cultura barocca
riproduzione e informatizz. B. Durante L'università di Parigi, una lezione in un codice miniato quattrocentesco

Guglielmo (Guiglielmo) di Saint-Amour - Teologo (sec. XIII), nato a Saint-Amour (Giura); fu professore all'università di Parigi, dove venne ad assumere una posizione di primo piano nella lotta del clero secolare contro l'invadenza degli ordini mendicanti. Quando Alessandro IV (con la bolla Quasi lignum vitae) si pronunciò contro l'università, G., rifiutatosi di sottomettersi, fu deposto dall'insegnamento e mandato in esilio (1256).
All'esilio di G. viene fatto duplice riferimento nel "Fiore", dapprima in XCII 12-14 "Mastro Guiglielmo, il buon di Sant'Amore, / feci di Francia metter in divieto / e sbandir del reame a gran romore"; e poi, più ampiamente, in CXIX, dove G. appare come martire di una cultura militante, caduto vittima di Ipocrisia: "Chi sen vuol adirar, sì se n'adiri, / ched i' vi pur contrò ogne mio fatto, / s'i' dovess'esser istrutto intrafatto, / o morto a torto com furo i martiri, / o discacciato come fu 'l buon siri / Guiglielmo che di Santo Amor fu sfratto. / Così il conciò la moglie di Baratto, / però che mi rompea tutti mie' giri. Il libro in cui veniva descritta la vita di Falsembiante, smascherandone l'inganno (De mia vita fè libro, e sì leggea / che non volea ch'i' gisse mendicato", CXIX 12-13) è il Tractatus brevis de periculis novissimorum temporum, apparso nel 1255, in cui sono raccolte le tesi di G. sulle pratiche degli ordini mendicanti (qualificati di falsi profeti e precursori dell'Anticristo), libro che verrà condannato dal papa " tamquam iniquum, scelestum et execrabilem ".
Giovanni di Meung lo utilizza largamente nella sua polemica contro i mendicanti.
Dei due passi del Fiore, solo il secondo trova riscontro nel Roman de la Rose (11488 ss.). È invece originale la prima citazione, in cui la vicenda di G. viene accostata a un episodio di cronaca politica italiana, la morte violenta di Sigieri, avvenuta alla corte papale di Orvieto, in circostanze misteriose.
D. accomuna così due intellettuali illuminati, difensori di una cultura laica, che si posero entrambi in rottura con l'ortodossia dominante (entrambi incorsero negli attacchi di s. Tommaso).
Se Sigieri (in virtù, è da credere, del suo prestigio speculativo) riapparirà, circonfuso di luce beatifica, nella Commedia, G. non avrà invece seguito nell'opera dantesca canonica.
Bibl. - Per le circostanze della vita di G. e della lotta tra l'università e gli ordini mendicanti, cfr. M. Perrod, Êtude sur la vie et les oeuvres de G. de St. A., in Mémoires de la Société d'émulation du Jura, Lous le Saunier 1902, 61-252; C. Lavet, La querelle de l'Université et des Ordres mendiants, Bruges 1911. Si vedano anche le note di E. Langlois alla sua edizione del Roman de la Rose, Parigi 1914-1924, III 319 ss.

















PREDESTINAZIANI. ["Enciclopedia Italiana" (1935) di Innocenzo Taurisano] = Prospero d'Aquitania nella sua Cronaca, Gennadio di Marsiglia nel De haeresibus e Arnobio il giovane nel Predestinatus parlano di questi eretici delle Gallie.
Una questione si svolse specialmente nel sec. XVII durante le controversie gianseniste sull'eresia del prete Lucido, il quale, condannato nel sinodo di Arles (4/3) per opera specialmente di Fausto vescovo di Riez, si ritrattò.
Alcuni supposero che gli errori di Lucido fossero una montatura di Fausto, ma gli ultimi studî sui testi mostrano che la vertenza non ebbe molta importanza nel grande dibattito sulle questioni della grazia che fra i secoli V-VI si svolsero animatamente nel II concilio di Orange.
Altra fase della controversia pelagiana si ebbe a proposito degli errori del monaco Gotescalco , che trovò in Incmaro di Reims un fermo oppositore.
La vita agitata di questo monaco e le sue affermazioni sulla predestinazione assoluta agitarono la Gallia nel sec. IX.
Rabano Mauro nel concilio di Magonza (848) fece condannare Gotescalco e la sentenza fu confermata da Incmaro l'anno seguente nel sinodo di Quierzy.
La lotta si protrasse fino al concilio di Tuzey presso Toul (860).
Bibl.: J. Turmel, La controverse prédestinatienne au IXe siècle, in "Revue d'histoire et de littérature religieuses", 1905, pp. 47-69; Dictionn. de théol. cath., alla voce Lucidus, IX, i, Parigi 1926, coll. 1020-24. V. anche gotescalco; incmaro di reims.

















Nell'opera del Torelli, Secoli Agostiniani Tomo V all' "Anno 1321 (Anni di Christo 1321 - della Religione 935)" leggesi: 4 - Havendo intorno a questo tempo un certo Dottore Parigino, chiamato Giovanni di Poliaco, divulgate, per istigatione dal Demonio, alcune sue erronee, anzi pure ereticali Propositioni, contro l'autorità, non pure de' Religiosi Mendicanti, ma dello stesso Sommo Pontefice, anzi contro l'autorità (cosa in vero horribile da pensarsi non che da dirsi) dello stesso Dio, furono perciò in quest'anno condannate con una gravissima Bolla da Papa Giovanni XXII. Le Propositioni poi erano le seguenti. Primieramente diceva: quelli, che confessavano li loro peccati alli sudetti Religiosi, che havevano autorità generale di Confessare, erano tenuti di Confessare di nuovo i medesimi peccati al loro Paroco. Secondo, diceva, [V, p. 379] che stante il Statuto, omnis utriusque sexus, etc. fatto nel gran Concilio Lateranense, il Pontefice Romano non poteva fare, che li Parocchiani non dovessero Confessarsi una volta l'anno al Paroco loro, anzi che né meno Iddio ciò far non poteva. Diceva per terzo, che il Papa non poteva dare licenza generale di Confessare alli detti Religiosi; e che chi si fosse Confessato con uno di questi tali, che haveva la detta licenza generale, non poteva il Papa, anzi né meno Iddio fare, che non fosse tenuto di Confessare di nuovo li medesimi peccati al proprio Paroco.

















Il pelagianesimo è una teologia cristiana che prende il nome dal monaco irlandese Pelagio, che ne è considerato il fondatore, sebbene, ad un certo punto della sua vita, negasse molte delle dottrine legate al suo nome.
Il cuore del pelagianesimo è la credenza che il peccato originale non macchiò la natura umana e che la volontà dell'essere umano è ancora in grado di scegliere il bene o il male senza uno speciale aiuto divino; la conseguenza è che il peccato di Adamo fu quello di portare un "cattivo esempio" alla sua progenie, ma le sue azioni non hanno altra conseguenza.
Nel pelagianesimo, il ruolo di Gesù è quello di presentare un "buon esempio" in grado di bilanciare quello di Adamo e di fornire l'espiazione per i peccati degli esseri umani.
L'umanità ha dunque la possibilità di obbedire ai vangeli e dunque la responsabilità piena per i peccati; i peccatori non sono vittime, ma criminali che hanno bisogno dell'espiazione di Gesù e di perdono.
Le teorie pelagiane furono combattute da
Agostino d'Ippona e furono definitivamente condannate come eretiche nel Concilio di Efeso del 431.
Ciononostante continuò per un certo periodo ad avere influenza in ambito ecclesiastico.
Negli ambienti romani, in cui sopravviveva lo stoicismo, il pelagianesimo attecchì facilmente.
Pelagio predicò liberamente in Italia fino al 410.
Ma in quegli anni, i Visigoti, guidati da Alarico, si diffusero attraverso il nord nell'Italia, e presto raggiunsero Roma, che fu saccheggiata.
Pelagio e l'avvocato Celestio, il suo più eminente discepolo, si rifugiarono in Africa. Pelagio, poi, si recò in Palestina dove ricevette un'accoglienza abbastanza favorevole, mentre Celestio fu oggetto di critiche e opposizioni.
Nel 411, al concilio locale di Cartagine, furono condannate le dottrine di Celestio, che fu scomunicato.
Fece appello a Roma, ma invece di recarsi dal papa, fuggì ad Efeso dove fu ordinato prete.
Secondo gli "ortodossi" (sia cattolici sia ortodossi odierni) il pelagianesimo riduceva la salvezza eterna a qualcosa di "controllabile" dalla libertà umana: magari anche un ideale di santità molto alto e difficile da raggiungere, ma che comunque avrebbe potuto essere conquistato dalla volontà dell'uomo.
La dottrina teologica maggioritaria, invece, considerava l'uomo incapace, dopo il peccato originale, di vivere appieno i doni di Dio senza l'ausilio decisivo della sua grazia.
Pelagio negava la trasmissibilità a tutta l'umanità del peccato di Adamo (che secondo lui era mortale anche prima di commettere il peccato), motivandola col fatto che ciascuno è responsabile delle proprie azioni, non di quelle di un altro: venivano così negati anche gli effetti del peccato originale sulla natura umana: era impossibile che l'anima, creata da Dio, fosse caricata di un peccato non commesso personalmente.
Di conseguenza, i pelagiani rifiutavano la prassi del battesimo dei bambini.
Negli adulti esso cancellerebbe i peccati commessi in precedenza, mentre non si può dire che questo possa avvenire anche per i bambini; quindi il battesimo degli infanti non avrebbe avuto altro scopo, secondo Pelagio, che quello di aprire loro il "regno dei cieli": i bambini morti senza battesimo avrebbero comunque la vita eterna, anche se non entrassero nel "regno dei cieli", che è soltanto una porzione eletta del paradiso.
All'obiezione che era antica l'usanza di battezzare i bambini, Pelagio rispondeva che il battesimo è l'espressione dell'accoglienza nella comunità cristiana: con il battesimo la persona è incorporata in Cristo, entra nel "regno dei cieli".
Il pelagianesimo, comunque, prediligeva l'attitudine della libertà umana a scegliere a proprio arbitrio fra il bene e il male e ad adempiere, con le proprie forze, la legge divina.
In Africa, Agostino d'Ippona continuò la lotta contro tali dottrine.
Scrisse molti trattati teologici ed espresse la dottrina fatta propria dalla Chiesa cattolica e poi soprattutto da quelle protestanti: esistenza del peccato originale;
necessità del battesimo per la salvezza;
azione della grazia per la salvezza.
Il pelagianesimo, in Oriente, fu, in un primo momento, dichiarato ortodosso in un concilio locale a Gerusalemme, e in un altro a Diospolis nel 415.
Papa Zosimo, in un primo momento favorevole ai pelagiani, nel 418, con una lettera nota come Epistola tractoria condannò definitivamente il pelagianesimo.
Vi furono tuttavia diciotto vescovi italiani, il più noto dei quali fu Giuliano di Eclano, che rifiutarono di sottoscrivere la dottrina definita dal papa; furono tuttavia vigorosamente contrastati e questo movimento religioso scomparve con discreta rapidità.
In epoca moderna, il pelagianesimo è stato visto come una dottrina tipica del liberalismo (cristianesimo), idonea, cioè, ad esaltare l'autonomia e la libertà del singolo rispetto all'autorità della gerarchia ecclesiastica.
In molti, infatti hanno visto l'opposizione al pelagianesimo come il tentativo della gerarchia di mantenere il proprio ruolo di mediazione tra Dio e gli uomini.
Tale critica sarebbe però smentita dal fatto che anche i luterani ed i protestanti in genere, pur avendo escluso il ruolo di mediazione del clero, attribuiscano comunque un ruolo decisivo alla "predestinazione" ed alla "grazia" Secondo Pelagio, gli uomini possono con la propria volontà (libero arbitrio), aiutata dalle preghiere e dalle opere buone, evitare il peccato e giungere alla salvezza eterna, senza intervento della grazia divina.
Per Pelagio esiste la grazia della creazione, gratia qua creati sumus, della rivelazione, della legge, dei miracoli di Cristo e del suo esempio, della sua dottrina salvifica, non quella preveniente (definita da Agostino d'Ippona ispirazione d'amore, affinché facciamo con santo amore quel che abbiamo conosciuto), che Dio concederebbe ad alcuni secondo una sua volontà imperscrutabile (tale forma di grazia è, per la dottrina teologica tradizionale, condizione necessaria per la salvezza).
Per Pelagio, l'uomo, essere libero, può decidere di peccare o meno; non ammette dipendenza da Dio per ottenere la virtù perché libero e autonomo è stato creato da Dio stesso che, alla fine della vita, premia o punisce il buono o cattivo uso fatto dall'uomo della propria libertà.
Per Pelagio non esiste la predestinazione alla salvezza (sostenuta invece da Agostino d'Ippona), che considera l'umanità incapace di salvarsi senza l'aiuto di Dio, perché la predestinazione annullerebbe la libertà della volontà umana e dunque la volontà tutta intera, dovendo questa essere libera per definizione.
Secondo Pelagio in Dio esiste "prescienza", ma non predestinazione; ossia, in altri termini, conoscenza, ma non decisione.
Anche Scoto Eriugena, 450 anni dopo, negherà la predestinazione divina, sostenendo che in Dio non esiste il prima e il dopo e dunque egli conosce ma non prae – destina.



















Caelestius (Roma, 372-375 – Costantinopoli, 431) è stato un teologo e oratore italiano di lingua latina.
Sostenitore della dottrina cristiana del pelagianesimo, fu dapprima un uomo di legge dell'aristocrazia romana.
Conobbe le tesi teologiche di Pelagio e si fece propagatore delle sue dottrine più estreme.
Dopo il sacco di Roma del 410 da parte di Goti, fuggì quindi a Cartagine.
Successivamente, fu dichiarato eretico, insieme a Pelagio, dal sinodo di Lydda, quindi condannato ufficialmente dal Concilio di Efeso, la stessa località dove nel frattempo si era fatto sacerdote.
Fuggì quindi a Costantinopoli, quindi ritornò a Roma.
Qui ottenne una revisione della condanna da parte del Papa Zosimo, grazie alle sue amicizie nella nobiltà romana.
Ma la sua protezione a Roma non durò a lungo, e tornò quindi a peregrinare in oriente, rifugiandosi quindi a Costantinopoli, protetto dal patriarca ortodosso Nestorio.
Dei suoi scritti rimasero pochi frammenti.
Per Celestio, il peccato originale non sarebbe così determinante per la salvezza ultima dell'uomo, né verrebbe trasmesso di generazione in generazione, in quanto l'uomo può riscattarsi con la propria condotta.
Ne consegue che Cristo non riscatterebbe tutta l'umanità con la crocifissione.
Parimenti, non sarebbe accettabile la remissione dei peccati attraverso il battesimo.
Queste tesi furono contestate soprattutto dai teologi suoi contemporanei, quali Girolamo (il traduttore della Vulgata), e il più noto Agostino di Ippona.
Gli insegnamenti di Pelagio e Caelestius furono poi ripresi da Giuliano di Eclano qualche anno dopo.