I NUOVI ORDINI RELIGIOSI ISTITUITI DALLA CONTRORIFORMA
BREVE INDICE COMMENTATO IN ORDINE ALFABETICO
CHIERICI REGOLARI
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ELEMENTI DOTTRINARI DI BASE
Alla fine della sua vita, IGNAZIO DI LOYOLA (1491-1556), fondatore dell'ordine dei GESUITI, dettò il Racconto del Pellegrino, ovvero la sua autobiografia, nella quale così si esprime a proposito della sua giovinezza: "Fino a ventisei anni, fu un uomo dedito alle vanità del mondo,
con grande e vano desiderio di conquistarvisi onore".
Ignazio di Loyola era nato nei Paesi Baschi, da
una famiglia di nobili proprietari terrieri.
BARNABITI
CARMELITANI (CARMELITANE SCALZE -CARMELITANI SCALZI)
GESUITI (IGNAZIO DI LOYOLA E LA COMPAGNIA DI GESU')
[G. F. MARINI DI TAGGIA: MISSIONARIO GESUITA E SCRITTORE DEL '600]
SCOLOPI - CHIERICI REGOLARI DELLE SCUOLE PIE
SOMASCHI
TEATINI
-CONSUSTANZIAZIONE
-CUIUS REGIO EIUS RELIGIO (principio del)
-INDULGENZA (ISTITUTO DELLE INDULGENZE)
-INDULGENZA (QUESTIONE DELLE INDULGENZE)
-INDULGENZA (QUESTIONE E DIBATTITO TRA CATTOLICI E RIFORMATI SULLA GIUSTIFICAZIONE)
-TRANSUSTANZIAZIONE
Il distacco di questo passo non deve trarci in inganno: quella giovinezza di dissipazione fu per Ignazio motivo di profonde crisi di coscienza ed anche lui, come già Lutero, giunse a disperare del perdono divino.
Nel 1517, intraprese la carriera delle armi, entrando nella compagnia militare del vicerè di Navarra; nel 1521, partecipando alla difesa di Pamplona, un episodio del conflitto franco-asburgico
La convalescenza fu per lui occasione di una profonda meditazione, stimolata da letture spirituali che lo infiammarono agli ideali ascetici, conducendolo
a ripudiare la sua esistenza precedente.
Tra il 1522 e il 1523 è a Manresa, nei pressi
del monastero benedettino di Monserrat, in Catalogna, dove soggiornerà per circa un anno, dandosi interamente ai rigori della vita ascetica.
Lo storico Delumeau così ricorda questo periodo:"Egli si alza a mezzanotte e dedica sette
ore al giorno alla preghiera; vive solo di elemosine e non consuma neppure tutto ciò
che riceve. Quel regime lo indebolisce ed egli cade
più volte gravemente ammalato [...]. Nel medesimo tempo è in preda ad orribili angosce a causa del ricordo degli errori passati, nè gli restituiscono la pace molte confessioni generali. [...] Tali orrori cessarono quando Ignazio ebbe acquistato la certezza che gli venivano dal demonio: da quel momento decise di cacciare la
preoccupazione per gli errori passati, persuaso di averne ottenuto il perdono, e cosi rinunciare alle macerazioni che erano state il mezzo
per ottenerlo. Comprese invece che era suo dovere aiutare le anime, e decise di recarsi in Palestina per convertire i musulmani.
Le convinzioni cui approdò Ignazio erano dunque ben diverse da quelle di Lutero: dalla tempesta delle sue angosce, egli trasse un certo ottimismo circa la possibilità dell'uomo di ottenere il perdono divino e la salvezza, valorizzando, in questa prospettiva, il ruolo della volontà umana e quindi della predicazione e dell'impegno per salvare le anime.
Egli si rappresentava ora la santità non tanto come umiliazione della carne, quanto come acquisizione di un completo autocontrollo; non come evasione ascetica dal mondo, ma come milizia nel mondo al servizio del Signore: santo, cioè, è chi sa conformarsi completamente ai piani divini, facendosi strumento della gloria di Dio.
E' questa l'impostazione che caratterizza gli
"Esercizi Spirituali", un'opera di cui Ignazio avviò la composizione ai tempi di Manresa e di
cui continuò la revisione anche dopo l'approvazione pontificia (1548).
Come dice il titolo
stesso, si tratta di un vero e proprio Manuale
di spiritualità: l'approdo della crisi del santo
non si condensa, dunque, in un testo di riflessioni teologiche, ma in un insieme di regole ed
esercizi spirituali volte a rafforzare la volontà
di consacrarsi al Signore.
Gli esercizi fanno ampiamente ricorso alla fantasia, all'immaginazione, alla sensibilità, sollecitando ad arricchire la meditazione sulle Scritture anche attraverso rappresentazioni mentali dei luoghi delle scene bibliche, dei personaggi.
L'eccitazione del sentimento e della sensibilità sono infatti tratti caratteristici di quella
mistica spagnola che avrebbe conquistato tutto il mondo cattolico nell'epoca barocca. Lo
sfarzo dei riti e della struttura architettonica delle chiese è appunto finalizzato a dare un sostegno, anche emotivo, alla fede. Una fede che,
come dicevamo, anima sempre piu frequentemente quella religiosità militante, di cui Ignazio si fece interprete intraprendendo l'opera
missionaria in Palestina (1523).
Varie difficoltà, però, ostacolarono i suoi propositi: da un lato c'era l'opposizione dei francescani al suo intento di fermarsi in Terra Santa, dall'altro Ignazio stesso comprese che, per
affrontare l'opera di predicazione alla quale intendeva votarsi, gli era necessaria un'adeguata
preparazione teologica.
All'età
di trentaquattro anni, così, tornò sui banchi di scuola per studiare il latino, frequentando poi le università di Alcalà,
di Salamanca e infine di Parigi, dove completò i propri studi (1533).
In questo decennio in effetti, non rinunciò all'apostolato, suscitando ripetutamente i sospetti dell'Inquisizione spagnola che riteneva di ravvisare in
quella singolare figura di predicatore laico, un eretico, magari legato alla corrente degli
"alumbrados".
Probabilmente, proprio per questo a Parigi Ignazio decise di condurre un'opera di
predicazione ristretta alla cerchia dei suoi compagni di studi, un'opera da cui nacque un
sodalizio che può essere considerato la radice
della "Compagnia di Gesù".
Il 15 agosto 1534,
infatti S. Ignazio di Loyola e otto suoi compagni (tra cui
ricordiamo san Francesco Saverio, poi celebre
per la sua opera missionaria in Asia [presto rivelatasi difficilissima e con lo scorrere degli anni addirittura TRAGICA COME SI EVINCE DA QUESTA RELAZIONE: un ruolo di rilievo spetta anche ad un missionario gesuita di TAGGIA, il dottissimo G. F. DE MARINI un tempo celebre quanto ora poco ricordato anche nel luogo natale]) fecero voto
di castità e di povertà, impegnandosi a riprendere l'opera missionaria in Palestina, o,
qualora questo non fosse stato possibile, a porsi
a disposizione del papa.
Svanita la prospettiva del viaggio in Terra Santa e ottenuta da Paolo III l'autorizzazione a farsi
ordinare sacerdoti, Loyola e suoi compagni decisero di dar vita ad un ordine di chierici
regolari, completamente uotato all'apostolato: nacque così la Compagnia di Gesù, la cui
istituzione venne approvata dal papa con la bolla "Regimini Militantis Ecclesia" (1540).
Le regole del nuovo ordine vennero delineate
nella Formula Instituti (1539) che costituisce
una bozza della redazione definitiva delle Costituzioni, a cui Ignazio giunse solo dopo molti
anni di lavoro (1551).
Queste sono le principali caratteristiche dell'Ordine:
1. Ia Compagnia è completamente consacrata
all'apostolato, il gesuita ricerca la propria santità attraverso la santificazione dei fedeli; ciò
comporta una totale disponibilità ad intraprendere l'attività missionaria in qualsiasi parte del
mondo;
2. alla Compagnia di Gesù venivano cosi a mancare gli elementi di stabilità e di coesione propri degli altri ordini; la solidità della Compagnia venne pertanto garantita da una rigida organizzazione gerarchica e dal ruolo del
Preposto generale, detentore di un'autorità pressochè assoluta su ogni membro.
Ai voti ordinari,
inoltre, venne aggiunto uno speciale voto di obbedienza al papa, che incise in modo decisivo
sulla storia della Compagnia e su quella della
Controriforma, di cui in breve l'Ordine divenne
l'espressione più determinata: l'obbedienza,
d'altronde, costituisce per il gesuita una forrna
di adesione alla volontà di Dio;
3) peculiare dell'ordine è, infine, il lungo periodo di formazione che prevede approfonditi
studi teologici, una preparazione allora poco diffusa anche tra i religiosi.
Da tutto ciò si evince l'intento di Loyola di
fare del nuovo Ordine una compagnia di
uomini scelti, pronti ad affrontare con dedizione assoluta tuttu i compiti cui la Chiesa,
identificata immediatamente nel pontefice,
li avesse chiamati.
I gesuiti, dunque, non nacquero con una particolare vocazione controriformistica, non vennero costituiti cioè per reagire al
protestantesimo, ma le caratteristiche dell'Ordine erano pienamente rispondenti alle esigenze del Papato,
nell'ora in cui questo si preparava a guidare la
Chiesa nello scontro con le nuove confessioni.
La straordinaria disponibilità e versatilità dei gesuiti li fece infatti protagonisti della riscossa della Chiesa, impegnandoli, ben al di là delle loro
iniziali ambizioni missionarie, ora come influenti
confessori nelle corti, ora come insegnanti, ora
come dotti ed intransigenti controversisti: severi e flessibili, sempre pronti a coniugare l'intransigenza verso se stessi con una concezione realistica della natura umana, il rigore con la tolleranza verso la debolezza dell'uomo; il che, se li faceva graditi direttori spirituali, ben presto valse loro critiche di lassismo da parte
degli avversari.
Insomma, i gesuiti mostravano di avere consapevolezza dell'eccezionalità dei loro voti e, mentre si facevano alfieri di una rigida difesa dell'ortodossia e dell'autorità della Chiesa, sapevano anche, con fine psicologia, valorizzare gli sforzi dell'uomo comune, mantenendo una spregiudicata disponibilità al nuovo, alle esigenze
e ai comportamenti che s'andavano diffondendo nel mondo moderno.
A partire dalla fine degli anni Cinquanta, comunque, le iniziative nell'Ordine si concentrarono per lo più
nel campo dell'istruzione: la
Controriforma, d'altronde, era
totalmente pervasa da propositi di carattere pedagogico, che
si presentavano come il necessario completamento della
repressione del protestantesimo: i Gesuiti risultavano alquanto raffinati e competenti nella gestione di un SISTEMA EDUCATIVO svolto con la TECNICA DELLA LEZIONE FRONTALE (EX CATHEDRA) e stutturato sulla base di precisi PROGRAMMI SCOLASTICI la cui DIDATTICA era omologata dall'UTILIZZAZIONE DI SPECIFICI TESTI SCOLASTICI E PROPEDEUTICI.
Su entrambe le questioni, Ignazio aveva idee molto chiare.
Egli non esitava ad invocare i
provvedimenti più drastici per
i sospetti di eresia; era, a suo
avviso, necessario mostrare assoluta determinazione anche
dando "qualche esempio, condannando qualcuno a morte o
all'esilio con confisca dei suoi beni".
Egli era però consapevole che, oltre alla repressione,
era necessario impegnarsi nella rieducazione dei fedeli e che, a tal fine, il primo problema era quello di predisporre educatori
davvero adeguati al loro ruolo: si trattava
cioè di colmare le gravi lacune nella formazione del clero.
La Compagnia fu immediatamente in prima linea nell'adempimento di questo compito. Nel
1551, Ignazio di Loyola fondò il Collegio
Romano e l'anno seguente aprì il Collegio Germanico, destinato ai sacerdoti che avrebbero dovuto esercitare il ministero pastorale nella patria del protestantesimo.
Ben presto, però, ai collegi gesuitici furono
ammessi anche i laici; l'insegnamento era gratuito e quindi, almeno formalmente, le scuole erano aperte a tutti; di fatto esse erano frequentate soprattutto da aristocratici e da borghesi e non è difficile immaginare i frutti che i gesuiti
si ripromettevano di trarre dal controllo della
formazione della classe dirigente.
I risultati non si fecero attendere: nell'Europa cattolica della fine del Cinquecento, erano veramente poche le istituzioni d'istruzione superiore maschile non gestite dall'Ordine".
- BARNABITI: membri della Congregazione dei Chierici Regolari di S. Paolo sorta nel 1530 per opera di S. Antonio Maria Zaccaria e stabilitasi nel 1545 a Milano nel chiostro di San Barnaba da cui prese il nome.
Le loro costituzioni furono redatte da Carlo Bascapè nel 1579.
In un primo momento si batterono per la riforma morale del clero e dei laici. successivamente si dedicarono in modo prevalente all'educazione dei giovani fondando scule in vari paesi europei.
-CHIERICI REGOLARI: congregazioni religiose di chierici, sorte dal XVI secolo in poi e dedite alle varie forme dell'apostolato e dotate di refole proprie, diverse da quelle monastiche.
Nell'"Annuario Pontificio" vengono elencati: i Barnabiti, i Camillani, i Caracciolini, i Chierici della Madre di Dio, i Gesuiti, gli Scolopi, i Somaschi, i Teatini.
I Marianisti, i Maristi, i Monfortiani, i Passionisti, i Redentoristi, i Rosminiani, gli Stimmatini ecc. sono invece annoverati tra le "Congregazioni religiose clericali".
I Lazzaristi, gli Oratoriani, i Padri bianchi, i Pallottini ecc. sono altresì elencati fra le Società di vita comune senza voti.
I Concezionisti, i Cottolenghini, i Fratelli delle scuole cristiane, i Saveriani ecc. risultano invece ascritti tra le Congregazioni religiose laicali ecc.
- SOMASCHI: membri di un ordine religioso di cui pose le fondamenta nel 1528, a Somasca di Vercurago presso Bergamo, da S. Girolamo Emiliani e successivamente sancito ufficialmente nel 1532.
Detti pure Chierici regolari Somaschi seguono la Regola di S.Agostino: inizialmente si dedicarono alla cura degli orfani e degli ammalati.
In seguito ampliarono la loro attività includendo il lavoro di istruzione e di formazione religiosa e culturale, aprendo molti collegi e seminari: tuttora essi operano per l'educazione della gioventù.
TEATINI: Membri dell'Ordine religioso dei CHIERICI REGOLARI fondato per opera di Gaetano da Thiene e Gian Pietro Carafa, poi papa col titolo di Paolo IV (1524), allo scopo di rinnovare nella Chiesa l'originario spirito evangelico. L'Ordine che si dedica attivamente all'assistenza dei malati conta oggi circa un centinaio di membri.
La CONSUSTANZIAZIONE appartiene al bagaglio dottrinale del luteranesimo: secondo tale dottrina il corpo ed il sangue di Cristo coesistono con gi elementi eucaristici.
Lutero usava anche preferibilmente il termine di companazione che parimentia quello di consustanziazione sostiene la contemporanea presenza della sostanza del pane e del corpo di Cristo nell'eucarestia.
Quello del "CUIUS REGIO EIUS RELIGIO" è un principio sancito dalla dieta di Augusta dopo le guerre religiose seguite alla Riforma protestante. Secondo tale principio ai Sovrani del Sacro Romano Impero venne riconosciuta piena libertà di scegliere e professare la confessione luterana o cattolica.
I sudditi dovevano accettare la confessione religiosa scelta dal principe oppure potevano emigrare in uno Stato dell'Impero in cui si professasse la loro stessa confessione religiosa.
Il principio comportava comunque l'esclusione della scelta per la confessione calvinista.
La pace di Vestfalia del 1648 estese poi il principio della libertà confessionale anche ai sudditi e per il calvinismo.
-TRANSUSTANZIAZIONE: nella teologia cattolica il passaggio dalle sostanze del pane e del vino in quelle del corpo e del sangue di Cristo che si opera nell'eucarestia, restando invece immutante le apparenze osterne o specie.
Il dogma della transustanziazione fu rigettato da tutti i protestanti ed in particolare da Lutero (che si rifece invece alla dottrina della consustanziazione.
Il dogma della transustanziazione venne ridefinito dal concilio tridentino e, di recente, ribadito da papa Paolo VI nell'enciclica "Mysterium Fidei" (1965): esso costituisce il fondamento del culto eucaristico di tutta la Chiesa Cattolica.
-ISTITUTO DELL'INDULGENZA: tale istituto fu creato nel Medio Evo e venne praticato per la prima volta nell'XI secolo.
Le radici storiche dell'ISTITUTO DELL'INDULGENZA si ritrovano nel previlegio attribuito ai martiri per intercessione dei quali un PECCATORE PENITENTE poteva accelerare la propria riammissione in seno alla Chiesa e nell'uso medievale, provato dai libri penitenziali, di fissare per ogni colpa una precisa penitenza.
Si documentano pure diminuizioni della pena temporale per i penitenti che si recavano in pellegrinaggio ai luoghi santi e alle tombe degli apostoli.
A partire dall'XI sec. presero ad usufruire delle INDULGENZE anche quanti compivano OPERE BUONE, come contribuire ad erigere chiese, ospedali o, più semplicemente far lasciti per gli stessi istituti.
L'azione meritoria doveva venir associata alle preghiere, alla confessione ed alla comunione.
L'enorme richiesta di indulgenze, vista la severità dei libri penitenziali, determinò col tempo degli abusi specie per le indulgenze a riguardo dei morti che si presero a concedere dalla fine dell'epoca medievale.
A causa di ciò molti cristiani si convinsero di poter pagare col denaro, senza un vero pentimento, il condono delle pene del PURGATORIO.
Nella storia una testimonianza di tali abusi è data dalla VENDITA DELLE INDULGENZE indetta per la costruzione della nuova BASILICA DI S. PIETRO IN VATICANO che, nonostante varie critiche, spinse LUTERO a negare il valore delle indulgenze dando origine con la QUESTIONE DELLE INDULGENZE ad uno dei cardini dello scisma protestante e della RIFORMA LUTERANA: egli basò la sua opposizione a questi abusi sviluppando la DOTTRINA DELLA GIUSTIFICAZIONE PER GRAZIA MEDIANTE LA FEDE.
Nonostante le critiche e evidenti contrapposizioni tra prelati cattolici il Concilio di Trento ribadì la dottrina delle indulgenze.
Onde frenare gli abusi papa Clemente IX istituì la CONGREGAZIONE PER LE INDULGENZE nel 1669 che nel 1904 du unita con la CONGREGAZIONE DEI RITI e passò quindi nel 1908 al S. UFFICIO e nel 1915 alla Penitenzieria apostolica.
In relazione allo spirito della riforma intrapresa dal Concilio Vaticano II, papa Paolo VI, una volta pubblicata la costituzione "Indulgentiarum doctrina" del 1967, approvò l'"Enchiridion Indulgentiarum" (1968) in cui si trovano le norme e le concessioni riguardanti le Indulgenze.
Da ciò la Concessione delle Indulgenze è divenuta prerogativa del Pontefice e di quanti dallo stesso ne hanno potere sia per le norme del diritto canonico (come i Vescovi) o per esplicita concessione papale.
Le principali novità risiedono nella facoltà di acquisire una sola indulgenza plenaria al giorno mentre non esiste specificazione cronologica per le indulgenze parziali in sostituzione di quelle che si riferivano ai libri penitenziali medievali ed avevano quale termine la durata della penitenza pubblica.
Tutte le indulgenze nel passato concesse agli ordini e società religiose rimangono valide solo dopo approvazione della Penitenzieria apostolica: resta sancita la totale necessità della preghiera, della penitenza, della confessione e della comunione.
-QUESTIONE DELLE INDULGENZE: Così si definisce la disputa che segnò l'inizio della RIFORMA PROTESTANTE.
Il papa Leone X aveva rinnovato un'INDULGENZA a vantaggio di chi avesse fatto offerte per la costruzione della nuova basilica di S.Pietro in Vaticano.
Per una parte della Germania la Curia romana incaricò della predicazione e della riscossione l'arcivescovo Alberto di Hohenzollern concedendogli di trattenere la metà del ricavato.
Costui affidò allora la raccolta ai domenicani tra cui si segnalò subito frate Tetzel, predicando che una congrua elemosina in danaro assicurava senza alcuna possibilità d'errore la liberazione di un'anima dalle pene del PURGATORIO.
Questo discutibile sistema, da molti comunque criticato, determinò la violenta protesta di Lutero che si espresse ufficialmente nel contesto delle 95 TESI in cui sviluppò la DOTTRINA DELLA GIUSTIFICAZIONE DEL PENITENTE PER SOLA GRAZIA MEDIANTE LA FEDE.
Resistendo Lutero da ogni pressione a ritrattare le sue TESI il pontefice Leone X le condannò con la BOLLA "Exsurge Domine" del 1520 che, con gesto clamoroso, Lutero bruciò pubblicamente in piazza, davanti ad una folla plaudente.
Quello di SCOLOPI è il nome con cui sono comunemente conosciuti i membri della
Congregazione dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie
, detti anche "piaristi",
su cui, data l'importanza per la divulgazione dell'alfabetizzazione partendo dal XVII secolo, è opportuno proporre da un
volume dell'epoca
uno specifico
CAPITOLO
documentario.
[Le scuole pie (da cui il termine scolopi) nacquero alla fine del sec. XVI, per iniziativa del sacerdote spagnolo Giuseppe Calasanzio (1556 - 1648), che istituì in una parrocchia romana la prima scuola elementare gratuita d'Europa.
Nel 1617 Paolo V approvò la costituzione di una congregazione con voti semplici, che nel 1621 divenne un ordine con voti solenni (e un quarto voto, che impegna gli scolopi specificamente a dedicarsi all'educazione dei giovani).
L'ordine cominciò a promuovere anche scuole di carattere superiore, ma andò incontro a un periodo difficile a causa di uno sviluppo troppo rapido e di una serie di ostilità: nel 1642 Giuseppe Calasanzio venne destituito da generale e nel 1646 l'ordine fu ridotto a semplice unione di case.
Solo dopo la morte del fondatore, agli scolopi furono riconsegnati i precedenti diritti (1669).
Dopo il grande sviluppo nel '700, l'ordine fu quasi spazzato via dalla rivoluzione francese e dal regime napoleonico e si riprese solo nel sec. XX (oggi gli scolopi sono quasi 1500), impegnandosi sempre sul versante scolastico ed educativo (anche sui nuovi fronti dell'educazione degli "svantaggiati" ): a cura di Guido Formigoni]
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G. F. DE MARINI DI TAGGIA: MISSIONARIO GESUITA E SCRITTORE DEL '600
Mentre i viaggiatori cappuccini, carmelitani e teatini devono lottare contro opposizioni e dura realtà, i gesuiti operano con successo in Oriente.
Come sostiene il Pastor il rispetto per il culto orientale, l'elasticità mentale e la capacità di adeguamento alla cultura e alla lingua locale distinguono i gesuiti da tutti gli altri ordini religiosi e li pongono nella condizione di operare fruttuosamente, come pure si legge nelle opere di D. Bartoli, anche se alla fine parimenti per loro si verificheranno eventi gravi di persecuzioni nell'ecumene orientale:
i testi di diritto canonico col tempo presero quindi a dare sempre più
RAGGUAGLI PER L'OPERA MISSIONARIA come anche qui si legge in questa ampia TERZA PARTE del qui digitalizzato EXAMEN ECCLESIASTICUM..., DI FELICE POTESTA'
sia in Asia che nelle Indie Occidentali o "Nuovo Mondo".
Dagli albori del
'600 Matteo Ricci in Cina, Roberto de Nobili in India, Alessandro di Rhodes in Vietnam, operano con
grande sagacia, ottenendo stima e credito: il Ricci,
gesuita di Macerata, raggiunge addirittura la corte
imperiale di Pechino (1602) e, divenuto leggendario
per pietà e sapienza, fonda una missione possente e
traduce in cinese molti testi europei, meritandosi
l'appellativo di Li Ma-theu.
Quando in Cina e Giappone (metà del '600) la situazione per i cattolici diviene meno florida in conseguenza di alterate e repressive motivazioni geo
-politiche (come testimoniano le pagine severe e
drammatiche di Giovanni Battista Bonelli e Prospero Intorcetta), l'operazione predicatoria dei Gesuiti, seguendo anche le direttive della "Congregazione
de propaganda fide", istituita da Gregorio XV nel
1622, viene indirizzata verso l'area ricca e tollerante dell'attuale Vietnam.
Nuovi viaggiatori gesuiti intraprendono una decisa missione predicatoria, garantita nel successo
da un'eccezionale preparazione e capacita.di adeguamento all'ambiente socio-culturale in cui si trovano ad operare.
Le loro relazioni, inviate ai superiori, sono spesso violentate dal sottocodice ecclesiastico, cioè da un lessico tecnico e difficilmente
fruibile, in cui prevalgono dati nurnerici e statistici.
Alcune analisi sono però estremamente lucide ed interessanti; accanto a quella del milanese Cristoforo
Borri (1583-1632), autore della Relazione della nuova missione delli Pp. della Compagnia di Giesù al
regno della Cocincina, si colloca di diritto il lavoro
letterario del ligure Giovanni Filippo De Marini, gesuita e missionario in estremo oriente.
Giovanni Filippo De Marini nasce a Taggia nel
1608 e della gente dell'estremo Ponente conserva
per tutta la vita le doti migliori: senso pratico,
capacità innate di raziocinio e quello spirito di adattamento che è spesso temprato da un'umanissima
comprensione dei problemi altrui.
In più ha una fede sincera, una spontanea convinzione che il credo
cristiano sia valido ed accettabile a qualsiasi latitudine, a condizione che vi sia portato con logica cautela e prudente analisi della verita effettuale dell'area di operazione missionaria.
La fede lo sottrae
a Taggia e lo consegna alla Compagnia di Gesù nel
1625; dopo 13 anni, nel corso dei quali matura ed affina le doti potenziali di missionario , s'imbarca per
le Indie nel 1638.
Nel Tonkino esperisce con successo le sue funzioni, adattandosi brillantemente
all'ambiente, sondandone con mente lucida le condizioni socio-politiche ed impadronendosi del lessico indigeno.
Il successo lo eleva a grande dignità
e gli conferisce, agli occhi dei locali, la nomea del
giusto e del saggio; riconoscendone le buone capacità e l'indubbio carisma l'autorità ecclesiastica gli
attribuisce ia prestigiosa carica di Rettore del Collegio Gesuitico di Macao.
All'ombra dei Portoghesi,
ma sempre curioso e attento ai problemi degli indigeni, affina la sua sensibilità Missionaria, emancipandosi dai residui pregiudizi europei, consequenziali del resto di una formazione culturale ancora
nebulosa nei confronti dell'estremo oriente.
Ritornato a Roma nel 1660 riesamina letterariamente le sue esperienze missionarie ma, nonostante
l'effettivo. successo dei suoi sforzi intellettuali, prova nostalgia delle antiche, esotiche esperienze e finalmente, nel 1674, riprende la via dell'Oriente.
Risiede dapprima in Giappone, svolgendo in questo
paese, divenuto pericolosamente impermeabile all'infiltrazione cattolica, la delicata funzione di padre provinciale della missione gesuitica.
In funzione
dell'esperienza accumulata e di una raffinata potenzialità di comprensione e di analisi il De Marini
non manca di ottenere anche in questa occasione
; ottimi successi missionari, pur dovendo barcamenarsi nei labirinti di una cultura sottilmente ambigua come quella orientale e nonostante gli estri di
un potere locale (e centrale) in genere modellato
secondo una apparente formale cordialità ma sempre ancorato alla prepotente autocrazia di un insuperabile feudalesimo.
Non ritorna piu in Italia! Rispettato ed amato conclude la sua esperienza terrena a Macao il 7 luglio 1682, lasciando quale retaggio spirituale i suoi insegnamenti di brillante
missionario, uno scarno epistolario e la versione
dal portoghese di un testo per la preparazione catechistica, strutturato ed organizzato da Antonio Rubino ad uso delle popolazioni asiatiche convertitesi
alla dottrina di Cristo.
Il suo lavoro letterario più interessante rimane
comunque l'Istoria e relazione del Tunkino e del
Giappone, comparsa nel 1663, ma di cui si ricorda
un'edizione veneziana del 1665.
L'opera, formalmen
te agile e moderatamente appesantita dal gusto barocco per l'erudizione, gode discreto favore tra i
lettori; l'intento programmaticamente didascalico
(l'autore dichiara di voler "giovare alle anime") non
sottrae energia al resoconto, che conserva un'indubbia piacevolezza e che, per vari aspetti, è tuttora
fruibile.
Nonostante il De Marini sentenzi seriosamente che rinuncia al "delectare", tanto in voga nel
secolo, per il più dimenticato ma utile "prodesse", è
altresì fuor di dubbio che il lettore moderno si accosta ai suoi scritti con curiosità non esclusivamente spirituale ma anche con edonistico e scientifico
interesse per le pregevoli descrizioni geografiche,
ambientali e socio-culturali.
Basti pensare all'ariosa e garbata macrosequenza
narrativa dedicata alle gare tra i vogatori tonchinesi, che nello sforzo di sopraffarsi e vincere la
competizione, si danno "da se la battuta a schiusi
denti e labbra ristrette, con battere il piè sopracoperta".
Il De Marini osserva la scena con occhio attento,
diremmo etnologico, e nell'oggettivizzare letterariamente il fatto risulta del tutto scevro di condizionamenti culturali o di freni retorici tipicamente occidentali egli valuta gli eventi attraverso la lente
spregiudicata di un ottica mentale aperta e per questo profondamente cristiana; nel suo messaggio gli
indigeni perdono la convenzionale e stantia caratura
di selvaggi senza direttive etiche, essi sono soprattutto uomini, etnicamente e culturalmente diversi
ma sempre uomini, nel senso più completo del termine.
Ne deriva, su un parametro logico, un'implicita consonanza con altri uomini, con altre civiltà; nel dipingere l'evoluzione della gara, forse con
una certa tendenza all'espressione stilizzata, il De
Marini sembra voler equiparare l'esotica regata cui
assiste ad altre da lui viste in precedenza, magari
nel suo mare ligure: "...tutti intesi con gli occhi al
premio e con le mani al remo, richiamano tutte le
forze alle braccia e danno strappate sì gagliarde co'
remi che, presso a romperli, li contorcono per la
violenza. E come ovunque, come da sempre accade in Italia anche qui a chi il primo gionge, dando vocii di allegrezza sino al cielo, riceve il pallio e
l'applauso".
E' un modo semplice e vibrante di narrare ma è
in particolare occasione ghiotta ed utile (si ricordi
il "prodesse" = giovare di programma) per dimostrare quanta umana convergenza e spontanea identità
di sensazioni esista tra questi indigeni orientali e i
loro "fratelli" europei.
Il pezzo pregiato e più significante in senso lato
rimane comunque il celebre "Elogio di Confucio",
in cui il De Marini, riprendendo una delle migliori
convenzioni letterarie barocche, procede ad un'attenta demistificazione di ogni aspetto di conformismo mentale.
Nel suo procedere narrativo, didascalico in superficie ma solido nei valori di fondo, il
gesuita ligure manifesta tutta la sua volontà di avvicinare alla spiritualità cristiana ed alla mentalità europea anche quelle tematiche, più profonde ed in
apparenza provocatorie, che sono retaggio emblematico della civiltà orientale.
La marcia di avvicinamento del missionario è prudente ma
la finalità è evidente: smussare gli angoli ed accostare parametri spirituali in apparenza diversissimi.
La collocazione ideologica e storica non permette al De Marini affermazioni totalizzanti, peraltro
ingiustificabili in tale contesto ed in rapporto alle
finalità dello stesso. Più semplicemente egli intende
vanificare molta confusione intellettuale, sottrarre
energia latente a vieti pregiudizi europei e soprattutto presentare la realtà di fatto.
Questi presupposti
spiegano gli elogi per l'opera sociale di Confucio
equiparato ad un saggio illuminato che s'impegnò
sempre, con i suoi discepoli, "portando guerra a tanti invecchiati abusi e corrutele non con arme di ferro, ma con argomenti di ragione".
Ecco il punto nodale, l'essenza della riflessione: la razionalità, l'arma dei puri, a qualsiasi latitudine appartengano!
Confucio non è un Dio né un Santo, ma di certo
un saggio.
L'equazione Confucio = saggio, veicola un messaggio fruibile a livello della serie storico-culturale
dell'Europa secentesca; alla figura orientale viene
sottratto il carisma del dio pagano ed il filosofo
astratto dalle nebulosità dell'ignoranza, risulta
proiettato in una dimensione recepibile, sino alla
sua identificazione con Platone: "E vi è opinione di
alcuni che qual altro Platone giongesse al conoscimento di Dio".
Su un parametro logico-temporale il De Marini
conclude il suo meccanismo qualificante; Confucio
è un diverso, un non cristiano ma è comunque un saggio e
quindi un comprensibile anzi e ideologicamente prossimo ad un altro non cristiano, quel Platone cui si
è sempre guardato con stupore per l'inesausta e nobile, seppure angosciosa, peregrinazione nei meandri della metafisica.
Ed ecco chiarirsi l'organismo
letterario del gesuita; il misterioso, labirintico sacerdote pagano finisce per essere calato nei panni
un poco limitanti, forse un po' troppo europei, del
giusto sapiente in ansiosa ricerca e chiarificazione del "Mistero".
Sotto questo aspetto il De Marini si colloca nella
giusta dimensione di chi consuma la sua vita per far
avvicinare due mondi; ed è ancor più di un missionario in quanto
non solo si fa apostolo del Cristianesimo ma "profeta" di un incontro tra genti ritenute antitetiche.
BIBLIOGRAFIA
G. BRANCA, Storia dei viaggiatori itatiani, Torino 1873.
P. AMAT DI S. FILIPPO, Biografia dei viaggiatori itatiani con
la bibliografia delle loro opere, Roma 1882-1884.
L. BAKER, A History of geographical Discovery and Esplo
ration, London 1931.
P. DE FILIPPI, I viaggiatori italiani in Asia, Roma 1934.
E. MIGLI0RINI, Geografia e viaggi, Roma 1941.
C. JANNAC0, Il Seicento, Milano 1963, pp. 589-96.
E. RAIM0NDI, Scienziati e viaggiatori barocchi in V vol. della
Storia della tetteratura italiana diretta da E. Cecchi-N.
Sapegno (Il Seicento, Milano 1967, pp. 225-318).
M. GUGLIELMINETTI, Viaggiatori del Seicento, Torino 1967
pp. 471-82.
Sul De Marini (e sul Borri) ci sembra acuta la breve nota
di M. CAPUCCI, Caratteri e fortune di un cappuccino scozzese in "Studi Secenteschi", XX (1979), p. 63, n. 39.
Per un inquadramento storico delle missioni e dei missionari, a parte le voci specifiche dell'Enciclopedia Cattolica, si veda l'Histoire universelle des missions catholiques,
publiee sous la direction de M.gr Delacroix, II, Paris 1957.
Come scrive Angelo Penna, sotto la voce relativa, nel "Grande Dizionario Enciclopedico - U.T.E.T." per PURGATORIO si deve intendere lo stato delle anime di coloro che sono morti con peccati veniali o con una pena non ancora del tutto soddisfatta.
A differenza di quanto talora oggi si vuol far credere l'esistenza del PURGATORIO nella storia remota della Chiesa fu negata solo da qualche solitario eretico nel periodo della patristica.
Successivamente la negazione, mantenuta viva da eretici dell'età di mezzo come albigesi, valdesi ed hussiti, assunse grande vigore in seguito alla Riforma Protestante.
Dal punto di vista dottrinale la posizione riformata cercò e trovò la sua giustificazione nel rigetto di un libro biblico e precisamente il II Maccabei.
Pur fra varie difficoltà infatti proprio in questo libro, mai discusso dalla Chiesa di Roma, si trova la più ampia prova scritturale sul Purgatorio.
Giuda, capo dei nazionalisti di Israele, dopo una battaglia con le truppe seleucidi rinvenne sui cadaveri di molti suoi soldati caduti nello scontro dei simulacri pagani.
Poichè costoro non avrebbero più potuto scontare quel loro peccato, fu allora promossa una raccolta da spedire a Gerusalemme "perchè fosse offerto un sacrificio per il peccato. Quiesta fu una buona e nobile azione perchè ispirata dal pensiero della resurrezione. Se infatti (Giuda) non avesse sperato che coloro che erano morti sarebbero risorti, sarebbe stato superfluo e vano il pregare per i morti.
Inoltre egli pensava alla magnifica ricompensa riservata a quanti si addormentavano nella pietà. Santo e pio pensiero! Perciò egli fece compiere un sacrificio espiatorio per i morti affinchè fossero assolti dal peccato" ("II Maccabei 12, 43-46").
Ne diriva quindi la supposizione di una "morte nella pietà" che esclude aperta inimicizia con Dio o una colpa grave e, coneseguentemente, viene approvato l'atto giustificandolo dal profilo teologico come un'efficace espiazione compiuta dai viventi a vantaggio dei defunti.
A riguardo del PURGATORIO vengono indicati anche diversi testi del NUOVO TESTAMENTO ma di questi è stata discussa in ogni sede la validità.
Secondo il Penna fra questi il più sicuro è il passo del "I Cor. 3, 10-17" ove si parla di salvezza conseguita "come attraverso il fuoco" per tutti coloro che non hanno operato del tutto correttamente.
In effetti si trae motivo di riflessione anche da "Mt. 12, 31 e sgg." nel punto in cui Gesù citando un peccato che non può esser rimasso nè in questa vita nè nella vita ultraterrena comporterebbe il riferimento, per comparazione, ad un peccato che al contrario può venir rimesso dopo la morte.
Sempre il Penna fa cenno alla tradizione popolare sull'esistenza del PURGATORIO, testimoniata archeologicamente dal rinvenimento di epigrafi catacombali che alludono sia al PURGATORIO sia all'antichissima prassi di innalzare preghiere per i defunti nella convinzione di poter giovare a loro.
E' abbastanza noto che la definizione dogmatica del PURGATORIO si ebbe coi deliberati del Concilio di Trento.
[ VEDI QUI TESTO DEL CONCILIO DI TRENTO = E IN PARTICOLARE "SESSIONE XXV (3-4 dicembre 1563)" CONTENENTE IL DECRETO SUL PURGATORIO ]
Già però all'epoca dei Padri della Chiesa era stata codificata ua precisa dottrina teologica, basata sui testi biblici di cui si è detto e sulla prassi della Chiesa nei riguardi dei fedeli morti senza i segni di una perfetta santità.
Eppure le discussioni sull'argomento si protraggono ai giorni odierni.
A titolo d'esempio si può ricordare che per opinione comune il PURGATORIO dovrebbe sussistere sino al Giudizio Universale ma sull'argomento non esiste certezza.
Identiche incertezze esistono poi a riguardo del processo di purificazione.
Esiste comune opinione che alla remissione della pena concorrono le preghiere dei vivi e le penitenze dei morti.
Non sussiste però certezza sui caratteri di siffatte penitenze.
La pena principale, nel giudizio dominante, consiste nell'impossibilità di godere, al pari dei beati, della vicinanza di Dio.
Ma accanto alla principale esiste un pena sensibile o fisica che non è stat sempre interpretata allo stesso modo.
Nella Chiesa latina ad esempio si è ritenuto che questa consista in un fuoco reale che tormente le anime purganti: ma su ciò non esiste tuttavia una definizione solenne.
Nella chiesa orientalista si è invece conferito un valore eminentemente allegorico all'espressione di S.Paolo su una pena sensibile che sarebbe come "camminare attraverso il fuoco".
Ed ormai questo orientamento si è esteso anche alla Chiesa latina mediante una superiore intensificazione dell'aspetto di purificazione a fronte di quello penale.
La questione del PURGATORIO ed in particolare della natura delle pene determinò una polemica tra teologi greci e latini al tempo della Scolastica (vi partecipò ed attivamente anche S.Tommaso).
Questa polemica non venne del tutto meno neppure in occasione dei vari tentativi di unione avvenuti in occasione dei Concili di Lione, di Ferrara e di Firenze.
Quanto si legge in autori ascetici circa l'entità di tali pene, specialmente se paragonate coi dolori fisici di questa vita, potrà costituire una verisimiglianza maggiore o minore ma mai esprimere una verità assoluta.
Una differnza sostanziale comunque distingue le pene dei dannati da quelle delle anime purganti.
I dannati si trovano infatti in un'eterna, immutabile condizione di disperazione mentre le anime del Purgatorio accettano le sofferenze come espiazione e vivono nella certezza di raggiungere la beatitudine con la visione di Dio.
Certamente le anime del Purgatorio non possono più peccare, esse sono incapaci di meritare e demeritare: ma èopinione corrente che esse siano in grado di pregare per i viventi e che le loro orazioni siano particolarmente gradite a Dio.
Dal punto di vista storico, e ancor più precisamente in relazione al grande fenomeno del "Pellegrinaggio di Fede", si vede bene, aldilà delle possibili disquisizioni teologiche, che la radicata convinzione popolare (peraltro confortata dal giudizio della Chiesa) sul Purgatorio e sulla possibilità ad opera dei vivi di ridurre per i defunti il tempo delle pene (ricevendo altresì protezione e preghiere dalle anime purganti) fu uno dei grandi motori dei "viaggi nel sacro" sin a partire dal pellegrinaggio primigenio e comunque nei secoli immediatamente successivi al crollo dei Saraceni con le Crociate e con la Riconquista dei Luoghi Santi.
I CARMELITANI in origine erano CROCIATI che, attirati appunto dall’esempio di Elia, volevano consacrarsi al servizio della Madonna sul Monte Carmelo: proprio per questo motivo assunsero il nome originario di Eremiti del Carmelo (o Eremiti Latini).
Presero la prima dimora ufficiale, all’incirca tra il 1192 e il 1209, sulla via di pellegrinaggio che conduceva da Akko a Cesarea.
Non è peraltro noto in quale periodo S. Alberto Patriarca di Gerusalemme, abbia riunito in un gruppo gli Eremiti del Carmelo stendendo per loro la Regola di vita cioè quella che viene definita Regola primitiva: l’ipotesi più probabile è che tutto questo sia avvenuto anteriormente al 1214 quando Alberto ricoprì il suo patriarcato (1209?).
Successivamente i CARMELITANI istituirono monasteri in Palestina, in Siria, e quindi in Europa.
In Europa giunsero nel 1235, quando a due religiosi fu concesso di innalzare una Casa a Valencienne, in Francia.
L’immigrazione generale, però, ebbe luogo nel 1238, mentre nel 1241 due gentiluomini al seguito di Riccardo di Cornovaglia tornando in patria condussero con sé alcuni frati del Monte Carmelo e diedero loro due conventi: uno a Hulne, ai confini della Scozia, l’altro a Hylesford, nella contea di Kent. Anche S. Luigi, re di Francia, domandò nel 1245 al Priore del Monte Carmelo sei religiosi e diede loro una Casa vicino a Parigi.
Fu allora il momento di richiedere una superiore approvazione della Regola, che i Carmelitani ottennero da Papa Onorio III (30 gennaio 1226), riconfermata da Papa Gregorio IX (1229).
Intanto la Terra Santa veniva progressivamente rioccupata dai Musulmani e l’esodo dei Carmelitani verso l’Europa, i loro paesi d’origine, divennetotale.
Qui, adeguandosi alle nuove condizioni di vita, si riavvicinarono alle città, sviluppando una certa vita comunitaria. Dovettero quindi appellarsi al Pontefice Innocenzo IV, per adattare la Regola alla loro mutata condizione sociale: da EREMITA, e l’Ordine si trasformò in MENDICANTE, sull’esempio dei Francescani e Domenicani.
Il primo ottobre 1247, Papa Innocenzo IV pubblicò la Regola Modificata dei Carmelitani.
Al crepuscolo del Medio Evo, specialmente dopo la grave crisi della Chiesa nel periodo in cui i Papi, lasciata Roma, si trasferirono ad Avignone e quindi durante lo Scisma d’Occidente, emerse in varie contrade una formidabile esigenza di riforme.
I Concili di Costanza (1414 - 1418), di Basilea (1431 - 1437) e di Ferrara-Firenze (1438 - 1442) furono essenziali tappe di questo processo di revisione: a tutto ciò si accostarono le imprese apostoliche di predicatori di penitenza, quali San Vincenzo Ferreri, SAN BERNARDINO DA SIENA (che tanto peso ebbe in ambito ligure ponentino) e San Giovanni di Capistrano.
Pure i CARMELITANI [ormai abbandonata la loro originaria e antichissima strutturazione di ORDINE CROCIATO] diedero stimolo ad una nuova generazione di monaci e monache estremamente operosi sul piano apostolico tra cui meritano di essere menzionati Bartolomeo Fanti, Angelo Mazzinghi, Giovanni Scopelli, Arcangela Ghirlani, Giovanni Soreth, e Beato Battista Mantovano che diede vita alla cosidetta Congregazione Mantovana.
La grande riforma dell’ORDINE, quella che diede vita ai CARMELITANI SCALZI, passò tuttavia attraverso il fervente operato di S. Teresa d’Avila sì che giustamente si può parlare di una Riforma Teresiana.
Nel clima che caratterizzò il completamento della RICONQUISTA CRISTIANA DELLA SPAGNA nacque, il 28 marzo 1515, S. Teresa de Ahumada, che entrò fra le Carmelitane della sua città natale (Avila) a ventun anni, rimanendovi fino al 1562 presso il monastero dell'Incarnazione.
Con la fondazione del piccolo monastero di San Giuseppe ( 24 agosto 1562), Teresa iniziò alla sua riforma fra le monache.
Questa sarebbe poi stata estesa anche ai frati (Duruelo 1568) grazie al concorso di S. Giovanni della Croce.
L’ideale Carmelitano Teresiano era nello stesso tempo insieme contemplativo e apostolico.
Le caratteristiche fondamentali dei "mezzi" che la Santa considerava essenziali per il raggiungimento dei suoi ideali erano: orazione, zelo apostolico, solitudine (silenzio, ritiro, clausura), vita comunitaria (piccolo gruppo, vita fraterna, semplicità, libertà spirituale, umanesimo), spirito mariano, ascesi e lavoro.
Dopo la fondazione delle comunità femminili, l’idea di fondare alcune comunità maschili sullo stile del monastero di San Giuseppe, punto di partenza della Riforma Teresiana, si fece ben presto strada nella mente della Santa. Indubbiamente la sua formula di vita religiosa, che produceva così meravigliosi frutti di perfezione tra le donne, poteva ben essere realizzata anche tra gli uomini.
Il 13 marzo 1566 il Padre Generale dei Carmelitani Giovanni Rossi, era sbarcato in Spagna, avendo ricevuto da Papa Pio V l’incarico di procedervi alla riforma dell’Ordine Carmelitano. Incontrò colà Santa Teresa e autorizzò la fondazione di due conventi di frati "riformati" o "scalzi".
Fu in quel periodo che la Santa incontrò a Medina un giovane frate, allora venticinquenne: si chiamava fra Giovanni Della Croce ed era animato dallo stesso zelo; fu invitato a preparare il primo convento maschile a Duruelo (Avila) e a vestire, per primo, il nuovo saio che la stessa Teresa aveva ideato.
La nuova vita di CARMELITANI SCALZI fu quivi inaugurata il 28 novembre del 1568 secondo le norme e le indicazioni di Teresa: ritorno alla Regola del 1247, spirito di mortificazione e di ritiro, perenne comunione orante con Dio, sforzi per rendere sempre più feconda l’azione apostolica.
Nel 1570, dato il fiorire delle vocazioni, con l’autorizzazione del Padre Generale, si aprì ad Alcalà di Henares il primo Collegio della Riforma per favorire gli studi dei giovani religiosi.
Rettore ne fu, l’anno dopo, Padre Giovanni Della Croce.
Successivamente furono inaugurati il quarto convento ad Altomira, seguito da un altro a La Roda-Cuenea (1572).
Per quanto riguarda il perfezionamento delle strutture e dell’assetto giuridico dell’Ordine, importante RISULTò l’opera di Padre Nicolò Doria, il quale ottenne da Papa Sisto V, nel 1587, l’erezione della Riforma Teresiana in Congregazione autonoma, con un proprio Vicario Generale. Non contento di questo, lavorò anche per la completa separazione dell’Antico Ordine Carmelitano, avvenuta nel 1593 con editto di Papa Clemente VIII: il superiore non si sarebbe più dovuto chiamare Vicario, ma Preposito Generale (nel 1594 venne eletto alla carica Padre Elia di San Martino).
Se il 1600 segna l’inizio ufficiale della nuova Congregazione, già dall’anno prima i CARMELITANI D’ITALIA avevano redatto un testo di Costituzioni proprie, diverse da quelle spagnole, che rimasero in vigore con poche modifiche praticamente fino a oggi. Importante è ricordare il fatto che già nel 1605 il Capitolo Generale della Congregazione d’Italia decideva ufficialmente l’inizio di un’attività missionaria che prese il via nel 1620, sì che fu eretto in Roma un Seminario delle Missioni che si chiamò di San Pancrazio.
Purtroppo, le soppressioni dell’Ottocento segnarono la fine di un’istituzione che Papa Clemente XI, nel 1707, proponeva come esempio agli altri Ordini e che si era dimostrato centro così attivo di teologia e di pastorale missionaria.
Il Seminario fu tuttavia restaurato in nuova sede, sempre accanto alla basilica di S. Pancrazio al Gianicolo, nel 1936; al presente sussiste praticamente incorporato al Teresianum, il collegio internazionale dell’Ordine: e se ogni Ordine religioso ha nella Chiesa la sua vocazione particolare, secondo la Regola del Carmelo e l’esempio dei suoi santi il nobile fine proposto è quello di mantenere, sviluppare e diffondere lo spirito di contemplazione.
Mentre i viaggiatori cappuccini, carmelitani e teatini devono lottare contro questa dura realtà, i gesuiti operano con successo in Oriente.
Come sostiene il Pastor il rispetto per il culto orientale, l'elasticità mentale e la capacità di adeguamento alla cultura e alla lingua locale distinguono i gesuiti da tutti gli altri ordini religiosi e li pongono nella condizione di operare fruttuosamente.
Dagli albori del
'600 Matteo Ricci in Cina, Roberto de Nobili in India, Alessandro di Rhodes in Vietnam, operano con
grande sagacia, ottenendo stima e credito: il Ricci,
gesuita di Macerata, raggiunge addirittura la corte
imperiale di Pechino (1602) e, divenuto leggendario
per pietà e sapienza, fonda una missione possente e
traduce in cinese molti testi europei, meritandosi
l'appellativo di Li Ma-theu.
Quando in Cina e Giappone (metà del '600) la situazione per i cattolici diviene meno florida in conseguenza di alterate e repressive motivazioni geo
-politiche (come testimoniano le pagine severe e
drammatiche di Giovanni Battista Bonelli e Prospero Intorcetta), l'operazione predicatoria dei Gesuiti, seguendo anche le direttive della Congregazione
de propaganda fide, istituita da Gregorio XV nel
1622, viene indirizzata verso l'area ricca e tollerante dell'attuale Vietnam.
Nuovi viaggiatori gesuiti intraprendono una decisa missione predicatoria, garantita nel successo
da un'eccezionale preparazione e capacita.di adeguamento all'ambiente socio-culturale in cui si trovano ad operare.
Le loro relazioni, inviate ai superiori, sono spesso violentate dal sottocodice ecclesiastico, cioè da un lessico tecnico e difficilmente
fruibile, in cui prevalgono dati nurnerici e statistici.
Alcune analisi sono però estremamente lucide ed interessanti; accanto a quella del milanese Cristoforo
Borri (1583-1632), autore della Relazionet della nuova missione delli Pp. della Compagnia di Giesù al
regno della Cocincina, si colloca di diritto il lavoro
letterario del ligure Giovanni Filippo De Marini, gesuita e missionario in estremo oriente.
Giovanni Filippo De Marini nasce a Taggia nel
1608 e della gente dell'estremo Ponente conserva
per tutta la vita le doti migliori: senso pratico,
capacità innate di raziocinio e quello spirito di adattamento che è spesso temprato da un'umanissima
comprensione dei problemi altrui.
In più ha una fede sincera, una spontanea convinzione che il credo
cristiano sia valido ed accettabile a qualsiasi latitudine, a condizione che vi sia portato con logica cautela e prudente analisi della verita effettuale dell'area di operazione missionaria.
La fede lo sottrae
a Taggia e lo consegna alla Compagnia di Gesù nel
1625; dopo 13 anni, nel corso dei quali matura ed affina le doti potenziali di missionario , s'imbarca per
le Indie nel 1638.
Nel Tonkino esperisce con successo le sue funzioni, adattandosi brillantemente
all'ambiente e sondandone con mente lucida le condizioni socio-politiche ed impadronendosi del lessico indigeno.
Il successo lo eleva a grande dignità
e gli conferisce, agli occhi dei locali, la nomea del
giusto e del saggio; riconoscendone le buone capacità e l'indubbio carisma l'autorità ecclesiastica gli
attribuisce ia prestigiosa carica di Rettore del Collegio Gesuitico di Macao. All'ombra dei Portoghesi,
ma sempre curioso e attento ai problemi degli indigeni, affina la sua sensibilità Missionaria, emancipandosi dai residui pregiudizi europei, consequenziali del resto di una formazione culturale ancora
nebulosa nei confronti dell'estremo oriente.
Ritornato a Roma nel 1660 riesamina letterariamente le sue esperienze missionarie ma, nonostante
l'effettivo. successo dei suoi sforzi intellettuali, prova nostalgia delle antiche, esotiche esperienze e finalmente, nel 1674, riprende la via dell'Oriente.
Risiede dapprima in Giappone, svolgendo in questo
paese, divenuto pericolosamente impermeabile all'infiltrazione cattolica, la delicata funzione di padre provinciale della missione gesuitica.
In funzione
dell'esperienza accumulata e di una raffinata potenzialità di comprensione e di analisi il De Marini
non manca di ottenere anche in questa occasione
; ottimi successi missionari, pur dovendo barcamenarsi nei labirinti di una cultura sottilmente ambigua come quella orientale e nonostante gli estri di
un potere locale (e centrale) in genere modellato
secondo una apparente formale cordialità ma sempre ancorato alla prepotente autocrazia di un insuperabile feudalesimo.
Non ritorna più in Italia! Rispettato ed amato conclude la sua esperienza terrena a Macao il 7 luglio 1682, lasciando quale retaggio spirituale i suoi insegnamenti di brillante
missionario, uno scarno epistolario e la versione
dal portoghese di un testo per la preparazione catechistica, strutturato ed organizzato da Antonio Rubino ad uso delle popolazioni asiatiche convertitesi
alla dottrina di Cristo.
Il suo lavoro letterario più interessante rimane
comunque l'"Istoria e relazione del Tunkino e del
Giappone", comparsa nel 1663, ma di cui si ricorda
un'edizione veneziana del 1665.
L'opera, formalmen
te agile e moderatamente appesantita dal gusto barocco per l'erudizione, gode discreto favore tra i
lettori; l'intento programmaticamente didascalico
(l'autore dichiara di voler giovare alle anime) non
sottrae energia al resoconto, che conserva un'indubbia piacevolezza e che, per vari aspetti, e tuttora
fruibile.
Nonostante il De Marini sentenzi seriosamente che rinuncia al delectare, tanto in voga nel
secolo, per il più dimenticato ma utile "prodesse", è
altresì fuor di dubbio che il lettore moderno si accosta ai suoi scritti con curiosita non esclusivamente spirituale ma anche con edonistico e scientifico
interesse per le pregevoli descrizioni geografiche,
ambientali e socio-culturali.
Basti pensare all'ariosa e garbata macrosequenza
narrativa dedicata alle gare tra i vogatori tonchinesi, che, nello sforzo di sopraffarsi e vincere la
competizione, si danno da se la battuta a schiusi
denti e labbra ristrette, con battere il pie' sopracoperta.
Il De Marini osserva la scena con occhio attento,
diremmo etnologico, e nell'oggettivizzare letterariamente il fatto risulta del tutto scevro di condizionamenti culturali o di freni retorici tipicamente occidentali Egli valuta gli eventi attraverso la lente
spregiudicata di un ottica mentale aperta e per questo profondamente cristiana; nel suo messaggio gli
indigeni perdono la convenzionale e stantia caratura;
di selvaggi senza direttive etiche, essi sono soprattutto uomini, etnicamente e culturalmente diversi
ma sempre uomini, nel senso piu completo del termine.
Da qui deriva, su un parametro logico, un'implicita consonanza con altri uomini, con altre civiltà; nel dipingere l'evoluzione della gara, forse con
una certa tendenza all'espressione stilizzata, il De
Marini sembra voler equiparare l'esotica regata cui
assiste ad altre da lui viste in precedenza, magari
nel suo mare ligure: ...tutti intesi con gli occhi al
premio e con le mani al remo, richiamano tutte le
forze alle braccia e danno strappate sì gagliarde co' remi che, presso a romperli, li contorcono per la
violenza. E come ovunque, come da sempre accade in Italia anche qui a chi il primo gionge, dando vocii di allegrezza sino al cielo, riceve il pallio e
l'applauso.
E' un modo semplice e vibrante di narrare ma è
in particolare occasione ghiotta ed utile (si ricordi
il prodesse = giovare di programma) per dimostrare quanta umana convergenza e spontanea identità
di sensazioni esista tra questi indigeni orientali e i
loro fratelli europei.
II pezzo pregiato e più significante in senso lato
rimane comunque il celebre Elogio di Confucio,
in cui il De Marini, riprendendo una delle migliori
convenzioni letterarie barocche, procede ad un'attenta demistificazione di ogni aspetto di conformismo mentale. Nel suo procedere narrativo, didascalico in superficie ma solido nei valori di fondo, il
gesuita ligure manifesta tutta la sua volonta di avvicinare alla spiritualità cristiana ed alla mentalità europea anche quelle tematiche, più profonde ed in
apparenza provocatorie, che sono retaggio emblematico della civilta orientale. La marcia di avvicinamento del missionario e modulata e prudente ma
la finalita e evidente: smussare gli angoli ed accostare parametri spirituali in apparenza diversissimi.
La collocazione ideologica e storica non permette al De Marini affermazioni totalizzanti, peraltro
ingiustificabili in tale contesto ed in rapporto alle
finalita dello stesso. Più semplicemente egli intende
vanificare molta confusione intellettuale, sottrarre
energia latente a vieti pregiudizi europei e soprattutto presentare la realtà di fatto.
Questi presupposti
spiegano gli elogi per l'opera sociale di Confucio
equiparato ad un saggio illuminato che stimpegno
sempre, con i suoi discepoli, portando guerra a tanti invecchiati abusi e corrutele non con arme di ferro, ma con argomenti di ragionio.
Ecco il punto nodale, l'essenza della riflessione: la razionalità, l'arma dei puri, a qualsiasi latitudine appartengano!
Confucio non è un Dio nè un Santo, ma di certo
un saggio.
L'equazione Confucio = saggio, veicola un messaggio fruibile a livello della serie storico-culturale
dell'Europa secentesca; alla figura orientale viene
sottratto il carisma del dio pagano ed il filosofo
astratto dalle nebulosità dell'ignoranza, risulta
proiettato in una dimensione recepibile, sino alla
sua identificazione con Platone: E vi è opinione di
alcuni che qual altro Platone giongesse al conoscimento di Dio.
Su un parametro logico-temporale il De Marini
conclude il suo meccanismo qualificante; Confucio
è un diverso, un non cristiano ma è un saggio e
quindi un comprensibile anzi è ideologicamente prossimo ad un altro non cristiano, quel Platone cui si
è sempre guardato con stupore per l'inesausta e nobile, seppure angosciosa, peregrinazione nei meandri della metafisica.
Ed ecco chiarirsi l'organismo
letterario del gesuita; il misterioso, labirintico sacerdote pagano finisce per essere calato nei panni
un poco limitanti, forse un po' troppo europei, del
"giusto sapiente" in ansiosa ricerca e chiarificazione del Mistero.
Sotto questo aspetto il De Marini si colloca nella
giusta dimensione di chi consuma la sua vita per far
avvicinare due mondi; è, come il Borri, un "chiarificatore" ed è ancor più di un missionario in quanto
non solo si fa apostolo del Cristianesimo ma profeta di un incontro tra genti ritenute antitetiche.
BIBLIOGRAFIA
G. BRANCA, Storia dei viaggiatori itatiani, Torino 1873.
P. AMAT DI S. FILIPPO, Biografia dei viaggiatori italiani con
la bibliografia delte loro opere, Roma 1882-1884.
L. BAKER, A History of geographical Discovery and Esplo
ration, London 1931.
P. DE FILIPPI, I viaggiatori italiani in Asia, Roma 1934.
E. MIGLIORINI, Geografia e viaggi, Roma 1941.
C. JANNAC0, Seicento, Milano 1963, pp. 589-96.
E. RAIMONDI, Scienziati e viaggiatori barocchi in V vol. della
Storia della tetteratura italiana diretta da E. Cecchi-N.
Sapegno (II Seicento, Milano 1967, pp. 225-318).
M. GUGLIELMINETTI, Viaggiatori del Seicento, Torino 1967
pp. 471-82.
Sul De Marini (e sul Borri) ci sembra acuta la breve nota
di M. CAPUCCI, Caratteri e fortune di un cappuccino scozzese in "Studi Secenteschi", XX (1979), p. 63, n. 39.
Per un inquadramento storico delle missioni e dei missionari, a parte le voci specifiche dell'Enciclopedia Cattolica, si veda l'Histoire universelle des missions catholiques,
publiee sous la direction de M.gr Delacroix, II, Paris 1957.