un grande alberello di vetro, il quale dopo lasciai colla bocca scoperta, fatto mettere un mezzo marzolino de’ più freschi e de’ migliori che nel fine del mese di giugno si trovino: passati che furono alcuni giorni, vi si videro sopra alcuni vermi che, ben considerati, si conosceva essere di due razze: i maggiori erano per appunto come tutti gli altri vermi che nascono nelle carni, ed i minori erano pure della stessa figura, ma aveano questo di notevole che, più bizzarri e più lesti degli altri, con maggiore agilità su pel vetro camminavano e, accostando il muso alla coda e facendo di sé medesimi un cerchio, spiccavano in qua ed in là vari salti, onde talvolta veniva lor fatto di lanciarsi fuora del vaso nel quale erano nati.
Tre o quattro giorni dopo il loro nascimento, questi e quegli si fermarono al solito e si raggrinzarono in uova, solamente diverse nella grandezza, che, da me riscelte e separatamente riposte in vasi differenti, in capo agli otto giorni dalle più grandi scapparono fuora altrettante mosche ordinarie, e dalle più piccole dopo dodici giorni nacquero certi neri moscherini simili alle formiche alate, i quali, appena che furon nati con grandissima ed incredibile vispezza e velocità saltellando e volando, pareano, per così dire, il moto perpetuo; quindi accoppiandosi poi ogni maschio alla sua femmina, esercitavano quegli atti da’ quali naturalmente sperar se ne potea la loro propagazione, ma non avendo di che nutrirsi, in breve tempo morirono. Mentre che io faceva questa osservazione, trovai per fortuna un marzolino che avea cominciato a inverminare, e fatte da me separare le parti verminose dalle sane, l’une e l’altre serrai in vasi differenti, ma dalle parti sane non furono generati mai più bachi, e da que’ bachi che di già eran nati nelle parti verminose nacquero poi molti di que’ moscherini soprammentovati, senza vedersi né pure una mosca ordinaria; ed il contrario mi accadde in una ricotta, la quale, essendo bacata, i bachi trasformati in uova produssero solamente mosche ordinarie; e da un raveggiuolo inverminato nel mese di settembre nacquero e mosche ordinarie ed alcuni pochi moscioni di quegli stessi che intorno al vino ed all’aceto s’aggirano.
Io so che dura cosa parrà a credere che tutti questi latticini spontaneamente non bachino, vedendosi che, aperti i nostri delicatissimi marzolini di Lucardo, molto sovente si trovano bacati nella più interna midolla. Potrei rispondere che le semenze di que’ bachi furono partorite dalle mosche nel latte in quel tempo che si mugneva, ed in quel tempo che da’ pastori, acciocché si rappigli, si lascia ne’ vasi, intorno a’ quali corrono a stuoli innumerabilissime le mosche, onde quel greco Poeta,
Che le muse lattar più ch’altro mai,
nel sedicesimo libro dell’Iliade, verso 641, paragona i Greci ed i Troiani, che combattevano e s’aggiravano intorno al cadavero di Sarpedone, gli paragona, dico, alle mosche ronzanti intorno alle secchie piene di latte munto nel tempo della primavera: Quelli si agitavano intorno al cadavere
come quando le mosche nella stalla ronzano
intorno alle secchie piene di latte,
quando di primavera il latte colma le secchie;
così dunque quelli si agitavano intorno al cadavere.

Questa risposta, ancorché potesse aver qualche valore, nulladimeno interamente non mi appaga; ed avendo diligentemente osservato che i marzolini, prima che bachino, in molti luoghi screpolano e si fendono, dico che su quegli screpoli e su quelle aperture dalle mosche e da’ moscherini son partorite l’uova ed i bachi, i quali, cercando sempre nutrimento più tenero e più delicato, s’internano nella più riposta midolla del marzolino, e là entro attendono a nutricarsi fino al lor tempo determinato, e poscia scappano fuora e van cercando luogo da potersi rimpiattare per que’ pochi giorni che stanno convertiti in uova, e da quell’uova nascono diverse generazioni d’animali volanti, secondo la diversità di que’ padri che prima avean generati i bachi.
Parendomi ora a bastanza aver di ciò favellato, e forse con soverchia prolissità e fastidiosa, passerò a dirvi di quei vermi i quali dal volgo avvezzo a grandissimi errori son creduti nascere spontaneamente nell’erbe, ne’ frutti imputriditi e ne’ legni e negli alberi stessi; ed in primo luogo scriverò de’ bachi generati nell’erbe, nelle foglie degli alberi e ne’ pomi, dopo qualche tempo che da’ loro alberi e dalle loro piante furono staccati, e con quello staccamento furono, per così dire, privi di vita; e quindi mi metterò a discorrere di quegli che nascono nelle foglie e ne’ frutti, quando per ancora agli alberi stanno attaccati e la loro maturazione attendono.
Sappiate adunque che, sì come è il vero che su le carni, su’ pesci e su’ latticini conservati in luogo serrato non nascono mai vermi, così ancora è verissimo che i frutti e l’erbe crude e cotte, nella stessa maniera tenute, non inverminano: e pel contrario, lasciate in luogo aperto, producono varie maniere d’insetti, or d’una spezie, or d’un’altra, secondo la diversità degli animali che sopra vi portano i loro semi. Ho però notato che alcuni più volentieri prendon per nido una maniera d’erbe o di frutti che un’altra, e talvolta in una sola erba ho veduto nascere nello stesso tempo sette, o vero otto razze di animaletti.
Sul popone, su ‘l quale molti moscioni avea veduto posarsi, nacquero piccoli vermi che, dopo lo spazio di quattro giorni, diventarono uova, dalle quali uova, dopo quattro altri giorni, nacquero altrettanti moscioni. Da altri pezzi di popone tritato in cui avean pasturato moscioni, mosche ordinarie ed un’altra razza di moscherini piccolissimi e neri, con lunghe antenne in testa, nacquero molti bachi di diverse grandezze, che al loro determinato tempo in uova pur di differenti grandezze si trasformarono. Dall’uova maggiori dopo gli otto giorni scapparono fuora mosche ordinarie; da alcune delle minori dopo quattro giorni nacquero moscioni, e da altre dopo quattordici giorni uscirono alcuni moscherini; e dall’uova mezzane dopo una settimana e mezza nacquero alcuni altri moscioni molto più grandi e più grossi de’ primi; ed il simile m’intervenne nel cocomero, nelle fragole, nelle pere, nelle mele, nelle susine, nell’agresto, nel limone, ne’ fichi e nelle pesche. Ma perché le pesche erano riposte in un vaso di vetro, dal quale non potea gemere o scolar quel liquore che nello infradiciarsi usciva da esse pesche, perciò ebbi da osservare che in esso liquore nuotavano molti piccolissimi vermi, che appena coll’occhio si potevano scorgere. Da questi nati sulle pesche e nel liquore scolato pure da esse, nel consueto tempo ebbero il nascimento i moscioni che vissero molti giorni, avend’io somministrata loro materia da potersi nutricare; quindi essendosi congiunte le femmine co’ maschi, generarono degli altri bachi che al solito diventarono moscioni, e credo che così fatta generazione fosse quasi andata in infinito se più diligenza e più accuratezza io vi avessi posta.
Dalla zucca, tanto cotta che cruda, non ho mai veduto nascere altro che mosche ordinarie: mi par solamente da non trascurare il dirvi che tutti i bachi nati su certa zucca cotta mescolata con uova ed infradiciata, quando furono vicini a fermarsi ed a convertirsi nelle seconde uova, andavano voltolandosi in quella poltiglia, che appoco appoco attaccandosi loro addosso, gli ricopriva tutti, fino a tanto che pareano tante piccole zolle di terra, dalle quali zolle nascevano poi le mosche; onde chi non avesse saputo che dentro a ciascuna di esse era nascosto un uovo, avrebbe ragionevolmente potuto credere che quelle mosche dalla terra di quelle zolle fossero nate.
Da qualche apparenza, non molto da questa dissimigliante, credo che potesse aver origine l’equivoco di Plinio, che nel libro undecimo della Storia naturale scrisse nascere molti insetti volanti dalla polvere umida delle caverne; e per questa stessa apparenza parimente s’ingannano per avventura tutti coloro i quali raccontano che dalla terra, dal fango e dalla belletta de’ fiumi e delle paludi s’ingenerino infinite maniere di animali; onde Pomponio Mela, facendo menzione del Nilo, scrisse: Non pererrat autem tantum eam, sed aestivo sidere exundans etiam irrigat, adeo efficacibus aquis ad generandum alendumque ut, praeter id quod scatet piscibus, quod hippopotamos crocodilosque vastas belluas gignit, glebis etiam infundat animas ex ipsaque humo vitalia effingat. Hoc eo manifestum est, quod ubi sedavit diluvia ac se sibi reddidit, per humentes campos quaedam nondum perfecta animalia, sed tum primum accipientia spiritum, et ex parte iam formata, ex parte adhuc terrea visuntur.
Ed Ovidio nel primo delle Trasformazioni:
Sic ubi deseruit madidos septemfluus agros
Nilus, et antiquo sua flumina reddidit alveo,
Aetherioque recens exarsit sidere limus,
Plurima cultores versis animalia glebis
Inveniunt, et in his quaedam modo coepta sub ipsum
Nascendi spatium, quaedam imperfecta, suisque
Trunca vident numeris, et eodem in corpore saepe
Altera pars vivit, rudis est pars altera tellus.
Quippe ubi temperiem sumpsere humorque calorque,
Concipiunt, et ab his oriuntur cuncta duobus.
Cumque sit ignis aquae pugnax, vapor humidus omnes
Res creat, et discors concordia foetibus apta est.

Questa opinione fu secondata da Plutarco nelle Questioni conviviali; da Macrobio, che la copiò da Plutarco, ne’ Saturnali; da Plinio, da Eliano e finalmente da una innumerabile schiera di antichi i quali,
Sì come nuoce al gregge semplicetto
La scorta sua, quand’ella esce di strada,
Che tutta errando poi convien che vada,

furono seguitati senza pensar più oltre da infiniti scrittori moderni.
Di qui è che talvolta meco medesimo mi stupisco considerando come da questi autori fosse stimata la natura così poco avveduta nella generazione di quegli animali e nella tessitura de’ loro membri, altri già condotti d’ossa e di carne, ed altri nello stesso tempo modellati di pura terra; e pur Eliano fa fede d’averne veduti de’ così fatti con gli occhi suoi propri in un viaggio ch’ei fece da Napoli a Pozzuolo, e Ovidio, non contento nel luogo sopracitato d’averci fitto vedersi spesso nel fango degli animali senza gambe e senza giunture, ce lo ribadisce un’altra volta nel libro decimoquinto:
Semina limus habet virides generantia ranas,
Et generat truncas pedibus, mox apta natando
Crura dat, utque eadem sint longis saltibus apta
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Ma quel che più galante mi pare si è che queste stesse rane nate di fango, dopo sei soli mesi di vita, per testimonio di Plinio, in polvere ed in fango improvvisamente ritornano e poscia, all’apparir della vegnente primavera, a novella vita risorgono.
Questo pensiero di Plinio è stato approvato da molti gravi filosofi del nostro secolo, ed in particolare dal dottissimo padre Onorato Fabri, gran maestro in divinità e uomo di profonda letteratura e di sommo credito in tutte le filosofiche speculazioni, ma sopra ‘l tutto maravigliosamente felice nell’inventiva degli ardui problemi della più nobile e più sublime geometria; ha egli dunque tenuta questa opinione nel suo degnamente celebratissimo libro Della generazione degli animali alla proposizione settantesimaquinta e settantesimasesta, dove ammette che dal corpo corrotto de’ ranocchi e convertito in terra si generino nuovi ranocchi.
Io per ora non mi sento inclinato a crederlo, non avendo per esperienza veduto cosa che mi appaghi pienamente l’intelletto; son però sempre prontissimo a mutare opinione, e tanto più se quelle rane mentovate da Plinio fossero state azzannate e morse da qualch’idro, o vero da qualch’altro loro inimico serpentello della razza velenosa di quegli che dal nostro divino Poeta nella settima bolgia dell’Inferno furon riposti:
Ed ecco ad un, ch’era da nostra proda,
S’avventò un serpente che ‘l trafisse
Là dove ‘l collo alle spalle s’annoda.
Né o si tosto mai, né i si scrisse,
Com’ei s’accese ed arse, e cener tutto
Convenne che cascando divenisse:
E poi che fu a terra sì distrutto,
La polver si raccolse, e per sé stessa
In quel medesmo ritornò di butto.

Ma queste e quelle son mere favole, e gli animali che sembravano aver qualche membro impastato di sola terra, se meglio fossero stati ravvisati, assai manifesto sarebbe apparso che solamente erano terrosi ed imbrattati di fango; e se nel terreno, nel fango e nella belletta de’ campi e delle paludi nasce qualche vivente, questo avviene perché in quei luoghi vi sono state partorite prima l’uova e l’altre semenze abili a produrne il nascimento, conforme che Aristotile e Plinio raccontano delle locuste o cavallette; delle quali favellando il dottore Zaccaria Ben Muahammed Ibn Mahmud della città di Casbin in Persia, citato sotto nome d’Alcazuino, lasciò scritto nel libro arabico Delle maraviglie delle creature: Quando le locuste pasturano di primavera, cercano un terreno grasso, e umido sopra di cui si gettano, e colle code scavano certe fossette nelle quali ciascheduna di esse partorisce cent’uova.
Le testuggini terrestri anch’esse fanno le lor uova e le rimpiattano sotto la terra; quelle similmente che abitano tra l’acque dolci nel mare scendono su ‘l lido a partorirle e colla rena le cuoprono e là sotto nascono fomentate dal calor del sole, onde chi pratico non ne fosse potrebbe forse credere che dalla terra nascessero quelle piccole testuggini che dalle viscere di essa si veggono sovente uscire.
In così fatto modo potrebbe forse esser vera una curiosa esperienza provata dal padre Atanasio Chircher, letterato dottissimo e di nobile e d’ingegnosa speculativa nelle operazioni della natura: Quando le rane, dice egli, al principio di marzo buttano copiosamente il seme ne’ fossi dove abitano, accade che, rimanendo poi asciutti, la mota o limo si converta in polvere insieme colle rane di già nate. Se tu vorrai dunque manipolare una nuova generazione di rane, opererai così. Piglia la polvere della melma di quelle paludi e di que’ fossi dove le rane avranno fatti i nidi, impastala con acqua piovana e nelle mattine di state mettila ad un tiepido calore di sole in vaso di terra, ed acciocché non si secchi innaffiala di quando in quando colla suddetta acqua piovana; e ci vedrai primieramente gonfiarvi certe bolle dalle quali esce gran numero di ranuzze bianche, le quali hanno solamente i due soli piedi anteriori, ma dividendosi poscia la coda in due parti, se ne formano i due piedi posteriori, e quegli animaletti diventano rane perfettamente figurate.
Quest’esperienza pare che probabilissimamente dovesse riuscire, ma io non ne ho mai avuto l’onore, ancorché l’abbia reiteratamente provata, e ne do forse la colpa alla mia poca diligenza, o a qualche da me non conosciuto impedimento, il quale, come poi ho considerato, potrebbe per avventura essere che io feci sempre l’esperienza per appunto come l’insegna il padre Atanasio, e per farla mi servii della polvere di que’ fossi che son rimasi rasciutti; ma questi non rimanendo per lo più se non di state, nel qual tempo son di già nate tutte l’uova o semenze delle rane, non è maraviglia se, non essendo uova tra quella polvere, non sieno da essa nate le rane. Io ho però osservato che quando le rane o botte nascono ne’ fossi o ne’ paduli, elle nascono in figura di pesce, non co’ soli piedi anteriori, ma senza verun piede, con lunga coda, piatta e per così dire tagliente; ed in così fatta figura per molti giorni van nuotando, cibandosi e crescendo, quindi cavan fuora le due gambe anteriori; e dopo alcuni altri giorni, di sotto una pelle, che veste tutto il lor corpo, cavan fuora le due altre gambe diretane; e passato certo tempo si spogliano della coda, la quale non si divide in due parti per formar le gambe, come Plinio, il Rondelezio e tanti altri scrittori hanno creduto: e di questa verità potrà ogn’uno certificarsi, che voglia col coltello anatomico esaminare alcuna di quelle ranuzze nate di pochi giorni, e vedrà che le gambe di dietro e la coda son membri tra di loro distintissimi; e se ne rinchiuderà in qualche vivaio, potrà osservare che per molti giorni van nuotando guernite delle quattro gambe, non meno che della coda.
Ma che vi dirò io di quell’altre ranuzze o botticine, le quali il volgo crede che di state piovano dalle nuvole, o vero che s’ingenerino fra la polvere in virtù delle gocciole d’acqua piovana in quel momento ch’ella cade dall’aria?
Io ne favellai a bastanza nell’Osservazioni intorno alle vipere, osservando che quelle ranuzze, le quali si veggono quando viene qualche spruzzaglia di pioggia, hanno avuto il lor natale molti giorni avanti, e si trattengono nell’asciutto e s’acquattano o tra’ cespugli dell’erbe, o tra’ sassi, o nelle bucherattole della terra; e perché son del colore di essa terra, non è così facile, quand’elle stan ferme e rannicchiate, che l’occhio tra la polvere le possa distinguere: e quel vedere ch’ell’hanno lo stomaco pieno di cibo e le budella piene di molti escrementi in quello stesso momento nel quale si credon esser nate, parmi che sia un evidente contrassegno di quella verità; della quale non son io il trovatore, conciossiecosaché infin nell’Olimpiade cenquattordicesima, o poco dopo, ne’ tempi del primo Tolomeo re d’Egitto, ella fu recitata nella scuola peripatetica di Teofrasto Eresio successor d’Aristotile; come si può chiaramente vedere nella Libreria di Fozio, dove trovasi stampato un frammento di quel libro che ‘l suddetto Teofrasto scrisse [citazione in lingua greca], degli animali che repentinamente appariscono.
Perloché volentieri mi dispenso ora di parlarne più a lungo, per poter cominciare a dirvi che se di sopra ho affermato che mi si rende malagevole, anzi impossibile, il dar fede che nella belletta lasciata ne’ campi dalle feconde inondazioni del Nilo si trovino animali co’ membri parte animati, parte di pura terra composti, così ora non mi risolvo a credere che gli alberi, i frutici e l’erbe possano produrre animaletti di tal natura che sovente si trovino mezzi vivi e mezzi di legno, e per ancora in tutto il corpo non finiti d’animarsi: e quantunque il suddetto padre Atanasio Chircher, nel secondo tomo del Mondo sotterraneo, scriva d’averne veduti de’ così fatti e di averne mostrati ad altre persone su’ ramuscelli del viburno o brionia e su’ fusti di quell’erba che in Toscana dicesi codacavallina, dubito che vi possa essere stata qualche illusione abile a poter far travedere l’occhio, e mi fo lecito scrivere liberamente il mio dubbio, perché so molto bene quanto il padre Atanasio sia sincero amatore della verità, e che per rintracciarla egli non ha perdonato a tante sue gloriose fatiche, non meno dell’ingegno che del corpo; ed io, per lo medesimo fine, con maniera libera vo scrivendo il mio parere perché, . . . s’io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloro
Che questo tempo chiameranno antico
.
E questo stesso timore, accompagnato da un ardentissimo amore della verità, è cagione che sinceramente vi confessi che ancor io ne’ tempi addietro, abbacinato dall’inesperienza ho talvolta creduto di quelle cose delle quali soventemente ricordandomi,
Di me medesmo meco mi vergogno.
Ed in vero bisogna che io avessi le traveggole allora quando, nelle mie Osservazioni intorno alle vipere, scrissi che il cuore di questi serpentelli ha due auricole e due cavità o ventricoli, imperocché il cuor viperino non ha che una sola auricola ed una sola cavità: egli è ben vero che quella sola auricola gonfiata si dirama come in due tronchi ed internamente ha una sottilissima membrana che quasi la divide in due celle; e per queste due divisioni entrando, e cercando con lo stile o tenta, mi riuscì pigliar l’errore de’ due ventricoli, uno de’ quali veramente vi è, ma l’altro mi veniva disavvedutamente fatto con la tenta.
Io m’era così invogliato ed invaghito d’imbattermi pure in alcuno di quegli animalucci, parte semoventi e parte di legno (tanto vale appresso di me l’autorità d’un uomo così dotto com’è il padre Chircher), che non v’è diligenza e sollecitudine ch’io non abbia usato, e che non abbia fatto usare, per trovarne pur qualcuno: laonde il dì 30 di maggio, essendomi stati portati certi ramuscelli d’ossiacanta o spinbianco, i quali sulla propria pianta s’erano incatorzoliti, stravolti, rigonfiati, inteneriti e divenuti scabrosi e quasi lanuginosi, ed avean preso un color gialliccio punteggiato di rosso e di bigio, sperai di poter veder da quegli la desiderata nascita e trasformazione; e tanto più crebbe la speranza quanto che vidi cert’altri ramuscelli simili sulla fillirea seconda del Clusio, ed altri pur simili su’ tralci di quella clematide che in Toscana si chiama vitalba: per la qual cosa raddoppiate le diligenze, riposi di que’ ramuscelli e di que’ tralci in alcune scatole; e di più ancora ogni giorno osservava e faceva osservare tutte tre quelle suddette piante, sulle quali eran rimasi molti di quegl’incatorzolimenti stravolti; ma in fine m’accorsi che erano un vizio naturale di esse piante sulle quali ogn’anno per lo più si trovava, e che non generava mai insetto di sorta veruna.
Voi potrete considerarne le figure qui appresso, e tanto più volentieri ve le mando quanto che non credo che da alcuno scrittore, ch’io sappia, sia giammai stato badato a questo tal vizio o scherzo che sia.
Ma perché tra questi animaluzzi, che il padre Chircher asserisce che nascono da’ ramuscelli putrefatti del viburno e della codacavallina, egli ne porta la figura d’un’altra terza spezie che crede generarsi e dalle paglie e da’ giunchi imputriditi, non vi sia noioso ch’io vi racconti quel che m’è avvenuto quest’anno ad Artimino, dove ne’ boschi, tra le scope, ho veduti infinitissimi bacherozzoli di questa terza spezie, i quali da’ contadini di quel contorno son chiamati cavallucci: mentre dunque io mi tratteneva colla corte nel mese di settembre alle cacce di quel paese, me ne furono portati moltissimi, e vidi che erano di due maniere: gli uni aveano il colore tutto verde con due linee bianche paralelle distese da’ lati per tutta la lunghezza del corpo loro, e gli altri erano di color tutto rugginoso, o per dir meglio dello stesso color de’ fuscelli della scopa. Tanto gli uni quanto gli altri hanno due cornetti in testa, composti di molti e molti nodi o articoli. I cornetti de’ verdi son di color rossigno, ma gli altri della seconda razza son dello stesso colore, che è tutto ‘l restante del corpo. Il lor capo è piccolissimo, minore d’un granello di grano, gli occhi son duri e rilevati e più piccoli d’un seme di papavero, e ne’ verdi son di color rosso. La bocca è fatta come quella delle cavallette. Camminano con un passo grave e lento ed hanno sei gambe, ed ogni gamba ha tre piegature, e le due prime gambe nascono appunto appunto sotto quella congiuntura, dove sta attaccata la testa. Tutto quello spazio che è dalle due ultime gambe fino all’estremità della coda, è composto e segnato di dieci anelli o incisure o nodi; e dall’ultimo nodo spuntano due sottilissimi pungiglioni. Tutto il corpo insieme non è più lungo di cinque dita a traverso, e per lo più dal capo alla coda è grosso ugualmente; e se bene alcuni nel ventre inferiore son più tronfi e di figura romboidale, questo avviene perché son femmine, ed hanno il ventre più o men grosso e rilevato, secondo che è maggiore o minore il numero dell’uova che in quello si trovano. Tanto i maschi quanto le femmine gettano la spoglia tutta intera in quella guisa che fan le serpi, i ragni ed altri insetti, e la loro spoglia non è altro che una bianca e sottilissima tunica della stessa figura del lor corpo.
Quando mi furon portati questi animaletti, era meco per fortuna il Sig. Niccolò Stenone di Danimarca, famosissimo, come voi sapete, anatomico de’ nostri tempi e letterato di ragguardevoli e gentilissime maniere, trattenuto in questa corte dalla reale generosità del Serenissimo Granduca: ci venne ad ambodue in pensiero d’osservar le viscere e l’interna fabbrica di quelle bestiuole, per quanto comportasse la lor minutezza, e vedemmo che dalla bocca si parte un canaletto, il quale, camminando per tutta la lunghezza del corpo fino ad un forame vicino all’ultimo nodo della coda, fa l’ufizio d’esofago, di stomaco e di budella, ed intorno a questo canaletto trovammo un confuso ammassamento di vari e diversi filuzzi, che son forse vene ed arterie.
Da mezzo il corpo fino all’estremità della coda osservammo esservi un gran numero d’uova legate insieme, o vestite da un filo o canale che per la sottigliezza non si poteva discernere.
Non erano quest’uova più grosse de’ granelli di miglio, e certe erano molli e tenere, e certe più dure: le molli e tenere apparivano gialliccie e quasi trasparenti, ma le dure, ancorché internamente fossero gialle, avevano il guscio nero; ed in tutto, fra le nere e gialle, in un solo animale ne contammo fino a settanta; e ad un altro, che tenemmo rinchiuso in una scatola quattro giorni senza mangiare, oltre venticinque che n’avea fatte in quella scatola, ne trovammo in corpo infino al numero di quarantotto.
Mentre così passavamo il tempo, osservammo che, non ostante che a certi di quegli animaluzzi avessimo strappato fuor del corpo tutte quante le viscere, osservammo, dico, che continuavano a vivere o a muoversi, in quella guisa appunto che fanno le vipere sventrate ed altri molti insetti; per lo che ad alcun’altri tagliammo il capo, ed il capo senza ‘l busto per qualche breve tempo vivea; ma il busto senza ‘l capo vivacissimamente per lungo tempo brancolava, come se avesse tutti quanti gli altri suoi membri; onde per ischerzo e per un giuoco da villa ci risolvemmo a rinnestare il capo su ‘l busto, e ci riuscì con quella stessa facilità colla quale riusciva di rinnestarsi le membra all’incantatore Orrilo, di cui il grand’epico di Ferrara:
Più volte l’han smembrato, e non mai morto,
Né per smembrarlo uccider si potea,
Che se tagliato o mano o gamba gli era,
La rappiccava, che parea di cera.
Or fin a’ denti il capo gli divide
Grifone, or Aquilante fin’ al petto.
Egli de’ colpi lor sempre si ride;
S’adiran essi, che non hanno effetto.
Chi mai d’alto cader l’argento vide,
Che gli alchimisti hanno mercurio detto,
E spargere e raccor tutti i suoi membri,
Sentendo di costui, se ne rimembri.
Se gli spiccano il capo, Orrilo scende,
Né cessa brancolar sin che lo trovi,
Ed or pel crine ed or pel naso il prende,
Lo salda al collo, e non so con che chiovi.
Piglial talor Grifone, e ‘l braccio stende,
Nel fiume il getta, e non par ch’anco giovi.
Che nuota Orrilo al fondo com’un pesce,
E col suo capo salvo alla riva esce.

Così i nostri animaletti col capo rinnestato non solo continuarono a vivere tutto quel giorno, ma eziandio per cinqu’altri giorni continui, con molta maraviglia di chi non ne sapeva il segreto; e tanto più che in quello stato non solo si sgravavano de’ soliti naturali escrementi del ventre, ma facevano ancora dell’uova: onde chi fosse stato corrivo a scrivere questo saldamento di teste, avrebbe potuto avere una gran quantità di testimoni di vista; ma avrebbe scritta una bella favola: conciossiecosaché quelle teste si rappiccavano a’ lor busti perché da’ busti gocciolava un certo liquor verde viscoso e tenace che, seccandosi, era cagione d’un saldo ricongiugnimento; ma le teste, ancorché ‘l busto vivesse, non facean moto di sort’alcuna né mostravan segni di vita; ed i busti, senza ‘l riunimento delle teste, continuavano a vivere que’ cinque o sei giorni come se le avessero riunite: e se voi aveste la curiosità di vedere la figura di questi animaletti, senza cercarla nel Chircher o nel Jonstono, che la mette nella sua celebre Storia degl’insetti, tav. XI, num. 2, e tav. XII, num. 26, io ve la mando qui disegnata dal naturale, insieme con la figura d’uno de’ lor uovi, aggrandita coll’aiuto d’uno squisitissimo microscopio d’Inghilterra; e vedrete che da una estremità è ovato e dall’altra ha cert’orli rilevati e s’assomiglia ad uno di que’ mezz’uovi di legno, de’ quali ci serviamo in vece di scalini, e si serrano a vite.
D’un parlare nell’altro son ito, senz’avvedermene, troppo lungi da quel discorso ch’io faceva poc’anzi, sul quale ora rimettendomi, fa di mestieri ch’io ritorni a favellarvi di quegl’insetti che si veggono avere il nascimento sull’erbe infracidate, e ch’io vi dica che su tutte quante le spezie ho veduto indifferentemente nascere i vermi: onde non è un miracolo ciò che Dioscoride e Plinio hanno scritto per cosa considerabile e singulare, che su ‘l bassilico masticato ed esposto al sole avvenga un simile nascimento di bachi, imperocché tale accidente è comune a tutte quell’erbe su le quali son portati dagli animali i semi de’ vermi.
Da questi vermi prodotti su l’erbe infracidate ho veduto talvolta nascer mosche ordinarie e talvolta qualche moscione, ma per lo più, e non di rado, da una pianta sola moltissime generazioni di animaletti volanti, e così minuti che con molta ragione alcuni di essi furono da Tertulliano chiamati unius puncti animalia; e mi si ravviva alla memoria che su ‘l solo isopo, su ‘l solo spigo e su ‘l solo iperico, oltre alle mosche ordinarie e ad alcuni altri pochi moscioni, nacquero otto o nove altre diverse razze di moscherini tra loro differentissimi di figura.
Su ‘l prezzemolo trovai parimente alcuni bachi similissimi a quegli che si trasformano in mosche: erano però tutti pelosi, e facendo cerchio di sé medesimi spiccavano sovente in qua ed in là vari salti; ma non mi fu favorevole la fortuna nel farmi vedere ciò che ne sarebbe nato, imperocché morirono tutti avanti che in uova, come gli altri, si conducessero e si fermassero; forse pel freddo della stagione, che si era avanzata verso ‘l fine del mese di novembre.
Sentite ora quel che scrive Plinio nel libro ventunesimo della Storia naturale:
Un’altra maraviglia, dice egli, avviene del mele nell’isola di Candia: quivi è il monte di Carina, il quale ha nove miglia di circuito: dentro a questo spazio non si trovano mosche, ed il mele colà fabbricato esse mosche mai non assaggiano; ed essendo questo singolare per l’uso de’ medicamenti, con tale esperienza si elegge.
La stessa maraviglia racconta Zeze del mele attico, e soggiugne che questo avviene per essere l’Attica abbondantissima di timo, il di cui acuto odore è dalle mosche grandemente abborrito. Lo riferisce altresì Michele Glica ne’ suoi greci Annali e n’adduce la medesima ragione di Zeze: e pure io ho vedute le mosche partorir le loro uova ed i loro vermi nel timo, e da que’ vermi nascerne le mosche, e quelle mosche golosamente mangiarsi non solamente il mele allungato con la decozione del timo, ma eziandio trangugiarsi un lattuario composto col suddetto mele e con foglie di timo.
Forse ne’ tempi di Plinio e nel monte Carina era una veridica storia, ma in Toscana crederei che oggi noverar si potesse tra le favole: laonde, per terminar più presto che mi sarà possibile questa ormai troppo lunga Lettera e troppo tediosa, ripiglio a dirvi che siccome tutte le carni morte e tutti i pesci, tutte l’erbe e tutti i frutti sono un nido proporzionatissimo per le mosche e per gli altri animaletti volanti, così lo sono ancora tutte le generazioni di funghi, come ho potuto vedere nelle vesce, ne’ porcini, negli uovoli, ne’ grumati, nelle ditola ed in altri simiglianti: io parlo però di que’ funghi i quali di già sono stati còlti e, per così dire, son morti e putrefatti, imperocché quegli che stanno radicati in terra o su gli alberi, e che vivono, sogliono generare cert’altre maniere di bachi, alcune delle quali sono differentissime nella figura, in tutto e per tutto, da’ vermi delle mosche; conciossiecosaché questi de’ funghi non vanno strascicando il loro corpo per terra, né vanno serpeggiando come quegli, ma camminano co’ loro piedi, come i bachi da seta, e se quelli delle mosche, de’ moscherini e de’ moscioni hanno il muso lungo ed aguzzo, questi lo hanno corto e schiacciato, con una fascia nera sopra di esso.
Questi stessi dunque, finiti ch’e’ son di crescere, si fuggono studiosamente da quel fungo nel quale son nati e rilevati, ed in vece di trasmutarsi in uova si fabbricano intorno un piccolissimo bozzoletto di seta, in cui ciascheduno di essi sta rinchiuso alcuni giorni determinati, dopo lo spazio de’ quali da ogni bozzolo esce fuora un animaletto volante, che talvolta è una zanzara, talvolta una moschetta nera con quattr’ale, e talvolta un’altra moschetta parimente nera e con quattr’ale, col ventre inferiore allungato, a foggia di coda simile a quella delle serpi.
Or qual sia la cagione efficiente prossima che generi questi bachi ne’ funghi viventi, io per me credo che sia quella stessa che gli genera nelle vive piante e ne’ loro frutti, altresì viventi; intorno alla quale varie sono l’opinioni de’ filosofi e di coloro che la virtù delle piante, ovvero la loro natura, investigarono.
Fortunio Liceto, ne’ libri Del nascimento spontaneo de’ viventi, supponendo per vero verissimo che dall’anima vegetativa, più ignobile di tutte l’altre, non possa mai prodursi l’anima sensitiva, crede che quella generazione di bachi si faccia per cagione del nutrimento che le piante prendono dalla terra, in cui egli dice che sono molte particelle d’anima sensitiva, esalate o dagli escrementi o da’ corpi morti o viventi degli animali; soggiugne ancora che da’ medesimi corpi, o viventi o morti, svaporano molti atomi o corpicelli pregni d’anima sensitiva, i quali, volando per l’aria ed attaccandosi alle scorze delle piante, alle foglie ed a’ frutti rugiadosi, cagionano il nascimento de’ bachi. Pietro Gassendo è di parere che nella polpa de’ frutti nascano i vermi, perché le mosche, l’api, le zanzare ed altri simili insetti, posandosi sopra i fiori, vi lascino i loro semi, i quali semi, rinchiusi e imprigionati poi dentro a’ frutti, coll’aiuto del calore della maturazione divengano vermi.
Potrei molte e molt’altre opinioni addurvi, ma perché quasi tutte si riducono a quelle delle quali nel bel principio di questa Lettera vi favellai, perciò stimo opportuno il tralasciarle, e se dovessi palesarvi il mio sentimento crederei che i frutti, i legumi, gli alberi e le foglie in due maniere inverminassero.
Una, perché venendo i bachi per di fuora e cercando l’alimento, col rodere si aprono la strada ed arrivano alla più interna midolla de’ frutti e de’ legni.
L’altra maniera si è, che io per me stimerei che non fosse gran fatto disdicevole il credere che quell’anima o quella virtù, la quale genera i fiori ed i frutti nelle piante viventi, sia quella stessa che generi ancora i bachi di esse piante. E chi sa forse che molti frutti degli alberi non sieno prodotti, non per un fine primario e principale, ma bensì per un ufizio secondario e servile, destinato alla generazione di que’ vermi, servendo a loro in vece di matrice, in cui dimorino un prefisso e determinato tempo; il quale arrivato, escan fuora a godere il sole.
Io m’immagino che questo mio pensiero non vi parrà totalmente un paradosso, mentre farete riflessione a quelle tante sorte di galle, di gallozzole, di coccole, di ricci, di calici, di cornetti e di lappole che son prodotte dalle querce, dalle farnie, da’ cerri, da’ sugheri, da’ lecci e da altri simili alberi da ghianda; imperciocché in quelle gallozzole, e particolarmente nelle più grosse che si chiamano coronate, ne’ ricci capelluti, che ciuffoli da’ nostri contadini son detti, ne’ ricci legnosi del cerro, ne’ ricci stellati della quercia, nelle galluzze della foglia del leccio si vede evidentissimamente che la prima e principale intenzione della natura è formare dentro di quelle un animale volante; vedendosi nel centro della gallozzola un uovo che, col crescere e col maturarsi di essa gallozzola, va crescendo e maturando anch’egli, e cresce altresì a suo tempo quel verme che nell’uovo si racchiude; il qual verme, quando la gallozzola è finita di maturare e che è venuto il termine destinato al suo nascimento, diventa, di verme che era, una mosca; la quale, rompendo l’uovo e cominciando a roder la gallozzola, fa dal centro alla circonferenza una piccola e sempre ritonda strada, al fine della quale pervenuta, abbandonando la nativa prigione, per l’aria baldanzosamente se ne vola a cercarsi l’alimento.
Io vi confesso ingenuamente che, prima d’aver fatte queste mie esperienze intorno alla generazione degl’insetti, mi dava a credere o, per dir meglio, sospettava che forse la gallozzola nascesse perché, arrivando la mosca nel tempo della primavera, e facendo una piccolissima fessura ne’ rami più teneri della quercia, in quella fessura nascondesse uno de’ suoi semi, il quale fosse cagione che sbocciasse fuora la gallozzola, e che mai non si vedessero galle o gallozzole o ricci o cornetti o calici o coccole, se non in que’ rami ne’ quali le mosche avessero depositate le loro semenze; e mi dava ad intendere che le gallozzole fossero una malattia cagionata nelle querce dalle punture delle mosche, in quella guisa stessa che dalle punture d’altri animaletti simiglievoli veggiamo crescere de’ tumori ne’ corpi degli animali.
Io dubitava ancora se per fortuna potess’essere che quando spuntano le gallozzole ed i ricci, sopraggiugnendo le mosche, spargessero sopra di essi qualche fecondo liquore di seme che, pregno di spiriti vivacissimi, potesse penetrar nella parte più interna ed ingravidandola producesse quivi quel verme.
Ma, avendo poi meglio considerato che vi son molti frutti e legumi che nascono coperti e difesi da’ loro invogli o baccelletti, e che pur bacano ed intonchiano; avend’osservato che tutte le gallozzole nascon sempre costantemente in una determinata parte de’ rami, e sempre ne’ rami novelli, e che quelle gallozzoline che nascono nelle foglie della quercia, della farnia e del cerro, anch’esse costantemente nascon tutte su le fibre o nervi di esse foglie e che né pur una gallozzolina si vede nata sul piano della foglia tra un nervo e l’altro; che tutte infallibilmente spuntano da quella parte della foglia che sta rivolta verso la terra, e niuna da quella parte più liscia che riguarda il cielo, e per lo contrario tutte le gallozzoline che si trovano nelle foglie del faggio e d’alcuni altri alberi non ghiandiferi stanno tutte dalla parte più liscia di esse foglie; avendo ancora posto mente che molte foglie d’altri alberi, su le quali nascono o vesciche o borse o increspature o gonfietti pieni di vermi, quando quelle foglie spuntano, elle spuntano con quelle stesse vesciche o borse, le quali molto bene si veggiono, ancorché minutissime sieno le foglie, e vanno crescendo al crescere di esse foglie; e di ciò manifestamente ogn’uno potrà certificarsi coll’osservar diligentemente quel che nasce nelle foglie dell’olmo, del leccio, dell’alberello, del susino salvatico e del lentisco; in oltre il cerro fa alcuni grappoletti di fiori; da que’ fiori son prodotte altrettante coccole rosse o paonazze, ciascheduna delle quali ingenera tre o quattro bachi rinchiusi ne’ loro casellini distinti.
Il medesimo cerro fa un altro grappoletto di fiori, e da que’ fiori spuntano alcuni calicetti verdegialli legnosi nella base e teneri nell’orlo, e tutti questi calici fanno i lor bachi, ed i bachi escon fuora in forma d’animali volanti: perciò, mutandomi d’opinione, mi pare di poter più probabilmente credere che la generazione degli animali nati dagli alberi non sia una generazione a caso, né fatta da’ semi depositati dalle sopravvegnenti gravide mosche; e tanto più perché non vi è pur una sola gallozzola che non abbia il suo baco, ed in ogni sorta di gallozzole vi son sempre le proprie e determinate razze di bachi, di mosche e di moscherini, le quali mai non variano.
In oltre maravigliosa è la maestria usata dalla natura nel formare quell’uovo, e preparargli il luogo dentro la gallozzola, e corredarlo di tante fibre e fili che da essa gallozzola vanno all’uovo, quasi altrettante vene ed arterie che conducono l’opportuno sussidio per la formazione dell’uovo e del baco, e per lo nutrimento che a loro fa di mestiere.
E perché vi ha certe particolari spezie di gallozzole nelle quali non un solo, ma più vermi s’ingenerano, perciò essa natura seppe accuratissimamente distinguere i luoghi, come lo sa fare in quegli animali che di numerosa prole in un sol parto sono fecondi.
Si vede altresì che il verme delle gallozzole ha un certo necessario fomento vitale da tutta quanta la quercia, imperciocché, se sia còlta una galla coronata subito che spunti dall’albero, e che dentro di essa l’occhio non possa scorgere principio di uovo, questa galla mai non baca e non tarla e mai non produce la mosca; se si colga un poco meno acerba ed un poco più grossetta della prima, e che vi si veggia l’uovo che comincia a farsi o che di poco sia fatto, e sia per ancora molto acerbo e piccolino, ei va a male e non conduce il verme alla maturazione; ma se ‘l verme vien’ a bene, egli ha il determinato e prefisso termine di trasformarsi in mosca e di uscire dalla gallozzola, il qual termine mai non falla; egli è ben vero che, secondo le diverse razze delle gallozzole, diverso è parimente il lor termine: imperocché da alcune razze scappan fuora gli animaletti di primavera, da altre di state, da altre d’autunno e da altre sul principio del verno; ma gli animaluzzi di certune aspettano l’altra futura primavera, quegli di cert’altre la state, ed alcuni amano di stagionarsi per entro la gallozzola lo spazio intero di due anni e oltre.
Egli è superfluo che di ciò io vi favelli ora più lungamente, essendovi questa storia in qualche parte non ignota per quello che ne fu osservato ad Artimino, quando la corte l’anno passato vi si tratteneva godendo le deliziose cacce di quelle boscaglie; anzi a bella prova mi tacerò, rimettendomi a quello che sarò per dirne quando darò in luce questa particolare e curiosissima Storia de’ vari e diversi frutti ed animali che dalle querce e da altri alberi son generati; e credo fermamente che presto potrò soddisfare alla curiosità degli investigatori delle cose naturali, essendomi stata favorevole la generosa e real munificenza del Serenissimo Granduca mio Signore, mediante la quale ne ho fatte miniare fino a ora molte e molte figure dal delicato pennello del Sig. Filizio Pizzichi.
Non voglio già passare in silenzio, per tornare al mio primo proposito, che stimo non esser gran peccato in filosofia il credere che i vermi de’ frutti sieno generati da quella stessa anima e da quella stessa natural virtude che fa nascere i frutti stessi nelle piante; e se bene in alcune scuole si tien per certo che una cosa men nobile non possa generarne una più nobile della generante, io me ne fo beffe, ed il solo esemplo delle mosche e de’ moscherini che nascono nelle gallozzole delle querce parmi che tolga via ogni dubbio: oltreché questi nomi di più nobile e di men nobile son termini incogniti alla natura ed inventati per adattargli al bisogno delle opinioni or di questa or di quella setta, secondo che le fa di mestiere.
Ma quando pure per le strepitose strida degli scolastici dovesse in ogni modo esser vero che dall’ignobili cose non si potessero produrre le più nobili, io non so per me vedere qual gran vergogna o quale stravagante paradosso mai sarebbe il dire che le piante, oltre alla vita vegetativa, godessero ancora la sensibile, la quale le condizionasse e le facesse abili alla generazione degli animali che da esse piante son prodotti. Democrito, che per testimonianza di Petronio Arbitro omnium herbarum succos expressit et, ne lapidum virgultorumque vis lateret, aetatem inter experimenta consumpsit, non sdegnò di concedere il senso alle piante.
Pittagora e Platone ebbero questo stesso parere; e l’ebbero similmente Anassagora ed Empedocle, se dar vogliamo fede ad Aristotile che, nel primo libro Delle piante lo riferisce: Anassagora ed Empedocle dicono che esse si muovono spinte da passione, e asseriscono che sentono e si rattristano e si rallegrano; e di questi Anassagora disse che sono anche esseri viventi e si rallegrano e si rattristano, deducandolo dal cadere e dal crescere delle foglie.
Ma i ricreduti Manichei empiamente passarono più avanti, come racconta sant’Agostino, e tennero che le piante avessero anima ragionevole e che però fosse misfatto d’omicidio il coglierne frutti o fiori, lo strapparne violentemente foglie e rami e sradicarle totalmente dal suolo.
Plotino però fu molto più moderato, scrivendo che elle hanno sentimento sì, ma intormentito e stupido della stessa maniera che lo hanno l’ostriche, le spugne e gli altri simili animali che piantanimali nelle scuole sono chiamati.
A Plotino ed agli altri suddetti filosofi gentili si accostarono Giovanni Veslingio e Tommaso Campanella, con molti altri moderni, tra’ quali l’eruditissimo nostro Imperfetto, dico il Signor Priore Orazio Ricasoli Rucellai, ne’ suoi maravigliosi Dialoghi dell’anima fa parlare altamente Vincenzio Mannucci, e con ragioni laudevoli, a favore di questa opinione, per prova della quale non vi addurrò qui, secondo il detto di Plinio, che alcuni follemente si facessero a credere che Pittagora comandasse l’astenersi dalle fave perché in quelle si ricoverassero l’anime de’ morti; né meno vi dirò di questo legume la favolosa virtude scritta ne’ libri filosofici manuscritti che van sotto nome d’Origene, dove s’afferma che Zareta, filosofo di nazione caldeo e maestro di Pittagora, dicesse che le fave macerate al sole rendevano un non so quale odore, simile a quello dell’umana semenza, e che quando ell’erano fiorite, se si rinchiudevano in un vaso sepolto sotto la terra, dopo non molti giorni si sarebbono trovate avere la vergognosa effigie di quella parte femminile che, per nativa modestia, dalle donne più d’ogn’altra si cela, e che poscia averebbero acquistata la figura del capo di un fanciullo; io non vi scrivo qui le precise greche parole di Origene, o d’Epifanio che si sia l’autore di que’ libri, perché, se ne avrete curiosità, le potrete vedere nell’erudite osservazioni fatte sopra Laerzio Diogene da quel grandissimo e gentilissimo letterato, e nostro comune amico e accademico, Egidio Menagio.
Per prova parimente della suddetta sensibilità delle piante, non fia che vi rammenti i virgulti di Tracia animati dallo spirito del morto Polidoro, né meno i giardini di Alcina mentovati dall’Ariosto, né le boscaglie inventate dal Boiardo e dal Berni; né vi ridurrò alla mente nel secondo girone dell’lnferno quell’orribil selva, della quale il nostro sovrano Poeta:
Però disse ‘l maestro, se tu tronchi
Qualche fraschetta d’una d’este piante,
Li pensier ch’hai si faran tutti monchi.
Allor porsi la mano un poco avante,
E colsi un ramuscel da un gran pruno;
E ‘l tronco suo gridò, perché mi schiante?
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
Ricominciò a gridar, perché mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi;
Ben dovrebbe esser la tua man più pia,
Se state fossim’ anime di serpi.
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
Dall’un de’ capi, che dall’altro geme
E cigola per vento che va via,
Così di quella scheggia usciva insieme
Parole e sangue; ond’ i’ lasciai la cima
Cadere, e stetti come l’uom che teme.

Imperocché queste, a prima giunta considerate e senza molto inoltrarsi, son fole bizzarrissime de’ poeti, ritrovate per dar pasto alla plebe ed agli uomini ignoranti.
Ma voi, che avete gl’lntelletti sani,
Mirate la dottrina che si asconde
Sotto il velame delli versi strani.
Le cose belle
(diceva il Berni) preziose e care,
Saporite, soavi e delicate
Scoperte in man non si debbon portare
Perché da’ porci non sieno imbrattate:
Dalla natura si vuole imparare,
Che ha le sue frutte e le sue cose armate
Di spine e reste e ossa e buccia e scorza,
Contra la violenza ed alla forza
Del ciel, degli animali e degli uccelli,
Ed ha nascosto sotto terra l’oro,
E le gioie e le perle e gli altri belli
Segreti agli uomin perché costin loro;
E son ben smemorati e pazzi quelli
Che fuor portando palese il tesoro
Par che chiamino i ladri e gli assassini,
E ‘l diavol che gli spogli e gli rovini.
Poich’anche par che la giustizia voglia,
Dandosi il ben per premio e guidardone
Della fatica, che quel che n’ha voglia
Debba esser valentuomo e non poltrone;
E pare anche che gusto e grazia accoglia
A vivande che sien per altro buone,
E le faccia più care e più gradite
Un saporetto con che sien condite.
Però quando leggete l’Odissea
E quelle guerre orrende e disperate,
E trovate ferita qualche dea
O qualche dio, non vi scandalizzate,
Che quel buon uom’ altr’intender volea
Per quel che fuor dimostra alle brigate,
Alle brigate goffe, agli animali
Che con la vista non passan gli occhiali.
E cosi qui non vi fermate in queste
Scorze di fuor, ma passate più innanzi,
Ché s’esserci altro sotto non credeste,
Per dio avreste fatto pochi avanzi;
E di tenerle ben ragione areste
Sogni d’infermi e fole di romanzi;
Or dell’ingegno ognun la zappa pigli,
E sudi e s’affatichi e s’assottigli.

E chi sa che Virgilio, Dante e gli altri toscani poeti con quelle lor favole non volessero insegnarci che le piante non sono affatto prive di senso? Io so molto bene che non v’è motivo, né conghiettura, né prova, né ragione concludente, non tanto per la parte affermativa, quanto per la negativa; ma egli è anche vero che le piante si nutricano, crescono e producono seme e frutto come gli altri animali; cercano con ansietà il sole e l’aria aperta e sfogata, sfuggono in quel modo migliore che possono l’ugge malefiche e con movimenti invisibili si storcono per iscansarle; e chi sa, se gambe avessero e non fossero così altamente radicate in terra, che non fuggissero da chi vuole offenderle, ed offese e straziate non facessero i lor versi ed i loro lamenti, se organi possedessero disposti e proporzionati all’opra della favella?
Mi sovviene a questo proposito, ch’essendo io del mese di marzo in Livorno, vidi un certo pomo o frutto marino abbarbicato nella terra tra gli screpoli d’uno scoglio: la grossezza e la figura di esso pomo era come quella d’una arancia di mediocre grandezza, di quel colore per appunto che hanno i funghi porcini, che però fungo marino da’ pescatori è chiamato; ed avendolo còlto e volendo vederne l’interna struttura, appena cominciai col coltello a pungerlo ed a tagliarlo, che vidi manifestissimamente che moto avea e senso, raggrinzandosi ed accartocciandosi ad ogni minimo taglio e puntura; e pure nella sua interna cavità, le pareti della quale erano bianche lattate, non conteneva altro che cert’acqua limpidissima di sapore di sale ed alcuni fili bianchi, i quali da una parte all’altra delle pareti senz’ordine alcuno erano distesi e tirati. E le spugne, che pur da alcuni valentuomini son noverate tra le piante, non si scontorcon’ elleno, e non si raggrinzano quando son toccate ed offese?
Nella paralisia accade talvolta che in qualche membro si perda il senso restando libero il moto, e talvolta si perda totalmente il moto senza minima offesa del senso. Or chi direbbe, in questo secondo avvenimento, che in quel membro paralitico ed immobile fosse rimaso il sentimento, se il malato non avesse bocca né voce da poterlo significare, e non si lagnasse alle punture ed agli strazzii che, per rendergli la salute, dal chirurgo gli son fatti?
Similmente, vedendosi libero e franco il moto in un altro membro, chi crederebbe giammai che non vi fosse anco il sentire, se ‘l malato stesso non ne desse contrassegni?
Adunque il moto in che che sia non è argomento certo, come alcuni vogliono, per provare il senso.
Creda per tanto ogn’uno ciò che più gli aggrada, che a me, per venire al mio principale intento, basta di aver detto che, per l’esperienze fatte, mi sento inclinatissimo a credere che la generazione de’ vermi nell’erbe, negli alberi e nei frutti viventi non sia una generazione a caso, ma sempre costantemente la stessa, e che le razze di que’ vermi si convertano poi quasi tutte in animaletti volanti, ciascuno della propria sua spezie.
E qui non mi posso contenere ch’io non ve ne descriva il nascimento e la trasformazione d’una o di due sorte, che servirà forse per chiarezza maggiore.
Le spezie delle ciriege bacano quasi tutte indifferentemente sull’albero, e quando elle inverminano, ogni ciriegia inverminata ha sempre un sol baco, né mai in una sola ciriegia n’ho potuto trovar due.
Il baco è bianco, senza gambe, ed ha la figura del cono, come quegli delle mosche descritti nel principio di questa Lettera: fin tanto ch’e’ si mantien baco, attende solamente a nutrirsi ed a crescere senza mai sgravarsi degli escrementi del ventre; quando egli è arrivato alla necessaria sua grandezza, si fugge da quella ciriegia, nella quale è nato, e cerca luogo da potersi rimpiattare, e quivi appoco appoco si raggrinza e s’indurisce e si trasforma in un piccol uovo bianco lattato senza mutar di colore, dal qual uovo, finché non è passato il principio della futura primavera, non si vede mai nascer cosa veruna; ma, avvicinandosi la state, ne scappa fuora una moschetta di color nero tutta pelosa; e i peli del dorso e quegli della testa, che son più radi, sono ancora più lunghi di que’ del ventre.
Sul dorso si vede un mezzo cerchio di color d’oro, e la testa è listata per traverso d’una stretta fascia pur d’oro anch’essa, dalla quale si diparte una striscia simile più larga che va a coprire gran parte di quello spazio ch’è tra un occhio e l’altro: gli occhi son rossi, circondati d’una linea d’oro; l’ali son bianche, con certe macchie trasversali di color intra bigio e nero, così galantemente disposte che somigliano le penne degli sparvieri: sei sono i piedi, neri anch’essi e pelosi, e nelle congiunture toccati d’oro.
E meglio potrete vederne la figura ch’io ve ne mando in questo foglio, nel quale è delineato il verme, l’uovo in cui si trasfigura il verme, e la moschetta che esce da quell’uovo, non solo nella naturale loro piccola figura, ma ancora in più grande e più distinta, conforme è mostrata dal microscopio d’un sol vetro. Differenti molto da i bachi delle ciriege son quegli che si trovano nell’avellane o nocciuole fresche; imperocché questi delle nocciuole hanno quasi la figura d’un mezzo cilindro composto di tanti mezzi anelli bianchi, col capo di color capellino e lustro: camminano con moto non molto veloce e con sei piccolissimi piedi situati in tre ordini vicin’al capo.
Questi vermi, ancorché io v’abbia usata un’esattissima cura, non ho mai potuto vedere che si trasformino in animali volanti; onde può essere, come credo, che vivano e muoiano bachi, tali quali son nati. Io n’ho alle volte rinchiusi alcuni, i quali, così rinchiusi e senza mangiare, son vissuti lungo tempo, ed in particolare certuni che camparono dal dì venticinque di luglio fino a’ dieci di novembre.
Cert’altri vermi di figura non dissimile, ma più grandi, rossi e pelosi, i quali qualche volta si trovano nelle barbe delle bietole rosse e ne’ capi d’aglio, anch’essi campano, serrati ne’ vasi, lunghissimo tempo; né si trasformano mai in altri animaletti con l’ali: ed è certo che uno di quest’ultimi, racchiuso in un piccolo alberelletto di vetro ben serrato con carta, visse dal principio d’agosto fino a tutto maggio.
Se poi que’ così fatti bachi delle nocciuole sieno generati dalla virtù prolifica dell’albero o pure vi sieno entrati per di fuori, non è così facile il determinarlo, imperocché, dal vedersi che quasi tutte l’altre maniere di frutti generano da per sé i vermi, parrebbe che anco il nocciuolo dovesse generargli; dall’altra parte potrebb’essere argomento non dispregevole che v’entrino per di fuora, l’osservarsi che tutte le nocciuole bacate, da cui non sia per ancora uscito il verme, hanno nel guscio un piccol callo, o porro o eminenza, che è forse la cicatrice del foro che è fatto dal verme allora quando, essendo esso verme piccolissimo e facendosi la strada pel guscio tenero della nocciuola, penetrò nella cavità di essa; ed il foro poi, col crescere e coll’indurarsi del guscio, andò restrignendosi e saldandosi, onde il verme, quando è ingrossato e fatto, se vuole uscirne bisogna che si faccia un nuovo foro più largo, il qual foro si trova in tutte le nocciuole dalle quali o è fuggito il verme o è in procinto di fuggirne.
Io sto dunque in dubbio di quello che io debba credere, e non mi saprei risolvere, ancorché l’autorità d’un dottissimo filosofo mi faccia parer più credibile che i bachi delle nocciuole sien bachi venuti di fuora, e non generati dentro di esse; e questi si è il celebratissimo Ioachimo Jungio di Lubecca nelle sue Fisiche Dossoscopie, raccolte e stampate con note molto dotte ed erudite da Martino Foghelio amburghese, letterato di nobilissima fama, mio grandissimo amico.
I bachi delle susine son similissimi a quegli delle nocciuole, ma camminano con moto più veloce e più lesto, ed alcuni son bianchi ed altri rossigni: si trattengono dentro alle susine, dove son nati, nutrendosi della lor polpa e sgravandosi degli escrementi del ventre, fintanto che sieno perfettamente cresciuti, ed allora l’abbandonano, ed ogni baco si fabbrica intorno un bozzoletto bianco di seta, dal quale rinasce poi in forma d’una farfallina grigia con la punta delle sue quattro ali macchiata di nero.
Della stessa razza de’ vermi delle susine sono i vermi delle pesche e delle pere, e fanno i bozzoli, e da’ bozzoli rinascono farfalle.
Il giorno venticinque di giugno rinchiusi in un vaso di vetro, benissimo serrato con carta a più doppi, dieci o dodici bachi delle pere moscadelle, e tutti in quello stesso giorno, avendo roso e forato il foglio, se ne fuggirono via; onde il giorno seguente ne misi due altri in un vaso serrato con sughero, e subito saliti nella parte superiore del vaso, vi cominciarono a tessere due bozzoli, da ciascuno de’ quali il giorno quattordici di luglio uscì una farfallina.
Il giorno sedici dello stesso mese riposi tre altri bachi cavati da tre pere bugiarde: stettero due giorni senza mettersi a lavorare i bozzoli, ma il dì diciotto cominciarono l’opera, ed in capo a due giorni uno de’ suddetti bachi se n’uscì del bozzolo e ne lavorò un altro di nuovo, e tutti tre rinacquero farfalle, non già nello stesso giorno; imperocché uno nacque il dì sei di agosto, un altro il dì nove ed il terzo il dì quindici; perloché, facendo nuove esperienze, rinvenni che i bachi delle pere per lo più stanno rinchiusi nel bozzolo intorno a diciotto giorni; alle volte però trapassano di gran lunga questo termine; e se i bachi son cavati dalle pere prima del lor necessario e perfetto crescimento, non si conducono altrimenti a fare il bozzolo, essendoché in capo a pochi giorni si muoiono.
Ma giacché ho fatta menzione di questi farfallini nati da’ bachi delle pere e delle susine, parmi che voi mi domandiate se tutte l’altre spezie di farfalle sieno generate dagli alberi, o pure se nascano dalle loro madri, per concepimento d’uova o di vermi.
Son discordi tra di loro gli autori in questa materia; onde brevemente vi dirò il mio sentimento, senza recitarvi le diverse opinioni di quegli.
S’uniscono i maschi delle farfalle colle femmine, e queste, restando così gallate le loro uova, le ne fanno poscia in gran numero; dalle quali nascon que’ vermi che noi gli chiamiamo bruchi, e da’ Latini detti furono erucae: questi bruchi fino ad un certo determinato spazio di tempo si nutriscono di foglie d’alberi e d’erbe proporzionate, ed in quel mentre s’addormentano più volte e gettano più volte la spoglia; ma quando son finiti di crescere, alcuni tessono intorno a sé un bozzolo di seta, altri non fanno bozzolo, ma si raggrinzano e s’induriscono e si trasformano in crisalidi o aurelie, e nel raggrinzarsi e nell’indurirsi cavan fuora due o tre fili di seta, co’ quali tenacemente s’attaccano a qualche tronco d’albero o a qualche sasso: cert’altri però d’un’altra razza, ancorché si raggrinzino e s’induriscano e si trasformino in crisalidi, non filano que’ due o tre fili di seta, e non s’attaccano a verun luogo, e possono esser trabalzati dal vento in qua ed in là.
Finalmente da’ bozzoli e dalle crisalidi ignude nascono o, per dir meglio, scappan fuora le farfalle come da un sepolcro, ed ogni razza ha il suo preciso e determinato tempo di nascere: imperocché alcune razze scappan fuora in capo a pochi giorni, altre indugiano delle settimane ed altre de’ mesi: anzi i bruchi di questa terza razza, trasformandosi in crisalidi ignude, o fabbricandosi intorno il bozzolo nel fine della primavera, non isfarfallano fino all’altra primavera dell’anno futuro: dalle crisalidi ignude però non escon sempre le farfalle, ma da alcune maniere di esse escon talvolta delle mosche.
Né vi prenda maraviglia di questi strani nascimenti e trasformazioni, mentre noi medesimi, per così dire, non siamo altro che bruchi e vermi; onde pur di noi cantando il nostro divino Poeta gentilmente ebbe a dire:
Non v’accorgete voi che noi siam vermi
Nati a formar l’angelica farfalla?

E perché mi giova molto a mostrarvi ch’è il vero quanto di sopra v’ho detto, piacemi di portarvi qui tutte quelle poche esperienze che per fortuna mi son rimase, delle molte che intorno a’ bruchi ed alle farfalle ho fatte.
Il giorno cinque di giugno, andando alla villa del Poggio Imperiale, vidi che ne’ lecci dello stradone passeggiavano moltissimi bruchi, alcuni de’ quali si vedevan talvolta calar dagli alberi fino in terra giù per certi fili di seta, e dalla terra velocemente rimontar negli alberi su per gli stessi fili.
Ne feci pigliare una gran quantità, e posi mente che erano tutti vestiti d’un pelo lungo due buone dita a traverso, parte di color nero e parte di color di ruggine, e sulla groppa erano tutti punteggiati di quattordici punti in foggia di margheritine rosse.
Gli misi in certe cassette, dove per alcuni giorni si nutrirono di foglie di leccio, e poscia spogliandosi di quella veste pelosa, parve che ognun di loro volesse cominciare un bozzolo, tessendosi all’intorno alcuni fili di seta; ma, o che mancasse loro la materia, o che sien soliti così fare, come credo, non compirono il bozzolo, ma tra quell’ingraticolato di fila si cangiarono in crisalidi, prima rossigne e poi nericce aventi la figura d’un cono, su la di cui base rimasero alcuni pochi peluzzi.
Il dì venzei di giugno ne nacquero certe farfalle della stessa figura di quelle che nascono da’ bozzoli della seta; ma se quelle de’ bozzoli della seta son bianche, queste erano di color capellino sbiadato, tutto rabescato di nero, con due larghi spennacchietti neri in testa, e nell’ultima estremità del ventre con una nappetta di seta nera: ma il giorno ventotto nacquero da alcun’altre delle suddette crisalidi cert’altre farfallette minori tutte bianche, due delle quali si attaccarono insieme, onde la femmina fece poi molte e molt’uova piccolissime e gialle, dalle quali nel mese di maggio nacquero altrettanti piccolissimi bruchi, che in due giorni si morirono.
Il primo giorno di luglio mi fu portato un bruco verde assai grosso, trovato in un viale del giardino di Boboli: se gli vedevano sedici gambe, com’hanno per lo più la maggior parte de’ bruchi, cioè otto sotto la gola, sei a mezzo ‘l ventre e due nell’estremità della coda: aveva quattordici incisure o anelli, ed ogni anello aveva due macchiette di color rancio o doré, e sei perle dello stesso colore, coperte di peli castagni, corti e radi.
A dì cinque di luglio, senz’aver in questi quattro giorni mangiato, fece il suo bozzolo tutto di seta bianca, con molta sbavatura di seta all’intorno del bozzolo, il quale, dalla parte più acuta, era aperto e da quest’apertura scappò fuora una farfalla al fine del mese di maggio avvenire.
A dì cinque di luglio trovai sopr’una pianta di solano un grossissimo bruco: tosto che l’ebbi rinchiuso cominciò a rodere delle foglie di quell’erba, ed il giorno settimo dello stesso mese gettò la spoglia e rimase crisalide rossa, che d’ora in ora andava oscurandosi finché quasi diventò nericcia: e da essa il secondo giorno d’agosto nacque un grandissimo farfallone che, stuzzicato ed irritato, strideva come se fosse un pipistrello.
Era di color doré e nero nell’ali, nel dorso e nel ventre, col capo tutto nero, sul quale s’alzavano due pennacchini nericci: gli occhi apparivano capellini e la proboscide nera cartilaginosa e arruotolata avanti alla bocca con molti anelli, conforme soglion tener tutte l’altre farfalle: le sei gambe, nel primo fucile o stinco attaccato al petto, eran tutte pelose di color doré sudicio, e negli altri fucili di paonazzo; sul fine d’ogni gamba si vedeva un’unghia, anzi per tutti i fucili e per tutti gli articoli di esse gambe spuntavano le medesime unghie, o uncini o roncigli che sieno.
Campò solamente sei giorni.
A dì dodici di luglio mi fu portato un ramo di quercia, in due foglie del quale erano distesi con bell’ordine più di trenta bruchi, coperti di pelo bianco e corto e per tutto ‘l corpo picchiettati di vari colori, giallo, doré, bigio, bianco e nero: il capo aveva un certo color castagno, lustro e tramezzato da un Ypsilon di color giallo.
Tutti questi bruchi stavano immobili e riposatamente dormivano; onde avendogli messi in una grande scatola, in capo a due giorni gettarono la spoglia, si svegliarono e subito cominciarono a mangiar foglie di quercia e di farnia; ma più volentieri le prime che le seconde; e continuarono a cibarsene fino al dì ventiduesimo dello stesso mese; ed allora, essendosi rincantucciati per ordine in un angolo della scatola, s’addormentarono di nuovo e dormirono due giorni interi; quindi, essendosi di nuovo spogliati e desti, ed essendo divenuti più grandi e col pelo molto più lungo, mangiavano con gran furia e voracità, e durarono fino al primo d’agosto, nel qual giorno, avendo improvvisamente abbandonato quasi affatto il mangiare, si fecero come sbalorditi, mogi, deboli, più piccoli di corpo, e si erano tutti pelati e appena si moveano, ancorché fossero punti o tocchi; parevano in somma intristiti o infermi; o vero somigliavano a que’ vermi da seta che, ammalandosi e quasi marcendo prima di condursi a fare il bozzolo, son chiamati volgarmente vacche; ed in questa forma si trattennero fino alla notte del quarto giorno d’agosto, nella quale sei di questi bruchi, avendo per la terza volta gettata la spoglia, si cangiarono in aurelie o crisalidi di color nericcio, che parevano tanti bambini fasciati, senz’avere né pure un sol filo di seta col quale avessero potuto appiccarsi al coperchio o a’ lati della scatola; il che osservando io la mattina seguente, ebbi occasione di veder la maniera con la quale questi bruchi si trasformano in crisalidi; imperocché s’apre e si fende l’esterna spoglia sopra la groppa vicin’ al capo, e la spoglia parimente del capo medesimo si divide e si squarcia in due parti, e da quello squarcio comincia la crisalide ad uscir fuora, sempre dimenandosi ed agitandosi; e tanto s’agita e si scontorce, finché abbia tramandata tutta la spoglia fin all’estremità della coda, ed in questo tempo si vede che il capo notabilmente ingrossa e la coda s’assottiglia a tal segno che, quando il bruco s’è finito di convertire in crisalide, la crisalide ha pigliata la figura d’un cono e rimane d’un color verdissimo, tenera e cedente al tatto; ma il color verde, cominciando dall’estremità della coda, appoco appoco si cangia evidentemente per tutto ‘l corpo in doré, quindi in rosso e, col mutar di colore, sempre più indurisce la pelle; la gola è l’ultima parte nella quale il verde si cangia in doré; ma quando il doré della gola è diventato rosso, di già tutto ‘l restante della crisalide s’è fatto nero o per lo meno vicin’al nero, e s’è tutto indurito; e questa funzione si comincia e si finisce in poco più tempo di mezz’ora: perloché ho avuto campo facilissimo di certificarmene più e più volte.
Quando tutti i bruchi si furon convertiti in crisalidi, il che avvenne la sera del sesto giorno d’agosto, mantennero questa figura fino alla vegnente primavera, ed allora verso ‘l fine d’aprile nacquero le farfalle, e tutte della stessa razza, ma non tutte nello stesso giorno, siccome i lor bruchi in diversi giorni s’eran tramutati in crisalidi.
Molte di queste farfalle, appena che furon nate, fecero le lor’ uova, al numero per lo più dalle 35 alle 40, di color mavì smontato, con una sottil punta nera nel mezzo; ma perché elle non erano state fecondate da’ maschi, perciò non vidi mai nascerne cosa veruna.
Il dì venzei di luglio fu trovato a pascere sopra un susino un bruco di color rancio, così grosso e sterminato che pesava tre quarti d’oncia: era composto di tredici anelli, nel mezzo di ciascuno de’ quali campeggiavano certe margheritine azzurre e pelose: nel primo anello, ch’è il capo, ell’eran sei, nel secondo erano otto, ed otto altresì nel terzo e nel quarto; ma nel quinto, mutando ordine, non eran più che sette; e dal quinto fino all’undecimo anello eran sei; nel duodecimo se ne vedeva quattro solamente, ma nell’ultimo nessuna.
Oltre queste margheritine pelose, ogni anello aveva due macchie bianche circondate d’una linea nera.
Lo stesso giorno de’ venzei fece il bozzolo, il quale fu grossissimo di color di muschio, e pareva tessuto più tosto di setole ispidissime che della solita materia degli altri, ed era attaccato alla scatola così pertinacemente che senza violenza grandissima non poté strapparsi; ei non aveva però esternamente quella sbavatura di seta, come ‘l bozzolo bianco tessuto dal bruco verde poc’avanti descritto.
Egli è ben vero che dalla parte più acuta era aperto come quello, e ne nacque un grandissimo farfallone intorno agli ultimi giorni d’aprile.
Il dì sette d’agosto serrai in un alberello di vetro un bruco trovato in un mazzetto di ruta; era verde e spruzzolato per tutto di macchiette gialle, rosse e turchine.
Lo stesso giorno divenne immobile, essendosi nella parte di sotto attaccato al foglio che copriva l’alberello, e cavò fuora da’ fianchi due fili di seta e dalla coda certa poca di lanugine; stava disteso nel foglio, toccandolo da tutte le parti, non avendo perduto colore né mutata figura.
Il giorno seguente svanirono il color rosso ed il turchino, essendo solamente rimasi il verde e ‘l giallo, ma un poco scoloriti; ed il bruco essendosi indurito, senz’aver gettata la spoglia, aveva alzato il capo dal foglio ed il capo era diventato come cornuto, e sulle spalle eran comparse due palette come si scorgono negli uomini magri; e la coda si era ristretta ed appuntata, reggendosi sovra di essa tutto ‘l restante del corpo.
In capo a quattordici giorni ne nacque una farfalla di color giallo tutta listata e galantemente rabescata di nero, tanto nel tronco del corpo quanto nell’ali; le due minori di esse ali aveano nell’estremità due macchie rotonde e rosse, ed alcune altre turchine circondate da un color paonazzo vellutato, e dall’ultimo lembo s’allungavano due appendicette, quasi fossero due code dell’ale.
Dalla testa sorgeano non già due pennacchini, ma bensì due lunghissime e mobili antenne di color nericcio, e più grosse nella punta che nella base.
Morì dopo quattro giorni di vita.
Nel mese di settembre, trovandomi al Poggio Imperiale, feci raccorre una gran quantità di bruchi di color verdegiallo con qualche macchia nera e bianca; questi stavano rodendo certi cesti di cavolo; gli misi nelle scatole dando loro a mangiare dello stesso cavolo, e dopo quattro giorni salirono quasi tutti ne’ coperchi delle scatole e quivi s’attaccarono senza muoversi; ed alcuni in questo tempo fecero certe minute uova, rinvolte in seta gialla: dopo essere stati tre giorni senza muoversi, si spogliarono non di tutta la pelle, ma di quella parte solamente che lor vestiva il capo, quindi adagio adagio cominciarono a mutarsi di figura, e s’indurì loro la scorza; e la figura fu perappunto come quella della crisalide della ruta, stando tenacemente appiccati alle scatole, perché dall’ultima estremità della coda avean cavato fuora un filo di seta che s’attaccava alla scatola, e con due altri fili alla medesima scatola aveano raccomandate le spalle, ed un altro filo usciva loro di sotto la gola; ma questo quarto filo non tutti l’avevano: in tal modo, mutati di figura, si conservarono tutto ‘l verno, ma verso ‘l mese di marzo molti si seccarono e perderono quel moto e dimenamento che, quando eran toccati, facevano: molti però non lo perderono, e rimasero vivi e semoventi; e questi, ch’eran rimasi vivi, lasciando al principio di maggio attaccato il guscio al coperchio delle scatole, ne scapparon fuora in forma di farfalle di color verde giallo sbiadato, con due macchie nere e tonde dell’ali superiori e con due cornetti gialli in testa, come quegli della farfalla nata dal bruco trovato nella ruta.
Ma aprendo io per curiosità alcune di quelle crisalidi che nel mese di marzo s’inaridirono e cessarono di muoversi, osservai che tutto il lor guscio era vòto, eccetto che nella parte corrispondente al petto, dove trovai un uovo di color fra ‘l paonazzo e ‘l rosso, pieno d’una materia simile al latte o alla chiara d’uovo; agli undici di maggio da tutte quest’uova nacquero altrettante mosche della razza di quelle che comunemente ronzano per le nostre case, e nacquero moge e sbalordite e malfatte, come quelle che nel principio di questa Lettera vi scrissi aver avut’origine da’ bachi nati nelle carni; in questo stesso tempo da quelle piccolissime uova fatte da’ bruchi nel mese di settembre usciron fuora altrettanti piccolissimi moscherini nericci, con due nere e lunghissime antenne in testa.
Molt’altre esperienze ed osservazioni io aveva fatte, ma per la mia poca diligenza m’è succeduto di smarrir alcuni fogli dove l’avea notate; onde, non volendo fidarmi della memoria, farò passaggio a divisarvi che può essere che vi sia qualch’albero che generi de’ bruchi, e che que’ bruchi si trasformino poi in crisalidi, e che dalle crisalidi rinascano le farfalle; ma io non l’affermo e non lo nego; ed acciocché ciascuno possa credere quel che più gli aggrada, vi riferirò che questo stesso anno, al principio di maggio, osservai che sulle foglie della vetrice, dalla parte più ruvida e rivolta verso la terra, nascono alcune coccole o pallottole verdi e grosse più d’un nocciolo di ciriegia, le quali, verso la fin di maggio, diventan rosse brizzolate di bianco e stanno attaccate alla foglia con una piccolissima appiccatura: queste pallottole nella parte interna son giallicce ed hanno una gran cavità, in cui si trova sempre un sol bruco sottilissimo e bianco, col capo di color castagno e quasi dorato, il quale attende a nutricarsi in quella cavità ed a scaricarsi degli escrementi del ventre.
Dal principio di giugno fin al principio d’ottobre continuai ad investigare se veramente que’ bruchi uscivano di quelle pallottole e se si trasformavano in farfalle, e non ebbi mai fortuna di trovarn’una sola che fosse bucata; e avendone serrate molte in certi vasi, né meno da queste potei accertarmene; imperocché sempre dopo dieci o dodici giorni io trovai i bruchi morti nelle cavità delle pallottole.
È v’è un’altra razza di vetrice che non germoglia nelle foglie queste coccole rosse, ma in cambio loro fa su pe’ rami certi bitorzoli o calli, entro i quali si generano bruchi bianchi simili a’ soprammentovati, e di questi ancora non m’è venuto fatto di rinvenire ‘l fine e la trasformazione.
Il dì 29 di maggio mi furon portati de’ rami di salcio, nelle foglie de’ quali eran nate certe tuberosità o gonfietti di color verde, che cominciava a rosseggiare: eran questi lunghi e lisci come fagiuoli; non erano già situati come le pallottoline rosse della vetrice, le quali nascono nella banda della foglia che riguarda la terra, e facilmente da essa foglia si spiccano, ma queste del salcio son situate in modo che hanno la loro elevazione dall’una e dall’altra banda della foglia, la quale fa loro intorno un lembo, e tutte son situate accanto al nervo più grosso del mezzo, e se ne trova una, due e talvolta tre per foglia; volli aprirne alcune, e m’avvidi ch’aveano una cavità nella quale dimorava un bruco bianco, come quello che si trova nelle due maniere delle vetrici; ed osservai di vantaggio che molte di quelle tuberosità eran forate, e dentro alle loro cavità non era rimaso altro che le cacature del bruco, il quale di già se n’era fuggito; onde presi speranza di vederne la trasformazione, ma in vano; conciossiecosaché quantunque io custodissi diligentemente molte foglie in alcune scatole, i bruchi non vollero mai uscirne e sempre dopo qualche giorno ve gli trovai morti; e se voi foste curioso di veder la figura di queste tre piante, de’ bruchi delle quali e delle loro nascenze non è stata fatta mai menzione, ch’io sappia, da’ semplicisti, io ve le mando qui distintamente delineate, avvertendovi che la figura più piccola del bruco è la sua naturale, e la maggiore è fatta secondo che fu mostrata da un piccolo ed ordinario microscopio.
Non ho cognizione d’altri bruchi che sieno generati dagli alberi: il virtuosissimo padre Atanasio Chircher replicatamente scrive per cosa vera, nel duodecimo libro del Mondo sotterraneo, che l’albero del moro genera i bachi da seta, impregnato dalla semenza di qualsivoglia animaletto penetrata nella sustanza e tra’ sughi interni di quell’albero; a questo fine ho usata e fatt’usare particolarissima diligenza non solo ne’ mori che sono intorno a Firenze, ma ancora in quegli di molt’altre città di Toscana, e non ho mai potuto vedere un baco da seta natovi sopra, né contrassegno veruno dal quale si potesse sperare che vi fosse per nascere.
Aristotile vuole che dal cavolo si generino giornalmente i bruchi, ma né anche questa così fatta generazione ho veduta; ho ben osservato soventemente, nelle foglie e ne’ gambi del cavolo e nell’erbe circonvicine, moltissime uova partoritevi dalle farfalle, dalle quali uova nascon poscia i bruchi, e da’ bruchi, convertiti in crisalidi, hanno il nascimento le farfalle.
Chi pon mente sopra l’erbe, e sopra gli alberi e negli screpoli de’ loro tronchi vi troverà spesso di simili uova, ed io mi ricordo che ‘ntorno al principio di maggio trovai nelle foglie del sambuco molti e molti uovicini piccolissimi, ma gialli.
Ebbi piacere d’osservar quel che ne fosse per nascere, ed in pochi giorni vidi uscirne altrettanti minutissimi verminetti, a’ quali subito somministrai delle foglie del sambuco, che da essi furono golosamente divorate.
Andarono crescendo e divennero di color giallo con molte macchie rossicce; la coda loro terminava com’una mezza luna, il capo era piccolissimo ed aguzzo, e allora quando camminavano cavavan fuora di sotto ‘l ventre certe pallottoline, come se fossero gambe.
La maggior parte di questi vermi il dì venzei di maggio diventò immobile, abbandonando affatto il mangiare, senza mutarsi di colore o di figura; ma il dì primo di giugno sei de’ suddetti bachi si raggrinzarono in sé medesimi e si rappallottarono e divennero come tant’uova appuntate e gobbe di color di ruggine.
D’uno di quest’uovi il dì dodici di giugno scappò fuori una mosca poco più grande delle mosche ordinarie, con due ali cartilaginose e bianche e più lunghe del corpo; con sei gambe gialle, con due cortissimi cornetti che le spuntavano dal capo, il quale per di sopra era di color rugginoso, col dorso dello stesso colore, ma più chiaro, a cui succedeva una gran macchia di color quasi giallo.
Tutto ‘l restante del ventre era tinto d’un giallo vivo, tramezzato da strisce nere trasversali. Subito che questa mosca fu nata cominciò a gettar certo sterco bianco; e campò due soli giorni.
L’altre cinqu’uova nacquero sette giorni dopo ‘l primo e n’usciron fuora altrettante mosche, molto differenti da quella che dal prim’uovo era uscita, ancorché fossero dello stesso colore; imperocché queste cinque eran lunghe e sottili, con l’ali molto più corte del lor corpo, le quali non erano due, ma quattro; aveano sei gambe, due delle quali eran moltissimo più lunghe dell’altre quattro.
Dalla testa spuntavano due lunghissime antennette aguzze, composte di molti e molti nodi.
Queste mosche, siccome la prima, subito nate fecero quello sterco bianco e camparono quattro giorni: osservai però che, quando questi vermi trovati sul sambuco si trasformano e si raggrinzano in uovo, l’uovo diventa più piccolo del verme, e quando dall’uovo esce la mosca, ell’è molto più grande dell’uovo, a segno che pare impossibile ch’ell’abbia potuto capirvi; onde si può credere che vi stesse molto rannicchiata e ristretta: e perché poca abilità mi presta l’ingegno mio nel descrivere esattamente questi animaletti, ve gli mando qui delineati, e nella lor propria e natural grandezza, ed aggranditi ancora da un ordinario microscopio di quegli d’un sol vetro.
Ma se non ho potuto scorgere, come poco dianzi scrissi, che dall’albero del moro sieno generati i bachi da seta, tanto meno spero di vedergli nascere dalle carni putrefatte d’un giovenco pasciuto per venti giorni con fogli di moro.
Girolamo Vida, poeta nobilissimo, cantò gentilmente questa favola ad imitazione di Virgilio:
Quod si spes generis defecerit omnis ubique
Seminaque aruerint Iovis implacabilis ira,
Sicut apes teneri reparantur caede iuvenci.
Hic superaccedit tantum labor: ante iuvencus
Bisdenosque dies bisdenasque ordine noctes
Graminis arcendus pastu, prohibendus ab undis.
Interea in stabulis tantum illi pinguia mori
Sufficiunt folia et lactenti cortice ramus.
Viscera ubi caesi fuerint liquefacta, videbis
Bombycem fractis condensum erumpere costis
Atque globos toto tinearum effervere tergo,
Et veluti putres passim concrescere fungos.

Il che fu sentito per vero da due grandi e giustamente celebrati filosofi del nostro secolo, cioè da Pietro Gassendo e dal padre Onorato Fabri, e, prima di loro, da Ulisse Aldrovando.
Io non so che dirmi; l’esperienza non l’ho fatta, né mi sento voglia di farla: so bene che dalle carni d’un capretto, pasciuto venti giorni di sole foglie di moro, non nacquero altro che vermi, i quali si trasformarono in mosconi; e dalle carni dello stesso capretto, tenute in vaso serrato, non nacque mai cosa veruna.
Io so parimente che sulle more riscaldate e putrefatte nascono vermi, che diventano a suo tempo moscioni e mosche ordinarie; e che sulle foglie del moro infracidate si veggon nascere altresì mosche ordinarie e quattro o cinque altre sorte di moscherini minuti, i quali nascono ancora su tutte quante l’altre erbe, purché vi sieno state portate le semenze e l’uova delle mosche e de’ moscherini; e se queste semenze non vi saranno realmente portate, niente, com’altre volte ho detto, si vedrà mai nascere né dall’erbe, né dalle carni putrefatte, né da qualsisia altra cosa che in quel tempo attualmente non viva.
Per lo contrario, se viverà e se veramente sarà animata, potrà produrre dentro di sé qualche bacherozzolo, in quella maniera che nelle ciriege, nelle pere e nelle susine, nelle gallozzole e ne’ ricci delle querce, delle farnie, de’ cerri, de’ lecci e de’ faggi hanno il lor nascimento que’ bachi i quali si trasformano in farfalle, in mosche ed in altri simili animaluzzi volanti.
In questa stessa maniera potrebbe per avventura esser vero, e mi sento disposto a crederlo, che negl’intestini ed in altre parti degli uomini nascano i lombrichi ed i pedicelli; nel fiele e ne’ vasi del fegato de’ montoni o castrati soventemente abbian vita que’ vermi che bisciuole da’ macellai si chiamano; e nelle teste de’ cervi e de’ montoni quegli altri fastidiosissimi bacherozzoli che quasi sempre vi si trovano.
E perché ad alcuni potrebbe forse giugner nuovo che i fegati de’ montoni sien talvolta verminosi, e che gli stessi montoni, ed i cervi altresì, abbian de’ vermi nella testa, perciò imprendo volentieri a dirvi brevemente quello che io n’abbia osservato, e ve ne trasmetto qui appresso la figura e degli uni e degli altri, non già de’ minori, ma de’ più grandi che si trovino.
Le bisciuole del fegato de’ montoni o castrati hanno la figura quasi di un seme di zucca, o per dir meglio d’una piccola e sottil foglia di mortella con un poco di gambo: son di color bianco lattato e traspariscono in essi molte sottilissime ramificazioni di vasi o canaletti verdognoli.
La lor bocca, o altro forame che si sia, è ritonda e posta nel piano del ventre, poco distante da quella parte che s’assomiglia al gambo della foglia. Spesse volte si trovan le bisciuole nella borsetta del fiele, e non solo abitano e nuotano in esso fiele, ma ancora in tutti quanti i vasi del fegato, eccettuatone l’arterie, nelle quali non ne ho mai vedute.
Io stimo però che elle nascano in quella borsetta, e che col rodere si facciano la strada e passino da’ canali della bile a quegli del sangue; quindi se talora multiplicano di soverchio, rodono eziandio la sustanza interna del fegato e vi fanno delle cavernette, in cui sgorgando il sangue mescolato colla bile vi s’impaluda e fassi d’un color di ruggine misto col verde, molto brutto e schifo alla vista e molto amaro a giudizio del sapore: perloché a chiunque ponesse mente a questa faccenda si renderebbe molto malagevole il cibarsi, come giornalmente si costuma, di quegli abominevoli fegati, i quali però, avanti che da’ macellai sieno esposti alla vendita, son molto ben ripuliti e netti da quell’immondizia.
De’ vermi della testa de’ cervi ne fece aperta menzione il grande e sapientissimo Aristotile nel cap. 15 del 2 libro della Storia degli animali, e son quest’esse le sue parole: Tutti quanti i cervi hanno de’ vermi vivi nel capo, nascendo loro sotto la lingua in una certa cavità vicina a quella vertebra colla quale il capo s’attacca al collo. Son di grandezza uguali a que’ più grandi che da ogni sorte di carne putrefatta si producono, ed arrivano per lo più al numero di venti in circa.
Io ho avuto curiosità molte e molte volte di cercarne, tanto ne’ cervi più vecchi quanto in que’ più giovani che fusoni da’ cacciatori son detti, e quasi in tutti n’ho trovati; dico quasi in tutti, perché in vero più d’una fiata mi sono imbattuto in qualche testa che non ne ha mostrato né pure un solo, conforme mi avvenne il dì venzette di febbraio, che di dieci teste di cervo che feci aprire, nove erano verminose ed una sola osservai libera da quel fastidio; e pochi giorni dopo, di sei capi di fusoni, quattro solamente contenevano i vermi. Aristotile gli assomiglia nella grandezza a quegli che nelle carni imputridite si veggono.
E perché egli è Aristotile bisogna
credergli, ancorché dica la menzogna.
Ma a me parrebbono questi de’ cervi senza niun paragone moltissimo più grandi e nella figura mi rassembrerebbono differentissimi da quegli, conciossiecosaché questi de’ cervi son fatti com’un mezzo cilindro, piatti nella parte inferiore che tocca la terra e rilevati per di sopra e bianchi, ma distinti da molte strisce di mezzi anelletti pelosi, i di cui peli sono di color di ruggine.
Hanno due bianchi piccolissimi cornetti in testa, che gli scortano e gli allungano e gli rimpiattano a lor voglia, come fanno le chiocciole.
Sotto questi corni stanno due uncinetti o rampini neri, duri e con gran solletico e noia pungentissimi; di tali rampini pare che se ne servano a camminare, imperocché si attaccano prima con essi e poscia si avanzano col corpo al cammino e serpeggiano senza gambe.
Quell’estremità, per la quale sogliano scaricarsi degli escrementi del ventre, è scanalata per traverso e la scanalatura è marcata di due macchie nere a foggia di mezze lune.
Non è determinato il lor numero, e quantunque Aristotile lo ristringa al venti in circa, nulladimeno io ho contato in una sola testa fino a trentanove di così fatte bestiuole, e non mai meno di venti.
Similissimi a questi vermi nella figura appariscon quegli che dentro alle teste de’ castroni si trovano: e’ son però minori e men fieri, men pelosi e solamente listati di strisce trasversali nerissime, che molto campeggiano’ su ‘l bianco di tutto il corpo; non son però listati tutti di nero, ma solamente i maggiori, e finiti di crescere; essendo che i minori, e nati forse di poco, sono affatto bianchi.
Quelle due macchie nere in foggia di mezza luna che si veggono nella scanalatura di una dell’estremità di quegli de’ cervi, in questi bachi de’ castroni son nere sì, ma di figura perfettamente circolare.
Abitano in alcune cavità degli ossi della fronte, a i quali si appoggiano le corna: n’ho trovati ne’ canali del naso e dentro a quella cavità che è nelle radici delle corna stesse; onde fu veridico il Caporali quando, nella Vita di Mecenate, volendo accennare la natura d’Amore, piacevolmente scrisse:
Voglion molti che Amor dio degli amori
Siasi mezzo fanciullo e mezzo augello,
E si pasca di cuor come gli astori.
Altri che un verme sia, simile a quello
Che nasce nelle corna de’ castroni,
E gli raggira e cava di cervello.

E dicono i pastori che quando i castroni in certi tempi danno nelle smanie e pare che abbiano l’assillo, ne son cagione questi baccherozzoli che imperversano più aspramente del solito nella lor testa.
Non son così numerosi come que’ de’ cervi, e rare volte arrivano ad esser dodici o quindici al più.
E qui piacciavi di ricordarvi ch’io mi ristringo sempre a quel che ho veduto con gli occhi miei propri, e che fuor di questo non nego mai e non affermo che che sia.
Da quella stessa vita, che sa produrre dentro alle teste de’ cervi e de’ montoni quegli animaletti de’ quali v’ho favellato, può essere che sien fatti nascere, ed io non saprei disdirlo, quegli altri abominevoli e odiosissimi da’ Greci chiamati assilli, che l’esterne parti degli uomini, de’ quadrupedi e de’ volatili infestano: ma se ho da riferire liberamente il mio pensiero, mi sento più inclinato a credere, col dottissimo Giovanni Sperlingio, che abbiano il lor natale dall’uova fatte dalle lor madri, fecondate mediante il coito; e se Aristotile, seguitato da’ moderni, si dette ad intendere che da quell’uova, o lendinini che si chiamino, non nasca mai animal di sorta veruna, ei s’ingannò al certo perché ne multiplicano in infinito; e mi parrebbe indarno l’affaticarmi nel provarlo, trovandosi ben soventemente e i peli de’ quadrupedi e le penne degli uccelli gremite di quei lendini, i quali, quantunque alle volte sien così minuti che ci voglia buon occhio a scorgerli, nulladimeno, coll’aiuto del microscopio, si può benissimo considerare il lor figuramento e distinguer quegli che per ancora son pieni, e quegli da’ quali è uscito l’animale.
E chi troppo garoso temesse di qualche immaginaria illusione de’ microscopi, potrebbe certificarsi di questo vero in quell’uova che si trovano attaccate alle penne dell’aquila reale, del gheppio e del vaccaio, che pur anch’esso è un uccel di rapina, le quali son grosse molto più de’ granelli di panìco; onde l’occhio, da per sé medesimo e senz’aiuto, può soddisfarsi e vedervi dentro i pollìni bell’e fatti, come a me più d’una volta è accaduto d’osservare, e quindi apprendere quanto debole sia il fondamento d’Aristotile e con quanto poco sforzo si lasci gittare a terra.
Si potrebbe affermare, e per avventura senza far torto al vero, che tutte le generazioni di viventi sottoposte sieno a questa noiosa bruttura, e Plinio, che vuole esenzionarne gli asini e le pecore,
Se ‘l vero appunto non scrisse io lo scuso,
Perché si stette all’altrui relazione,

cioè a quella d’Aristotile recitata ne’ libri della Storia degli animali, e confermata molti secoli dopo da Tommaso Moufeto nel suo lodevolissimo Teatro degl’insetti, dove, al cap. 23 del 2 libro, non volendo tacciare d’inavvertenza quel profondissimo filosofo, volle più tosto, lambiccandosi il cervello, scrivere che l’asino non impidocchisce per cagione della natural pigrizia al moto, mediante la quale di rado suda; poscia parendogli forse questa ragione frivola molto e per avventura di niun peso, ricorre all’universale, ed in tutte le cose calzante e non mai manchevole rifugio dell’antipatia; ma ciò non ostante impidocchisce l’asino, e de’ suoi animaletti n’ho fatto rappresentar la figura ne’ fogli susseguenti, insieme con quegli del cammello.
E che le pecore vi sien sottoposte anch’esse lo sa ogni più goffo pastore e ne favellò chiaramente il greco Didimo nel lib. 18 degli Affari della villa, e dopo di lui Jacub Alfiruzabadi, in quel gran vocabolario arabico che da esso con voce egizia fu intitolato Alcamus, cioè a dire Oceano.
Il soprammentovato Moufeto riferisce che infin gli scarafaggi son tormentati da così fatti animaluzzi ed io, quantunque non abbia avuta la congiuntura d’esperimentarlo, me lo persuado per vero con grandissima facilità, imperocché posso con molt’altri far testimonianza di veduta che le formiche stesse non ne son esenti e che ogni spezie di formiche ne ha la sua propria e singular generazione; ma e’ bisogna bene aguzzar gli occhi e armargli bene d’un microscopio squisitissimo per potergli squisitamente ravvisare, tanto son minuti e quasi quasi invisibili; onde penso che ne manchi poco a potergli noverare tra gli atomi.
Quegli delle formiche alate son della stessa figura d’una zecca della gallina, che vedrete delineata nella Tav. 2, e quegli delle formiche senz’ale si rassomigliano in gran parte a quella della tortora, che pure vedrete nella suddetta seconda Tavola.
Gli autori della storia naturale riferiscono, e tutti i pescatori lo raffermano, che i pesci ancora son molestati da varie maniere d’insetti; e son nomi a loro notissimi la pulce, il pidocchio e la cimice di mare.
Aristotile lo scrisse de’ delfini e de’ tonni: altri l’hanno affermato del salmone e del pesce spada.
Plinio ne parlò in generale dicendo: Nulla cosa è che non nasca in mare. Vi sono infin quegli animaluzzi estivi dell’osterie, che fastidiosi velocemente saltellano, e quegli che tra’ capelli s’ascondono. Tirandosi l’esca fuor dell’acqua, vi si trovano spesso aggomitolati intorno; e questi si dice che la notte rompano il sonno a’ pesci in mare; ed alcuni nascono in alcuni pesci, tra’ quali si novera il calcide.
Acciocché possiate più facilmente aderire all’autorevole sentimento di questi approvati scrittori, non voglio tralasciar di narrarvi che nel mese di marzo, intorno allo scoglio della Melloria, facendo cercar delle stelle marine e dei ricci, per rintracciarne le diverse maniere e l’interna fabbrica delle loro viscere, vidi alcuni animaluzzi attaccati fra le spine di molti di que’ ricci, i quali animaluzzi aveano lo stesso colorito de’ gamberi, e di figuramento e di grandezza eran simili ai porcellini o aselli terrestri, ancorché non avessero corna in testa, ma solamente due piccolissimi occhi neri e sessanta sottilissime gambe situate intorno al lembo della loro scorza: e tengo che di questi così fatti intendesse Aristotile nel cap. 31 del 5 libro della sua utilissima Storia degli animali.
Pochi giorni dopo, tra’ congiugnimenti dell’armadura d’una locusta di mare, trovai appiattato un altro insetto, che scorpion marino dicesi dal volgo de’ pescatori.
Se ciò fosse caso fortuito o avvenimento consueto, non ardirei farne parola; inclinerei nulladimeno a soscrivermi alla sentenza d’Aristotile affermante che gl’insetti aquatici non nascono dall’esterne parti de’ pesci, ma son generati nel limo, che a mio credere è il nido in cui si depositano e si covano i semi degl’insetti.
Dalla real generosità del Serenissimo Granduca mio Signore mi fu conceduta, quest’inverno passato, una foca o vecchio marino che se la chiamino.
Campò fuor dell’acqua senza cibo quattro settimane intere, e molto più avrebbe campato se, per servizio del teatro anatomico di Pisa, non si fosse fatta svenare. In tutto quel corso di tempo che appresso di me la ritenni procurai molte volte che fosse posto mente se tra quel folto e morvido pelo, da cui è tutta coperta la foca, s’annidassero animaletti di veruna sorta; ma non se ne trovò mai né meno un solo.
Per lo contrario i merghi, che volgarmente son chiamati marangoni, i tuffoli, che sono i colimbi de’ Greci, e tutti gli altri uccelli che si tuffano e predano sott’acqua e usano le paludi e gli stagni, hanno gran quantità di pollìni che d’ogni stagione dimorano tra le loro piume.
Già che ho fatto nuova menzion dei pollìni, e’ non sarà fuor di proposito divisar con più particolarità quel che intorno a ciò per molti esperimenti abbia compreso. In tutti quanti gli uccelli di qual si sia generazione si trovano i pollìni ed ogni spezie d’uccello ne ha la sua propria o, per dir meglio, le sue proprie e determinate razze totalmente differenti tra di loro.
Di tre diverse fogge ne trovai nell’astore e nella gallina di Guinea, volgarmente detta gallina di Faraone; di quattro nella marigiana; di due nel cigno, nell’oca salvatica reale, nel gheppio e nel piviere.
Egli è però vero che vi son certi uccelli che n’hanno alcuni similissimi, anzi gli stessi, imperocché l’aquila reale ed il vaccaio ne hanno di que’ grandi che si trovano nel gheppio, disegnati nella Tav. 13, ed oltre a questi, nel vaccaio se ne trovano cert’altri simili di figura, ma non di colore, a quegli del corvo, che son rappresentati nella Tav. 16, e nell’aquila reale alcuni altri similissimi agli ovati dell’astore.
Certi pollìni dell’ottarda e della gallina prataiuola rassomigliano in gran parte a’ lunghi dell’astore che son nella Tav. 1.
Nel picchio e nel filunguello n’ho veduti de’ simili a quello dello storno figurato nella Tav. 2, e nel germano reale quasi degli stessi che si trovano nell’oca reale.
Tra le penne della gru s’annidano pollìni della figura che potrete vedere nella Tav. 3, bianchi tutti e rabescati quasi di caratteri o cifre nere.
Gli stessi a capello si trovano in certi uccelli nutriti nel giardino di Boboli portati ultimamente d’Affrica, dove da’ Mori son chiamati in lor linguaggio Bukottaia; quali reputo che sieno un’altra spezie di gru, conciossiecosaché di color di penne e di figura sono somigliantissimi alla gru ordinaria, ancorché sieno un poco minori e più scarsi di corpo, ed abbiano due ciuffetti bianchi e lunghi in testa, mediante i quali di buona voglia affermerei che fossero la gru balearica.
Ho fatt’osservare tutte le maniere di uccelli stranieri che nel suddetto giardino si nutricano; ma negli struzzoli non si son mai trovati pollìni in veruna stagione.
Una cicogna parimente non ne avea ed in essa può essere stato caso fortuito, non essendovi se non quella sola; ma gli struzzoli furono dodici, tra’ quali certuni eran venuti di pochi giorni di Barberia.
Del resto la grandezza de’ pollìni non corrisponde alla grandezza o piccolezza degli uccelli, essendo che negli uccelli di gran corpo si trovano razze di pollìni grandi e razze di piccoli, e negli uccelli minori se ne ravvisano de’ grandi: quindi mi sovviene di averne veduti certi nelle merle, che di grandezza non cedevano a quegli del cigno.
Se i pollìni si guardano per di sopra, non si vede loro la bocca, ma se si osservano vòlti allo ‘nsù, ella si scorge benissimo, situata in quel lato del muso che volta verso la terra; ed è fatta a foggia d’un paio di tanagliette non molto dissimili a quelle della bocca de’ tarli.
Prendetevi la pena di vederne la figura nella Tav. 8, dove è intagliato il pollìno del cigno.
Sono in somma le razze de’ pollìni di sembianze così divisate, strane, contraffatte e differenti che, per non formarne un lungo e sazievol catalogo nel descriverle, ho amato meglio farvene vedere alcune disegnate a mia richiesta e miniate dal Sig. Filizio Pizzichi, le quali ho fatto poscia intagliare nel miglior modo e ordine che la brevità del tempo ha potuto concedermi.
Quanto al colore, ritengon molto ed han grandissima simiglianza con quello delle penne de’ loro uccelli: vero si è ch’io porto ferma opinione, dettatami dall’esperienza, che quando i pollìni escon fuora de’ lendini, e’ nascano tutti bianchi, ma che poscia, col crescere, appoco appoco ed insensibilmente si coloriscano; mantenendosi però diafani in modo che, mirati col microscopio, e da quello ingranditi, si scorga molto bene il moto delle viscere e l’ondeggiamento de’ liquori in esse contenuti.
E perché possiate conghietturare le proporzioni delle grandezze di queste bestiuolucce, quando l’ho fatte disegnare, mi son servito sempre d’uno stesso microscopio di tre vetri, lavorato in Roma da Eustachio Divini con lodevole e delicata squisitezza.
Coll’aiuto di questo solo microscopio son rappresentate tre differenti razze di formiche non alate che si trovano in Toscana: il punteruolo del grano; il bacherozzolo che rode i canditi e le droghe; quello che va pellegrinando tra’ capelli e nel dosso degli uomini; quell’altro che si appiatta fra’ peli dell’anguinaia; il pidocchio dell’asino, del cammello e d’un certo montone affricano venuto di Tripoli di Barberia, il quale di figura e di grandezza è simile a’ castroni del Fisan e, come quegli, ha l’orecchie larghe e pendenti, e la coda sottile e lunga fino in terra; ma essendo armato di due gran corna e avendo il pelo più lungo delle capre, più grosso e più ispido, si riconosce essere d’una razza differente da quella del Fisan.
Nello stesso modo è disegnata la zecca del capriuolo e della tigre.
La zecca del leone ha per appunto la stessa figura di quella della tigre, solamente differente nel colore e nella grandezza, essendo molto maggiore quella del leone; la quale è tutta di color lionato chiaro, eccetto in una parte del dorso, in cui si vede un gobbo di color tanè oscuro, e di questo stesso tanè è tutta colorita e tinta la zecca della tigre.
Ho fatto ricercare se le tigri sieno infestate ancora da’ pidocchi, ma non se ne son mai ravvisati; ed il simile dico di tutti quanti i leoni, pardi, orsi, icneumoni, gatti di zibetto e gatti selvaggi affricani, che con antico e real costume son mantenuti ne’ serragli del Sereniss. Granduca: non nego contuttociò che non ne possano avere, ma solamente affermo che questi animali che di presente vi si trovano non ne hanno, o per trovargli non si è usata quella puntual diligenza che conveniva; imperocché lo scherzar intorno alle tigri ed a’ leoni è un certo mestiere che non si trova così facilmente chi voglia imprenderlo.
Quando presi la penna, ebbi in mente di scrivervi una Lettera convenevole, ma trapassandone di gran lunga, non so come, i confini, m’è venuto scritto presso più che un libro, e con istile talvolta tutto secco e digiuno d’ogni leggiadria; perloché ne potrò esser con molta ragione da molti biasimato, ed io non saprei contraddirlo: non vorrei già che qualcuno si biasimasse di me per aver io detto forse troppo francamente il mio parere intorno ad alcuni sentimenti de’ più rinomati maestri del nostro e de’ passati secoli; imperocché ad ognuno è libero tener quell’opinione che gli è più in piacere; e non credo che ciò disconvenga o che proggiudichi a quella stima e a quella riverenza ch’io porto loro: anzi chi non ha baldanza di tirannia non dovrebbe intorno alle naturali speculazioni sdegnarsi di questa libertà di procedere nella repubblica filosofica, che ha la mira al solo rintracciamento della verità, la quale, come diceva Seneca, omnibus patet, nondum est occupata: qui ante nos fuerunt, non domini, sed duces sunt; multum ex illa etiam futuris relictum est.
Io m’ingegno di raccoglier qualche particella di questi gran rimasugli, e solamente meco medesimo mi rammarico di non poter corrispondere colle mie deboli forze a quelle grandissime comodità che mi presta la sovrana beneficenza del Seren. Granduca unico mio Signore: ma facilmente avverrà, o almeno lo spero, che, dirozzatomi un giorno e rinvigoritomi, io vaglia a presentare a sì gran protettore cosa non affatto indegna di sua Reale grandezza. Intanto accertatevi che questa Lettera, o libro ch’e’ si sia, se n’è venuto a Voi non per vaghezza di laude, ma per desiderio d’essere emendato e corretto, siccome caldamente ve ne prego, consapevole a bastanza
Che ‘l nome mio ancor molto non suona.