fotog. B. Durante

QUESTA RARISSIMA CARTA D'ITALIA E' TRATTA DAL VOLUME "PENSIERI SULL'ITALIA DI UN ANONIMO LOMBARDO" OPERA DI LUIGI TORELLI, USCITA ANONIMA NEL SETTEMBRE 1846.
LA TAVOLA PERO' SI TROVA SOLO NELLA SECONDA EDIZIONE CHE E' DELL'OTTOBRE DELLO STESSO ANNO.
IL VOLUME INTITOLATO "PENSIERI SCRITTI NEL 1845 E COMMENTATI DA LUI MEDESIMO NEL 1853 USCI' A TORINO IN QUELL'ANNO COL NOME DELL'AUTORE.
A PAGINA 139 DELLA II EDIZIONE IL TORELLI DELINEA IN QUESTO MODO IL SUO PIANO DI UNIFICAZIONE:
""OSSIA LA FORMAZIONE DI TRE REGNI COSTITUZIONALI E DELLA REPUBBLICA DI ROMA.
OGNI REGNO HA DUE CAPITALI, LA RESIDENZA DEL SOVRANO E QUELLA DEL CONGRESSO NAZIONALE.
IN QUESTO MODO SI INTERESSANO GLI ABITANTI DELLE SEI PIU' COSPICUE CITTA' D'ITALIA E S'IMPEDISCE LA SOVERCHIA CONCENTRAZIONE IN UNA SOLA METROPOLI...IL PONTEFICE NON SARA' PIU' AUTORITA' TEMPORALE, MA SOLO SPIRITUALE"".





















Luigi Torelli (Villa di Tirano, So 1810 - Tirano, So 1887 ) Famoso perché il 20 marzo del 1848 issò la bandiera italiana sulla guglia della Madonnina. Senatore dal 1860, nel 1864 fu Ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio (Governo La Marmora), realizzando contatti economico-commerciali con la Cina. È ricordato da una targa anche a Solferino (Mn) per l'appoggio che diede alla costituzione degli ossari dei caduti nella II Guerra d'Indipendenza.
















"LA PROTESTA DEL POPOLO DELLE DUE SICILIE"
[di LUIGI SETTEMBRINI]
INDICE
-
CAPO PRIMO/ INTRODUZIONE
-CAPO SECONDO/ AVVENIMENTI DAL 1820 AL 1847
-CAPO TERZO/ RE FERDINANDO
-CAPO QUARTO/ IL GOVERNO
-CAPO QUINTO/ LA POLIZIA
-CAPO SESTO/ GLI AFFARI INTERNI
-CAPO SETTIMO/ LE FINANZE
-CAPO OTTAVO/ GRAZIA E GIUSTIZA
-CAPO NONO/ IL CORPO DI CITTA'
-CAPO DECIMO/ I PRETI E I FRATI
-CAPO UNDECIMO/ I SOLDATI
-CONCHIUSIONE


























CAPO PRIMO
INTRODUZIONE
Gli stranieri che vengono nelle nostre contrade guardando la serena bellezza del nostro cielo e la fertilità dei campi , leggendo il codice
delle nostre leggi, e udendo parlar di progresso di civiltà e di religione, crederanno che gl'Italiani delle Due Sicilie godono d'una felicità invidiabile. E pure nessuno stato d'Europa è in condizione peggiore della nostra, non eccettuati nemmeno i turchi; i quali almeno son barbari, sanno che non han leggi, son confortati dalla religione a sottomettersi ad una cieca fatalità, e con tutto questo van migliorando ogni dì; ma nel regno delle Due Sicilie, nel paese che è detto giardino d'Europa, la gente muore di vera fame, e in istato peggiore delle bestie, sola legge e il capriccio, il progresso è un indietreggiare ed imbarberire, nel nome santissimo di Cristo è oppresso un popolo di Cristiani. Se ogni paesello, ogni terra, ogni città degli Abruzzi, de' Principati, delle Puglie, delle Calabrie, e della bella e sventurata Sicilia potesse raccontare le crudeltà, gl'insulti, le tirannie che patisce nelle persone e negli averi; se io avessi tante lingue che potessi ripetere i lamenti e i dolori di tante persone che gemono sotto il peso d'indicibili mali, dovrei scrivere molti e grossi volumi; ma quel pochissimo che lo dirò farà certo piangere e fremere d'ira ogni uomo, e mostrerà che i pretesi miglioramenti che fa il nostro governo sono svergognate menzogne, sono oppressioni novelle e più ingegnose. Questo governo è un'immensa piramide, la cui base è fatta dai birri e dai preti, la cima dal Re: ogni impiegato, dall'usciere al ministro, dal soldatello al generale, dal gendarme al ministro di Polizia, dal prete al confessore del Re, ogni scrivanuccio è despota spietato e pazzo su quelli che gli sono soggetti, ed è vilissimo schiavo verso i suoi superiori. Onde chi non è tra gli oppressori si sente da ogni parte schiacciato dal peso della tirannia di mille ribaldi: e la pace, la libertà, le sostanze, la vita degli uomini onesti dipendono dal capriccio non dico del principe o di un ministro, ma di ogni impiegatello, d'una baldracca, d'una spia, d'un birro, d'un gesuita, d'un prete.
Gli altri Italiani soffrono anch'essi, ma i nostri mali trapassano ogni misura. La Toscana ha un Principe umano, un governo mite e ragionevole: nel Piemonte gli ordini civili son saldi, il Principe voglioso di operare, gli uomini parlano, scrivono, ed han dignità di uomini: nel LombardoVeneto è il gran male della dominazione tedesca, e son puniti severissimamente anche i sospetti di peccato politico, ma la giustizia civile, criminale, ed amministrativa serbasi esattissima: nello Stato Romano dopo sedici anni di oscena tirannide or finalmente si respira, e si benedice al magnanimo Pontefice che si fa promettitore di lieto avvenire a tutta l'ltalia. Ma sono ventisette anni che le Due Sicilie sono schiacciate da un Governo che non si può dire quanto è stupido e crudele, da un Governo che ci ha imbestiati, e che noi soffriamo pcrché forse Dio ci vuol far giungere alla estrema miseria e all'estrema vergogna, per iscuoterci poi ed innalzarci a fortuna migliore; da un Governo che non vuol vedere, non vuol udire, e ci ha finalmente stancati. Ne vi è speranza di avvenire men reo; perché Re Ferdinando attempandosi diventa peggiore; e i figliuoli nati da lui ed educati dai preti saranno ancora più tristi di lui. Onde a questi popoli sventurati non resta altro partito che ricorrere alla suprema ragion delle armi: ma prima che giunga il giorno terribile dell'ira è necessario che essi si protestino al cospetto di tutta Europa, anzi al cospetto di tutti gli uomini civili. Noi dunque mostreremo quanto abbiamo fatto dal 1820 fin oggi, quanto sangue di uomini generosi è sparso sulla nostra terra; diremo chi è questo Re Ferdinando II e la sua corte; che cosa i Ministri che sono i1 tutto del Governo; quante scelleraggini, quante ladronerie, quante infamie si fanno in ciascun ministero ed in tutte le branche dell 'amministrazione; scopriremo le nostre piaghe, narreremo i nostri dolori, che sono immensi, insopportabili, indicibili. Se in quel giorno terribile si trasmoderà, nessuno ci biasimi, nessuno ci consigli moderazione e prudenza, che questa è cancrena, e non ci bisogna altro che il ferro. E voi, o padre dei Cristiani, riguardate alla nostra miseria, che anche noi siamo vostri figliuoli, e redenti col sangue di Gesù Cristo. Pel sangue santissimo di Gesù Cristo vi preghiamo di alzar la vostra voce, e dire ad un Re superstizioso e stolto che non ci costringa a spargere quel sangue che ricadrà tutto sul suo capo, che il trono dei tiranni spesso cade e si stritola come un bicchiere di vetro; che l'ira dei popoli è l'ira di Dio e non bisogna provocarla, che noi siamo stanchi, e la pazienza stancata diventa furore.

CAPO SECONDO
AVVENIMENTI DAL 1820 AL 1847.
Le nostre antiche sventure sono state sì lunghe e sì crudeli che son conosciute in ogni parte d'Europa, e sarebbe superfluo ricordarle. Ma se quello che abbiamo sofferto da parecchi anni, ed ancora soffriamo, non è noto a tutti, perché il Governo ha curato sempre di nasconderlo, ora noi lo sveleremo.
Nel 1820 su le montagne di Avellino un branco di uomini alzò il vessillo d'una Costituzione, che fu gridata da tutti i popoli, e solennemente giurata dal re Ferdinando I. La nazione non ricordò che questo Re era quel desso che nel 1799 non riconobbe la capitolazione di Castelnuovo dicendo che un Re non patteggia co' suoi sudditi, e che aveva le mani ancor lorde di sangue; onde ingannata, venduta, svergognata da pochi traditori, credette che egli andrebbe al congresso di Laybac per far riconoscere la Costituzione: egli tornò con un esercito di Tedeschi. Quel che si fece non diremo: solamente in tanta vergogna, mentre i Tedeschi erano a poche miglia da Napoli, il deputato Gtuseppe Poerio scriveva una "protesta", che il Parlamento napolitano si scioglieva per forza straniera, ma che non cessava né poteva cessare di esistere, perché fu sempre legale. Quella "protesta" sta nell'archivio del regno, e con essa un giorno i popoli chiederanno ragione de' mali che ora patiscono dal Nipote del Re spergiuro.
Tornato Ferdinando in Napoli, rizzò forche, ordinò tribunali, i quali condannarono molte migliaia di uomini alla morte, alla
galera all'esilio, alle carceri, alla frusta [l'autore tende ad enfatizzare: la repressione fu feroce ma stando alle ricerche fatte per quanto concerne il principale processo a carico di Morelli e Silvati, che effettivamente furono giustiziati, fra i 66 imputati 30 furono condannati a morte e 13 a 25 anni di lavori forzati, poi tutte le pene furono commutate in pene minori: per ulteriori approfondimenti vedi Battaglini, p. 312 sgg.]. Le pene pe' delitti di Stato furono con rabbiosa crudeltà cresciute; creata una "Commissione di Stato" permanente, tribunale terribile e più infame dell'Inquisizione. E più terribile e più infame di questo fu la Giunta dello Scrutinio generale, che prendendo conto delle persone dalle spie, dai ladri, dai servi, dai confessori, e facendo l'uffizio d' una spia legale, indicava al governo le vittime a colpire. In mezzo a tanti mali, tanti errori, e tanti Tedeschi, trionfava quel tigre di crudelta incredibile, il principe Canosa, e quell' anima più nera e più venale, che l'anima di Giuda, il Ministro Luigi Medici. Questi due famosi scellerati gareggiarono per ruinare e sprofondare la nazione: il Canosa dandola a lacerare ai birri ed al popolazzo più infame, il Medici vendendola e rendendola schiava dell'Austria. La quale comandò, e il Canosa fu cacciato; ma rimasero i suoi discepoli numerosi, furiosi, assetati di sangue, il generale Nunziante, il marchese di Pietracatella, Monsignor Olivieri aio del secondo Ferdinando, e molti altri ancora tra magistrati, militari, preti, impiegati civili, dei quali parecchi ancor vivono e canoseggiano.
Moriva nel 1825 re Ferdinando non sazio delle lagrime di un popolo ammiserito, e lasciava per ischiacciarlo maggiormente il figliolo Francesco I, il quale (rimandati gli affamati Tedeschi) per altri cinque anni seguitò a spremere le lagrime ed il sangue di questi popoli per mezzo dei preti, dei frati, di crudeli ministri, e di un suo rapacissimo servitor favorito Michelangelo Viglia. Questi, che aveva salvata la vita al re avvelenato da quella tigre che l'aveva partorito [la "tigre" sarebbe stata la regina madre Maria Carolina che avrebbe tentato di uccidere Francesco con una tazza di cioccolata avvelenata che gli fu impedita di bere dal Veglia, valletto di Francesco I], e Caterina De Simone, compagna ed aiutatrice delle bestiali lascivie della regina Isabella II [rimasta vedova a 41 anni si concesse, con la complicità della cortigiana De Simone, ad amori clandestini con il barone Von Scmuckher, nel 1838 poi cacciato dal regno, col Principe di Sirignano e quindi con il capitano del balzo che sposò morganaticamente nel 1839], posero a prezzo ogni cosa. Chi voleva campar la vita da una condanna. dava danari al Viglia: chi voleva impieghi civili, ecclesiastici, militari, dava danari al Viglia: gli diè ventiduemila ducati Camillo Caropreso e fu fatto Ministro delle Finanze. Insomma il cameriere Viglia, che aveva l'uffizio di affibbiare i calzoni al re e di grattargli le reni quando la sera andava a dormire, e la ruffiana De Simone furono gli arbitri delle vite e delle sostanze di tutti i sudditi. Sapevalo il re, e ne godeva, e diceva al Viglia: "Fa' buoni affari, e profitta del tempo che io non vivrò molto" (nota del Settembrini: "Quando Francesco andò in Ispagna a dar la figliuola Cristina in moglie a Ferdinando VII, comandò al Viglia di comperar molti lavori d'oro con gioje per farne regali: il Viglia comperò gioje false, e svergognò il suo Signore. Ei teneva i conti del re, il quale gli diede molti fogli bianchi segnati con la sua firma, dicendogli: "scrivici ciò che vuoi". Quando re Ferdinando chiamollo a rendere i conti, ei scrisse in quei fogli, e fu sicuro).
Intanto, mentre Francesco era tirato pel naso da un servitore, il ministro Medici lo atterriva mettendogli innanzi agli occhi l'Austria, la santa alleanza, e Metternich: Nicola Intonti, ministro di Polizia, empiva tutto di spie, di terrori, di supplizi; i Canosini meditavano ed operavano per risorgere. Tra questi Nicola De Matteis intendente in Cosenza, cercando scoprir congiure dove non erano, e facendole nascere, riempì le Calabrie di spaventi, di sangue, di torture che egli stesso faceva, o comandava che si facessero innanzi agli occhi suoi. Questo crudele e furioso carnefice vinse in ferocità lo stesso ferocissimo Manhes , onde i Calabresi stanchi, con l'ajuto ed il consiglio del Medici, nimicissimo del Canosa e dei suoi seguaci, accusarono il De Matteis, che fu menato innanzi ad un tribunale insieme col Procurator Generale della Corte Criminale di Cosenza, ed altri complici e cagnotti. Allora si svelarono gl'intrighi infami e tenebrosi, le crudeltà oscene e nefande: allora fu udita quella jena, che in mezzo ad una moltitudine di regnicoli e di stranieri che lo maledicevano, disse ad alta voce: "che tutto egli aveva fatto per Cesare, e Cesare dovea essergli grato e perdonarlo". Il Medici morì durante la causa: il De Matteis fece banchetto; ma egli era sì reo che anche giudici canosini non potettero non condannarlo a dieci anni di relegazione per le sole torture: per i suoi complici Si cercarono altre prove.
Intanto nella provincia di Salerno i popoli fremevano: i tre fratelli Capozzoli, della piccola terra di Bosco, perseguitati dal Governo, li aizzavano; nel 1828 fu gridata la costituzione in Bosco, Centola, Camerota, Licusati, Rocca Gloriosa, S. Giovanni a Piro. Francesco atterrito vi mandò con pieni poteri un Francesco Saverio del Carretto capo di gendarmi. Questo sbirro, che pochi anni innanzi aveva fatto il carbonaro, divenuto boia, col cannone spianò Bosco fin dalle fondamenta, vi rizzò una colonna a per petuare l'infamia del sagrifizio , diede la caccia ai ribelli, e formò una commissione di suoi sbirro, che fece morire venti persone, fra le quali il canonico De Luca vecchio ottagenario ed un guardiano di cappuccini, condannò quindici all'ergastolo, quarantatre alla galera, molte centinaja a varie pene minori; confiscava i beni de' condannati. Nel dì 8 novembre 1830 moriva lo stupido e crudele Francesco e nell'agonia della morte vedeva intorno al suo letto le ombre di coloro che aveva fatto uccidere; onde negli ultimi delirii fu udito dire: "che son queste grida? il popolo vuol la costituzione? dategliela, e lasciatemi tranquillo ".
Saliva sul trono Ferdinando II figliuolo di quella Isabella, che fu moglie di Francesco e donna di molti altri. La giovanezza del re, la recente rivoluzione di luglio in Francia, e i movimenti di Romagna alzaron la nazione a novelle speranze. Il giorno 10 novembre Ferdinando, con un proclama firmato da lui, si annunzia re per diritto divino, biasima il governo del padre morto da due dì, e promette giustizia. Ed il primo atto di giustizia fu di far ministro dell'Interno il canosino Pietracatella, e di dar pieno perdono al De Matteis ed ai suoi complici. Per consiglio dell'Olivieri diede una pensione al De Matteis, e voleva anche farlo Consigliere della Suprema Corte di Giustizia; ma questi morì ajutato da un medico. Intanto per cattivare i popoli fece richiamar dall'esilio e cacciar dalle prigioni alcuni di coloro che furon men rei negli avvenimenti dal 1820 al 1828. Il Ministro Intonti, uomo astuto, ambizioso, e fieramente malvaglo, sentendosi abborrito da tutti, e mal sicuro, fu questa volta ingannato dall'apparente bontà del giovane alunno dell'Olivieri; e consigliato dalle condizioni in cui allora trovavasi il regno, l'Italia, e l'Europa, proponeva al re un nuovo disegno di governo: un largo e nuovo Consiglio di Stato; rifar tutta l'amministrazione e dar impieghi ad uomini abili e onesti; richiamar gli uffiziali cacciati; formar una guardia nazionale. Si dice che il re in prima si piacque di questo disegno, e gli promise di torre tutti i Ministri; ma i Ministri e l'Olivieri si unirono, dissero al re che l'Intonti era un partigiano del governo francese; il re comandò che fra ventiquattr'ore il Ministro uscisse dal regno, e gli fossero sequestrate tutte le carte. Tutti godettero alla caduta di questo uomo feroce che dopo essersi pasciuto di sangue si mostrava benigno soltanto per fina malvagità; ma i popoli presto disingannati viddero il carnefice di Bosco fatto Ministro di Polizia: il re fanciullo d'anni e d'intelletto spassarsi coi soldatelli, afforzarsi di preti e di frati che mantenessero i popoli nell' ignoranza. Onde presto cominciarono gli sdegni, le congiure, le rivolte, e le condanne delle Commissioni militari e della Commissione di stato; che da questo punto non vi fu un solo anno senza uno sforzo, un tentativo dei popoli, e senza una crudeltà del governo.
Sfortunati frono gli sforzi de' fratelli Rosaroll, del frate Angelo Peluso, e di altri uomini, di oscuro nome, ma di nobile cuore, i quali tutti gemono ancora nelle galere.
Nel 1837 [come ancora scrive il Settembrini in questa sua opera] il "cholera" devastava le nostre regioni, ed il governo spensierato non vi poneva cura, non cercava previdenze, godeva che i popoli fossero atterriti; onde i popoli sospettosi, credettero che il governo lasciasse spargere e dilagare il morbo per ispaventarli e non farli pensare alla politica: la plebe gridò che era avvelenata [sì che in alcune relazioni ricomparve la mai dimenticata ed anche diabolica figurazione degli untori operanti sul territorio italiano].
In Calabria si disse che furono veduti uomini avvelenar le fonti delle pubbliche acque, che il veleno era mandato in cassettine agl'Intendenti per spargerlo: in Siracusa e in Catania la plebe si mosse a rumore, uccise alcuni sventurati creduti avvelenatori, uccise l'Intendente di Siracusa. La Commissione militare condannò a morte dieci persone, il re ne fece giustiziare undici. In Cosenza fu mandato con assoluti poteri l'Intendente di Catanzaro Giuseppe de Liguoro, sottocarnefice di Bosco: ed ecco la Commissione militare condannare a morte parecchi "avvelenatori", gente che si trovava in carcere per delitti politici, condannar altri alla galera come "spargitori di voci rivoluzionarie" (nota del Settembrini:" I1 Re comando con suo decreto di menarsi innanzi alie Commissioni quelli che erano creduti spargitori di veleno e quelli che dicevano che si spargeva veleno"): ecco afferrare ogni persona sospetta, gettarla in carcere, farle un processo; ecco mostrarsi una gran congiura, e i grandi servigi che si facevano per spegnerla. In Sicilia fu versato più sangue; che ivi era il Ministro Del Carretto: ivi innumerevoli condanne di ogni genere, innumerevoli infamie e tradimenti di chi cercava farsi merito ed avere impieghi. Siracusa per decreto del re non fu più capo?provincia; e così quella città che un tempo fu l'emula di Atene, la regina della Sicilia, la più bella e ricca città d'Italia, e popolata di un milione di abitanti, ha ricevuto l'ultimo colpo alla sua rovina dalla mano di re Ferdinando, e fra poco diverrà un meschino villaggio. Ecco le opere di re Ferdinando e del suo Ministro il quale ritornando da quella carneficina fu rimeritato della fascia dei cavalieri di San Gennaro.
Negli anni seguenti non mancarono altre congiure ed altri martiri. Nel 1842 l'Aquila alza un grido e comincia dall'uccidere i1 comandante le armi della provincia, Gennaro Tanfano, che era stato capo di briganti col cardinal Rudo, spia e cagnotto di Carolina in Sicilia, membro della Commissione dello Scrutinio, codardo e crudele tanto quanto era infame. Fu spedito all'Aquila il generale Casella, e furon tratti innanzi alla Commissione centotrentatre accusati, ne furono condannati cinquantasei, quattro fucilati. Nel 15 marzo ecco un altro grido a Cosenza. Francesco Sale, Michele Musachio, Emmanuele Mosciaro, Francesco Coscarella, Giuseppe de Filippis, muojono combattendo, dopo di aver ucciso il Galuppi capitano di gendarmi. Furono fucilati per sentenza della Commissione militare Niccola Corigliano, Antonio Rao, Pietro Villacci, Giuseppe Camodeca, Giuseppe Franzese, Santo Cesario, Scanderbec Franzese. Ad altri quattordici condannati a morte fu commutata la pena, e stanno nell'ergastolo; molti altri in galera diversamente tormentati. Nel mese di luglio giunsero in Calabria i fratelli Bandiera, il Ricciotti, il Moro ed altri compagni. Questi sventurati e generosi giovani vennero tratti dalle voci sparse ad arte che i rivoltosi di Cosenza stavano su le montagne, combattevano, e desideravano capi: un bandito Calabrese, detto il "Nivaro" rifuggito a Corfù, li guidava: s'indirizzarono verso S. Giovanni in Fiore, chiamarono fratelli quelli che incontrarono, disse ro che erano venuti per ajutarli e liberarli; non furono compresi: furono battuti, rubati, spogliati, nove di essi fucilati, gli altri mandati in galera. Moriron col coraggio dei martiri, intrepidi, dignitosi, ammirati anche da quelli che li condannarono, pianti in segreto da tutti. Il Nivaro che al metter piede in Calabria era sparito, ha avuto intero perdono dal re, e vive libero; ed un tal Bocchechamps, la cui corsa progenie è ricordata nella storia napolitana, dopo poca prigionia fu assoluto per aver solo tradito i suoi compagni. Quelli che presero i Bandiera e gli altri furon fatti cavalieri dell'ordine di Francesco I; ebbero pensioni, impieghi, favori. Alla città di S. Giovanni in Fiore pubbliche lodi di fedeltà, favori, remissione di alcuni dazi. Ecco quali meriti bisogna avere per esser premiato dal governo delle due Sicilie.
Or tanto sangue sparso, tanti sforzi fatti l'un dopo l'altro, tanti uomini che gemono nelle galere, e tanti altri che sono pronti a fare lo stesso, senza temere le stesse e maggiori pene, mostrano chiaramente che la nazione soffre mali insopportabili, che non è degna della sua oppressura, e vuole e deve cangiar condizione.

CAPO TERZO
RE FERDINANDO
Dei nostri mali è sola cagione il governo, e del governo è capo Ferdinando II. Questo principe è uno stolto, un prosuntuoso, un avaro, un superstizioso, vero tipo dei Borboni, stupidamente crudeli e superbi. Inetto ad ogni cosa, vuol fare ogni cosa, e la guasta; sdegnasi di consigli, incapace di farsi un amico, si fa disprezzare anche da quei pochissimi ai quali fa bene.
Dato da fanciullo in mano di sciocchi preti
, educato dal1 Olivieri, mostrava nei puerili trastulli la ferocità del cuore; perocché in Portici ei godeva di gittare i conigli vivi al leone, e a mirare come li sbranava. Fatto re prima di radersi la barba, (e tanto si rase e raschiò finché gli venner fuori i peli ed il senno), si persuase che egli è di natura superiore alla nostra povera natura umana (nota del Settembrini: "Tra' primi decreti fatti da lui è quello che comanda a' soldati di farsi crescere i mustacchi") che può e sa far tutto da sè; che i sudditi suoi debbono essere felicissimi, e però non vuole nemmeno ascoltarli. Chi desidera un' udienza del Re deve primamente affaticarsi per parlare ad un ciamberlano, al quale deve dichiarare in iscritto quello di che vuol pregare il sovrano: il ciamberlano ti destinerà per la quarta, la sesta, la nona udienza, che non più di sessanta persone sono ammessa in ognuna. Ma potrai una volta parlare al re? Ai primi giorni dell'anno il re è in Caserta e bada al real presepe e a festeggiar l'arrivo dei Magi: a Carnevale son feste e balli e non si pensa ad affari e malinconie: a quaresima il re ascolta prediche, sermoni, esercizi spirituali: a Pasqua si fa il precetto e pensa all'anima: dipoi pensa un po' al corpo e vassene a Castellammare: dipoi va a correre la Sicilia dove non ode nessuno che non è siciliano; torna di là e scordasi dei siciliani, e pensa all'esercito, alla mostra per la festa di Piedigrotta, a mandare i soldati alle stanze; e rieccoci al Natale ed al presepe. Negli intermedi ora visita le chiese, ora i soldati, ora riceve principi forestieri, ora non à voglia di far niente; sicché in tutto un anno appena resta tempo per -~quattro o cinque udienze che non durano più di un'ora.
Taluno fatto ardito dal bisogno lo investe per le vie: oggi chi tenta di turbare gli ozi divoti di Caserta è preso dai gendarmi.
Una donnicciola che nella strada di S. Lucia si avvicinò troppo alla veloce carrozza sentì spezzarsi le gam­be dalle ruote, ed a questo prezzo ottenne quel che chie­deva.
In Castellammare un uomo si cavava dal petto una supplica per dargliela, ei penso fosse un pugnale, lo fece stramazzare e sfracellar dai cavalli.
Né resta gran tempo ai consigli di Stato; onde le faccende vanno a rovina, e chi dalle lontane province viene in Napoli per suoi affari, vi spende tutto il suo, agonizza otto o dieci mesi per par­lare al re, e se ha la fortuna di parlargli, non ode altro che una voce chioccia che gli risponde "bene, bene", e le cose andran male, ed ei se ne tornerà più oppresso ed arrabbiato che quando era venuto. Mentre i popoli gridano, i Ministri tiranneggiano; egli stassene in una beata stupi­dità, e gli pare di esser sapientissimo.
Ma fosse pure uno stolto, e non corrompesse e gua­stasse con la sua presunzione ogni condizion di persone. Egli si è persuaso che tutti i sudditi son cattivi, e ladri, che non giova torre d'impiego un satollo per mettervi un affa­mato, e che i più ladri e i più ribaldi sono i più fedeli al trono: sicché tutte le persone che reggono le cose del regno sono o stupidi o malvagi, perché, secondo il senno di Fer­dinando, i primi non sanno rubare, i secondi son fedeli e sazii, e non rubano tanto.
Egli non dubita scherzando di domandare ad un ingegnere quanto ha avuto di sotto­mano in un'opera; e un dì essendo a Caserta seguito da Ministri, tra i quali il Santangelo, che ha fama di ladro, ei non si vergognò di mettersi le mani dietro, e dire riden­do: "signori mici, guardiamoci le tasche". Questa stupida per­suasione è la cancrena che divora tutto il regno! è la causa vera e prima di tutti i nostri mali.
Quando i ladri non solo sono sofferti, ma premiati, tutti si sforzano di rubare. E tra otto milioni di uomini non vi sarebbero anche un dieci persone dabbene?
E non dovrebbe un Re cercarle ed adoperarle invece di quella gente trista, ignorante, fecciosa, che forma il nostro governo?
E se anche tutti son malvagi un buon principe li forma buoni col terrore, essen­do tirannicamente giusto, facendo impiccar per la gola un ministro che ha fatto un'ingiustizia, ha spogliato un citta­dino.
Dai quest'esempio, e vedrai che anche un popolo cor­rottissimo, anche un popolo di Ferdinandi diventerà buono, prima per paura, poi per uso, infine per educazione e per sentimento.
La stoltezza di questo Re "Sacripante" ha corrotto anche l'esercito che è il suo prediletto trastullo; perocché egli dando dell'asino e del ladro agli uffiziali pubblicamen­te ha "rotta la disciplina militare, per modo che in meno di dodici anni diciassette uffiziali sono stati uccisi da sol­dati, il che parrebbe gran maraviglia se fosse accaduto negli eserciti numerosi di Francia o di Austria o di Russiia. Né i1 soldato può rispettare vecchi colonnelli e generali che furono capi di briganti e servitori, ignorantissimi, bravi solamente nelle parole.
Insomma questo presuntuoso cre­de saper di tutto e vuol fare tutto, ma non sa né fa niente; si veste in mille guise e si crede ora un valente capitano di terra, ora un forte lanciere, ora un intrepido ammira­glio, ed ora anche un dotto architetto.
L'architettura poi è tutta cosa sua; corregge a suo modo i porogetti, fa mu­ rare e smurare a suo talento; la fabbrica vien meno, ed ei rimprovera l'architetto.
Se questi non fosse un Re sarebbe un buffone da far ridere, o uno sciagurato da far pietà.
A lui ogni anno ciascun ministro porta i risparmi fatti nel suo ministero. Questi risparmi sono pensioni e soldi non pagati per impieghi vacanti, gratificazioni che si negano o si scemano a coloro che han fatti lavori straordinarii. Gli impieghi vacanti non si fanno occupare giammai, vi si mettono interni con la metà del soldo, l'altra metà si rispar­mia, e intanto moltissimi minuti impiegati che per molti anni hanno avuto un sottilissimo soldo, e che sperano di crescerlo di due, tre, quattro ducati al mese, si veggono tolto quell'aspettato e misero tozzo, che vien dato al Re.
I1 Re accetta in buona coscienza il regalo dai suoi fedeli Ministri (i quali ritengono prima qualche cosetta per loro); e mille famiglie piangono, e centomila poveri t'investono per le vie, gridano il giorno e la notte, vengono a picchiarti la porta, ti mostrano in ogni parte la miseria e lo squallore di una nazione assassinata.
Son dieci anni che non v'e Ministro della Guerra e Marina, e Re Ferdinan­do ha ritenuto per sé quell'ufficio ed il soldo, credendo che nessuno meglio di lui conosca le cose della guerra, e volendo che nessuno abbia quei grassi guadagni che sono in quel ministero.
Nel conto delle spese del regno è segnato un milione e mezzo di ducati per la marina ogni anno: di questi si spende poco più della metà, il resto se lo prende il Re, il quale regala ottocento ducati agl'impiegati che gli fanno il conto segreto: gl'impiegati si spartono il regalo; colui che fa veramente il conto è un impiegatello che ha sei ducati il mese e non conosce l'importanza del lavoro che fa.
Conoscendo questa sozza avarizia del Re i provve­ditori dell'esercito (fornisori) signori Montuoro e Falanga gli portano ogni anno un dieci o dodici mila ducati dicendo che sono risparmii da essi fatti. I1 Re loda questi buoni provveditori, e dice che i soldati son trattati benissimo.
Se compra, se dona, se fa contratto qualunque, mostra un'ava­rizia così vile e sozza che farebbe vergogna ad un usuraio. Ed in questo è ben secondato dalla tedesca grettezza della superba moglie, la quale, volendo fare un regalo all'Arci­duca Feclerico suo fratello venuto in Napoli, si fece por­tare alcune merci da un ricco merciaio chiamato Germain; contese lungamente sul prezzo, come una femminella, in­fine si accordarono: dopo un'ora la Regina mandò un ser­vitore dal Germain dicendogli, che il Re aveva veduto le merci, che le eran care, che o dovesse rilasciar qualche altra cosa o se le riprendesse.
Ognuno conosce questa fetida avarizia del Re, ed ognuno propone risparmii, ed è certo che la sua proposta è approvata dal Re che corre ad ogni piccolo guadagno. Insomma il Re permette le frodi e le ladronerie più sfacciate, purché chi le fa sappia dargliene una parte con colorato pretesto. Così fanno i Ministri, così fanno tutti gl'impiegati, e la nazione, lacerata, spogliata, affamata, grida invano e cerca giustizia dal coronato ladro­ne che è il primo suo assassino.
Intanto egli fa tutto in buona coscienza, ogni mattina ascolta la messa, non mangia carne né il Venerdì né il Sabato, se vede un'immagine della Vergine o de' Santi si sberretta, se ode pronunziare il nome di Dio s'inchina, recita l'"angelus" tre volte il giorno. Un dì mentre dava del ladro e dell'ignorante ad un valente ed onesto architetto suona la campana di mezzodì, ei si leva il cappello, mor­mora alcune preci, e piamente segue con più forza il rab­buffo.
Ogni di vuol vedere il suo fedel confessore Cele­stino Cocle, Arcivescovo di Patrasso, frate di S. Alfonso, e consigliarsi con lui; ed ogni sera su tre seggioloni seg­gono Monsignore in mezzo con una lunga corona in mano, il Re dall'un lato, la Regina dall'altro, e recitano il rosario, le litanie, ed altre orazioni. Finite le quali, quel manigoldo carezzando familiarmente 1a Regina, le dice "statti bona, Santarella"; e vassene a trovare una sua figlioccia, che è figliuola di un tal Passaro, suo compare e cagnotto. Que­sto monaco furbo tiene ambe le chiavi del cuor di Ferdi­nando, e le volge a suo talento; gli fa credere che è inspi­rato da S. Alfonso, che ei lo vede in sogno, che ei dice quello che il Santo gli detta; la buona pasta del Re l'ascolta e l'ubbidisce in ogni cosa.
I Messinesi stanchi delle ruberie e delle estorsioni del loro Intendente G. de Liguoro, man­darono alcuni cittadini dal Re per accusarlo: il de Liguoro mandò anch'egli le sue ragioni chiuse in un sacchetto d'oro a Monsignore.
Il Re saputo ogni cosa comandò che l'In­tendente sia destituito, poi lo dice a Monsignore, il quale l'approva, dicendo, che è ben fatto, perché i cattivi impie­gati fanno sdegnare i popoli, odiare il Re, nascere rivolu­zioni. Stato un poco in silenzio, esclama: "O santo Alfonso de Liguoro, potevi mai credere che un tuo nipote avesse fatto queste cose e che ora senza impiego, desiderando un tozzo di pane co' suoi figliuoli si ridurrà alla miseria?". I1 Re come percosso dal fulmine: "Ah! Monsignore", dice, "che m'avete fatto ricordare? Un nipote di S. Alfonso non deve aver questo scorno: per gloria del Santo si soffra ogni Cosa". L'intendente è ancora a Messina e ruba sicuramente, difeso da due gran protettori, lo zio in cielo, e Monsi­gnore in terra.
Monsignore mantiene i Ministri, dà gl'impieghi, fa ne­gozii, bada a' preti, a' frati, a tutti; Monsignore è re, e suoi ministri sono il fabbricatore Passaro, ed il carrozziere De Martino. Questi trattano gli affari, danno udienza in casa loro, e vendono la loro protezione a magistrati, mili­tari, donne, nobili, preti, frati, e a tutti coloro che han molti denari. Si ha fatto costruire nel convento dove egli abita un appartamento tanto bellissimo o riccamente addob­bato che il Re stesso ne rimase scandalezzato. Ha fatto venire certi villani di Puglia suoi parenti, li ha calzati e vestiti da signori, e li ha alloggiati in un bel palazzo. Ha trasformato suo fratello Pasquale Cocle da guardaboschi che era, in Vicepresidente della Corte Criminale di Sa­lerno. Un magnifico palazzo si ha costruito nel luogo più bello della città, e ne fa comparir padrone Carmelo Passaro suo figlioccio.
Monsignore ha persuaso il Re che Pio IX è un giacobino; ed il [buon] Re quando la sera i figliuoli vanno a letto dice loro: "pregate Dio pel Papa, il quale non sa quel che si faccia".
O Santo Padre, o caro Padre degli Italiani, anche Gesù fu creduto pazzo dai Farisei!
Così Ferdinando aggirato dal furbo Monsignor di Pa­trasso è divenuto uno stupido: guardasi di pronunziare la parola "eziandio" perché in essa si nomina Dio; ed i preti censori della stampa cassano questa sventurata parola da ogni scrittura. Per gli scrupoli del Re le ballerine debbono vestire in teatro le brache sino al disotto del ginocchio, e di colore scuro; per ordine comunicato dalla Poilzia con ministerlale ai coreografi dei RR. Teatri, questi debbono essere accorti nelle loro composizioni a non mettere i loro perso­naggi in attitudini troppo amorose che potrebbero risve­gliare negli spettatori idee libidinose; e nei ballabili non metter tanto in cantatto i corifei con le corifee, ma serbare una convenevole distanza fra loro per evitare gli scandali e non offender la morale: i drammi "L'abate de l'Epée", e "L'abate Taccarella" dovettero intitolarsi "II signor de l'Epée" ed "Il poeta Taccarella", che né abati, né preti, né romiti, né ebrei [Nota del Settembrini: “Perche Rothscild e ebreo e prestava denari anche al Re, fu inibito di mostrare sui teatri la sporca avarizia di questa razza, ed il nome di ebrei è cambiato in quello di arabo” ] si possono rappresentare in teatro; né mai nomi­nar "Dio" ma invece "cielo".
Ma il devoto trastullo di questo Re fanciullone è il presepe che egli fa in Caserta. Sbrac­ciasi, piglia la sega, il martello, l'ascia, e lavora egli stesso per soddisfare la sua divozione: mostra a tutti l'opera sua, la gente vi corre, ed egli gode vedendo tanti divoti che gli dan buon guadagno alla strada ferrata. Vero nipote di quel Ferdinando I che, regal tavernaio, cuoceva e vendeva mac­cheroni in Portici [nota del Settembrini:”V. Colletta, "Stor. Di Napoli", II, 1, 5).
Or negate che Ferdinando II sia di sangue borbonico! Ed egli seguendo l'esempio dell'avolo fa che i suoi figliuoli nella Domenica delle Palme e nei dì di S. Giuseppe per un divoto divertimento imparino da un guattero a far le zeppole, e coi grembiuletti legati al collo le facciano anch'essi.
Un dì stando ad una finestra del palazzo di Caserta, e vedendo passare una processione di quattro mascalzoni ed un prete che portava un'immagine della Vergine, ei chiama la moglie ed i figliuoli e s'inginocchiano. Passa un tenente con alcuni soldati per mutar le guardie e non vi bada: il Re comanda che il tenente sia messo in castello; questi gli scrive una supplica, e dentro vi pone l'"Ordinanza mili­tare", la quale comanda che solo al SS. Sagramento ed alle persone reali si debba fare il "presentate armi".
Il Re libera il tenente, e con un rescritto comanda che si faccia questo onore anche alla Vergine. Così egli stassene in un'estasi beata; e quando il popolo grida miseria e cerca pane, egli risponde: "Sono i peccati, confessatevi, ed avrete la prov­videnza".
Ecco in qual modo re Ferdinando corrompe ed opprime otto milioni di uomini, come li ammiserisce, come guasta una religione santissima che egli non conosce, come li rende ipocriti e malvagi! Quello che egli fa, fanno tutti gli altri, i quali mirano in lui, e vogliono piacere a lui. Onde nel reame delle due Sicilie non v'ha più religione, ché i preti l'arruffianano, il Re la svergogna, i ribaldi la vendono, tutti ne usano a loro pro. Or ecco chi è Ferdinando! Egli si è studiosamente affaticato a scegliere la gente più stolta, più malvagia, più perversa, più disonesta, e se ne è circondato, e le ha dato impieghi e potenza. Da lui scendono tutti i nostri mali, da lui apprendono a tiranneggiare i ministri, da lui deriva quella stoltezza, quella inerzia, quella bestia­lità, che vedesi nelle azioni del governo; egli è il verme più grosso e più schifoso della piaga che ci rode.
E vermi sono ancora il Principe di Bisignano, il Duca di San Cesareo, il generale Salluzzo, il Duca di Ascoli e tutti gli altri nobili con livrea, che formano la Corte. Gente sciocca ed ignorante a segno che non sa leggere; onde li diresti simili agli arcavoli, se guardandoli in volto non ti accorgessi ch'ei sono plebei, e somigliano agli adul­teri servitori delle loro famiglie. Tra essi non ve n'ha uno buono, uno pio, uno che abbia un po' di senno comune, che consigli un bene: forse tra tutti essi re Ferdinando è il men tristo. Con questa gente e col suo confessore il Re si trattiene, e si consiglia: i negozi dello Stato stanno in mano dei Ministri.

CAPO QUARTO
IL GOVERNO
Ed i Ministri i quali compongono tutto il governo sono malvagi o stolti.
Presidente dei Ministri è il Marchese di Pietracatella uomo di mani nette, di sapere poco, storto e gesuitico, d'in­dole fiera: amico della tirannide più che del tiranno, vor­rebbe risuscitare i baroni e il Santo Uffizio, e, non potendo, rodesi e stassene lungi degli affari maledicendo il progresso e il commercio; incapace di far bene, o non fa nulla, o fa il male.
Ministro di polizia è Francesco Saverio del Carretto, shirro carbonaro nel 1820; sbirro
lacero e supplicante in sala di Federico Cuarini che lo scrutinò nel 1822; sbirro a Bosco nel 1828 e Marchese; sbirro Ministro nel 1831; sbirro a Siracusa nel 1837; ed ora sbirro ricco di quaran­tamila ducati di rendita l'anno.
Il Ministro dell'Interno Nicola Santangelo è un civet­tino che ha la boria di saper di tutto, dottissimo solo in rubare.
Ferdinando Ferri, antico liberale del '99, ha vergo­gna di esser ricordato per tale da' suoi primi amici, e non si vergogna di rappresentare il Ministro delle Finanze; stu­pido e birbone egli vien chiedendo di tanto in tanto la sua dimissione, ed invece ottiene dal munificentissimo Prin­cipe nuovi doni e concessioni.
Il Ministro di grazia e giustizia, Nicola Parisio è un buon legale, ed ottimo latinista, ma un uomo debole che non sa negar nulla a' suoi colleghi, i quali gli fanno nomi­nar magistrati le spie, i lenoni, gli sfacciati.
Il Ministro degli affari esteri, Principe di Scilla Fulco Ruffo di Calabria, è un grosso pezzo di carne aggomito­lato, che parlando balbetta e spruzza saliva, e non sa far altro che spensieratamente spetazzare.
Ministro degli affari ecclesiastici è il divoto Principe di Trabia Giuseppe Lanza, il quale non manca di principii generosi, ma la cui vita non è che un continuato banchetto.
Del Ministero della guerra e marina è Direttore il gene­rale Giuseppe Garzia : il Re n'è Ministro.
In Sicilia è luogotenente generale Luigi de Maio, il piu codardo di quanti mai cingono spada, scelto dal Re non per governare, ma per insultar la Sicilia, e svergognare la maestà investendone un tristo vigliacco. Prima del de Maio i Siciliani ebbero a soffrire i capricci, le lascivie, e gli oltraggi di Leopoldo Conte di Siracusa, uno de' tristi fratelli del Re [del principe Leopoldo di Borbone conte di Siracusa, nato nel 1813 e morto a Pisa il 3 dicembre 1860, fatto dal Re luogotenente di Sicilia nel 1831 non così drasticamente come il Settembrini ne parlò Benedetto Croce che ne scrisse “"…si fece amare da quelle popolazioni per la sua comprensione dei loro bisogni e per il contegno liberale…"”: vedi "Un principe borbonico di napoli costante assertore di libertà", bari, 1944 - secondo gli studi più attuali “la ragione del richiamo del Conte dalla Sicilia fu essenzialmente politica, e cioè la volontà di diminuire gradatamente la autonomia siciliana, e quindi, il prestigio della luogotenenza: vedi Battaglini, p.328, nota 3].
Da questi otto Ministri è composto il Consiglio di Stato, e da altri ancora i quali non hanno un carico parti­colare, e si dicono Ministri senza portafoglio. Questi sono: Giustino Fortunato, iena ferocissima ed insaziabile: Nic­cola Niccolini, uomo doppio che ha scritto secondo ragio­ne ed opera secondo vuole il Re: il Principe di Campo­franco, il Principe di Comitino, il Duca di Laurenzano, il generale Saluzzo.
I primi Ministri son gelosi dei secondi: i secondi ten­tano screditare i primi; il Re li conosce e disprezza tutti, tutti disprezzano lui.
Gli affari gravi si propongono in Consiglio di Stato il quale è fatto così.
I Ministri si radunano, cominciano a proporre e discutere, il Re sbadiglia, e dopo dice: "seguitate voi, che io vado a far colezione".
Quando gli piace torna fumando un sigaro: quelli parlano, ei passeggia e fuma; poi dice al suo segretario " prendi tu le carte, che vedrem noi questo affare".
I Ministri avviliti, arrabbiati, stanchi dopo molte ore, affamati, non ristorati nemmeno da una tazza di caffè, escono dal Consiglio come vipere calpestate. Gli altri affari si decidono nel Consiglio dei Ministri; ma la mag­gior parte vien decisa dall'arbitrio di ciascun Ministro, che non bada né agli altri né al Re; e se il Re gli manda le suppliche decretate, ei se ne ride; onde i miseri supplicanti balzati da1 Re ai Ministri, e dai Ministri al Re, gridano in­vano e cercano giustizia, la quale si patteggia e si vende dai capi di ripartimenti e dagli impiegati.
I1 Re lo sa, e talvolta vorrebbe sdegnarsi contro un Ministro, ma da una parte la politica e la paura lo consigliano a non far muta­menti, dall' altra parte lo rabbonisce Monsignore.
Monsi­gnore non entra, ma è nel Consiglio di Stato, dove egli, il Del Carretto, e il Santangelo possono e fanno tutto: osceno triumvirato di un frate, di un birro, di un ladro.
Fra tutti questi Ministti non v'è nemmeno la con­cordia degli assassini, che tra loro si conoscono, si odiano, s'insidiano: il Re li tiene uniti per forza, e crede che quanto più sono nemici fra loro, tanto più son fedeli a lui e zelanti.
Se un di essi propone il bene, gli altri per malvagità gli si oppongono e lo fanno comparire un male; se propone un male, gli altri divengono virtuosi e l'impediscono; onde non si fa né il bene né il male. Ma ognun d'essi nel suo mini­stero fa quello che ei vuole: Del Carretto neroneggia, San­tangelo ladroneggia, Ferri risparmia, Parisio sogna giusti­zia, il Re recita orazioni, Monsignore apre le porte del cielo e della terra.
Adunque non è maraviglia se il Consiglio di Stato è nulla; se il governo e fiacco, disordinato, ridicolo balordo, logicamente tirannico, vergognoso per gli oppres­sori e per gli oppressi.
La Consulta Generale del regno è un tribunale fatto a pompa, il Re ed i Ministri le mandano gli "affari che vogliono", la Consulta dà il suo "parere", il quale spesso è nulla, e serve soltanto a rendere gli affari lunghissimi ed intermanabili.

CAPO QUINTO
LA POLIZIA
Noi abbiamo un codice di leggi civili e penali che è forse dei migliori che sieno in Europa, ma esso è nulla perché la polizia fa tutto, può tutto, e non riconosce alcuna legge. Negli affari civili i debitori di mala fede, i truf­fatori, gli usurai, le spie, e gli altri tristi, quando vedono che han torto per giustizia cercano i favori o la protezione di qualche impiegato di Polizia o del Ministro. Ed il Mini­stro chiama a sé le parti, giudica ed esegue alla gendarme­sca, non curandosi né di patti né di convenzioni, né di sentenze di tribunali. Chi si lagna e parla di leggi, eccogli i gendarmi, le manette, il carcere; dove resta finché non si persuade che il volere della Polizia è la sola legge cui si deve ubbidire. Un mercante scrisse a Leopoldo Principe di Salerno pregandolo umilmente gli restituisse i seimila du­cati che gli aveva prestati; la risposta gliela portarono i gendarmi che condussero in carcere quell'insolente che do­mandava il suo. Un padre di famiglia vivea col frutto di un picciol capitale: il debitore dà un sottomano ad un impiegato di Polizia ed eccoti quel misero in carcere e per uscirne dovette rinunziare a gran parte del suo denaro e dare una mancia a quei schifosi carnefici detti impiegati di Polizia. Un uomo dabbene scacciò da sé la moglie che era infedele sedottagli da un impiegato di Polizia; la donna ricorse al Ministro, che fatto buon viso alla sgualdrina fe' imprigionare il marito costringendolo o a riprendersi la donna, o a darle un assegnamento ben grosso. Mille fatti di questi, e più brutti ancora sono accaduti ed acca­dono; e sarebbe inutile a scriverli. Il Ministro di Grazia e Giustizia se n'è lagnato; il Re ha ordinato che la Polizia non si brigasse di affari civili, gli ordini del Re sono stati spediti sino a' Commessarii: la Polizia seguita nello stesso modo. Le donne più sozze hanno i favori del Mini­stro, vi corrono ad ogni udienza, fanno anche le spie, ed ei le riceve in una stanza, dove sono specchi e profumi, ed addobbi di meretrici.
Per conoscere quel che fa la Polizia negli affari crimi­nali bisogna sapere che il Ministro è ancora generale e capo dei gendarmi: onde egli, i Commessarii, gl'Ispettori, gl'impiegati, tutti i gendarmi, i birri sono una cosa. Ed egli per rendere più terribile la sua potenza ha fatto fare una legge che chiunque, per qualunque cagione, ardisce dar pure un pugno ad un gendarme non ha meno di sette anni di galera. Un ebanista di Sorrento mal sofferiva che una sua sorella amoreggiasse con un caporale di gendarmi: un dì entra in casa e ve lo trova; sgrida e batte la sorella: il gendarme lo investe, ei gli dà un pugno sul viso: fu condannato alla galera per tredici anni. Il rapporto di un gendarme è documento degnissimo di fede; e i delitti "contro la forza pubblica" sono puniti con una pazza crudeltà. Egli è giusto che i cittadini rispettino la pubblica forza, e sieno puniti quando mancano a questo rispetto, ma quando la forza pubblica sono i birri ed i gendarmi, cioè la più sozza ed infame canaglia, questi abusano del potere che hanno; e quando il gendarme o per ubbriachezza o per capriccio o per prepotenza mi percuote o m'ingiuria, o attenta all'onore della mia famiglia, non è più forza pub­blica, ma è un ribaldo, che Dio, le leggi, e l'onore mi comandano di punire, è un tristo che usa della forza non già della legge, e la legge non deve proteggerlo, ma punir­lo.
Il bugiardo "giornale delle Due Sicilie", scritto dalla Polizia, dice meraviglie dei gendarmi. che hanno spenti incendii, che han salvato naufraghi; ma le son menzogne. Si toglie questo merito di lode a' generosi ed onesti cit­tadini, e si dà a' gendarmi; perché i rapporti che parlano dei cittadini si mandano al Ministro dell'Interno, e quelli dei gendarmi alla Polizia. In ogni paese, in ogni villaggio, in ogni chiesa, in ogni teatro dobbiamo vedere e soffrire i gendarmi, dobbiam leggerne anche nei giornali; ed il Re non si vergogna di tenerli anche innanzi la reggia.
Or chi patisce ingiuria da questi carnefici e se ne risente, non solo è punito con la galera; ma udite altre nefandezze.
Dopo che i birri ed i gendarmi con calci, pugna, ed ogni altra maniera di percosse hanno sfogata la loro crudeltà su l'infelice, questi subito vien condotto innanzi ad un nuovo tribunale, che chiamasi "Commissione per le maz­zate", in cui sono giudici i Commessarii di Polizia, testimoni ed esecutori i birri ed i gendarmi: e vien condan­nato ad avere le "mazzate sul culo" [Nota del Settembrini: "Queste mazzate prima si davano solamente a chi avesse scagliato pietre: ora la Polizia le dà a tutti quelli che hanno resistito alla forza pubblica, a' carcerati che han mancato di rispetto ai Commessarii, o sono venuti alle mani fra loro. Presidente di que­sta Commissione, era Giuseppe de Cristofaro, il più brutto, il più ladro, il più crudele, il più ipocrita, il più sozzo malvagio della terra. Anima del Ministro, contabile del ministero con soli 60 ducati al mese, ha rubato tanto e sì spietatamente che ha comperato cocchi, casini, possessioni, s'ha fatto un sepolcro al camposanto spendendovi seimila ducati. Questi è il boia dei poveri carcerati, e la furia che consiglia il Ministro ad incrudelire. Il Re sapute tante ribalderie gli tolse tanto potere. De Cristofaro ricorse a Monsignore: ed ora ha il potere stesso, vive, gode, si confessa, si comunica, insulta Dio e gli uomini"].
Questa Commis­sione stabilita non per legge ma per ordinanza di Poli­zia, giudica e condanna senza prove, l'accusato non può difendersi, e spesso soffre crudeli battiture e carceri dalla Polizia, e vien assoluto dal tribunale. Dopo questo infame giudizio e questa infame pena comincia l'istruzion del pro­cesso, che vien fatto da un Commessario, comincia la causa che deve portarsi alla Corte Criminale e comincia dalla tortura.
Sta scritto nel codice penale che la tortura è abolita; ma andate nelle carceri e vedrete in qual modo la tortura lacera le membra dei miseri prigionieri, che ne rimangon storpii e mal conci.
Domandate quei prigionieri, ed essi vi risponderanno: “Io non voleva confessare come il Commissario voleva ed egli mi fece spogliar nudo, legar le mani ai testicoli, e gettar sul corpo secchie d'acqua fredda nel mezzo del verno. - Io fui legato mani e piedi e così sospeso ad una fune che per una carrucola pendeva dalla soffitta: mi davano i tratti e io gridava non saper nulla, il Commissario mi veniva addosso arrabbiato, mi feriva il capo col manico di uno stiletto, mi pungeva, mi mordeva, mi svelleva persino i peli dalle dita dei piedi... dissi ciò che ei volle. - Mi spogliarono nudo, mi legarono, mi bat­terono, mi rotolarono per le scale, non mi diedero né man­giare né bere per due giorni, e per farmi morire anche di freddo, aprivano la finestra della segreta la notte, e la chiu­devano al giorno”.
Or in quali paesi, da quali carnefici si fanno queste crudeltà bestiali? Né si creda che sono esage­razioni, o cose che non si possono provare, che chi entra in un carcere, chi ode una discussione nella Corte Crimi­nale vede ed ode cose peggiori di queste.
E le udirono quegli scienziati che venuti al congresso in Napoli assi­stettero ad una gran causa criminale, e videro gl'imputati che mostravano le cicatrici delle ferite, e narravano quello che avevano patito dal più sfacciato ladro e carnefice tra i Commissarii di polizia, il Campobasso. Noi chiamiamo in testimonianza quegli scienziati, essi tornati a' loro paesi han dovuto narrare che orrori hanno uditi e veduti. La Polizia non se ne vergognò: ed il Ministro si sdegnò contro tutti quei rivoluzionarii che si chiamavano scienziati; i quali, come ei disse, ad un suo confidente, erano venuti a turbare la pace del regno e sua.
Cominciato il processo il Commessario ed il Cancelliere lo menano per le lunghe, aspettando che vengano i parenti degli imputati ad acconciar la faccenda con danari: ed i commessi, che sono impiegati senza soldo, e vivono desi­derando delitti e morti, e scorticando chi vien loro alle mani, i commessi si preparano co' birri al guadagno ed alla festa. Gli avvocati criminali con grosse mance si tengono amici i cancellieri ed i commessi, e mutano a loro voglia i processi; sicché colui che non ha per dare a tutta questa turba affamata soffre ogni pena, ogni crudeltà; su di lui mostrano tutto lo zelo e si fanno onore i manigoldi della Polizia. Un uomo di civil condizione fu arrestato come ladro; gli furono trovati in casa parecchi orologi, anelli, orecchini, collane, ed altri ornamenti d'oro: confessò sette furti fatti con chiavi false a sette mercatanti; fu ben trat­tato in carcere, ebbe la piccola pena di sei anni di reclu­sione. Il Re clementissimo gli fece grazia prima di quattro anni, poi di quindici mesi, poi delle spese del giudizio. Aveva dato trecento ducati al Commessario Campobasso, che con tanto amore lo protesse e gli fece avere perdono. Non dirò il nome del ladro; ma la causa fu fatta nel 1841, il processo e i rescritti di grazia stanno nella Corte Cri­minale di Napoli, e chi vuole può leggerli.
Per i delitti di Stato non v'è altra pena, che o morte o galera: i processi son fatti dalla Polizia segretamente, con lunghe e sottili torture. Fino al 1846 ne giudicavan le Commissioni militari, e la Suprema Commissione di Stato, ma abolite queste Commissioni i giudizi appartengono a' tribunali ordinari. La causa di quest'abolizione non è stata benignità o volontà di seguire quello che molti chiari uomi­ni hanno scritto di queste scellerate Commissioni, dappoiché il nostro governo non si cura delle chiacchiere di costoro, ma è stata una causa segreta che noi vogliamo palesare.
Nel 1839 vennero arrestati come settari della Giovane Ita­lia alcuni giovani, i quali ebbero ardire di ritorcere l'accusa e dir che la Polizia avea inventata la setta, e li calunniava, e si difesero in modo che i giudici li assolvettero dicendo, che non avevano prove per condannarli. Il Ministro sul quale era caduta la colpa, infuriò contro que' giovani, disse al Re che la Commissione era composta di giacobini; a quei giudici furono sostituiti altri, e dopo un anno fu abolita la Commissione di Stato e le altre Commissioni militari. Il Ministro pensò che abolita la Commissione di Stato, dove erano alti e fedeli magistrati che non temevano di lui, egli creava ventidue Commissioni quanti sono i tribunali del regno, dove sono giudici giovani, ambiziosi; dove si pos­sono fare ventidue cause senza rumore, senza che gl'im­putati possano far pervenire i loro lamenti agli altri Mini­stri ed al Re, dove il Ministro può esercitare la sua pre­potenza, e, perché da lontano, la sua onnipotenza.
La Polizia fa ancora i processi, la discussione è ancora segreta, e tra giudici militari che non sapevano di legge, e giudici to­gati venduti al Ministro non v'ha nessuna differenza. Né gli avvocati possono levar la voce contro la Polizia, se da avvocati non vogliono diventar accusati; dappoiché anche Giuseppe Marcarelli presidente della Corte criminale di Napoli, uomo amato e riverito da tutti, perché da avvocato officioso difese magnanimamente gli accusati della "Giovane Italia", venne in odio del Ministro che gli fece torre ogni impiego. Or quanti pochi sono coloro che hanno il coraggio e la dignità del Marcarelli! Veggasi dunque che le genero­sità del nostro governo sono ingegnose oppressioni.
Quando poi non ci sono prove da fare una causa, basta una denuncia anonima, o un sospetto per far chiamare le persone fin dalle lontane province, e gettarle in una pri­gione, dove stanno finché piace al Ministro, o vengon mandate sopra un'isola a morir di fame e di stento; senza nemmen sapere la cagione della loro pena, senza essere interrogati una volta. Nelle carceri ci sono alcuni sventu­rati da dieci, da quindici, da vent'anni, non giudicati, ma per comando della Polizia. Negli affari di Stato la Polizia può ritener in carcere le persone anche dopo che sono state assolte da un tribunale, può mandarle in un'isola o anche in esilio; può fare ogni più scellerata cosa, e la fa sfacciatamente. Negli affari più lievi il primo ordine del Ministro, la prima parola che gli esce di bocca, senza ve­dere, senza udire, è l'arresto, le manette, le mazzate.
Ogni birbone che vuol offender altrui, o vendicarsi, inventa una accusa, la quale basta per l'arresto di un uomo, per per­derlo ne' suoi negozi, per subissarlo nelle sostanze. E questo Si dice mantener l'ordine pubblico.
Quello che il Ministro fa in Napoli, nelle province lo fanno gl'Intendenti, i Sotto-Intendenti, i Commissarii, gl'Ispettori, i Giudici regii. Nelle Calabrie poi è rotto anche quest'ordine feroce: che quelle regioni sono in uno stato di guerra permanente. Egli è vero che le Calabrie sono state sempre il paese dei briganti, per l'indole fiera degli abitatori; ma è vero an­cora che il governo costringe quella dura gente al delitto, e la Polizia ve li fa pullulare. I briganti cercano ai pro­prietari qualche somma di danaro, ed avutala, offendono solo chi li offende, vivono soli, guardinghi, tranquilli. La gendarmeria che deve perseguitarli tassa i proprietarii per armar le milizie urbane, poi va alle costoro mandre, e pren­de pecore, agnelli, cacio e a sua voglia, e batte i pastori che dan da mangiare ai briganti.
Mentre i gendar­mi fanno una via, i briganti sono o in casa di un uffi­ziale, cui han dato il danaro avuto da' proprietari, o in altro luogo che l'uffiziale ben conosce.
Così i briganti son sempre miseri, i gendarmi sempre ricchi, i proprietarii sempre assassinati or dagli uni or dagli altri.
Giosafatte Talarico , celebre bandito calabrese, è stato per dodici anni il signore della Sila, beffandosi dei gendarmi, del Ministro, e di tutti i cinquantamila soldati del Re. Gli fu proposto di capitolare, ed il Ministro gli portò e gli diè di sua mano in Cosenza il decreto di grazia.
Ora è in Lipari, armato con diciotto ducati al mese: i compagni ne han dodici.
Il vescovo di Lipari lo ha fatto confessare, e sposare una brigantessa sua compagna, ed ha scritto al Re desse più larga pensione al Talarico divenuto buon cristiano, marito, e suo compare.
Il Re poteva negar nulla ad un vescovo che pregava per un brigante?
Il Ministro si è gloriato di aver liberate le Calabrie da un mostro. E pure lo scia­gurato Giosafatte faceva minor male che gli affamati gendarmi, e il rapacissimo capitano Salzano.
Il solo Del Car­retto gendarme si può gloriare di quello che farebbe vergo­gna ad ogni uomo, di essere sceso ad accordo con un bri­gante, di dar cuore agli altri di divenir celebri briganti. Quanto è vile la Polizia delle Sicilie! quanto è stupida e balorda! quanto è maggior di lei anche Giosafatte Talarico!
E quanto è ladra! Non bastando al Ministro né i suoi soldi, né quelli del figlio, che fanciullo di 10 anni è tesoriere della cassa di sconto con 500 ducati al mese, né il danaro per le spie, che son poche, sciocche e mal pagate; non bastandogli i ricchissimi doni di cocchi, di cavalli, di vasellamenti di oro e di argento, di finissimi drappi che gli vengon dati da coloro che lo vogliono pro­tettore, o non nemico (i nomi dei quali si potrebbero di­re); voleva metter mano anche nella cassa della Prefettura, ma il Prefetto l'impedì. Egli fa suoi tutti i libri che vengon dall'estero, e che son proibiti dai revisori, onde si ha for­mata una ricca e gran biblioteca.. I Commessarii seguono l'illustre esempio. Quando nei dì di festa non han danari da far banchetti, mandano ad arrestar le meretrici, dicendo che debbono sloggiare, che la vicinanza è scandalezzata: quelle meschine danno danari, e rimangono altro tempo nella casa per essere richiamate e ripagare. Prendono ogni cosa dai bottegai, e niente pagano: e se uno cerca il suo, dopo poco tempo si vede in bottega un impertinente che fa nascere una rissa: son tutti presi, si chiude la bottega, si fa un gran processo: i parenti vanno con la borsa, ed ecco riaprire la bottega, lacerar il processo, in tutto pace ed ordine pubblico. Per mantener quest'ordine i ladroncelli che per le vie rubano i fazzoletti dalle tasche, dividono i furti con i birri e gl'ispettori: per quest'ordine nelle pri­gioni certi caporioni detti "camorristi", armati di pugnali tolgono per forza ai loro miseri compagni danari, e a chi non ne ha, anche il pane; e danno parecchi scudi ogni mese all’ Ispettore: per quest'ordine la Polizia per aver danari protegge le biscazze, dove tanti stolti vanno a gittar le loro fortune ed ammiserir le famiglie.
Non contenta la Polizia di rubarci, di tormentarci co' gendarmi, con le mazzate, con le torture, con le carceri, con le spie, col metter mano in tutta ed opprimerci in tutto, vuol tormentare anche il pensiero. Ha scelto alcuni uomini d'ingegno mediocrissimo, di cuore fetidissimo, che un dì furono carbonari ed ora sono veri sbirri dell'ingegno ed alcuni altri scrittorelli di giornali, che digiuni facevano i Bruti ed ora impiegati vogliono aver merito di fedelis­simi; ed a questo fior d'ingegni ha dato il carico di compi­lar quella vergogna del nostro giornale, e la censura dei fogli periodici e dei libri non più lunghi di dieci fogli di stampa.
Non è a dire quanto sono stolti e ridicoli questi cen­sori, i quali non solamente vietano di scriversi tutto quello che vien loro comandato di vietare, ma cassano e aggiungono quello che è secondo il loro gusto, le loro opi­nioni particolari, il loro capriccio: e mentre da una parte cancellano le parole "popolo, cittadino, nazione", dall'altra fanno stampare certe scritture sciocche e bestiali che sver­gognano la nazione. Inoltre oggi permettono quel che ieri proibirono, e proibiscono quel che ieri permisero: non viè gente che più di questa strazia il senno comune: danno la tortura a coloro che vogliono scrivere in un paese dove si deve tacere, soffrire, pagare, confessarsi e lodare il Re. La compilazione del giornale consiste nel volgere e tron­care le notizie straniere, ed i soli atti del governo che si fanno noti pubblicamente, sono che il Re ha presieduto al Consiglio di Stato, che ha traslocati magistrati, che ha fatto un trattato di commercio.
Talvolta ancora il Ministro sentendosi morso da qualche giornale forestiero, scrive egli stesso qualche articolo, del quale se ne riconosce l'autore ad uno stile sbirresco ed arrogante; ed alla sottoscrizione X. Y. Oh Del Carretto opprimici ma non iscrivere! Lo stolto talora parla di cose che il pubblico non sa, perché non legge i giornali forestieri, ed egli gliele fa sapere con le sue gendarmesche spavalderie; le quali fanno ridere anche i fanciulli, che vi trovano i più nuovi spropositi di grammatica. La gente onesta geme a tanta baldanzosa vi­gliaccheria: e così siamo oppressi dentro, e svergognati fuori.

CAPO SESTO
GLI AFFARI INTERNI
L'amministrazione di un paese dove è nata la scienza dell'economia, e dove ne scrivono anch'oggi dottamente molti uomini egregi, è data in mano di stupidi e di ladri. Il ministero dell'interno è una bottega, è un mercato, è un vituperio. Il Ministro associato con alcuni mercatanti di grano negozia a danno della nazione: associato con gli appaltatori delle opere pubbliche divide con essi gli spor­chi guadagni, o li affida a chi gli offre premio maggiore; ladro erudito ha sottratto da Pompei e da Ercolano le più belle e preziose antichità, e se ne ha formato un superbissimo museo; maraviglioso a quanti non san con­giungere scienza e ladroneria.
Gl'impiegati adulatori, buf­foni, e cagnotti de1 Ministro, fanno quello che fa egli, ed egli quel che fa il Re.
L'agricoltura, che nel nostro paese dovrebbe avere tutta la protezione del governo, e le cure assidue e co­stanti di un Ministro, forma parte di un ripartimento del ministero dell'Interno, sta in mano di due o tre sciocchi impiegati.
I nostri campi sono i più belli e i più fertili tra quelli di tutta Italia, ma sono incolti e deserti o abitati da pochissimi miseri e stanchi contadini. Immensi terreni nella Sicilia, nelle Calabrie, negli Abruzzi, ne' Principati e nella Puglia stessa rimangono abbandonati, di cattiv'aria, pestilenti: se in qualche luogo si vuole bonificararli, come presso la foce del Volturno, il Ministro ne dà il carico a qualche suo fidato; il quale spende, spende, spende, e non fa mai nulla: prende egli in fitto quei terreni a tenue ra­gione, e poi li ridà in fitto a' contadini; si grida da ogni parte: si chiama i1 rendimento de' conti, si crea una Com­missione, della quale è capo... il Ministro. In un regno sì bello e sì fertile che potrebbe nudrire il doppio degli abi­tanti che ha, spesso manca il pane, spesso si trovano uomini morti per inedia: spesso si deve far venire il grano da Odessa, dall'Egitto, e da paesi che si dicono barbari. Se domandate ai Ministri: sapete quanto grano si fa? Sapete quanto ne bisogna pel regno? Non sanno: non sanno quel che sa e fa ogni padre di famiglia, il quale registra ciò che gli entra, osserva quel che consuma: se ha soverchio il vende: se ha bisogno si provvede a tempo: se è ben prov­veduto e vede che gli manca non dubita che è rubato; cerca di punire il ladro. E pure i Ministri ed il Re non giungono a tanta altezza di scienza; non conoscono altra statistica che quella che numera ogni tre anni quante sono le pecore che si chiaman sudditi delle Sicilie; si abbandonano tutti alla Provvidenza di Dio, ed alle cure dei proprietari, e quando vedono che il popolo ha fame e grida proibiscono l'estra­zione del grano, vi tolgono il dazio per un paio di mesi, dicono ai frati
di far larghe limosine, di pregare Iddio, che mandi una buona annata [Nota del Settembrini: I più ricchi e potenti mercatanti di grano in Napoli sono i fratelli Rocca4; i quali fanno un monopolio che tutti sanno. Pel caro di quest'anno 1847 il Re ha fatto venire alquanto grano, e con la sua solita logica ha dato il carico al fratelli Rocca di comprarlo, macinarlo e venderlo].
Ma i proprietari invece di esser protetti ed aiutati, come quelli che sono veramente utili, si tengono come spugne per empirli e spremerli. Op­pressi dalle gravezze, scemati dagl'Intendenti, da' Sottin­tendenti e da ogni maniera d'impiegati, impediti nel com­mercio (perché nelle province non vi sono strade, perché il Ministro e pochi tra' ricchi fanno un sordido monopolio), vendono le derrate a tenuissimo prezzo, talvolta appena rim­borsano le spese; onde si assottigliano, si scuorano, scemano il prezzo ai manovali zappatori, agli altri artisti; ed ecco le rapine, i delitti, i briganti. La miseria poi dei miser­rimi contadini ti strazia veramente il cuore. Menano la zappa un giorno e non hanno che quindici o venti grani al giorno, con cui ne comprano pane ed olio, e si fanno una minestra di erbe selvatiche, che spesso è senza sale. Nel verno cascan di fame, cercano un tumolo di grano al pro­prietario, e l'ottengono a patto di restituirgliene due o due e mezzo alla ricolta, ed a patto di dargli a godere la moglie o la figliuola.
Il pessimo governo fa che il proprietario non abbia altro mezzo d'arricchire che l'usura, il contadino ven­de l'onore per pane, la nazione tutta diventa stupida e fe­roce. La povera gente si sdegna contro chi l'opprime più da vicino, e non vede che tutti sono oppressi, e la cagione di tutti i mali è il governo.
Quante volte si è proposta una cassa di anticipazione agricola, una cassa di risparmio! Quante altre utili proposte si farebbero, se non si sapesse che questo cieco e bestiale governo non capisce nemmeno l'util suo, non è nemmeno tanto infame da dire: gli uomini diventeranno più numerosi, più ricchi, ed io comanderò un popolo più grande, avrò più larghi tributi. Le Società eco­nomiche ed i Consigli provinciali si tengono a pompa, non possono occuparsi altro che di inezie, perché il go­verno non si cura dei miglioramenti che si propongono. Quando il governo è tristo tutte le più belle istituzioni intristiscono, o per lo meno diventano inutili.
Dobbiamo lodare il Re (affinché non si dica che malediciam tutto) che ha renduto libero il commercio, ha fatto molti trattati, ha fatto riconoscere la sua bandiera in ogni parte: ma quando l'interno è fradicio, che vale un po' di vernice e di crosta al di fuori? Quando i produttori sono oppressi, le industrie sono poche e lente, il commercio interno attra­versato da mille ostacoli, che valgono i trattati? Quando un popolo [che] con la zappa potrebbe cavar tesori dalla sua terra e dar tutto a tutti, è ammiserito, avvilito, spos­sato, stanco, tutto il suo commercio dovrà essere passivo, dovrà essere a suo danno: le arti dovranno anch'esse lan­guire perché morta è l'agricoltura che è loro madre.
Ottime e sante sono le istituzioni di beneficenza; ma che valgono esse quando la mano che è destinata a di­spensare il benefizio è rapace e spietata. Tra le altre la Beneficenza della provincia di Napoli ha ottocentomila du­cati di rendita l'anno, e quella di Terra di Lavoro sette­centomila, ed intanto un milione e mezzo di ducati appena basta per pochi poveri mal vestiti, mal nutriti, chiusi in luoghi peggiori di carceri. Amministratore dell'Albergo dei poveri in Napoli è stato per molti anni Felice Santangelo, fratello del Ministro: quei empì l'albergo di una turba di scriventi, che come mosche canine succhiavano il nutrimento dei poveri orfanelli, ed accordatosi con gli appaltatori che fornivano le vesti ed il cibo faceva le più scellerate e svergognate rapine. Un giovanetto si gettò dall'alto di una finestra e si sfracellò in terra: essendo vissuto poche ore e domandato perché aveva voluto morire, rispose per fame e per disperazione.
Di fame morivano que' miseri fanciulli che pure erano nati da uomini, e spaventati fuggivano da quell'albergo di dolori, d'infamie, e di terrori.
Il Re, stanco di udir tante ladronerie del Santangelo, fece giu­stizia a suo modo: gli tolse l'ufficio di Amministratore, ma gliene diede un altro con un bel soldo ed onori; e destinò una Commissione di otto uomini probi a governare l'albergo.
Ma dove ti senti stritolar l'animo e spezzare il cuore, dove si vede una crudeltà empia, è nell'ospizio dei trova­telli, detto la Nunziata. Ogni nutrice latta tre o quattro bambini, scarni, pallidi, affamati; di ogni cento ne muoiono gli ottantanove, e ne morrebbero di più se le buone don­nicciuole napolitane non si prendessero per loro divozione quei "figliuoli della Madonna", e non li allevassero esse.
Torre il pane ai mendici, alle innocenti creaturine è tale crudeltà che solamente noi la vediamo, e solamente il nostro governo può non vendicarla. Il Ministro dell'Interno dà un'occhiata ai soli conti della spesa e dell'entrata e con gran cura, disegna, suggerisce, approva le proposte di fab­briche, di decorazioni esterne, di miglioramenti alle stanze dove s'intrattengono i governatori, e di tutte quelle opere dove si può spendere poco e rubare molto.
Gli ammalati ed i matti hanno anch'essi i loro carne­fici. Quando si radunò il Settimo Congresso in Napoli fu scelta una Commissione di medici e chirurgi per osservare lo stato degli ospedali civili. La Commissione osservò, pian­se di pietà e di sdegno, scrisse un caldo e lungo rapporto, né della Commissione, né di nulla si fè parola negli Atti; tutto fu soppresso per ordine del Santangelo Ministro, e presidente del Congresso. Nel giornale intitolato Annali universali di Medicina stampato in Milano dal Calderini, (anno 1846 mese di Febbraio o di Marzo) si parla di que­sto fatto, e si dice che "non si volle che la voce del povero giungesse al trono".
No, no, non si voile questo: le orec­chie di Ferdinando son sorde a maggiori grida. Si volle nascondere questa vergogna agli stranieri; ed han fatto bene i bravi Milanesi a svelare quest'altra oppressura patita dai loro sventurati fratelli delle Sicilie.
Lo stato dei miseri prigionieri non è punto migliore Il governo dà quattro grani e due decimi al giorno per ogni carcerato; e l'appaltatore deve fornire il pane, la zuppa, l'olio, i vasi di creta; deve imbianchire il carcere ogni sei mesi, dar buone mance, far il suo guadagno. Una sola ra­maiuolata di fave fetidissime, ed un pane di fango son tutto il cibo di quei miseri. Ogni sei mesi si dovrebbe dar loro un abito, si dà ogni diciotto. Vedi non uomini ma bestie, nudi nati, pallidi, affamati, rodon le bucce e i rimasugli gettati da qualche prigioniero che si è comperato il cibo; per un grano si scannano, si sottopongono ad ogni vergo­gna.
Si diedero dugentomila ducati per migliorar lo stato dei prigionieri, il Ministro dell'Interno abilissimo in quei giuochi se li fece sparir tra le mani; il Re per gastigarlo gli ha tolta l'amministrazione delle prigioni, e l'ha affidata nelle mani anche oneste del Ministro delle Finanze. Ecco giustizia di Re; ecco onestà di Ministro.
Altra grande miseria del nostro miserrimo paese è l'in­finito numero di mendici che si veggono in tutte le città de1 regno, e dalle province piovono in Napoli.
Nulla fa il governo per impiegar tante braccia, per impedire tanta corruzione: solamente se ne vergogna quando arriva qui qualche Sovrano forastiero (come quando vedemmo quella feroce belva di Niccolò di Russia): ed allora la Polizia afferra ogni sorta di persone e la getta in carcere, o la rimanda a morir di fame nelle province. In nessun paese del mondo v' ha sì grande numero di mendici come nel nostro; il che mostra il buon cuore del popolo, che soc­corre a tanta gente, e l'infamia del governo che non se ne cura: dappoiché tutto quello che si fa per soccorrere i poveri si fa dai privati, o da istituzioni fatte da privati, il governo non vi spende niente, e vi mette la mano sol per opprimere e rubare.
Per questa colpevole trascuranza i men­dici ogni giorno si moltiplicano, ed alcuni diventano inge­gnosamente feroci: prendono in fitto uno storpio o uno scemo, e lo van mostrando per le vie: prendono in fitto bambini, e li ammaestrano a piangere e gridare, e talora stringono, pizzicano, pungono quelle misere creature per farle stridere, e muovere più efficacemente la pietà dei pas­santi.
Ti si spezza il cuore a quelle grida, e con sentimento misto di pietà e di dispetto sei spinto a gettar la limosina per non udir quello strazio. Or di chi è la colpa di questi mali? Quale tristo spettacolo è una turba di tanti affa­mati nel paese, che la natura ha fatto per essere il più ricco e più lieto di tutti! E questo Re e questo governo si chiama cattolico!
Si crede di porre un rimedio a questo male facendo molte opere pubbliche, delle quali si lodano molto il Re ed il Santangelo, l'uno valente architetto, e l'altro provve­duto spenditore. Ma quali sono coteste opere? Si e rifatta la casa del Re col danaro della città di Napoli: si è speso in pochi anni circa mezzo milione a rabbellire il teatro S. Carlo per dare un divertimento alla corte, ai forestieri, alle nobili sgualdrine: si spendono circa trecentomila ducati a racconciare la strada di Posillipo, affinché vi si possa passeggiare in carrozza più agiatamente, e si cacciano da quella contrada i poveri piscatori, i quali con la loro miseria sturberebbero la beata gente nei cocchi. Queste opere sono tutte fatte per capriccio puerile del Re, non per utilità della nazione: si guastano le possessioni de’ proprietari e si devastano dai soldati artigiani muratori e chi si lagna si ode rispondere che è un malvagio, che l'utilità privata deve cedere alla pubblica. Si son fatte due strade ferrate, una che da Napoli stendesi a Nocera, e con un ramo a Castellammare: un'altra da Napoli a Capua. Que­st' ultima fu fatta "per congiungere le due reggie" di Napoli e di Caserta, come sta scritto su la medaglia fatta per perpetuarne la memoria; e con un braccio ozioso stendesi sino a Nola, dove il Re voleva andar presto a vedere i soldati. Ma tutto si fa per Napoli, [e intorno a Napoli] nulla per le province, per la disgraziata e cara Sicilia , dove gli abitatori devono arrampicarsi per i dirupi. o correr peri­colo di spronfondar ne' valloni, o annegar nelle fiumane per portare ad un mercato a tramutare o vendere gli scarsi frutti delle loro terre e della loro misera industria.
Ottime e desiderabili sono le strade ferrate, ma quando vi sono anche le strade comuni: esse sono direi quasi lusso non una necessità.
Or si crederebbe che quando un paesello vuole a sue spese farsi una strada, non ottiene dal governo il permesso? o se lo ottiene, il danaro non basta per isfa­mar gl'impiegati che fanno avere il permesso, l'architetto che dev'esser dato dal governo, e l'opera resta a mezzo, o non si comincia affatto.
Si crederebbe che le Calabrie non hanno che una sola e cattiva strada, due brevi e pessime la Sicilia, due gli Abruzzi, e che pochissime città hanno le traverse che mettono su le strade consolari, tutte fatte dal governo francese? Si crederà che nell'interno delle province non si può camminare se non a piedi, o a stenti a cavallo? Queste opere tanto cantate, sono opere stolte e pazze, senza un vero fine utile, male eseguite, e mostrano il carattere del Re, che tutto fa a capriccio, tutto presume di fare; e niente sa fare.
Or veniamo alla pubblica istruzione, che è un altro affar da nulla, e forma parte di un altro ripartimento del ministero dell'Interno. Una sola Università in tutto il regno di Napoli, tre in Sicilia, collegi in ciascuna provincia, semi­nari nelle diocesi, scuole primarie nei distretti secondarie net comuni, e le scuole private, sono i luoghi ove il go­verno tollera che la gioventù delle Sicilie s'educhi il cuore e la mente. Ma che dico s'educhi? L'istruzione del nostro paese è una cosa fradicia, una piaga cangrenosa, un male che il governo tollera per non essere chiamato barbaro. Presidente della pubblica istruzione è Monsignor Giuseppe Mazzetti, uomo inetto e vano, dominato da un cameriere e da un impiegatello; e quasi fosse leggiero l'uffizio che ha, o non si volesse che ei vi badasse molto, gli si è dato ancora l'uffizio di Consultore di Stato.
L'università di Napoli è un mercato di studii, una trista vergogna; i professori mediocrissimi, [svogliati], i piùd'essi balestrati in cattedra per intrighi [Nota del Settembrini: Morto il Galluppi, il Re ha nominato professore di filosofia Luigi Palmieri., valentissimo Esico. I1 Ministro dell' Interno ne scon­sigliava il Re, non perché il Palmieri fosse un tristo o un ignorante che egli e un dotto uomo, ma perché non e valente in filosofia come in fisica: il Re non ode e comanda che le cattedre di filosofia, di etica, e di storia dei concilii, sien dichiarate di "fiducia reale" e che le saranno occupate da chi egli vuole], non vanno quasi mai, o se vanno salgono in cattedra, e belano mezz'ora. In tutto un anno fannosi meno di cento lezioni, v'ha di professori che ne fanno una sola; altri, non avendo chi li ascolti pagano un paio di giovani a' quali gettano una lezione. Negli esami pe' gradi dottorali chi può dire quanti intrighi e frodi e ruberie si fanno? In Napoli sono tre pubbliche biblioteche, ma pochissimo tempo sono aper­te, pochissimi libri si possono leggere; nelle province non v'ha biblioteche affatto, che ivi non si deve leggere, ma chiuder gli occhi, ubbidire, e pagare. Le università della Sicilia sono anche peggiori di quelle di Napoli, vote spe­lonche dove si ode la moribonda voce di eunuchi profes­sori. I licei ed i collegi sono più pessimi di queste pessime università, senza maestri e con ignorantissimi pedanti, mal­vagi metodi d'istruzione, rapaci rettori; i prefetti sono stol­tissimi e villanissimi pretonzoli; i giovanetti nulla imparano, anzi imparano ad essere stolti, frivoli, ignoranti, presun­tuosi, ipocriti, delatori. I seminarii variano di disciplina secondo i Vescovi: vi si studia sempre il latino, o non s'impara mai, o barbaramente. Le scuole primarie e secon­darie fanno pietà: i maestri privati fanno bottega di studii; i gesuiti tengono maestrelli di venti anni, ed insegnano viltà, ipocrisia, spionaggio, barbaro latino, barbaro greco, e nulla di italiano. Insomma nel regno delle Sicilie è un miracolo che sieno uomini che sappian leggere; qui non v'ha istruzione né educazione popolare; qui è un doloroso pensiero pei padri di famiglia come e da chi far educare i figliuoli; qui rarissimi artigiani san leggere; ignorantissimi i nobili e guasti, ignorante la plebe ma vogliosa di sapere, impo­tente d'imparare; l'educazione delle donne è sonare, can­tare, danzare, lascivie.
Ma qui per grazia di Dio, è terra italiana, e sebbene uno scellerato governo l'opprime, qui è vivo ingegno, ed uomini che han vero e forte sapere, e cuore caldo, i quali stanno chiusi e nascosti per non mac­chiarsi di vergogna, e serbarsi a tempi più lieti.
CAPO SETTIMO LE FINANZE.

CAPO SETTIMO
LE FINANZE
Pagare, e non altro che pagare devono i miseri abi­tatori delle Sicilie; stretti e smunti da enormi dazii e pesi, che si aggravano crudelmente su i più poveri. Il dazio della fondiaria che è del venti per cento, è malamente ripartito, ed avaramente esatto; più il tre per cento che fu imposto per fabbriche indispensabili, cioè la ristaurazione del Real Palazzo, e dello stabilimento dei reietti, e pel mantenimento dei poveri. La fabbrica del Palazzo è finita da un pezzo, l'Annunziata è restaurata dall'incendio sofferto, e cava la rendita da una quantità di botteghe novellamente costruite; i poveri ci assediano in tutti i luoghi ed il tre per cento persiste tuttavia. I grandi possessori se ne lagnano, ma i possessori minuti talvolta abbandonano i loro miseri fondi ai percettori perché coltivandoli non ne caverebbero di che fare la fondiaria. Il contadino che ha poche braccia di terreno ed un misero tugurio si vede addosso gli esattori inesorabili, i quali lo cacciano dalla casa, gli vendono la caldaia, la padella, il treppiede, e le povere masserizie, fra i pianti della donna
, e le strida delle misere creaturine, impaurite dalle minacce dei gendarmi, i quali sono strumenti sempre pronti ad ogni oppressione.
Chi indugia a pagare si vede in casa un ospite gendarme, che vuol cibo e letto, o due carlini al giorno, co' quali egli sbevazza nella ta­verna, e la misera famiglia piange digiuna, e vende per pagare. Il dazio su i fondi urbani fu cresciuto per pagare i tedeschi venuti con Ferdinando I: i tedeschi partirono e il dazio rimase qual era. Contro ogni massima di eco­nomia ci sono due o tre, ed anche quattro dazi su di una sola cosa: si paga la fondiaria, si paga un dazio nell'intro­durre il grano in un paese, si paga un dazio nel macinarlo, si paga un dazio nell'introdurlo manifatturato in un altro paese.
Il sale pagasi tredici grani il rotolo; e la povera gente non può comperarlo. Quando il Re corre il regno le affa­mate popolazioni gli vanno incontro e non gli gridano al­tro che: ribassate i1 dazio sul sale, mettetelo sopra altra cosa, lasciateci mangiar condito. Il Re fa segno col capo, dice che farà, sprona il cavallo, e misero chi non li fa luogo. In Napoli si giunse sino a questa vergogna: si po­ sero i birri a costringere i sorbettieri a gettare l'acqua che si fa della neve per congelare i sorbetti, affinché non si potesse ribollire ed estrarne il sale.
In Sicilia non vi ha dazio sul sale, né sul tabacco, ma il dazio sulla fondiaria è maggiore e quei miseri sono in altra parte spremuti. Dazi comunali, dazi urbani, dazi sulle cose di cui han più bisogno i poveri, e nessuno su le carrozze, su i cavalli, su i servi; e perché nessuno impari a leggere, dazi enormi sui libri.
Per ogni libro che viene dall'estero prima si pagava tre carlini al volume, ora si paga la metà, ed è ancora una imposta gravissima. E se un libro estero portato in Napoli si porta in Sicilia si paga un altro dazio, e così dalla Sicilia in Napoli. Tutti gli altri Stati d'Italia han fatto una lega ed una legge sulla proprietà letteraria: solo il nostro gover­no non ha voluto parteciparvi, perché non ha voluto lasciarci di proprio nemmeno il pensiero .
Se un uomo è impiegato "deve servir per sei mesi senza soldo"; il che significa che per sei mesi non deve vivere. Dal soldo deve lasciare il due e mezzo per cento per la sua vedova: la quale dipoi per "grazia", e dopo lungo tempo dalla morte del marito "può" ottenere una pensione. Deve lasciare ancora il decimo: e questa imposta fa più dolore ai mal nutriti impiegati, i quali da un soldo di dieci ducati, si veggono tolti dodici carlini e mezzo; e così sono costretti alla frode, al furto. Un tempo si pagava anche il "decimo gra­duale", cioè chi aveva un soldo maggiore di cento ducati doveva lasciare il venti per cento, chi duecento il trenta, e così via via. Quando nel 1836 nacque il primo figliuol di Ferdinando, questi perdonando le pene ai condannati ribaldi, tolse il decimo graduale che spiaceva agli alti im­piegati, e rimase il decimo ordinario che s'aggrava su tutti e dispiace ai più miseri.
Non sapendo onde trar denari si è disposto che ogni supplica che si fa al Ministro delle Finanze deve essere in cartaccia bollata, che costa sei grani il foglio; e di questa carta si deve usare in tutti gli atti giudiziarii. Si profitta della religione del popolo e si traggono circa quarantamila ducati l'anno dalle bolle che permettono di mangiar grasso nella quaresima; e solo seicento ducati si mandano in Ro­ma. Si profitta dell'ignoranza della plebe per trarre un milione l'anno di guadagno dell'infamissimo gioco del Lot­to, si permette ai prenditori ogni arte per adescar la plebe a giuocare. Giuocano, vendono il letto, levano il pane ai figliuoli, sprofondano in miseria, le donne vendon l'oro a qualche prete o frate che ha fama di cabalista; e poi delusi bestemmiano, e tornano a sperare ed a giuocare. Questo scandalo, questa infame gesuitica istituzione, per la quale un re giuoca a guadagno sicuro coi più miseri dei suoi sudditi, è spaventevole principalmente nella città di Napoli. Questo è il dazio più crudele, più scellerato, pagato dalla gente più povera; la quale sperando un guadagno, che è quasi impos­sibile, dà al Re anche il tenue frutto del suo mestiere, dà al Re quel pane che ei strappa dalla bocca dei figli. E il Re non si cura che il Lotto è stato abolito in tutte le nazioni colte, e maledetto da tutti gli uomini che han timore di Dio, ma seguita a tenerlo nel suo regno per maggiormen­te corrompere questo popolo che egli ha avvilito ed imbe­stiato. Questo Re che si dice cattolico, che si confessa e si comunica, non si vergogna di dire a chi va a chiedere qualche cosa: "Io non ho che darti: gioca al Lotto che Dio ti provvederà". O Dio santo e giusto, e perché permetti tanta oppressura su i tuoi figli che gemono nel paese delle Sicilie? O Dio dei Cristiani, abbi pietà di noi, e non farci più soffrire tanta vergogna. Nella Quaresima del 1847, in Napoli nella strada dell'Arco di Mirella, un castaldo del signor Luigi Rubino, accordatosi con altre dieci persone ed un prete, chiudono in una casa un cabalista, il quale, secon­do l'opinione loro, sapeva certamente i numeri del Lotto: lo minacciano, lo tormentano, lo battono, lo collocano in un fosso, dove lo costringono a cibarsi di paglia e di orina, né lo traggono, gli fanno gocciolare lardo liquefatto sulla schiena, gli fanno altre pazze crudeltà. Il disgraziato or vuole persuaderli che non sa nulla, or dice numeri a caso; quelli giocano perdono, e infuriano contro di lui. Il prete credendo che il demonio non lo facesse tacere, si ve­ste con la cotta e la stola, gli mostra l'ostia consagrata, lo esorcizza. Le grida del tormentato fecero scoprire gli stolti e feroci tormentatori; i quali imprigionati, confessarono ogni cosa. Ed ecco in qual modo questo giuoco, che uscì dall'inferno in compagnia dei gesuiti, corrompe la morale, corrompe la religione santissima, spinge a delitti nefandi.
Ed il pio Ferdinando ancor tiene questo giuoco, e dà un regalo agl'impiegati quando in fin dell'anno gli portano un guadagno netto che superi il milione di ducati.
Mentre da una parte si smunge e si asciuga la nazione con tanti dazi, e con tanti sottilissimi ed infami ritrovati, e per chi non paga a tempo sta aperto il carcere e pronti tutti i mezzi di oppressione, dall'altra parte i creditori dello Stato non possono esser pagati giammai. Lo stupido e cru­dele Ministro delle Finanze D'Andrea quando taluno gli andava a chiedere il suo e parlava con quella forza che è ispirata dal dolore; rispondea: "Non ci sono danari, il Re è povero, abbiate pazienza, ora raddolcitevi la bocca". E gli dava un pezzetto di cioccolatte. Il presente Ministro Ferri, è più stupido e più reo del D'Andrea: ritarda quanto più può i pagamenti: pare che si cavi dall'animo il danaro che deve dare altrui, risparmia quanto più può per fare un grosso regalo al Re; il quale alla fine dell'anno 1846 gli ha dato in dono diecimila ducati, premiandolo della buona amministrazione. Ecco come il Re ed i Ministri si sbranano le sostanze della misera nazione, ed insultano quelli che domandano il sangue loro, il pane dei loro figliuoli.
Per fare i maioraschi dei principi reali secondogeniti (ciascuno dei quali toglie alla nazione ben sessantamila du­cati l'anno) il Re ha usurpate le terre del demanio pubbli­co, cioè della nazione, le ha fatte apprezzare come ei voleva, e le ha date ad amministrare alla "Cassa di ammortizzazio­ne": la quale, ritraendo dalle terre poca ed incerta rendita, doveva pagare molto più di quel che esigeva, e questo più doveva prenderlo da altra parte. Dipoi il Re volendo che questa rendita non fosse di terreni, ma di capitali, e che i fratelli e i figliuoli fossero creditori dello Stato, ordinò che la stessa cassa comperasse quei fondi ad un prezzo anche maggiore di quello che esso vi aveva dato, che com­perasse i sessantamila ducati limpidi di rendita eretta sul gran libro del debito pubblico. Or quando il Re fa queste sfacciate ladronerie qual meraviglia che gl'impiegati rubino anch'essi! Nel medio evo alcuni re assoldavano gli assas­sini, e con questi dividevano le prede fatte ai mercatanti viaggiatori: e Re Ferdinando non fa peggio di quelli?
Mentre la nazione manca di pane, il Re ed il Ministro delle Finanze vogliono torre il debito pubblico: ed ogni sei mesi si tragge a sorte un numero di creditori dello Stato, ai quali si restituisce il capitale o si dà un interesse minore. Il solo Rothscild, che è creditore di grandissime somme che non si vogliono pagare, non è rimborsato, e gli si paga, l'interesse del cinque per cento. Si toglie il pane ai figliuoli, e si dà ad un estraneo: a questo ebreo grazie e favori, nelle sue mani è tutto il monopolio del commer­cio. E quando si deve far qualche decreto pel quale la rendita rialza od abbassa: il Re, il Re dico, ed i Ministri mandano loro persone a negoziare. Fingono di vendere o di comperare, ed assassinano i privati che nulla possono sapere di cotesti neri intrighi ed infamie.
I privati depongono i loro denari nel banco (che dicesi "real tesoro", perché qui tutto e reale) e ne hanno una carta che ha valor di moneta. Questo danaro, invece di rimaner inutile, vien rimesso in commercio, ed è in una cassa detta "di sconto", la quale lo dà in prestito al tre per cento, ed il governo ne ha un guadagno. Il ministro Ferri vedendo che in alcuni anni questo guadagno è diminuito, ha molti­plicato sì stranamente le convenzioni dei prestiti, che i ne­gozianti non possono aver più danari, e sono costretti o a farsi strangolar dagli uomini, o a ricorrere al Rothscild; il quale, perché a lui nulla si nega, prende il danaro dalla cassa di sconto alla ragione del tre, e lo ridà alla ragione del cinque, del sei, o del sette. Così lo stupido Ministro, non per un danno, ma per un minor guadagno che il governo aveva, ha chiuse tutte le vie ai negozianti, che sono in gran parte falliti e sprofondati in miseria; ha spento il credito pubblico, ha tagliato i nervi al commercio, ha scuorata, avvilita, ammiserita tutta la nazione, la quale è posta come in uno strettoio, spremuta da ogni parte, e non le resta di proprio che le lagrime, ed il dolore.
Il Ministero delle Finanze non è altro che una grande officina di ladronerie: noi non possiamo altro che pagare: gl’ impiegati non fanno altro che trarci sangue; il Re teso­reggia ed accumula danari, e li mette su i banchi stranieri. Così i tedeschi del primo Ferdinando, gli scialacquamenti di Francesco, e la feroce avarizia di questo Ferdinando secondo, ci ha lasciato solamente quello che Carolina d'Austria diceva di voler solamente lasciarci; gli occhi per piangere: ma se saremo uomini piangeranno anche coloro che hanno stancata la nostra pazienza, ed abusano, ed insultano la misericordia di Dio.

CAPO OTTAVO
GRAZIA E GIUSTIZIA.
Grazie se ne fan quasi ogn'anno, sol quando i1 cannone
ci annunzia che è cresciuto il numero dei nostri padroni, o dei figliuoli del Re; e si fanno ai carcerati per omicidio, per stupri, ed altri delitti di simil fatta, che i ribaldi deb­bono godere, i buoni gemerne, e spendere per mostrar segni di allegrezza bugiarda. Da ogni grazia sono sempre esclusi i condannati per delitto di Stato, e per resistenza alla forza pubblica.
Giustizia se ne fa raramente: giustizia è il volere della Polizia, la quale fa creare magistrati coloro che hanno più meritato facendo le spie; ed a questi giudici presenta gli uomini a spogliare a scannare. I pochi magistrati buoni e dotti son tenuti d'occhio ed avviliti; i molti malvagi ed ignoranti son baldanzosi e crudeli. La turba degli avvocati è costretta a confidar solo nell'intrigo; e difendono le cause con certe nuove memorie di difesa, che son brevissime lettere scritte ai giudici o da Monsignore o dal Ministro di Polizia, o da qualche altro grosso birbone.
Il buon Ministro comanda che si faccia un esame stra­namente rigoroso per i giudici regii, e destina a decidere del merito dei tremanti giovani certi ignoranti e sonnacchiosi magistrati; tra i quali è Michele Agresti, fanciullo con la chioma canuta, tenero dei francesi, e più pazzo e più inetto di un pazzo ed inetto francese, e con tutto questo, Procu­rator Generale della suprema Corte di Giustizia, tutore e difensor delle leggi. E mentre valorosi giovani confidando pur nell'ingegno son riprovati, altri senz'esame, a venti anni, son fatti giudici per volere del Ministro di Polizia.
Il quale quando vuole punire qualche Commissario che non è secondo il suo cuore lo manda a seder tra magistrati: e vi manderebbe ancora i gendarmi, che egli chiama "magi­strati armati" se non sapesse che le leggi stanno meglio tra le funi e le manette, che nei tribunali e nei giudizii.

CAPO NONO
IL CORPO DI CITTA'.
E che direm noi di questo che chiamasi Eccellentissimo Corpo di Città? Il darne tutti i dettagli cl porterebbe alle lunghe, ed il potremmo, che ben a fondo ne conosciamo gli intrighi.
Favelleremo solo del duca di Bagnoli, che è quanto possa immaginarsi di vile e di ladro; rovinato all'intutto a segno da chiedere spesse fiate in prestito ad un usciere del tribunale civile, che trovava in casa del suo avvocato una piastra per provvedere al pranzo, da otto anni che è Sindaco, senza soldo, ha pagato tutti i suoi debiti, ed ha riacquistato i suoi beni che erano sequestrati, ed è ora pos­sessore del valore di oltre ad ottantamila ducati, senza con­tare una possessione di trentamila ducati che non ha guari ha acquistato. Già si propose di riconfermarlo pel quarto triennio, abbenché la durata di questa carica sia stabilita a tre anni, e tre di riconferma, ma il Consiglio di Stato gli è contrario per le sue immense ruberie. Egli è assai ben asse­condato da Gennaro Guarini a cui il predicato di infame è troppo onorevole: costui, cacciato dall'ospizio dei poveri, cacciato da1 Collegio di musica, cacciato dal Corpo di Città a calci nel sedere dal duca di S. Agapito, qual vampiro succhia il sangue dalle vene dei partitarii e degli stessi im­piegati, non rispettando né decreti, né contratti; ma esi­gendo solo grosse mance, e gliele danno per non essere ingiustamente angariati.
Si raschia su tutto anno per anno, di modo che tutti i prezzi di manifatture si sono ridotti al puro niente, ciò non pertanto il totale delle spese è sempre lo stesso, le rendite sempre le stesse; e di quel che si economizza che uso se ne fa? ...si dice che convertesi in opere pubbliche; ma quali?... meglio sarebbe se si compensassero 100 soprannumeri che da moltissimi anni servono col meschino soldo da tre a sei ducati, e 200 aspi­ranti che non hanno nulla: e sì che le rendite ammontano a mezzo milione oltre gli accessorii...

CAPO DECIMO
I PRETI E I FRATI
Per colpa di Re Ferdinando gl'italiani delle Sicilie han perduta la pupilla degli occhi, la cara religione cattolica; e son divenuti o atei o superstiziosi. Pochissimi preti
sono buoni e santi, e degni che altri metta la faccia dove essi metton le piante: gli altri moltissimi, svergognatori del sa­cerdozio, ignoranti e più ipocriti dei farisei, più insolenti dei gendarmi, tra costoro il governo sceglie i più stupidi e malvagi, li nomina Vescovi e 1oro affida la cura delle anime, l'istruzione, la polizia delle diocesi, e la vigilanza su le coscienze di tutti. Onde i Vescovi sono potenti spie agl'Intendenti, a' Sotto-Intendenti, a tutti i magistrati civili e militari, ed a' Ministri stessi: tengono le orecchie del Re e i più accorti tengono anche le orecchie del Cocle; onde fanno quello che vogliono. Il cardinal Serra, arci­vescovo di Capua, ha pieno il suo palazzo di cortigiane, di bambini, di balie, di nutrici, e di giovani canonici. Per contrario Monsignor Todisco, vescovo di Cotrone, fattosi pio paladino delle meretrici, le fa sposare a coloro che un tempo ebbero che fare con esse; e chi non ubbidisce per mezzo del Sotto-Intendente lo fe' mettere in carcere, donde non esce se prima non è sposo. Stancò per un anno un orefice in carcere, lo fe' venire tra i gendarmi in chiesa per farlo sposo egli stesso, quegli gridò che era costretto; fu rimesso a furia in carcere, donde è uscito marito. Perse­guita un vecchio di settant'anni per fargli torre una decre­pita baldracca, con la quale trentanni prima tenne male pratica. Se ode che una fanciulla ha fallato, ei senz'altro la fa chiudere in un carcere che ha fatto costruire a que­st'uso. Gli altri Vescovi qual simoneggia, qual tiranneggia, qual si mangia le rendite, o sdraiato in carrozza benedice i poveri che gli cercan limosina. E tra questi è lo stupido cardinal Riario Sforza arcivescovo di Napoli, caro alunno di Gregorio XVI d'infame memoria.
Fra tutti i preti quelli della città di Napoli sono i più ignoranti, i più malvagi, e formano una setta farisaica, una casta formidabile, che fa e dice tutto impunemente, e guai a chi essi dicono: è scettico, è panteista, non si confessa, non ci crede. Questa setta, della quale è capo e maestro monsignor Cocle, è rappresentata da un impertinen­tissimo giornale intitolato "Scienza e fede", il quale non è soggetto a censure, lacera le più sante riputazioni, e sicura­mente insulta Dio e la ragione.
A questi preti è affidata la censura dei libri [il Settembrini sa bene che se la censura (come si evince pure da queste circolari ) nella forma spetta alle forze di polizia, nel Regno delle Due Sicilie, dove opera un clero potente e tanto conservatore da essere in contrasto con lo stesso Pontefice Romano Pio IX, che ha estremamente ridotto le imposizioni censorie del suo predecessore, nella sostanza essa viene ancora esercitata specie in merito ai contenuti dei libri e delle opere teatrali da preti e gesuiti] e ad uno di essi detto Gaetano Royer, la censura delle opere teatrali.
Questo cavaliere pretonzolo, che non è stato mai a teatro, con le sue stitiche censure an­noia persin la Polizia; e non si può dire quanto è stolto e tristo. In una quaresima si dovea rappresentare un' opera che avea titolo da Pulcinella, il Royer non la permette che a con­dizione che si muti Pulcinella in Columella. Al melodramma Torquato Tasso ha posto il titolo di Sordello per non of­fendere la famiglia d'Este: ma non ha mutato piu in là del titolo. Un impresario di una compagnia francese gli disse voleva rappresentare un dramma che ha per titolo: A' qui la faute? Il Royer, che non sa il francese, udendo il suono delle parole fa un gran rumore, dice che sul teatro non si rappresentano queste nefandezze, e lo minaccia del carcere. Ma lasciam questo stupido ribaldo.
E' in Napoli un prete a nome D. Placido Baccher di cui già facemmo un cenno nel capo terzo, focoso agitatore delle donnicciuole, e del più feccioso popolazzo. Apre la sua chiesa quattr'ore prima di giorno l'inverno, per fare, come si dice, udir la messa ai servitori ed agli arti­giani. A quell'ora in tutte le più lontane parti della città le bizzocche ragunansi a truppa, non ispaventate da rigor di stagione, illuminate da lanternoni, fiancheggiate da reli­giosi amatori, vanno alla chiesa in processione stridendo e cantando litanie e rosari. E nella Chiesa non vedi gente cattolica, ma sozzamente idolatra. Cade talvolta un po' di cera da' moccoli che sono innanzi alla Vergine: a quel rumo­re il popolo grida miracolo, D. Placido ripete miracolo; ed odi un gridare, un piangere, un picchiar di petto. In questo fervore esce un clerico con la borsa per la cerca; e D. Pla­cido dal pulpito tuona e dice: fate bene alla chiesa, e la­sciate i poveri; che Gesù Cristo dice che i poveri li avete sempre COn voi. ma la chiesa non l'avete sempre con voi.
Nel venerdì santo si pone sull'altare un'immagine del cro­cifisso, la quale alle parole di D. Placido dimena il capo, e fa vista di agonizzare e morire.
Nella festa dell'Ascensione vedi un'altra immagine di Gesù tirata da funi fin sotto la cima della cupola, dove poi viene nascosta da certi imbratti che paion nuvole.
E queste cose son fatte tra le strida furiose della plebe, e di D. Placido, il quale sul pulpito muggisce, piange, si percuote, batte le mani e i piedi, e si dimena come un invasato.
Queste profanazioni, che paion brutte e scandalose anche a taluni non ottimi preti, han fatto acquistare a D. Placido la particolare protezione del Re e della Regina madre, i quali spesso vanno a visitar quella chiesa, e lo credono un santo, un uomo di Dio; ed è bello il vedere come il prete ed il Re s'inchinano scambievolmente e si baciano l'un l'altro le mani, e l'un dice all'altro che lo raccomandi a Dio.
I frati sono quali furono sempre, alcuni buoni, alcuni tristi, pochissimi dotti. Ma tra i frati sono gli infernali gesuiti, peste di tutta la cristianità, e specialmente nel nostro regno. II ricco marchese Mascara, che prestava ad usura, teneva da sedici anni una sua concubina, la quale con l'aiuto di un confessore gesuita gli divenne moglie. Venuto a morte, non curandosi né del fratello né delle sorelle. lasciò centoventimila ducati ai gesuiti, ed alla mo­glie il frutto di alcuni terreni, e l'uso di tutti gli arnesi di casa. La donna dopo dieci mesi, dopo un pranzo fatto in Caserta subitamente morì; e i gesuiti raunarono ogni cosa. II fratello e le sorelle del marchese ricorsero al Re, il quale furbescamente rimise l'affare ad alcuni arbitri, e questi più furbi di lui giudicarono a favor della compagnia, ed il Re senza scrupolo diede il regio assenso. "Ecco", dice piangendo Carolina Mascara, duchessa di Rutino, "ecco la casa di mio padre, dove io son nata, cresciuta, maritata, non e più nostra, noi ne saremo cacciati, si cancellerà il nostro stemma e vi si porrà quello della compagnia. Andai dai gesuiti, li pregai che mi dessero almeno gli arnesi di casa a loro inutili, che facessero bene alla sorella del loro benefattore, madre di molti figliuoli; mi promisero che fa­ farebbero: finito l'arbitrato, non mi han dato nemmeno una spilla".
Questi figlioli delle tenebre, che si chiamano dal nome santissimo di quel Gesù che disse ai suoi seguaci, di cercar solo i tesori del cielo, hanno spogliato una famiglia, e godono di danari fatti per usura, di danari che furon la­grime e sangue di tanti. sventurati. Si difendano i gesuiti, se possono, neghino le ricche eredità ed i grossi legati che hanno estorti in Lecce e in Salerno. Né si vantino di esser dotti birboni, come furono un tempo, e di ammaestrare i giovani, che papa Ganganelli tagliò loro i nervi, ed i gesuiti rinati sono uomini mediocri, eredi della sola malizia antica.
L'istruzione morale che essi danno alla gioventù è infame; nelle confessioni dimandano ai fanciulli i segreti delle famiglie, li avvezzano allo spionaggio, alla bacchet­toneria.
L'istruzione letteraria è sciocca e barbara: un maestro giovanissimo senza esperienza di insegnare, senza sapere né poter discernere l'indole dei giovanetti, tiene una classe di più di cento giovanetti: insegnano il latino al popolo, e null'altro che latino, ma in modo pedantesco, lungo, pesante, per forma che sono abborriti quei libri latini, che pur sarebbero i libri dei forti e dei generosi: per l'ita­liano non veggono né sanno più là né più qua del loro Bartoli: grande scrittore sì ma vizioso. Sicché nessun bene fanno questi neri uomini, ma fanno tutto il male che pos­sono e vorrebbon di più, ma comprendon che l'ultim'ora per essi sta per sonare, e non vogliono affrettarla.
Così i preti e i frati facendosi aiutatori delle infamie del governo, predicatori di false massime, insegnatori di ignoranza e di errore, hanno guasta la religione, hanno tur­bate tutte le coscienze, e sono meritamente odiati e disprez­zati. E come i poco accorti ed il popolo può credere nell’Evangelo, se coloro che lo predicano dicono santo e buono re Ferdinando, lodano Monsignore, e biasimano quel santis­simo Pontefice che Dio ha mandato non tanto per aiutare l'Italia, quanto per sollevare la fede caduta, e mostrare che Cristo non è complice de' tiranni? se questi farisei pre­dicano da cattolici, ed operano da idolatri anzi da canni­bali? La stupida ipocrisia di re Ferdinando ci ha tolta anche la religione.

CAPO UNDECIMO
I soldati
.
Re Ferdinando confida nei suoi soldati, ma non li sa educare, onde né lo temono né l'amano; per averli fedeli li fa ignoranti: li veste or d'un modo, ora d'un altro, e finalmente sdegnando ogni divisa nazionale li ha vestiti alla francese. Quando ci capita qualche principe forestiero egli subito squaderna innanzi ; le sue milizie, e fa una gran mo­stra con fanciullesca compiacenza che ei si crede un gran capitano e se la tiene. E però or li conduce ad un finto assedio, or in colonna mobile, or di qua or di là ei si spassa.
La nazione paga queste spese straordinarie: i soldati deva­stano ogni cosa e consumano le scarse provvigioni dei paeselli, i quali restano ammiseriti.
I suoi generali sono vecchi soldati, che non potettero sperar di militare sotto il go­verno francese, e furono accetti o per fedele ignoranza, o per delitti commessi come capi di briganti.
Gli uffiziali generalmente fanno come il Re, rubano ed opprimono i soldati, braveggiano, bevono, e contan vittorie donnesche. Questi sono educati in un collegio, dove la più parte dei maestri son preti [Nota del Settembrini: “Per ordine del Re tutti i maestri del collegio di Marina son preti”], e dove tra gli esercizii militari im­parano ad attillarsi, passeggiar per le vie più frequentate, e guardar le donne.
I soldati debbono servir per cinque an­ni: in altri due possono esser richiamati. A quattro reggimenti di Svizzeri si dà paga doppia, migliore e più largo cibo dei nostri. Prima i cambii si facevano da parti­colari secondo ciascuno poteva; o pure molti degl'imbor­sati davano una piccola somma ad una società di nego­zianti, la quale faceva tanti cambii quanti erano i suoi imborsati usciti in sorte. Ora il Re vuole per cambii i soldati che han finito il loro tempo: esige per ciascun cambio centottanta ducati; dei quali ottanta dà al soldato, e cento li ritiene per sè.
Con grandissima cura si conducono ogni anno i militari nella chiesa del Gesù a fare gli esercizii spirituali; ed ivi, proibita l'entrata ad ogni altra persona, un gesuita di­scorre di unico argomento della fedeltà che i soldati devono al Re "che li paga", della santità del giuramento militare. E con tanta cura si cerca per tutte le vie di fermarli in questa opinione, che anche i militari non sciocchi si cre­derebbero disonorati se mancassero al giuramento fatto al Re. O militari italiani delle due Sicilie, prima di esser militari non eravate, e non siete cittadiini anche adesso? Voi ave­te giurato di essere fedeli al Re, cioè al padre, al sostegno, al difensore della nazione: avete giurata fedeltà alla nazione rappresentata dal Re. Or se questo Re non è più il padre ma il carnefice, non il difensore ma il nemico, non il soste­gno ma l'oppressore della nazione, voi siete obbligati da1 vostro giuramento stesso a perseguitare chi non più rap­presenta ma uccide la patria. Né si dica che non v'ha più patria. La patria è eterna: essa può languire, non morire; può essere oppressa non spenta. Essa vi ha nutriti, vi ha educati; essa, cioè i vostri padri, i vostri parenti, i vostri amici, si cavano il sangue delle vene per darvi quel soldo che il comune tiranno dice di darvi. Voi dunque, se siete uomini di onore anzi che esser sicari di un carnefice, dovete unirvi ai cittadini vostri fratelli, dovete porger loro la mano per aiutarli nel riscatto della patria, dovete mostrare che siete italiani e generosi, dovete far comprendere ad un Re stolto che guai a chi confida nella forza ed opprime i popoli profanando il nome di Dio.

CONCHIUSIONE
Qui rispensando a quello che ho scritto mi accorgo che non ho detto se non piccola parte di quello che noi sof­friamo, e che ogni cittadino delle Sicilie leggendo queste car­te dirà: ci manca questo, non si è parlato di questo scelle­rato: a me è stata fatta quest'altra infamia: io conosco que­st'altra ingiustizia quest'altra vergogna. Ma chi avrebbe cuore di scrivere ogni cosa, di scoprire tante piaghe che git­tano sangue vivo? O fratelli italiani, o generosi stranieri, non credete che queste parole sieno troppo acri, non iscri­vete nei vostri giornali che dovremmo parlar con più mo­derazione e freddezza; ma venite tra noi, sentite voi pure come una mano di ferro rovente ci brucia e ci stringe il cuore, soffrite quel che soffriamo noi, e poi scrivete e con­sigliateci. Noi pregheremmo Iddio che dasse senno a que­sto Ferdinando, se sapessimo che questi ascolta la voce dei popoli che pure è voce di Dio. Onde non ci resta altro che far palesi le nostre miserie, mostrare che siamo immerite­voli di soffrirle, che non vogliamo più soffrile, e che è vicino il tempo in cui dovrà finire per noi tanta vergogna.
























Ancora al prezioso volume di M. Battaglini si è debitori delle più puntuali vicende sulla tragica vicenda del comune di Bosco e per questo motivo qui di seguito si elenca quanto lo studioso scrisse in merito a tali fatti alle pp.317-319 del suo citato lavoro:
La distruzione del Comune di Bosco è certamente uno degli episodi piu efferati di tutto il Risorgimento, che richiama immediatamente alla memoria il nome di un altro paese distrutto: Marzabotto. La distruzione avvenne il 7 luglio 1828 ad opera del Generale del Carretto [Saverio del Carretto (1777?1861) partecipò al moti del '20; nel 1828 represse sanguinosamente i moti del Cilento. Nel 1831, dopo l'Intonti fu nominato Ministro dell'Interno. Destituito nel 1848 fuggì a Marsiglia donde ritornò a Napoli senza più partecipare alla vita pubblica. Su di lui v. H. Castille,"Le marquis dal Carretto ancien Ministre du Roi de Naples", (Paris, 1856)].
Il paese aveva circa 790 abitanti (v. Dias F., "Quadro storico?politico degli atti del Governo de' domini al di qua e al di la del Faro", (Napoli, 1840, p. 74). Attualmente esiste con questo nome una frazione del Comune di San Giovanni a Piro.
Per meglio comprendere questo tragico avvenimento riportiamo qui di seguito due documenti: un manifesto di del Carretto datato 7 luglio 1828 che spiega i motivi della distruzione, e il decreto del 28 luglio 1828 col quale il Comune venne soppresso, ai fini amministrativi.
a) "Manifesto di del Carretto". (Il testo è in: "Miscellanea di letteratura politica e morale". Ricciardi , "Il Ministro Del Carretto", Livorno, 1848, pag. 170?122):
" Ii Maresciallo di Campo Francesco Saverio del Carretto... rivestito dei pieni poteri dell'"Alter Ego", spedito da S. M. l'Augusto Monarca in questo distretto onde por termine alla malvivenza che da qualche anno baldanzosa vi perdura e specialmente per accorrere all'emergenza di masnadieri associati ad infami banditi negli ultimi giorni di giugno: dopo averli per ogni dove cercati per distruggerli (ma vili, all'aspetto delle Regie truppe si son dileguati solo di essi alcuni riprendendo coi banditi gli antichi covili teatro di loro cruenti orgie) mi son recat'in questo capoluogo per occuparmi delle convenienti misure che man mano saranno annunziate, capaci a ristabilire perfettamente l'ordine ed a guarentirlo per l'avvenire, e per far rendere conto ai colpevoli del loro ardimento.
Le liegie truppe ardenti di raggiungere e calpestare la scelleranza, veloce nel fuggire quanto proterva e loquace nell'osare, non han potuto arrestarsi un istante per imprimere sulla strada del delitto le orme di vendetta, d'irritata giustizia, e scancellare profondamente onde più non possano ripullulare rigogliose le tracce degli attentati ai sacri beni di sicurezza e tranquillità. Camerota, Bosco, Acquavena, Licosati, Cuccaro... principio e fine dell'emergenza di cinque giorni, avrian dovuto essere adeguati al solo; perché non debbono più esistere i recinti di civilizzazione, là dove divengono asilo de' ladroni e di fellonia; e la legge d'agosto 1821 che proscrive il fautore, ed il corrispondente del Bandito, estesa all'uopo li condannava del pari.
Ma se riede clemenza dopo giusto furore, l'esistenza però del comune di Bosco sarebbe insoffribile. Sia dunque distrutto e non lasci delle perfide sue mura vestigio alcuno. Il comando surnunziato appena, è stato tosto adempiuto.
La stessa sorte inesorabile e minacciata ad altri comuni là dove non consegneranno immediatamente qualche tristo che è tra loro, dalla spada della giustizia reclamato. Abitanti del distretto di Vallo, l'arco del forte è gia teso ed il braccio cui fu confidato è bastantemente vigoroso per sostenerlo. Che i malvagi tremino! I buoni si rassicurino, sotto la regia egida d'un monarca sapiente e vigile! Che i rei pentiti, ma veramente, sperino!
Tutti coloro che han fatto parte dell'orda di masnadieri, o che l'accompagnarono o che la seguirono, che si presentino subito in questo quartier generale per essere interrogati: il disubbidire costerebbe loro ben caro ed al comune cui appartengano. Vallo, 7 luglio 1828".
b) "Decreto n. 1981 del 28 luglio 1828"
Francesco I - Considerando che la così detta comitiva "Capozzoli" nelle ultime scorrerie fatte nel distretto di Vallo, oltre a' ricatti, saccheggi ed altri eccessi commessi, aveva anche, sconsigliatamente per oggetto di distruggere e cambiare il Governo, eccitando i sudditi ad armarsi contro l'autorità reale.
Considerando che il piccolo comune di Bosco di quel distretto fu il solo che invece di manifestare un giusto abominio alle turpi e criminose ruine di quell'ora, si mostrò anzi aderente alla medesima, e fece tutto ciò che poteva per favorirla; per lo che dall'Ispettor Comandante generale della Gendarmeria Maresciallo del Carretto Commessario del Re, al momento fu disposto che fosse adeguato al suolo;
Volendo quindi che di questa punizione rimanga perpetua memoria;
Sulla proposizione del nostro Ministro Segretario di Stato degli affari interni;
Abbiamo risoluto di "decretare" e "decretiamo" quanto segue:
Art. 1. Il comune di Bosco nel circondario di Camerota distretto di Vallo nel Principato citeriore è soppresso. Il suo nome sarà cancellato dall'albo dei comuni del regno. Il suo tenimento sarà aggregato a quello del comune limitrofo di San Giovanni a Piro.
Art. 2. Gli abitanti di Bosco potranno fissare il loro domicilio o in San Giovanni a Piro, o dovunque ad essi piaccia; ma né essi, né altri potranno ricostruire mai più le abitazioni che formavano l'aggregato di quel comune né in quel sito ove esisteva, né in altro dell'antico suo tenimento.
Art. 3. Il nostro Ministro Segretario di Stato degli affari interni prenderà conto de' mobili e stabili appartenenti a' luoghi pii laicali e di beneficenza, e ci proporra l'uso da farsene.
Art. 4. Lo stesso Ministro Segretario di Stato per mezzo dell' Intendente prenderà cura dell'Archivio Comunale e degli altri effetti mobili comunali per passarli al comune di San Giovanni a Piro.
Art. 5. Tutti i nostri Consiglieri, Ministri di Stato e Ministri Segretan di Stato, sono incaricati, ciascuno della parte che lo riguarda, della esecuzione del presente decreto .
Oltre all'opera del Mazziotti ("La rivolta del Cilento del 1828") vedasi sul Comune di Bosco: Palazzo F., "Il cenobio Basiliano di S. Giovanni a Piro e cenni storici su S. Giovanni a Piro, Bosco e Scario", Salerno, s.d. 2 Le condanne (secondo Rosi, II, 535) furono: a) quelle irrogate da del Carretto attraverso la commissione militare: 26 condanne a morte (di cui solo 3 commutate); l5 condanne all'ergastolo; 36 condanne ai ferri; 5 condanne alla reclusione; b) quelle irrogate a Napoli tra i Filadelfi: 6 condanne a morte 3 condanne all'ergastolo; 26 condanne ai ferri; 5 condanne alla reclusione; 4 condanne alla prigionia.
Le cifre date dal Settembrini sono pertanto inesatte, salvo per quelle all'ergastolo, ed inoltre la commissione militare di del Carretto non irrogò pene inferiori alla reclusione. Quanto alle persone nominate dal Settembrini esse sono: il canonico Antonio De Luca (1764-1828) imprigionato nel 1798, liberato durante la repubblica, carbonaro nel 1820, fu Deputato del Distretto di Vallo. Arrestato di nuovo nel 1824, fu fucilato a Salerno il 28 agosto 1828. Il guardiano dei cappuccini era Padre Carlo Guida da Celle nipote del De Luca e guardiano a Maratea.























Ancora il Battaglini (p.320) ci offre un utile spaccato di questa vicenda.
La superstizione non si era ancora dissolta per quanto con molti successi combattuta dall'illuminismo: a fronte dei successi culturali dell'illuminismo napoletano il Regno delle Due Sicilie era permeato fortemente di superstizione.
Ad alimentare questa concorse vieppiù la dimensione della strage (peraltro ancora maggiore che in altre parti della Liguria, dove pure l'epidemia arrivò con un lieve anticipo come nella stessa Liguria): il Battaglini in merito annota che "Secondo il Moroni (LXV, 309) le vittime furono 60.700 nei domini di qua dal faro, e 69.250 in Sicilia: nella sola Napoli furono 13.798.
Si redassero molte opere per l'occasione ed alcune risentirono di quelle stesse leggende e superstizioni che caratterizzarono i trattati del XVII secolo: senza scendere nei dettagli bibliografici, per cui si rimanda al citato Battaglini. Basti qui menzionare per il loro ricorso a spiegazioni superstiziose e ad interpretazioni assolutamente pseudoscientifiche opere che pure ebbero gran credito e diffusione quali: A. Grillo, "Ragionamento sulla colera asiatica in occasione della sua invasione in Napoli dal mese di ottobre 1836 in poi", Napoli, Azzolino, 1837 - "Sulla igiene e cura del cholera-morbus dal dottore in medicina Francesco Gandolfo di Catania", II ed., Catania, Sciuto, 1837 - "La scoverta e cura del cholera in Siracusa ossia il racconto fedele degli originali fatti ivi avvenuti nel luglio 1837, scritto da un siracusano", Palermo, 1848.
Non mancarono di tornare in auge i teoremi delle unzioni diaboliche e non.
Mediamente, dopo il panico iniziale alimentato da credenze e superstizione, prevalse comunque la voce che gli "avvelenatori" non fossero tanto agenti del demonio quanto piuttosto di uno stato demoniaco assolutamente intenzionato a fiaccare le popolazioni ritenute meno fedeli: come nelle Calabrie ed in Sicilia.
Il fatto poi che gli abitanti della Calabria avessero denunziato l'opera di strani individui sorpresi a versare unguenti misteriosi nelle acque pubbliche e che quindi a Siracusa e Catania venissero uccisi a furor di popolo alcuni presunti e sventurati "avvelenatori", tra cui l'Intendente di Siracusa, determinò l'intervento della Commissione Militare che fece giustiziare undici persone.
Poi si portò ad investigare in Cosenza l'Intendente di Catanzaro, quel Giuseppe de Liguoro che ebbe parte non da poco nella distruzione e nell'eccidio del Comune di Bosco: l'ufficiale non badò alle mezze misure e le vessazioni a cui sottopose i cittadini fecero scattare ulteriori arresti.
Così la Commissione Militare, come ancora scrive il Battaglini, sentenziò di "condannare a morte parecchi "avvelenatori", gente che si trovava in carcere per delitti politici, condannar altri come "spargitori di voci rivoluzionarie".
A complicare la tragicità del quadro complessivo intrevenne poi il fatto che, come annota lo stesso Settembrini, "Il Re comandò con suo decreto di menarsi innanzi alla Commissione quelli che erano spargitori di veleno e quelli che si diceva che si spargeva veleno".
Il "Decreto", promulgato il 6 agosto 1839, dettava:
""...Art.1. Lo spargimento di sostanze velenose, ovvero la vociferazione che si sparga veleno, diretto l'uno e l'altro da disegno di turbare l'interna sicurezza dello Stato saranno reati di competenza delle commissioni militari.
Art. 2. I reati preveduti nell'art. precedente saranno puniti con le regole espresse negli artt. 123, 129, 140 e 142 delle "leggi penali"..." [La pena era mediamente quella della morte eccezioni fatte, per i casi più tenui, in relazione ai quali si comminava il carcere: a parere del Belviglieri (II, 212), ripreso dal Battaglini (pag.321), sarebbero state pronunziate 52 sentenze nel periodo compreso tra il 22 luglio 1837 ed il 19 febbraio 1839, con 123 condanne a morte eseguite e 130 condanne a pene minori, oltre a 153 condanne comminate ad individui in stato di contumacia: si evince l'asprezza del provvedimento statale e contestualmente la volontà, approfittando della situazione, di punire quali ""avvelenatori intellettuali", anche massoni, carbonari e patrioti.



















Le norme che regolavano l'ingresso dei libri stampati in Na­poli erano:
a) Il decreto 28 novembre 1815;
b) Gli artt. 1, 4 e 8 del decreto 2 giugno 1821 (all'art. 11 e detto che "i libri proibiti... saranno arrestati nella Regia Dogana ">;
c) Decreto 29 agosto 1830: è quello a cui fa riferimento il Settembrini. Dettava norme per i Capitani di bastimento i quali do­vevano sbarcare tutti i libri che si trovavano a bordo " non esclusi quelli dichiarati per transito ".
Data la importanza che assumevano queste norme nella vita so­ciale e culturale italiana alle soglie del '48 riteniamo opportuno pub­blicare qui di seguito (traendoli da
Battaglini, pp.334 - 335 due docu­menti assai significativi: una circolare del 24 marzo 1843 della Pre­sidenza della Pubblica Istruzione diretta alla Commissione di cen­sura presso la Gran Dogana e il Regolamento del 21 ottobre 1845 intorno all'uso da farsi dei libri e delle stampe provenienti dall'estero che vengano riprovati dalla Commissione di censure.
a) "Circolare del 24 marzo 1843." “ 1°. Ogni revisione sarà fatta col simultaneo intervento di due Revisori almeno, i quali dovranno munire entrambi di loro firma tutti gli atti analoghi. Resterà "ipso-facto" sospeso dall'uffizio quel Revisore, che eseguisse solo anche una sola revisione.
2°. E' severamente vietato a' Revisori di contentarsi di leggere l'elenco de' libri suile cartelle della Dogana, senza farsi esibire i libri medesimi, e diligentemente ispezionarli, onde assicurarsi che i titoli e frontespizi dell'opera sieno veramente corrispondenti a' volumi che li portano, ed evitar la frode di essere proscritte, munite di titoli e frontespizi innocenti.
3°. Non tutti i libri proibiti dalla S. Sede dovranno essere assolutamente respinti, ma nessuno de' medesimi debb’essere indistintamente rilasciato ad ogni sorta di persona. Trattandosi dunque di que' libri, che sebbene proibiti si possano prudentemente lasciare immettere, i Revisori non li rilasceranno se non a quei particolari ed a quei librai, i quali esibiranno il corrispondente permesso della S. Sede, munito di "placet" del Real Governor e i quali facciano una dichiarazione in iscritto di osservare riguardo alle opere vietate che loro si rilasciano tutto ciò ne' rispettivi permessi della S. Sede e contenuto. A quest’ oggetto il segretario sotto la sue responsabi­lità, provvederà che nella Commissione non manchi giammai un Indice de' libri proibiti su' riscontri che potranno occorrere.
4°. Resta vietata la introduzione di quelle opere, che sebbene non proibite della S. Sede, pure sieno conosciute per prave o nocive.
5°. Quando i Revisori giudicheranno non dover permettere l'im­messione di qualche opera, la medesima verrà suggellata, e se ne farà subito rapporto alla Presidenza di Pubblica Istruzione per le misure ultertori.
6°. In caso di dissenso tra' due Revisori sulla immessione di un'opera, si sospenderà il giudizio' e se ne farà rapporto al Presidente della Pubblica Istruzione, onde si possa dal medesimo convocare la Commessione intera, o parte della medesima per deci ferare il dubbio unitamente a' due Revisori discordanti.
7°. Esisterà nella Cotnmissione un libro foliato e cifrato in ciascuna pagina dalla presidenza di Pubblica Istruzione per notarvi con ordine alfabetico tutte le opere delle quali sarà da' Revisori ricusata la immessione. Ogni articolo di siffatto registro sarà cifrato da' due Revisori che avran giudicato non doversi l 'opera immet­tere, e conterrà la data della revisione e servirà di utilissima noti­zia, e norma degli altri Revisori.
8°. Nel caso di opere, scritte in una lingua che non fosse bene intesa da alcuno de' due Revisori di servizio, saranno poste in serbo, e se ne farà subito rapporto alla Presidenza di Pubblica Istruzione per le analoghe provvidenze.
9°. In qualunque de' casi suindicati, ne' quali occorrerà rife­rire al Presidente, il rapporto sarà firmato dai Revisori di servizio, e dal Segretario della Commissione.
10°. Tutte le disposizioni per lo innanzi date in ordine a questo ramo di real servizio, le quali non sono né distrutte, né modiEcate da nessuno de' presenti articoli resteranno in pieno vigore.
11°. Il Segretario della commissione resta incaricato di far scrupolosamente eseguire quanto si e prescritto in questo regola­mento, ed il medesimo risponderà di ogni inosservanza.
b) "Regolamento del 21 otiebre 1845." Art. I. I libri che dalla Con~missione sono giudicati riprovevoli saranno inviati alla Biblioteca Reale Borbonica per essere ivi conservati con le dovute riserve, sotto la più stretta responsabilitù del Prefetto. Quale passaggio si farà con apposito notamento, che verrà sottoscritto dal Prefetto medesimo.
Art II. Quando capiti qualche libro che la Commissione giudichi per ogni verso esecrando ed inutile, che non torni oppor­tuno il conservarlo nella anzidetta Real Biblioteca, la Commissione medesima, potrà, chiestone il permesso al Presidente della Pub­ blica Istruzione, distruggerne segretamente gli esemplari.
Art. III. Ove i libri riprovati sieno di tale numero e di tal valore che la perdita de' medesimi possa esser cagione di ragio­nevole sconforto al commercio librario, la detta Commissione, ponderate le circostanze, e specialmente la nature delle opere, potrà permettere, previa l'autorizzazione del Presidente, che i libri si respingano all’estero, adoperandosi dalla Dogana, onde non resti nel Regno alcuna copia, le più severe ed efficaci precauzioni, quella specialmente del certificato del Regio Console residente nel luogo, ove i libri s’inviano da apporsi al notamento fattone dalla Com­missione.
Art. IV. Per i quadri poi e stampe, si serberanno le medesime disposizioni da mandarsi ai gabinetti riservati nel Real Museo Borbonico. se vale la pena di conservarli, quando sieno inutili, distruggerli; ed allorché concorressero le stesse circostanze delle quali si è parlato nell'art. 3 respingerli all'estero con le stesse norme in esso indicate.
Art. V. Tutti i libri e le stampe che pervengono con direzione alla Real Casa e componenti della Real famiglia, andranno pari­menti soggetti alla revisione e non si consegneranno a veruno senza speciale permesso di S.M. volta per volta sul rapporto del Presidente, che indicherà l’opera o la stampa o il numero delle copie, ed a chi è diretto.
































Si tratta di una commissione creata con la ordinanza del Ministro di Polizia del 5 agosto 1822 (v. Battaglini, p.332).
La commissione era composta di tre Commissari di Polizia e poteva infliggere una pena non superiore alle 100 legnate ai "perturbatori del buon ordine, sia con fatti o con parole, grida, fischi " e ai "ladruncoli, gli asportatori e lanciatori di pietre ". Oltre le legnate la Commissione poteva infliggere anche la detenzione per un periodo non superiore ai tre mesi. Quanto alla procedura, nell'ordinanza è detto testualmente: "La Commessione giudicherà senza forme rituali, ma con semplice processo verbale, sentendo l'imputato ne' suoi mezzi di difesa ".
La pena non era applicabile alle donne (Circolare del 27 settembre 1822) e il sistema fu esteso a Palermo con rescritto del 21 marzo 1821.
Secondo era scritto in una Circolare del 20 maggio 1829 lo scopo della ordinanza "può dirsi essere stato in generale per raffrenare le irruenze e le abitualità del basso popolo".
Mentre è esatto quanto dice il Settembrini circa la estensione della pena delle legnate al detenuti colpevoli di mancanze disciplinari non risulta che tale pena fosse estesa (con apposita norma e non solo di fatto) " a tutti quelli che hanno resistito alla forza pubblica ".
Sulla tortura nel Regno delle Due Sicilie, tema che meriterebbe una piu approfondita e monografica indagine, può essere riportato qui quanto Giacomo Tofano (difensore di Francesco Nicola De Mattheis) a pag. 19 della Lettera di G. T. al suo amico Girolamo Magliano, s.i. ma 1848: " Difesi ufficiosamente coloro che venner creduti uccisori del Conte di Cimigliano... La madre dell'ucciso... giustamente sdegnata contro i giudicabili... fe' minacciarmi più volte di vita. Cio servì perché più m'infiammassi nella santa difesa; e presentai impavido un discarico per comprovare le sevizie, cui furono assoggettati i giudicabili nel carcere di Santa Maria Apparente, onde strappar loro una mal tessuta confessione. Il carcere... era il carcere di Polizia, ed era Ministro di Polizia il Marchese Del Carretto. Fe' strepito questo mezzo di difesa: si ordinò con minlsteriale che altra volta non si fosse accolto: io divenni vieppiù marcato, e mi resi sempreppiù "simpatico" al potere ministeriale".
Questo episodio mi sembra scrive [ sempre il Battaglini a p. 332] tronchi ogni questione sulla esistenza o meno della tortura poliziesca nel regno di Napoli: la polemica, tuttavia è assai vasta, ma trae tutta origine dalle accuse del Gladstone e dalle difese borboniche, mentre non prende in esame, ad esempio, gli episodi narrati dal Settembrini nella "Protesta" e quelli del frate Peluso o del Purcaro accennati nelle "Ricordanze" (pag. 39).