GIOVANNI BATTISTA o GIOVAMBATTISTA PERGOLESI (qui effigiato in un ritratto di A. Vaccaro) vide la luce a Jesi nel 1710-Pozzuoli 1736). Il padre Francesco Andrea Draghi, già detto "il pergolese", da famiglia originaria di Pergola, comune delle Marche in provincia di Pesaro, assunse il cognome PERGOLESI onde connotare il proprio casato. 
Superstite di 4 figli, compiuti i primi studi con F. Santi (maestro di cappella del duomo) e con il violinista F. Mondini (maestro della cappella comunale), GIOVAMBATTISTA a 15 anni si iscrisse al Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo in Napoli in forza della filantropia di alcuni nobili jesini. 
Studiò il violino con D. De Matteis e composizione con G. Greco e F. Durante. 
A lusinghiero esito della rappresentazione della sua prima opera seria, Salustia (1731), venne incaricato quale maestro di cappella del principe di Stigliano. 
Tra 1732 e 1733 conseguì dei veri trionfi con Lo frate 'nnamorato e La serva padrona, ma abbastanza sorprendentemente, nel 1735, la sua Olimpiade (sul testo dell'omonimo DRAMMA di Pietro Metastasio, già rappresentata nel  1733 e musicata da Antonio caldara) conobbe un insuccesso clamoroso a Roma.
Delusissimo il PERGOLESI riparò a Napoli, dove alcuni aristocratici suoi protettori
gli fecero la promessa di ottenere il posto di maestro della cappella reale, cosa che però, con sua nuova amarezza, non potè avvenire essendo ancora vivo il titolare D. Sarro. Fu un magro compenso per il PERGOLESI l'incarico quale organista soprannumerario. 
Potè tuttavia consolarsi presto con il grande successo del Flaminio (1735): subito dopo si dedicò alla composizione del Salve Regina e dello Stabat-Mater al convento dei cappuccini di Pozzuoli.
	Qui, ammalato gravemente di tisi,
	S1 era ritirato sperando di trarre benessere terapeuticodal rinomato buon clima ma morì a soli 26 anni, nel 1736,
pochissimo tempo dopo aver completato lo Stabat Mater: per una disanima critica e bibliografica di questo artista si può consultare a titolo introduttivo la voce PERGOLESI GIOVANNI BATTISTA curata da Gustavo Marchesi per il "Grande Dizionario Enciclopedico" (UTET, Torino), volume XV.
L'OLIMPIADE DI PIETRO METASTASIO 
 
 
 Dramma [l'OLIMPIADE] rappresentato con musica del Caldara la prima volta nel giardino dell'imperial Favorita, alla presenza degli augusti regnanti, il dì 28 agosto 1733, per festeggiare il giorno di nascita dell'imperatrice Elisabetta, d'ordine dell'imperatore Carlo VI [la musica della PRIMA RAPPRESENTAZIONE come scritto du di ANTONIO CALDARA (1670-1735) dal 1716 alla corte di Vienna, ove rimase sino alla morte, come vice maestro di cappella e che compose la musica di 37 opere (ben sei su testi del Metastasio), 26 serenate, 29 oratori e innumerevoli composizioni da camera e di argomento religioso: è però da rammentare in merito all'OLIMPIADE che ne fece una trasposizione in musica anche G. B. PERGOLESI, di cui, nonostante l'iniziale insuccesso, si ebbe poi un postumo, rilevante apprezzamento] 
 
 
 
 ATTILIO REGOLO DI PIETRO METASTASIO 
 
 
 ATTILIO REGOLO
ARGOMENTO
ATTO PRIMO
ATTO SECONDO
ATTO TERZO
LICENZA
 ARGOMENTO 
Nacquero a Clistene, re di Sicione, due figliuoli gemelli, Filinto ed Aristea: ma, avvertito dall'oracolo di Delfo del pericolo ch'ei correrebbe d'esser ucciso dal proprio figlio, per consiglio del medesimo oracolo fece esporre il primo e conservò la seconda. Cresciuta questa in età ed in bellezza, fu amata da Megacle, nobile e valoroso giovane ateniese, più volte vincitore ne' giuochi olimpici. Questi, non potendo ottenerla dal padre, a cui era odioso il nome ateniese, va disperato in Creta. Quivi assalito, e quasi oppresso da masnadieri, è conservato in vita da Licida creduto figlio del re dell'isola; onde contrae tenera e indissolubile amistà col suo liberatore. Avea Licida lungamente amata Argene, nobil dama cretense, e promessale occultamente fede di sposo. Ma, scoperto il suo amore, il re, risoluto di non permettere queste nozze ineguali, perseguitò di tal sorte la sventurata Argene, che si vide costretta ad abbandonar la patria e fuggirsene sconosciuta nelle campagne d'Elide, dove sotto nome di Licori ed in abito di pastorella visse nascosta a' risentimenti de' suoi congiunti ed alle violenze del suo sovrano. Rimase Licida inconsolabile per la fuga della sua Argene; e dopo qualche tempo, per distrarsi dalla mestizia, risolse di portarsi in Elide e trovarsi presente alla solennità de' giuochi olimpici, ch'ivi, col concorso di tutta la Grecia, dopo ogni quarto anno si ripetevano. Andovvi lasciando Megacle in Creta, e trovò che il re Clistene, eletto a presiedere a' giuochi suddetti, e perciò condottosi da Sicione in Elide, proponeva la propria figlia Aristea in premio al vincitore. La vide Licida, l'ammirò, ed, obbliate le sventure de' suoi primi amori, ardentemente se n'invaghì; ma disperando di poter conquistarla, per non esser egli punto addestrato agli atletici esercizi, di cui dovea farsi pruova ne' detti giuochi, immaginò come supplire con l'artifizio al difetto dell'esperienza. Gli sovvenne che l'amico era stato più volte vincitore in somiglianti contese; e (nulla sapendo degli antichi amori di Megacle con Aristea) risolse di valersi di lui, facendolo combattere sotto il finto nome di Licida. Venne dunque anche Megacle in Elide alle violenti istanze dell'amico; ma fu così tardo il suo arrivo, che già l'impaziente Licida ne disperava. Da questo punto prende il suo principio la rappresentazione del presente drammatico componimento. Il termine o sia la principale azione di esso è il ritrovamento di quel Filinto, per le minacce degli oracoli fatto esporre bambino dal proprio padre Clistene; ed a questo termine insensibilmente conducono le amorose smanie di Aristea, l'eroica amicizia di Megacle, l'incostanza ed i furori di Licida e la generosa pietà della fedelissima Argene. HEROD. PAUS. NAT. COM. ec.  
 
INTERLOCUTORI
 CLISTENE
, re di Sicione, padre d'Aristea.
 ARISTEA
, sua figlia, amante di Megacle.
 
ARGENE
, dama cretense, in abito di pastorella sotto nome di Licori, amante di Licida.
 
LICIDA
, creduto figlio del re di Creta, amante d'Aristea ed amico di Megacle. 
MEGACLE
, amante d'Aristea ed amico di Licida.
 AMINTA
, aio di Licida. 
ALCANDRO
, confidente di Clistene
 
La scena si finge nelle campagne d'Elide, vicino alla città d'Olimpia, alle sponde del fiume Alfeo. 
ATTO PRIMO 
SCENA PRIMA
 Fondo selvoso di cupa ed angusta valle, adombrata dall'alto da grandi alberi, che giungono ad intrecciare i rami dall'uno all'altro colle, fra' quali è chiusa.
 LICIDA
 Ho risoluto, Aminta; 
più consiglio non vuo'. 
AMINTA
 Licida, ascolta. 
Deh modera una volta 
questo tuo violento spirito intollerante.
 LICIDA
 E in chi poss'io 
fuor che in me più sperar? Megacle istesso,
 Megacle m'abbandona 
nel bisogno maggiore. Or va, riposa 
su la fé d'un amico. 
AMINTA
 Ancor non dèi 
condannarlo però. Breve cammino 
non è quel che divide 
Elide, in cui noi siamo, 
da Creta ov'ei restò. L'ali alle piante 
non ha Megacle al fin. Forse il tuo servo 
subito nol rinvenne. Il mar frapposto
 forse ritarda il suo venir. T'accheta:
 in tempo giungerà. Prescritta è l'ora 
agli olimpici giuochi 
oltre il meriggio, ed or non è l'aurora. 
LICIDA
 Sai pur che ognun, che aspiri 
all'olimpica palma, or sul mattino
 dee presentarsi al tempio; il grado, il nome, 
la patria palesar; di Giove all'ara 
giurar di non valersi di frode nel cimento.
 AMINTA
 Il so.
 LICIDA
 T'è noto
 ch'escluso è dalla pugna 
chi quest'atto solenne 
giunge tardi a compir? Vedi la schiera
 de' concorrenti atleti? Odi il festivo 
tumulto pastoral? Dunque che deggio 
attender più, che più sperar? 
AMINTA
 Ma quale sarebbe il tuo disegno? 
LICIDA
 All'ara innanzi presentarmi con gli altri. 
AMINTA
 E poi? 
LICIDA
 Con gli altri a suo tempo pugnar. 
AMINTA
 Tu!
 LICIDA
 Sì. Non credi in me valor che basti?
 AMINTA
 Eh qui non giova,
 prence, il saper come si tratti il brando.
 Altra specie di guerra, altr'armi ed altri 
studi son questi. Ignoti nomi a noi 
cesto, disco, palestra, a' tuoi rivali
 per lung'uso son tutti 
familiari esercizi. Al primo incontro 
del giovanile ardire 
ti potresti pentir.
 LICIDA
 Se fosse a tempo 
Megacle giunto a tai contese esperto, 
pugnato avria per me: ma, s'ei non viene,
 che far degg'io? Non si contrasta, Aminta, 
oggi in Olimpia del selvaggio ulivo
 la solita corona. Al vincitore 
sarà premio Aristea, figlia reale 
dell'invitto Clistene, onor primiero 
delle greche sembianze; unica e bella 
fiamma di questo cor, benché novella. 
AMINTA
 Ed Argene? 
LICIDA
 Ed Argene 
più riveder non spero. Amor non vive, 
quando muor la speranza. 
AMINTA
 E pur giurasti tante volte... 
LICIDA
 T'intendo. In queste fole, 
finché l'ora trascorra,
 trattener mi vorresti. Addio. 
AMINTA
 Ma senti.
 LICIDA
 No no. 
AMINTA
 Vedi che giunge... 
LICIDA
 Chi? 
AMINTA
 Megacle. 
LICIDA
 Dov'è?
 AMINTA
 Fra quelle piante
 
parmi... No... non è desso.
 
LICIDA
 Ah mi deridi, 
e lo merito, Aminta. Io fui sì cieco, 
che in Megacle sperai. 
SCENA II 
MEGACLE
 Megacle è teco. 
LICIDA
 Giusti dei! 
MEGACLE
 Prence.
 LICIDA
 Amico. 
Vieni, vieni al mio seno. Ecco risorta 
la mia speme cadente. 
MEGACLE
 E sarà vero 
che il Ciel m'offra una volta 
la via d'esserti grato? 
LICIDA
 E pace e vita
 tu puoi darmi, se vuoi. 
MEGACLE
 Come?
 LICIDA
 Pugnando
 nell'olimpico agone 
per me, col nome mio.
 MEGACLE
 Ma tu non sei
 noto in Elide ancor?
 LICIDA
 No.
 MEGACLE
 Quale oggetto
 ha questa trama? 
LICIDA
 Il mio riposo. Oh Dio!
 non perdiamo i momenti. Appunto è l'ora
 che de' rivali atleti 
si raccolgono i nomi. Ah vola al tempio;
 dì che Licida sei. La tua venuta 
inutile sarà, se più soggiorni. 
Vanne. Tutto saprai quando ritorni.
 MEGACLE
 Superbo di me stesso
 andrò portando in fronte 
quel caro nome impresso, 
come mi sta nel cor.
 Dirà la Grecia poi 
che fur comuni a noi
 l'opre, i pensier, gli affetti, 
e al fine i nomi ancor.
 SCENA III 
LICIDA
 Oh generoso amico! 
Oh Megacle fedel! 
AMINTA
 Così di lui 
non parlavi poc'anzi.
 LICIDA
 Eccomi al fine 
possessor d'Aristea. Vanne, disponi 
tutto, mio caro Aminta. Io con la sposa, 
prima che il sol tramonti, 
voglio quindi partir.
 AMINTA
 Più lento, o prence, 
nel fingerti felice. Ancor vi resta
 molto di che temer. Potria l'inganno 
esser scoperto: al paragon potrebbe
 Megacle soggiacer. So ch'altre volte 
fu vincitor; ma un impensato evento
 so che talor confonde il vile e 'l forte; 
né sempre ha la virtù l'istessa sorte.
 LICIDA
 Oh sei pure importuno
 con questo tuo noioso 
perpetuo dubitar. Vicino al porto
 vuoi ch'io tema il naufragio? A' dubbi tuoi
 chi presta fede intera, 
non sa mai quando è l'alba o quando è sera. 
Quel destrier, che all'albergo è vicino,
 più veloce s'affretta nel corso;
 non l'arresta l'angustia del morso, 
non la voce, che legge gli dà. 
Tal quest'alma, che piena è di speme, 
nulla teme, consiglio non sente; 
e si forma una gioia presente 
del pensiero che lieta sarà.
 SCENA IV
 Vasta campagna alle falde d'un monte, sparsa di capanne pastorali. Ponte rustico sul fiume Alfeo, composto di tronchi d'alberi rozzamente commessi. Veduta della città d'Olimpia in lontano, interrotta da poche piante, che adornano la pianura, ma non l'ingombrano. 
CORO
 Oh care selve, oh cara
 felice libertà! 
ARGENE
 Qui se un piacer si gode, 
parte non v'ha la frode 
ma lo condisce a gara 
amore e fedeltà. 
CORO
 Oh care selve, oh cara 
felice libertà! 
ARGENE
 Qui poco ognun possiede,
 e ricco ognun si crede: 
né, più bramando, impara 
che cosa è povertà.
 CORO
 Oh care selve, oh cara 
felice libertà!
 ARGENE
 Senza custodi o mura 
la pace è qui sicura,
 che l'altrui voglia avara
 onde allettar non ha. 
CORO
 Oh care selve, oh cara
 felice libertà! 
ARGENE
 Qui gl'innocenti amori 
di ninfe...[s'alza a sedere]
  Ecco Aristea. 
ARISTEA
 Siegui, o Licori. 
ARGENE
 Già il rozzo mio soggiorno
 torni a render felice, o principessa? 
ARISTEA
 Ah fuggir da me stessa
 potessi ancor, come dagli altri! Amica
 tu non sai qual funesto
 giorno per me sia questo. 
ARGENE
 E` questo un giorno
 glorioso per te. Di tua bellezza
 qual può l'età futura
 prova aver più sicura? A conquistarti 
nell'olimpico agone 
tutto il fior della Grecia oggi s'espone. 
ARISTEA
 Ma chi bramo non v'è. Deh si proponga
 men funesta materia
 al nostro ragionar. [siede Aristea] Siedi, Licori: 
gl'interrotti lavori
 riprendi, e parla. Incominciasti un giorno
 a narrarmi i tuoi casi. Il tempo è questo 
di proseguirli. Il mio dolor seduci;
 raddolcisci, se puoi,
 i miei tormenti in rammentando i tuoi. 
ARGENE
 Se avran tanta virtù, senza mercede
 non va la mia costanza.[siede] A te già dissi 
che Argene è il nome mio; che in Creta io nacqui
 d'illustre sangue, e che gli affetti miei
 fur più nobili ancor de' miei natali.
 ARISTEA
 So fin qui. 
ARGENE
 De' miei mali 
ecco il principio. Del cretense soglio
 Licida il regio erede fu la mia fiamma, ed io la sua. Celammo
 prudenti un tempo il nostro amor; ma poi 
l'amor s'accrebbe, e, come in tutti avviene, 
la prudenza scemò. Comprese alcuno 
il favellar de' nostri sguardi: ad altri 
i sensi ne spiegò. Di voce in voce
 tanto in breve si stese
 il maligno romor, che 'l re l'intese: 
se ne sdegnò, sgridonne il figlio; a lui 
vietò di più vedermi, e col divieto
 glien'accrebbe il desio; che aggiunge il vento
 fiamme alle fiamme, e più superbo un fiume
 fanno gli argini opposti. Ebro d'amore 
freme Licida, e pensa
 di rapirmi e fuggir. Tutto il disegno
 spiega in un foglio: a me l'invia. Tradisce
 la fede il messo, e al re lo reca. E` chiuso
 in custodito albergo
 il mio povero amante. A me s'impone 
che a straniero consorte
 porga la destra. Io lo ricuso. Ognuno
 contro me si dichiara. Il re minaccia: 
mi condannan gli amici: il padre mio 
vuol che al nodo acconsenta. Altro riparo
 che la fuga o la morte
 al mio caso non trovo. Il men funesto
 credo il più saggio, e l'eseguisco. Ignota 
in Elide pervenni. In queste selve 
mi proposi abitar. Qui fra pastori 
pastorella mi finsi, e or son Licori: 
ma serbo al caro bene 
fido in sen di Licori il cor d'Argene. 
ARISTEA
 In ver mi fai pietà. Ma la tua fuga
 non approvo però. Donzella e sola 
cercar contrade ignote, 
abbandonar...
 ARGENE
 Dunque dovea la mano 
a Megacle donar? 
ARISTEA
 Megacle? (Oh nome!) 
Di qual Megacle parli?
 ARGENE
 Era lo sposo
 questi, che il re mi destinò. Dovea
 dunque obbliar... 
ARISTEA
 Ne sai la patria? 
ARGENE
 Atene.
 ARISTEA
 Come in Creta pervenne?
 ARGENE
 Amor vel trasse, 
com'ei stesso dicea, ramingo, afflitto.
 Nel giungervi fu colto
 da stuol di masnadieri; e oppresso ormai 
la vita vi perdea. Licida a sorte
 vi si avvenne, e il salvò. Quindi fra loro
 fidi amici fur sempre. Amico al figlio,
 fu noto al padre; e dal reale impero 
destinato mi fu, perché straniero.
 ARISTEA
 Ma ti ricordi ancora
 le sue sembianze?
 ARGENE
 Io l'ho presente. Avea
 bionde le chiome, oscuro il ciglio, i labbri 
vermigli sì, ma tumidetti, e forse 
oltre il dover; gli sguardi 
lenti e pietosi: un arrossir frequente, 
un soave parlar... Ma... principessa, 
tu cambi di color! Che avvenne?
 ARISTEA
 Oh Dio!
 Quel Megacle, che pingi, è l'idol mio.
 ARGENE
 Che dici!
 ARISTEA
 Il vero. A lui,
 lunga stagion già mio segreto amante,
 perché nato in Atene, 
negommi il padre mio, né volle mai 
conoscerlo, vederlo, 
ascoltarlo una volta. Ei disperato
 da me partì; più nol rividi: e in questo 
punto da te so de' suoi casi il resto. 
ARGENE
 In ver sembrano i nostri
 favolosi accidenti.
 ARISTEA
 Ah s'ei sapesse
 ch'oggi per me qui si combatte! 
ARGENE
 In Creta
 a lui voli un tuo servo; e tu procura
 la pugna differir.
 ARISTEA
 Come? 
ARGENE
 Clistene 
è pur tuo padre: ei qui presiede eletto
 arbitro delle cose; ei può, se vuole...
 ARISTEA
 Ma non vorrà. 
ARGENE
 Che nuoce, 
principessa, il tentarlo?
 ARISTEA
 E ben, Clistene 
vadasi a ritrovar.[s'alzano] 
ARGENE
 Fermati: ei viene.
 SCENA V 
CLISTENE
 Figlia, tutto è compìto. I nomi accolti, 
le vittime svenate, al gran cimento
 l'ora è prescritta; e più la pugna ormai, 
senza offesa de' numi, 
della pubblica fé, dell'onor mio, 
differir non si può.
 ARISTEA
 (Speranze, addio).
 CLISTENE
 Ragion d'esser superba 
io ti darei, se ti dicessi tutti 
quei, che a pugnar per te vengono a gara.
 V'è Olinto di Megara, 
v'è Clearco di Sparta, Ati di Tebe, 
Erilo di Corinto, e fin di Creta
 Licida venne.
 ARGENE
 Chi? 
CLISTENE
 Licida, il figlio
 del re cretense.
 ARISTEA
 Ei pur mi brama?
 CLISTENE
 Ei viene
 con gli altri a prova. 
ARGENE
 (Ah si scordò d'Argene!) 
CLISTENE
 Sieguimi, figlia.
 ARISTEA
 Ah questa pugna, o padre,
 si differisca. 
CLISTENE
 Un impossibil chiedi: 
dissi perché. Ma la cagion non trovo
 di tal richiesta. 
ARISTEA
 A divenir soggette
 sempre v'è tempo. E` d'Imeneo per noi 
pesante il giogo; e già senz'esso abbiamo
 che soffrire abbastanza
 nella nostra servil sorte infelice. 
CLISTENE
 Dice ognuna così, ma il ver non dice.
 Del destin non vi lagnate
 se vi rese a noi soggette;
 siete serve, ma regnate
 nella vostra servitù.
 Forti noi, voi belle siete,
 e vincete in ogn'impresa, 
quando vengono a contesa
 la bellezza e la virtù.[parte]
 SCENA VI 
ARGENE
 Udisti, o principessa? 
ARISTEA
 Amica, addio: 
convien ch'io siegua il padre. Ah tu, che puoi, 
del mio Megacle amato,
 se pietosa pur sei, come sei bella,
 cerca, recami, oh Dio, qualche novella. 
Tu di saper procura
 dove il mio ben s'aggira
, se più di me si cura, 
se parla più di me.
 Chiedi se mai sospira
 quando il mio nome ascolta; 
se il profferì talvolta
 nel ragionar fra sé [parte] 
SCENA VII 
ARGENE
[sola] Dunque Licida ingrato
 già di me si scordò! Povera Argene,
 a che mai ti serbar le stelle irate! 
Imparate, imparate, 
inesperte donzelle. Ecco lo stile 
de' lusinghieri amanti. Ognun vi chiama 
suo ben, sua vita e suo tesoro: ognuno
 giura che, a voi pensando, 
vaneggia il dì, veglia le notti. Han l'arte
 di lagrimar, d'impallidir. Tal volta 
par che su gli occhi vostri 
voglian morir fra gli amorosi affanni:
 guardatevi da lor, son tutti inganni.
 Più non si trovano 
fra mille amanti
 sol due bell'anime,
 che sian costanti
 e tutti parlano
 di fedeltà. 
E il reo costume
 tanto s'avanza,
 che la costanza 
di chi ben ama 
ormai si chiama
 semplicità. 
SCENA VIII 
MEGACLE
 Licida.
 LICIDA
 Amico. 
MEGACLE
 Eccomi a te. 
LICIDA
 Compisti... 
MEGACLE
 Tutto, o signor. Già col tuo nome al tempio 
per te mi presentai. Per te fra poco
 vado al cimento. Or, fin che il noto segno 
della pugna si dia, spiegar mi puoi
 la cagion della trama.
 LICIDA
 Oh, se tu vinci,
 non ha di me più fortunato amante
 tutto il regno d'Amor. 
MEGACLE
 Perché? 
LICIDA
 Promessa 
in premio al vincitore
 è una real beltà. La vidi appena, 
che n'arsi e la bramai. Ma poco esperto
 negli atletici studi... 
MEGACLE
 Intendo. Io deggio
 conquistarla per te. 
LICIDA
 Sì. Chiedi poi
 la mia vita, il mio sangue, il regno mio;
 tutto, o Megacle amato, io t'offro, e tutto 
scarso premio sarà. 
MEGACLE
 Di tanti, o prence, 
stimoli non fa d'uopo 
al grato servo, al fido amico. Io sono
 memore assai de' doni tuoi: rammento
 la vita che mi desti. Avrai la sposa; 
speralo pur. Nella palestra elèa 
non entro pellegrin. Bevve altre volte
 i miei sudori: ed il silvestre ulivo
 non è per la mia fronte
 un insolito fregio. Io più sicuro 
mai di vincer non fui. Desio d'onore, 
stimoli d'amistà mi fan più forte. 
Anelo, anzi mi sembra
 d'esser già nell'agon. Gli emuli al fianco
 mi sento già; già li precorro: e, asperso 
dell'olimpica polve il crine, il volto, 
del volgo spettator gli applausi ascolto.
 LICIDA
 Oh dolce amico! [abbracciandolo] Oh cara 
sospirata Aristea!
 MEGACLE
 Che!
 LICIDA
 Chiamo a nome
 il mio tesoro.
 MEGACLE
 Ed Aristea si chiama? 
LICIDA
 Appunto. 
MEGACLE
 Altro ne sai? 
LICIDA
 Presso a Corinto
 nacque in riva all'Asopo, al re Clistene 
unica prole.
 MEGACLE
 (Aimè! Questa è il mio bene).
 E per lei si combatte?
 LICIDA
 Per lei. 
MEGACLE
 Questa degg'io 
conquistarti pugnando?
 
LICIDA
 Questa. 
MEGACLE
 Ed è tua speranza e tuo conforto
 sola Aristea? 
LICIDA
 Sola Aristea. 
MEGACLE
 (Son morto). 
LICIDA
 Non ti stupir. Quando vedrai quel volto,
 forse mi scuserai. D'esserne amanti 
non avrebbon rossore i numi istessi.
 MEGACLE
 (Ah così nol sapessi!)
 LICIDA
 Oh, se tu vinci, 
chi più lieto di me! Megacle istesso
 quanto mai ne godrà! Dì; non avrai 
piacer del piacer mio?
 MEGACLE
 Grande.
 LICIDA
 Il momento,
 che ad Aristea m'annodi, 
Megacle, dì, non ti parrà felice? 
MEGACLE
 Felicissimo. (Oh dei!)
 LICIDA
 Tu non vorrai
 pronubo accompagnarmi 
al talamo nuzial? 
MEGACLE
 (Che pena!) 
LICIDA
 Parla.
 MEGACLE
 Sì; come vuoi. (Qual nuova specie è questa
 di martirio e d'inferno!) 
LICIDA
 Oh quanto il giorno 
lungo è per me! Che l'aspettare uccida 
nel caso, in cui mi vedo, 
tu non credi, o non sai. 
MEGACLE
 Lo so, lo credo.
 LICIDA
 Senti, amico. Io mi fingo
 già l'avvenir: già col desio possiedo
 la dolce sposa.
 MEGACLE
 (Ah questo è troppo!)
 LICIDA
 E parmi... 
MEGACLE
 Ma taci: assai dicesti. Amico io sono;[con impeto] 
il mio dover comprendo;
 ma poi...
 LICIDA
 Perché ti sdegni? In che t'offendo? 
MEGACLE
 (Imprudente, che feci!)[si ricompone] Il mio trasporto
 è desio di servirti.
 Io stanco arrivo
 da cammin lungo: ho da pugnar: mi resta
 picciol tempo al riposo, e tu mel togli.
 LICIDA
 E chi mai ti ritenne 
di spiegarti fin ora? 
MEGACLE
 Il mio rispetto. LICIDA
 Vuoi dunque riposar? 
MEGACLE
 Sì.
 LICIDA
 Brami altrove meco venir? 
MEGACLE
 No. 
LICIDA
 Rimaner ti piace
 qui fra quest'ombre? 
MEGACLE
 Sì.
 LICIDA
 Restar degg'io? 
MEGACLE
 No.[con impazienza e si getta a sedere] 
LICIDA
 (Strana voglia!) E ben, riposa: addio. 
Mentre dormi, Amor fomenti
 il piacer de' sonni tuoi 
con l'idea del mio piacer. 
Abbia il rio passi più lenti; 
e sospenda i moti suoi 
ogni zeffiro leggier.[parte] 
SCENA IX 
MEGACLE
 Che intesi, eterni dei! Quale improvviso
 fulmine mi colpì! L'anima mia
 dunque fia d'altri! E ho da condurla io stesso 
in braccio al mio rival! Ma quel rivale
 è il caro amico. Ah quali nomi unisce 
per mio strazio la sorte! Eh che non sono
 rigide a questo segno
 
le leggi d'amistà. Perdoni il prence, 
ancor io sono amante. Il domandarmi 
ch'io gli ceda Aristea non è diverso
 dal chiedermi la vita. E questa vita
 di Licida non è? Non fu suo dono? 
Non respiro per lui? Megacle ingrato, 
e dubitar potresti? Ah! se ti vede 
con questa in volto infame macchia e rea, 
ha ragion d'aborrirti anche Aristea. 
No, tal non mi vedrà. Voi soli ascolto 
obblighi d'amistà, pegni di fede, 
gratitudine, onore. Altro non temo
 che 'l volto del mio ben. Questo s'evìti 
formidabile incontro. In faccia a lei,
 misero, che farei! Palpito e sudo
 solo in pensarlo, e parmi
 istupidir, gelarmi, 
confondermi, tremar... No, non potrei...
 SCENA X
 ARISTEA
 Stranier. [senza vederlo in viso]
MEGACLE
 Chi mi sorprende?[rivoltandosi]
 ARISTEA
 (Oh stelle!) [riconoscendosi reciprocamente] 
 MEGACLE
 (Oh dei!) [riconoscendosi reciprocamente] 
ARISTEA
 Megacle! mia speranza! 
 Ah sei pur tu? Pur ti riveggo? Oh Dio! 
di gioia io moro; ed il mio petto appena 
può alternare i respiri. Oh caro! Oh tanto
 e sospirato e pianto 
e richiamato in vano! Udisti al fine 
la povera Aristea. Tornasti: e come
 opportuno tornasti! Oh Amor pietoso! 
Oh felici martìri! 
Oh ben sparsi fin or pianti e sospiri! 
MEGACLE
 (Che fiero caso è il mio!) 
ARISTEA
 Megacle amato,
 e tu nulla rispondi?
 E taci ancor? Che mai vuol dir quel tanto
 cambiarti di color? Quel non mirarmi 
che timido e confuso? E quelle a forza 
lagrime trattenute? Ah! più non sono
 forse la fiamma tua? Forse...
 MEGACLE
 Che dici! 
Sempre... Sappi... Son io... 
Parlar non so. (Che fiero caso è il mio!)
 ARISTEA
 Ma tu mi fai gelar. Dimmi: non sai
 che per me qui si pugna? 
MEGACLE
 Il so. 
ARISTEA
 Non vieni 
ad esporti per me? 
MEGACLE
 Sì. 
ARISTEA
 Perché mai
 dunque sei così mesto? 
MEGACLE
 Perché... (Barbari dei, che inferno è questo!) 
ARISTEA
 Intendo: alcun ti fece 
dubitar di mia fé. Se ciò t'affanna,
 ingiusto sei. Da che partisti, o caro, 
non son rea d'un pensier. Sempre m'intesi
 la tua voce nell'alma: ho sempre avuto
 il tuo nome fra' labbri, 
il tuo volto nel cor. Mai d'altri accesa
 non fui, non sono, e non sarò. Vorrei...
 MEGACLE
 Basta: lo so. 
ARISTEA
 Vorrei morir più tosto
 che mancarti di fede un sol momento.
 MEGACLE
 (Oh tormento maggior d'ogni tormento!) 
ARISTEA
 Ma guardami, ma parla,
 ma dì... 
MEGACLE
 Che posso dir?
 ALCANDRO
 [uscendo frettoloso] Signor, t'affretta,
 se a combatter venisti. Il segno è dato,
 che al gran cimento i concorrenti invita.[parte] 
MEGACLE
 Assistetemi, o numi. Addio, mia vita.
 ARISTEA
 E mi lasci così? Va; ti perdono, 
pur che torni mio sposo. 
MEGACLE
 Ah sì gran sorte 
non è per me!  [in atto di partire]
ARISTEA
 Senti. Tu m'ami ancora? 
MEGACLE
 Quanto l'anima mia. 
ARISTEA
 Fedel mi credi? 
MEGACLE
 Sì, come bella. ARISTEA
 A conquistar mi vai?
 MEGACLE
 Lo bramo almeno. 
ARISTEA
 Il tuo valor primiero 
hai pur?
 MEGACLE
 Lo credo.
 ARISTEA
 E vincerai? 
MEGACLE
 Lo spero. 
ARISTEA
 Dunque allor non son io, 
caro, la sposa tua?
 MEGACLE
 Mia vita... Addio. 
Ne' giorni tuoi felici
 ricordati di me.
 ARISTEA
 Perché così mi dici, 
anima mia, perché? 
MEGACLE
 Taci, bell'idol mio. 
ARISTEA
 Parla, mio dolce amor. 
MEGACLE
 Ah che parlando oh Dio!
 ARISTEA
 Ah che tacendo oh Dio!
 A DUE tu mi trafiggi il cor.
 ARISTEA
 (Veggio languir chi adoro, 
né intendo il suo languir). 
MEGACLE
 (Di gelosia mi moro, 
e non lo posso dir). 
A DUE Chi mai provò di questo 
affanno più funesto, 
più barbaro dolor! 
ATTO SECONDO 
SCENA I 
ARGENE
 Ed ancor della pugna
 l'esito non si sa? 
ARISTEA
 No, bella Argene.
 E` pur dura la legge, onde n'è tolto 
d'esserne spettatrici! 
ARGENE
 Ah! che sarebbe 
forse pena maggior veder chi s'ama 
in cimento sì grande, e non potergli
 porger soccorso: esser presente...
 ARISTEA
 Io sono
 presente ancor lontana: anzi mi fingo 
forse quel che non è. Se tu vedessi 
come sta questo cor! Qui dentro, amica,
 qui dentro si combatte; e più che altrove
 qui la pugna è crudele. Ho innanzi agli occhi
 Megacle, la palestra,
 i giudici, i rivali. Io mi figuro
 questi più forti e quei men giusti. Io provo
 doppiamente nell'alma 
ciò che or soffre il mio ben, gli urti, le scosse,
 gl'insulti, le minacce. Ah! che presente 
solo il ver temerei; ma il mio pensiero
 fa ch'io tema lontana il falso e il vero.
 ARGENE
 Né ancor si vede alcun. [guardando per la scena] 
ARISTEA
 [turbata] Né alcuno... Oh Dio!
 ARGENE
 Che avvenne? 
ARISTEA
 Oh come io tremo,
 come palpito adesso! 
ARGENE
 E la cagione? 
ARISTEA
 E` deciso il mio fato:
 vedi Alcandro, che arriva. 
ARGENE
 Alcandro, ah corri: [verso la scena] 
consolane. Che rechi?
 SCENA II 
ALCANDRO
 Fortunate novelle. Il re m'invia
 nunzio felice, o principessa. Ed io...
 ARISTEA
 La pugna terminò? 
ALCANDRO
 Sì; ascolta. Intorno 
già impazienti... 
ARGENE
 Il vincitor si chiede. 
ALCANDRO
 Tutto dirò. Già impazienti intorno 
le turbe spettatrici... 
ARISTEA
 [con impazienza] Eh ch'io non cerco
 questo da te.
 ALCANDRO
 Ma in ordine distinto... 
ARISTEA
 Chi vinse dimmi sol. [con isdegno]
ALCANDRO
 Licida ha vinto. 
ARISTEA
 Licida!
 ALCANDRO
 Appunto.
 ARGENE
 Il principe di Creta! 
ALCANDRO
 Sì, che giunse poc'anzi a queste arene. 
ARISTEA
 (Sventurata Aristea!) ARGENE
 (Povera Argene!)
 ALCANDRO
 Oh te felice! Oh quale [ad Aristea] 
sposo ti diè la sorte! 
ARISTEA
 Alcandro, parti. 
ALCANDRO
 T'attende il re.
 ARISTEA
 Parti, verrò. 
ALCANDRO
 T'attende
 nel gran tempio adunata...
 ARISTEA
 Né parti ancor? [con isdegno] 
ALCANDRO
 (Che ricompensa ingrata!) [parte]
SCENA III 
ARGENE
 Ah dimmi, o principessa, 
v'è sotto il ciel chi possa dirsi, oh Dio! 
più misera di me?
 ARISTEA
 Sì, vi son io. 
ARGENE
 Ah non ti faccia amore
 provar mai le mie pene! Ah tu non sai
 qual perdita è la mia! Quanto mi costa 
quel cor che tu m'involi! 
ARISTEA
 E tu non senti,
 non comprendi abbastanza i miei tormenti.
 Grandi, è ver, son le tue pene:
 perdi, è ver, l'amato bene;
 ma sei tua, ma piangi intanto, 
ma domandi almen pietà. 
Io dal fato io sono oppressa: 
perdo altrui, perdo me stessa; 
né conservo almen del pianto
 l'infelice libertà.[parte] 
SCENA IV 
ARGENE
 E trovar non poss'io 
né pietà né soccorso?
 AMINTA
 [a parte nell'uscire] Eterni dei! 
parmi Argene colei. 
ARGENE
 Vendetta almeno, 
vendetta si procuri. [vuol partire]
AMINTA
 Argene, e come
 tu in Elide! Tu sola! 
Tu in sì ruvide spoglie! 
ARGENE
 I neri inganni 
a secondar del prence 
dunque ancor tu venisti? A saggio in vero
 regolator commise il re di Creta
 di Licida la cura. Ecco i bei frutti
 di tue dottrine. Hai gran ragione, Aminta, 
d'andarne altier. Chi vuol sapere appieno
 se fu attento il cultor, guardi il terreno. 
AMINTA
 (Tutto già sa). Non da' consigli miei... 
ARGENE
 Basta... Chi sa: nel Cielo 
v'è giustizia per tutti; e si ritrova 
talvolta anche nel mondo. Io chiederolla
 agli uomini, agli dei. S'ei non ha fede,
 ritegni io non avrò. Vuo' che Clistene,
 vuo' che la Grecia, il mondo
 sappia ch'è un traditore, acciò per tutto
 questa infamia lo siegua; acciò che ognuno
 l'abborrisca, l'evìti, 
e con orrore, a chi nol sa, l'addìti. 
AMINTA
 Non son questi pensieri 
degni d'Argene. Un consigliero infido, 
anche giusto, è lo sdegno. Io nel tuo caso
 più dolci mezzi adoprerei. Procura 
ch'ei ti rivegga: a lui favella: a lui
 le promesse rammenta. E` sempre meglio
 il racquistarlo amante 
che opprimerlo nemico. 
ARGENE
 E credi, Aminta, 
ch'ei tornerebbe a me? 
AMINTA
 Lo spero. Al fine 
fosti l'idolo suo. Per te languiva, 
delirava per te. Non ti sovviene 
che cento volte e cento... 
ARGENE
 Tutto, per pena mia, tutto rammento. 
Che non mi disse un dì! 
Quai numi non giurò!
 E come, oh Dio! si può,
 come si può così 
mancar di fede?
 Tutto per lui perdei; 
oggi lui perdo ancor. 
Poveri affetti miei!
 Questa mi rendi, Amor, 
questa mercede? [parte]
SCENA V
 AMINTA
 Insana gioventù! Qualora esposta
 ti veggo tanto agl'impeti d'amore, 
di mia vecchiezza io mi consolo e rido.
 Dolce è il mirar dal lido
 chi sta per naufragar; non che ne alletti 
il danno altrui, ma sol perché l'aspetto 
d'un mal, che non si soffre, è dolce oggetto. 
Ma che! l'età canuta 
non ha le sue tempeste? Ah che pur troppo 
ha le sue proprie; e dal timor dell'altre
 sciolta non è. Son le follie diverse, 
ma folle è ognuno: e a suo piacer ne aggira
 l'odio o l'amor, la cupidigia o l'ira.
 Siam navi all'onde algenti 
lasciate in abbandono: 
impetuosi venti
 i nostri affetti sono: 
ogni diletto è scoglio:
 tutta la vita è mar. 
Ben, qual nocchiero, in noi 
veglia ragion; ma poi
 pur dall'ondoso orgoglio
 si lascia trasportar. [parte]
SCENA VI 
CORO
 Del forte Licida 
nome maggiore
 d'Alfeo sul margine
 mai non sonò.
 PARTE DEL CORO
 Sudor più nobile
 del suo sudore 
l'arena olimpica
 mai non bagnò. 
ALTRA PARTE. L'arti ha di Pallade,
 l'ali ha d'Amore: 
d'Apollo e d'Ercole
 l'ardir mostrò.
 CORO
 No, tanto merito, 
tanto valore 
l'ombra de' secoli
 coprir non può. 
CLISTENE
 Giovane valoroso, 
che in mezzo a tanta gloria umìl ti stai, 
quell'onorata fronte
 lascia ch'io baci e che ti stringa al seno.
 Felice il re di Creta, 
che un tal figlio sortì! Se avessi anch'io 
serbato il mio Filinto, 
chi sa, sarebbe tal.[ad Alcandro] Rammenti, Alcandro, 
con qual dolor tel consegnai? Ma pure... 
ALCANDRO
 Tempo or non è di rammentar sventure.[a Clistene]
 
CLISTENE
 (E` ver).[a Megacle] Premio Aristea
 sarà del tuo valor. S'altro donarti 
Clistene può, chiedilo pur, che mai
 quanto dar ti vorrei non chiederai.
 MEGACLE
 (Coraggio, o mia virtù). Signor, son figlio,
 e di tenero padre. Ogni contento, 
che con lui non divido,
 è insipido per me. Di mie venture
 pria d'ogni altro io vorrei
 giungergli apportator: chieder l'assenso
 per queste nozze; e, lui presente, in Creta 
legarmi ad Aristea.
 CLISTENE
 Giusta è la brama.
 MEGACLE
 Partirò, se il concedi, 
senz'altro indugio. In vece mia rimanga
 questi, della mia sposa [presentando Licida] 
servo, compagno e condottier. 
CLISTENE
 (Che volto
 è questo mai! Nel rimirarlo il sangue 
mi si riscuote in ogni vena). E questi 
chi è? Come s'appella?
 MEGACLE
 Egisto ha nome, 
Creta è sua patria. Egli deriva ancora
 dalla stirpe real: ma più che 'l sangue,
 l'amicizia ne stringe; e son fra noi
 sì concordi i voleri, 
comuni a segno e l'allegrezza e 'l duolo, 
che Licida ed Egisto è un nome solo. 
LICIDA
 (Ingegnosa amicizia!)
 CLISTENE
 E ben, la cura
 di condurti la sposa
 Egisto avrà. Ma Licida non debbe
 partir senza vederla. 
MEGACLE
 Ah no, sarebbe
 pena maggior. Mi sentirei morire
 nell'atto di lasciarla. Ancor da lunge 
tanta pena io ne provo... 
CLISTENE
 Ecco che giunge.
 MEGACLE
 (Oh me infelice!) 
SCENA VII 
ARISTEA
 [non vedendo Megacle] (All'odiose nozze 
come vittima io vengo all'ara avanti). 
LICIDA
 (Sarà mio quel bel volto in pochi istanti). 
CLISTENE
 Avvicinati, o figlia; ecco il tuo sposo.[tenendo Megacle per mano] 
MEGACLE
 (Ah! non è ver). 
ARISTEA
 Lo sposo mio! (stupisce vedendo Megagle] 
CLISTENE
 Sì. Vedi
 se giammai più bel nodo in Ciel si strinse. 
ARISTEA
 (Ma se Licida vinse,
 come il mio bene?... Il genitor m'inganna?)
 LICIDA
 (Crede Megacle sposo e se ne affanna). 
ARISTEA
 E questi, o padre, è il vincitor? [additando Megacle]
CLISTENE
 Mel chiedi? 
Non lo ravvisi al volto
 di polve asperso? All'onorate stille,
 che gli rigan la fronte? A quelle foglie,
 che son di chi trionfa 
l'ornamento primiero? 
ARISTEA
 Ma che dicesti, Alcandro?
 ALCANDRO
 Io dissi il vero.
 CLISTENE
 Non più dubbiezze. Ecco il consorte, a cui
 il Ciel t'accoppia: e nol potea più degno
 ottener dagli dei l'amor paterno.
 ARISTEA
 (Che gioia!) 
MEGACLE
 (Che martìr!) 
LICIDA
 (Che giorno eterno!) 
CLISTENE
 E voi tacete? Onde il silenzio?[a Megacle ed Aristea] 
MEGACLE
 (Oh Dio! come comincierò?) 
ARISTEA
 Parlar vorrei,
 ma... 
CLISTENE
 Intendo. Intempestiva
 è la presenza mia. Severo ciglio,
 rigida maestà, paterno impero
 incomodi compagni 
sono agli amanti. Io mi sovvengo ancora
 quanto increbbero a me. Restate. Io lodo
 quel modesto rossor, che vi trattiene. 
MEGACLE
 (Sempre lo stato mio peggior diviene).
 CLISTENE
 So ch'è fanciullo Amore, 
né conversar gli piace
 con la canuta età. 
Di scherzi ei si compiace; 
si stanca del rigore: 
e stan di rado in pace 
rispetto e libertà. [parte]
SCENA VIII 
MEGACLE
 (Fra l'amico e l'amante,
 che farò sventurato!)
 LICIDA
 All'idol mio
 è tempo ch'io mi scopra.[piena a Megacle] 
MEGACLE
 (Aspetta). Oh Dio! 
ARISTEA
 Sposo, alla tua consorte
 non celar che t'affligge. 
MEGACLE
 (Oh pena! Oh morte!) 
LICIDA
 L'amor mio, caro amico, [a Megacle, come sopra]
non soffre indugio. 
ARISTEA
 Il tuo silenzio, o caro, 
mi cruccia, mi dispera.
 MEGACLE
 (Ardir mio core:
 finiamo di morir). Per pochi istanti 
allontanati, o prence. [a parte a Licida] 
LICIDA
 E qual ragione?... 
MEGACLE
 Va: fidati di me. Tutto conviene
 ch'io spieghi ad Aristea. [a parte a Licida]
LICIDA
 Ma non poss'io 
esser presente?
 MEGACLE
 No: più che non credi 
delicato è l'impegno. [come sopra]
LICIDA
 E ben, tu 'l vuoi, 
io lo farò. Poco mi scosto: un cenno
 basterà perch'io torni. Ah! pensa, amico, 
di che parli, e per chi. Se nulla mai
 feci per te, se mi sei grato e m'ami, 
mostralo adesso. Alla tua fida aìta 
la mia pace io commetto e la mia vita. [parte]
SCENA IX 
MEGACLE
 (Oh ricordi crudeli!)
 ARISTEA
 Al fin siam soli:
 potrò senza ritegni 
il mio contento esagerar; chiamarti
 mia speme, mio diletto,
 luce degli occhi miei... 
MEGACLE
 No, principessa,
 questi soavi nomi
 non son per me. Serbali pure ad altro
 più fortunato amante. 
ARISTEA
 E il tempo è questo 
di parlarmi così? Giunto è quel giorno...
 Ma semplice ch'io son: tu scherzi, o caro,
 ed io stolta m'affanno. 
MEGACLE
 Ah! non t'affanni 
senza ragion.
 ARISTEA
 Spiegati dunque. 
MEGACLE
 Ascolta: 
ma coraggio, Aristea. L'alma prepara
 a dar di tua virtù la prova estrema. 
ARISTEA
 Parla. Aimè! che vuoi dirmi? Il cor mi trema. 
MEGACLE
 Odi. In me non dicesti 
mille volte d'amar, più che 'l sembiante, 
il grato cor, l'alma sincera, e quella, 
che m'ardea nel pensier, fiamma d'onore? 
ARISTEA
 Lo dissi, è ver. Tal mi sembrasti, e tale
 ti conosco, t'adoro. 
MEGACLE
 E se diverso
 fosse Megacle un dì da quel che dici; 
se infedele agli amici, 
se spergiuro agli dei, se, fatto ingrato 
al suo benefattor, morte rendesse 
per la vita che n'ebbe; avresti ancora 
amor per lui? Lo soffriresti amante?
 L'accetteresti sposo? 
ARISTEA
 E come vuoi
 ch'io figurar mi possa 
Megacle mio sì scellerato?
 MEGACLE
 Or sappi
 che per legge fatale, 
se tuo sposo divien, Megacle è tale. 
ARISTEA
 Come!
 MEGACLE
 Tutto l'arcano
 ecco ti svelo. Il principe di Creta
 langue per te d'amor. Pietà mi chiede,
 e la vita mi diede. Ah principessa, 
se negarla poss'io, dillo tu stessa. 
ARISTEA
 E pugnasti... 
MEGACLE
 Per lui. 
ARISTEA
 Perder mi vuoi... 
MEGACLE
 Sì, per serbarmi sempre 
degno di te. 
ARISTEA
 Dunque io dovrò...
 MEGACLE
 Tu dèi 
coronar l'opra mia. Sì, generosa,
 adorata Aristea, seconda i moti 
d'un grato cor. Sia, qual io fui fin ora, 
Licida in avvenire. Amalo. E` degno
 di sì gran sorte il caro amico. Anch'io
 vivo di lui nel seno;
 e s'ei t'acquista, io non ti perdo appieno. 
ARISTEA
 Ah qual passaggio è questo! Io dalle stelle
 precipito agli abissi. Eh no: si cerchi 
miglior compenso. Ah! senza te la vita 
per me vita non è.
 MEGACLE
 Bella Aristea,
 non congiurar tu ancora
 contro la mia virtù. Mi costa assai
 il prepararmi a sì gran passo. Un solo
 di quei teneri sensi 
quant'opera distrugge! 
ARISTEA
 E di lasciarmi... 
MEGACLE
 Ho risoluto. 
ARISTEA
 Hai risoluto? E quando?
 MEGACLE
 Questo (morir mi sento) 
questo è l'ultimo addio.
 ARISTEA
 L'ultimo! Ingrato... 
Soccorretemi, o numi! Il piè vacilla:
 freddo sudor mi bagna il volto; e parmi
 ch'una gelida man m'opprima il core! [s'appoggia ad un tronco]
MEGACLE
 Sento che il mio valore
 mancando va. Più che a partir dimoro,
 meno ne son capace.
 Ardir. Vado, Aristea: rimanti in pace.
 ARISTEA
 Come! Già m'abbandoni? 
MEGACLE
 E` forza, o cara, 
separarsi una volta.
 ARISTEA
 E parti...
 MEGACLE
 E parto
 per non tornar più mai. [in atto di partire]
ARISTEA
 Senti. Ah no... Dove vai?
 MEGACLE
 A spirar, mio tesoro, 
lungi dagli occhi tuoi. [Megacle parte risoluto, poi si ferma]
ARISTEA
 Soccorso... Io... moro.[sviene sopra un sasso] 
MEGACLE
 Misero me, che veggo! [rivolgendosi indietro]
Ah l'oppresse il dolor! [tornando] Cara mia speme,
 bella Aristea, non avvilirti; ascolta: 
Megacle è qui. Non partirò. Sarai... 
Che parlo? Ella non m'ode. Avete, o stelle,
 più sventure per me? No, questa sola
 mi restava a provar. Chi mi consiglia? 
Che risolvo? Che fo? Partir? Sarebbe
 crudeltà, tirannia. Restar? che giova? 
forse ad esserle sposo? E 'l re ingannato
, e l'amico tradito, e la mia fede,
 e l'onor mio lo soffrirebbe? Almeno 
partiam più tardi. Ah che sarem di nuovo 
a quest'orrido passo! Ora è pietade
 l'esser crudele. Addio, mia vita: addio, [le prende la mano e la bacia]
 mia perduta speranza. Il Ciel ti renda
 più felice di me. Deh, conservate 
questa bell'opra vostra, eterni dei; 
e i dì, ch'io perderò, donate a lei.
 Licida... Dov'è mai? Licida.[verso la scena]
 SCENA X 
LICIDA
 Intese 
tutto Aristea?
 MEGACLE
 Tutto. T'affretta, o prence; 
soccorri la tua sposa. [in atto di partire]
LICIDA
 Aimè, che miro! 
Che fu? [a Megacle]
MEGACLE
 Doglia improvvisa
 le oppresse i sensi. [partendo come sopra]
LICIDA
 E tu mi lasci? 
MEGACLE
 Io vado...[tornando indietro] 
Deh pensa ad Aristea. [partendo](Che dirà mai 
quando in sé tornerà? [si ferma]Tutte ho presenti
 tutte le smanie sue). Licida, ah senti.
 Se cerca, se dice:
 "L'amico dov'è?".
 "L'amico infelice",
 rispondi, "morì".
 Ah no! sì gran duolo 
non darle per me: 
rispondi ma solo: 
"Piangendo partì". 
Che abisso di pene 
lasciare il suo bene, l
asciarlo per sempre,
 lasciarlo così! [parte]
SCENA XI 
LICIDA
 Che laberinto è questo! Io non l'intendo. 
Semiviva Aristea... Megacle afflitto...
 ARISTEA
 Oh Dio! 
LICIDA
 Ma già quell'alma
 torna agli usati uffizi. Apri i bei lumi,
 principessa, ben mio.
 ARISTEA
 [senza vederlo] Sposo infedele! 
LICIDA
 Ah! non dirmi così. Di mia costanza
 ecco in pegno la destra. [la prende per mano]
ARISTEA
 Almeno... Oh stelle! [s'avvede non esser Megacle e ritira la mano]
 Megacle ov'è?
 LICIDA
 Partì.
 ARISTEA
 Partì l'ingrato?
 Ebbe cor di lasciarmi in questo stato?
 LICIDA
 Il tuo sposo restò.
 ARISTEA
[s'alza con impeto] Dunque è perduta
 l'umanità, la fede, 
l'amore, la pietà! Se questi iniqui
 incenerir non sanno,
 numi, i fulmini vostri in ciel che fanno? 
LICIDA
 Son fuor di me. Dì, che t'offese, o cara? 
Parla; brami vendetta? Ecco il tuo sposo, 
ecco Licida... 
ARISTEA
 Oh dei! 
Tu quel Licida sei! Fuggi, t'invola, 
nasconditi da me. Per tua cagione, 
perfido, mi ritrovo a questo passo.
 LICIDA
 E qual colpa ho commessa? Io son di sasso.
 ARISTEA
 Tu me da me dividi;
 barbaro, tu m'uccidi:
 tutto il dolor, ch'io sento,
 tutto mi vien da te. 
No, non sperar mai pace. 
Odio quel cor fallace:
 oggetto di spavento 
sempre sarai per me. [parte]
SCENA XII
 LICIDA
 A me "barbaro"! Oh numi! 
"Perfido" a me! Voglio seguirla; e voglio 
sapere almen che strano enigma è questo. 
ARGENE
 Fermati, traditor. 
LICIDA
 Sogno o son desto!
 ARGENE
 Non sogni no: son io
 l'abbandonata Argene. Anima ingrata, 
riconosci quel volto, 
che fu gran tempo il tuo piacer; se pure
 in sorte sì funesta 
delle antiche sembianze orma vi resta.
 LICIDA
 (Donde viene; in qual punto 
mi sorprende costei! Se più mi fermo,
 Aristea non raggiungo). Io non intendo
 bella ninfa, i tuoi detti. Un'altra volta
 potrai meglio spiegarti. [vuol partire]
ARGENE
 [trattenendolo] Indegno, ascolta.
 LICIDA
 (Misero me!)
 ARGENE
 Tu non m'intendi? Intendo
 ben io la tua perfidia. I nuovi amori, 
le frodi tue tutte riseppi; e tutto 
saprà da me Clistene 
per tua vergogna. [vuol partire]
LICIDA
 [trattenendola] Ah no! Sentimi, Argene. 
Non sdegnarti: perdona, 
se tardi ti ravviso. Io mi rammento 
gli antichi affetti; e, se tacer saprai, 
forse... chi sa. 
ARGENE
 Si può soffrir di questa 
ingiuria più crudel! "Chi sa", mi dici? 
In vero io son la rea. Picciole prove
 di tua bontà non sono
 le vie che m'offri a meritar perdono.
 LICIDA
 Ascolta. Io volli dir... [vuol prenderla permano]
ARGENE
 Lasciami, ingrato: non ti voglio ascoltar. 
LICIDA
 (Son disperato). 
ARGENE
 No, la speranza 
più non m'alletta: 
voglio vendetta, 
non chiedo amor. 
Pur che non goda 
quel cor spergiuro, 
nulla mi curo
 del mio dolor.[parte] 
SCENA XIII 
LICIDA
 In angustia più fiera
 io non mi vidi mai. Tutto è in ruina, 
se parla Argene. E` forza 
raggiungerla, placarla... E chi trattiene 
la principessa intanto? Il solo amico 
potria... Ma dove andò? Si cerchi. Almeno
 e consiglio e conforto 
Megacle mi darà.[vuol partire] 
AMINTA
 Megacle è morto!
 LICIDA
 Che dici, Aminta! 
AMINTA
 Io dico 
pur troppo il ver.
 LICIDA
 Come! Perché? Qual empio 
sì bei giorni troncò? Trovisi: io voglio
 ch'esempio di vendetta altrui ne resti. 
AMINTA
 Principe, nol cercar: tu l'uccidesti.
 LICIDA
 Io! Deliri? 
AMINTA
 Volesse
 il Ciel ch'io delirassi. Odimi. In traccia 
mentre or di te venìa, fra quelle piante 
un gemito improvviso 
sento: mi fermo: al suon mi volgo; e miro
 uom, che sul nudo acciaro 
prono già s'abbandona. Accorro. Al petto 
fo d'una man sostegno;
 con l'altra il ferro svio. Ma, quando al volto 
Megacle ravvisai, 
pensa com'ei restò, com'io restai!
 Dopo un breve stupore: "Ah qual follia
 bramar ti fa la morte!", 
io volea dirgli. Ei mi prevenne: "Aminta,
 ho vissuto abbastanza", 
sospirando mi disse dal profondo del cor. "Senz'Aristea 
non so viver, né voglio. Ah! son due lustri 
che non vivo che in lei. Licida, oh Dio! 
m'uccide, e non lo sa; ma non m'offende: 
suo dono è questa vita; ei la riprende". 
LICIDA
 Oh amico! E poi? 
AMINTA
 Fugge da me, ciò detto, 
come partico stral. Vedi quel sasso, 
signor, colà, che il sottoposto Alfeo 
signoreggia ed adombra? Egli v'ascende 
in men che non balena. In mezzo al fiume 
si scaglia: io grido in van. L'onda percossa 
balzò, s'aperse; in frettolosi giri 
si riunì; l'ascose. Il colpo, i gridi 
replicaron le sponde; e più nol vidi. 
LICIDA
 Ah qual orrida scena 
or si scopre al mio sguardo! [rimane stupido]
AMINTA
 Almen la spoglia,
 che albergò sì bell'alma, 
vadasi a ricercar. Da' mesti amici 
questi a lui son dovuti ultimi uffici. [parte]
SCENA XIV
 LICIDA
 Dove son! Che m'avvenne! Ah dunque il Cielo
 tutte sopra il mio capo
 rovesciò l'ire sue! Megacle, oh Dio! 
Megacle, dove sei? Che fo nel mondo
 senza di te! Rendetemi l'amico,
 ingiustissimi dei! Voi mel toglieste, 
lo rivoglio da voi. Se lo negate, 
barbari, a' voti miei, dovunque ei sia 
a viva forza il rapirò. Non temo
 tutti i fulmini vostri: ho cor che basta
 a ricalcar su l'orme 
d'Ercole e di Tesèo le vie di morte. 
ALCANDRO
 Olà! [Licida non l'ode] 
LICIDA
 Del guado estremo... 
ALCANDRO
 Olà! 
LICIDA
 Chi sei
 tu, che audace interrompi 
le smanie mie?
 ALCANDRO
 Regio ministro io sono. 
LICIDA
 Che vuole il re? 
ALCANDRO
 Che in vergognoso esiglio 
quindi lungi tu vada. Il sol cadente
 se in Elide ti lascia, 
sei reo di morte. 
LICIDA
 A me tal cenno? 
ALCANDRO
 Impara
 a mentir nome, a violar la fede, 
a deludere i re.
 LICIDA
 Come! Ed ardisci, 
temerario... 
ALCANDRO
 Non più. Principe, è questo 
mio dover; l'ho adempito: adempi il resto.[parte] 
SCENA XV LICIDA
[solo] Con questo ferro, indegno, [snuda la spada]
il sen ti passerò... Folle, che dico? 
che fo? Con chi mi sdegno? Il reo son io, 
io son lo scellerato. In queste vene 
con più ragion l'immergerò. Sì, mori, 
Licida sventurato... Ah perché tremi, 
timida man? Chi ti ritiene? Ah questa 
è ben miseria estrema! Odio la vita:
 m'atterrisce la morte; e sento intanto
 stracciarmi a brano a brano 
in mille parti il cor. Rabbia, vendetta, 
tenerezza, amicizia, 
pentimento, pietà, vergogna, amore 
mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide 
anima lacerata
 da tanti affetti e sì contrari! Io stesso
 non so come si possa 
minacciando tremare, arder gelando, 
piangere in mezzo all'ire, 
bramar la morte, e non saper morire. 
Gemo in un punto e fremo: 
fosco mi sembra il giorno: 
ho cento larve intorno; 
ho mille furie in sen. 
Con la sanguigna face 
m'arde Megera il petto;
 m'empie ogni vena Aletto
 del freddo suo velen.[parte] 
ATTO TERZO
 SCENA PRIMA 
[Bipartita, che si forma dalle rovine di un antico ippodromo, già ricoperte in gran parte d'edera, di spini e d'altre piante selvagge]
[MEGACLE
, trattenuto da AMINTA
 per una parte, e dopo ARISTEA
, trattenuta da ARGENE
 per l'altra: ma quelli non veggono queste] 
MEGACLE
 Lasciami. In van t'opponi. 
AMINTA
 Ah torna, amico,
 una volta in te stesso. In tuo soccorso 
pronta sempre la mano
 del pescator, ch'or ti salvò dall'onde, 
credimi, non avrai. Si stanca il Cielo 
d'assister chi l'insulta. 
MEGACLE
 Empio soccorso,
 inumana pietà! negar la morte
 a chi vive morendo. Aminta, oh Dio! 
lasciami. 
AMINTA
 Non fia ver. 
ARISTEA
 Lasciami, Argene.
 ARGENE
 Non lo sperar. 
MEGACLE
 Senz'Aristea non posso, 
non deggio viver più. 
ARISTEA
 Morir vogl'io 
dove Megacle è morto.
 AMINTA
 [a Megacle] Attendi. 
ARGENE
[ad Aristea] Ascolta.
 MEGACLE
 Che attender? 
ARISTEA
 Che ascoltar? 
MEGACLE
 Non si ritrova
 più conforto per me. 
ARISTEA
 Per me nel mondo 
non v'è più che sperar.
 MEGACLE
 Serbarmi in vita... 
ARISTEA
 Impedirmi la morte... 
MEGACLE
 Indarno tu pretendi. 
ARISTEA
 In van presumi. 
AMINTA
 Ferma. [volendo trattenere Megacle che gli fugge]
ARGENE
 Senti, infelice.[volendo trattenere Aristea, come sopra] 
ARISTEA
 [incontrandosi in Megacle] Oh stelle! 
MEGACLE
 [incontrandosi in Aristea]Oh numi!  
 
ARISTEA
 Megacle!
 MEGACLE
 Principessa! 
ARISTEA
 Ingrato! E tanto 
m'odii dunque e mi fuggi, 
che, per esserti unita 
s'io m'affretto a morir, tu torni in vita? 
MEGACLE
 Vedi a qual segno è giunta,
 adorata Aristea, la mia sventura; 
io non posso morir: trovo impedite
 tutte le vie, per cui si passa a Dite.
 ARISTEA
 Ma qual pietosa mano... 
SCENA II 
ALCANDRO
 Oh sacrilego! Oh insano! 
Oh scellerato ardir! 
ARISTEA
 Vi sono ancora 
nuovi disastri, Alcandro? 
ALCANDRO
 In questo istante 
rinasce il padre tuo. 
ARISTEA
 Come! 
ALCANDRO
 Che orrore,
 che ruina, che lutto, 
se 'l Ciel non difendea, n'avrebbe involti! 
ARISTEA
 Perché? 
ALCANDRO
 Già sai che per costume antico 
questo festivo dì con un solenne 
sacrifizio si chiude. Or mentre al tempio
 venìa fra' suoi custodi
 la sacra pompa a celebrar Clistene,
 perché non so, né da qual parte uscito,
 Licida impetuoso
 ci attraversa il cammin. Non vidi mai
 più terribile aspetto. Armato il braccio, 
nuda la fronte avea, lacero il manto, 
scomposto il crin. Dalle pupille accese 
uscia torbido il guardo; e per le gote, 
d'inaridite lagrime segnate, 
traspirava il furore. Urta, rovescia
 i sorpresi custodi; al re s'avventa: 
"Mori", grida fremendo, e gli alza in fronte 
il sacrilego ferro. 
ARISTEA
 Oh Dio! 
ALCANDRO
 Non cangia 
il re sito o color. Severo il guardo 
gli ferma in faccia; e in grave suon gli dice:
 "Temerario, che fai?". (Vedi se il Cielo 
veglia in cura de' re!) Gela a que' detti 
il giovane feroce. Il braccio in alto 
sospende a mezzo il colpo. Il regio aspetto 
attonito rimira: impallidisce; 
incomincia a tremar: gli cade il ferro; 
e dal ciglio, che tanto 
minaccioso parea, prorompe il pianto.
 ARISTEA
 Respiro.
 ARGENE
 Oh folle! 
AMINTA
 Oh sconsigliato! 
ARISTEA
 Ed ora 
il genitor che fa? 
ALCANDRO
 Di lacci avvolto 
ha il colpevole innanzi.
 AMINTA
 (Ah! si procuri 
di salvar l'infelice)[parte]
. MEGACLE
 E Licida che dice? 
ALCANDRO
 Alle richieste 
nulla risponde. E` reo di morte, e pare 
che nol sappia, o nol curi. Ognor piangendo 
il suo Megacle chiama: a tutti il chiede, 
lo vuol da tutti; e fra' suoi labbri, come
 altro non sappia dir, sempre ha quel nome.
 MEGACLE
 Più resister non posso. Al caro amico
 per pietà chi mi guida?
 ARISTEA
 Incauto! E quale 
sarebbe il tuo disegno? Il genitore 
sa che tu l'ingannasti; 
sa che Megacle sei; perdi te stesso 
presentandoti al re; non salvi altrui. 
MEGACLE
 Col mio principe insieme
 almen mi perderò. [vuol partire]
ARISTEA
 Senti. E non stimi
 consiglio assai miglior, che il padre offeso 
vada a placare io stessa?
 MEGACLE
 Ah! che di tanto
 lusingarmi non so.
 ARISTEA
 Sì, questo ancora 
per te si faccia.
 MEGACLE
 Oh generosa, oh grande,
 oh pietosa Aristea! Facciano i numi 
quell'alma bella in questa bella spoglia
 lungamente albergar. Ben lo diss'io, 
quando pria ti mirai, che tu non eri
 cosa mortal. Va, mio conforto... 
ARISTEA
 Ah basta;
 non fa d'uopo di tanto.
 Un sol de' guardi tuoi 
mi costringe a voler ciò che tu vuoi. 
Caro, son tua così, 
che per virtù d'amor 
i moti del tuo cor
 risento anch'io. 
Mi dolgo al tuo dolor; 
gioisco al tuo gioir; 
ed ogni tuo desir 
diventa il mio.[parte]
 SCENA III 
MEGACLE
 Deh secondate, o numi,
 la pietà d'Aristea. Chi sa se il padre
 però si placherà. Troppa ragione
 ha di punirlo, è ver; ma della figlia
 lo vincerà l'amore. E se nol vince? 
Oh Dio! Potessi almeno 
veder come l'ascolta. Argene, io voglio
 seguitarla da lungi. 
ARGENE
 Ah tanta cura 
non prender di costui. Vedi che 'l Cielo
 è stanco di soffrirlo. Al suo destino
 lascialo in abbandono.
 MEGACLE
 Lasciar l'amico! Ah così vil non sono.
 Lo seguitai felice
 quand'era il ciel sereno, 
alle tempeste in seno
 voglio seguirlo ancor. 
Come dell'oro il fuoco 
scopre le masse impure,
 scoprono le sventure 
de' falsi amici il cor. [parte]
SCENA IV 
ARGENE
 E pure a mio dispetto
 sento pietade anch'io. Tento sdegnarmi, 
ne ho ragion, lo vorrei; ma in mezzo all'ira, 
mentre il labbro minaccia, il cor sospira.
 Sarai debole, Argene,
 dunque a tal segno? Ah no. Spergiuro! Ingrato! 
non sarà ver. Detesto 
la mia pietà. Mai più mirar non voglio 
quel volto ingannator. L'odio: mi piace 
di vederlo punir. Trafitto a morte
 se mi cadesse accanto,
 non verserei per lui stilla di pianto. 
AMINTA
 Misero dove fuggo? Oh dì funesto! 
Oh Licida infelice! 
ARGENE
 E` forse estinto
 quel traditor? 
AMINTA
 No, ma il sarà fra poco. 
ARGENE
 Non lo credere, Aminta. Hanno i malvagi 
molti compagni; onde giammai non sono
 poveri di soccorso.
 AMINTA
 Or ti lusinghi: 
non v'è più che sperar. Contro di lui 
gridan le leggi, il popolo congiura, 
fremono i sacerdoti. Un sangue chiede 
l'offesa maestà. De' sagrifizi, 
che una colpa interrompe, è il delinquente
 vittima necessaria. Ha già deciso
 il pubblico consenso. Egli svenato 
fia su l'ara di Giove. Esser vi deve
 l'offeso re presente; e al sacerdote 
porgere il sacro acciaro.
 ARGENE
 E non potrebbe 
rivocarsi il decreto?
 AMINTA
 E come? Il reo 
già in bianche spoglie è avvolto. Il crin di fiori
 io coronar gli vidi; e 'l vidi, oh Dio! 
incamminarsi al tempio. Ah! fors'è giunto: 
ah! forse adesso, Argene,
 la bipenne fatal gli apre le vene. 
ARGENE
 Ah no, povero prence! [piange]
AMINTA
 Che giova il pianto?
 ARGENE
 Ed Aristea non giunse? 
AMINTA
 Giunse; ma nulla ottenne. Il re non vuole,
 o non può compiacerla. 
ARGENE
 E Megacle? 
AMINTA
 Il meschino
 ne' custodi s'avvenne, 
che ne andavano in traccia. Or l'ascoltai 
chieder fra le catene
 di morir per l'amico: e, se non fosse
 ancor ei delinquente, 
ottenuto l'avria. Ma un reo per l'altro
 morir non può.
 ARGENE
 L'ha procurato almeno.
 Oh forte! Oh generoso! Ed io l'ascolto
 senza arrossir? Dunque ha più saldi nodi 
l'amistà che l'amore? Ah quali io sento
 d'un'emula virtù stimoli al fianco! 
Sì, rendiamoci illustri. In fin che dura,
 parli il mondo di noi. Faccia il mio caso
 meraviglia e pietà: né si ritrovi
 nell'universo tutto 
chi ripeta il mio nome a ciglio asciutto.
 Fiamma ignota nell'alma mi scende:
 sento il nume; m'inspira, m'accende,
 di me stessa mi rende maggior. 
Ferri, bende, bipenni, ritorte,
 pallid'ombre, compagne di morte, 
già vi guardo, ma senza terror. [parte]
SCENA V 
AMINTA
 Fuggi, salvati, Aminta. In queste sponde
 tutto è orror, tutto è morte. E dove, oh Dio! 
senza Licida io vado? Io l'educai
 con sì lungo sudore: a regie fasce 
io l'innalzai da sconosciuta cuna;
 ed or potrei senz'esso
 partir così? No. Si ritorni al tempio: 
si vada incontro all'ira 
dell'oltraggiato re. Licida involva 
me ancor ne falli sui: 
si mora di dolor, ma accanto a lui.
 Son qual per mare ignoto 
naufrago passeggiero,
 già con la morte a nuoto 
ridotto a contrastar. 
Ora un sostegno ed ora 
perde una stella; al fine
 perde la speme ancora
 e s'abbandona al mar.[parte] 
SCENA VI
[ Aspetto esteriore del gran tempio di Giove Olimpico, dal quale si scende per lunga e magnifica scala divisa in vari piani. Piazza innanzi al medesimo con ara ardente nel mezzo. Bosco all'intorno de' sacri ulivi silvestri, donde formavansi le corone per gli atleti vincitori.]
 CORO
 I tuoi strali terror de' mortali 
ah! sospendi, gran padre de' numi, 
ah! deponi, gran nume de' re. 
PARTE DEL CORO
 Fumi il tempio del sangue d'un empio,
 che oltraggiò con insano furore,
 sommo Giove, un'immago di te. 
CORO
 I tuoi strali terror de' mortali
 ah! sospendi, gran padre de' numi, 
ah! deponi, gran nume de' re.
 PARTE DEL CORO
 L'onde chete del pallido Lete
 l'empio varchi; ma il nostro timore
 ma il suo fallo portando con sé.
 CORO
 I tuoi strali terror de' mortali
 ah! sospendi, gran padre de' numi,
 ah! deponi, gran nume de' re.
 CLISTENE
 Giovane sventurato, ecco vicino 
de' tuoi miseri dì l'ultimo istante. 
Tanta pietade (e mi punisca Giove 
se adombro il ver) tanta pietà mi fai, 
che non oso mirarti. Il Ciel volesse 
che potess'io dissimular l'errore: 
ma non lo posso, o figlio. Io son custode
 della ragion del trono. Al braccio mio 
illesa altri la diede;
 e renderla degg'io
 illesa o vendicata a chi succede.
 Obbligo di chi regna 
necessario è così, come penoso,
 il dover con misura esser pietoso. 
Pur se nulla ti resta
 a desiar, fuor che la vita, esponi
 libero il tuo desire. Esserne io giuro
 fedele esecutor. Quanto ti piace, 
figlio, prescrivi; e chiudi i lumi in pace.
 LICIDA
 Padre, che ben di padre, 
non di giudice e re, que' detti sono,
 non merito perdono, 
non lo spero, nol chiedo, e nol vorrei. 
Afflisse i giorni miei
 di tal modo la sorte,
 ch'io la vita pavento, e non la morte. 
L'unico de' miei voti 
è il riveder l'amico
 pria di spirar. Già ch'ei rimase in vita,
 l'ultima grazia imploro
 d'abbracciarlo una volta, e lieto io moro.
 CLISTENE
 T'appagherò. Custodi, [alle guardie] 
Megacle a me.
 ALCANDRO
 Signor, tu piangi! E quale
 eccessiva pietà l'alma t'ingombra? 
CLISTENE
 Alcandro, lo confesso, 
stupisco di me stesso. Il volto, il ciglio,
 la voce di costui nel cor mi desta
 un palpito improvviso, 
che lo risente in ogni fibra il sangue. 
Fra tutti i miei pensieri 
la cagion ne ricerco, e non la trovo. 
Che sarà, giusti dei, questo ch'io provo?
 Non so donde viene
 quel tenero affetto 
quel moto, che ignoto
 mi nasce nel petto;
 quel gel, che le vene
 scorrendo mi va. 
Nel seno a destarmi 
sì fieri contrasti
 non parmi che basti
 la sola pietà.
 SCENA VII
 LICIDA
 Ah! vieni, illustre esempio
 di verace amistà: Megacle amato,
 caro Megacle, vieni. 
MEGACLE
 Ah qual ti trovo, 
povero prence! 
LICIDA
 Il rivederti in vita 
mi fa dolce la morte. 
MEGACLE
 E che mi giova 
una vita, che in vano
 voglio offrir per la tua? Ma molto innanzi,
 Licida, non andrai. Noi passeremo
 ombre amiche indivise il guado estremo.
 LICIDA
 O delle gioie mie, de' miei martìri,
 finché piacque al destin, dolce compagno,
 separarci convien. Poiché siam giunti
 agli ultimi momenti,
 quella destra fedel porgimi, e senti.
 Sia preghiera, o comando 
vivi; io bramo così. Pietoso amico
 chiudimi tu di propria mano i lumi; 
ricordati di me. Ritorna in Creta 
al padre mio... Povero padre! a questo
 preparato non sei colpo crudele. 
Deh tu l'istoria amara
 raddolcisci narrando. Il vecchio afflitto 
reggi, assisti, consola;
 lo raccomando a te. Se piange, il pianto
 tu gli asciuga sul ciglio; 
e in te, se un figlio vuol, rendigli un figlio. 
MEGACLE
 Taci: mi fai morir. 
CLISTENE
 Non posso, Alcandro,
 resister più. Guarda que' volti: osserva
 que' replicati amplessi, 
que' teneri sospiri e que' confusi
 fra le lagrime alterne ultimi baci. 
Povera umanità!
 ALCANDRO
 Signor, trascorre
 l'ora permessa al sacrifizio.
 CLISTENE
 E` vero.
 Olà, sacri ministri, 
la vittima prendete. E voi, custodi, 
dall'amico infelice 
dividete colui.[son divisi da' sacerdoti e da' custodi]
 MEGACLE
 Barbari! Ah voi 
avete dal mio sen svelto il cor mio! 
LICIDA
 Ah dolce amico! 
MEGACLE
 Ah caro prence! 
LICIDA
, Megacle Addio! 
CORO
 I tuoi strali terror de' mortali
 ah! sospendi, gran padre de' numi
 ah! deponi, gran nume de' re.
[Nel tempo che si canta il coro, Licida va ad inginocchiarsi a piè dell'ara appresso al sacerdote. Il re prende la sacra scure, che gli vien presentata sopra un bacile da un de' ministri del tempio; e, nel porgerla al sacerdote canta i seguenti versi, accompagnati da grave sinfonia] 
CLISTENE
 O degli uomini padre e degli dei,
 onnipotente Giove, 
al cui cenno si move
 il mar, la terra, il ciel; di cui ripieno
 è l'universo, e dalla man di cui
 pende d'ogni cagione e d'ogni evento 
la connessa catena; 
questa, che a te si svena, 
sacra vittima accogli. Essa i funesti, 
che ti splendono in man, folgori arresti.[nel porgere la scure al sacerdote viene interrotto da Argene] 
SCENA VIII 
ARGENE
 Fermati, o re. Fermate, 
sacri ministri.
 CLISTENE
 Oh insano ardir! Non sai, 
ninfa, qual opra turbi? 
ARGENE
 Anzi più grata
 vengo a renderla a Giove. Una io vi reco 
vittima volontaria ed innocente, 
che ha valor, che ha desio 
di morir per quel reo.
 CLISTENE
 Qual è?
 ARGENE
 Son io. 
MEGACLE
 (Oh bella fede!) 
LICIDA
 (Oh mio rossor!) 
CLISTENE
 Dovresti 
saper che al debil sesso
 pel più forte morir non è permesso.
 ARGENE
 Ma il morir non si vieta
 per lo sposo a una sposa. In questa guisa
 so che al tessalo Admeto
 serbò la vita Alceste; e so che poi
 l'esempio suo divenne legge a noi. 
CLISTENE
 Che perciò? Sei tu forse
 di Licida consorte? 
ARGENE
 Ei me ne diede
 in pegno la sua destra e la sua fede. 
CLISTENE
 Licori, io, che t'ascolto, 
son più folle di te. D'un regio erede 
una vil pastorella 
dunque... 
ARGENE
 Né vil son io, 
né son Licori. Argene ho nome: in Creta
 chiara è del sangue mio la gloria antica:
 e, se giurommi fé, Licida il dica.
 CLISTENE
 Licida, parla.
 LICIDA
 (E` l'esser menzognero
 questa volta pietà). No, non è vero.
 ARGENE
 Come! E negar lo puoi? Volgiti, ingrato;
 riconosci i tuoi doni, 
se me non vuoi. L'aureo monile è questo,
 che nel punto funesto
 di giurarmi tua sposa 
ebbi da te. Ti risovvenga almeno 
che di tua man me ne adornasti il seno. 
LICIDA
 (Pur troppo è ver). 
ARGENE
 Guardalo, o re.
 CLISTENE
 Dinanzi
 [alle guardie, che vogliono allontanarla a forza] 
mi si tolga costei. 
ARGENE
 Popoli, amici, 
sacri ministri, eterni dei, se pure
 n'è alcun presente al sacrifizio ingiusto,
 protesto innanzi a voi; giuro ch'io sono 
sposa a Licida, e voglio
 morir per lui: né... Principessa, ah! vieni;
 soccorrimi: non vuole 
udirmi il padre tuo. 
SCENA IX 
ARISTEA
 Credimi, o padre, 
è degna di pietà. 
CLISTENE
 Dunque volete 
ch'io mi riduca a delirar con voi?
 Parla; ma siano brevi i detti tuoi. [ad Argane]
ARGENE
 Parlino queste gemme, [porge il monile a Clistene] 
io tacerò. Van di tai fregi adorne
 in Elide le ninfe? 
CLISTENE
 [lo guarda e si turba] Aimè, che miro! 
Alcandro riconosci 
questo monil? 
ALCANDRO
 Se il riconosco? E` quello 
che al collo avea, quando l'esposi all'onde,
 il tuo figlio bambin. 
CLISTENE
 Licida (oh Dio!
 tremo da capo a piè). Licida, sorgi, 
guarda: è ver che costei 
l'ebbe in dono da te?
 LICIDA
 Però non debbe 
morir per me. Fu la promessa occulta,
 non ebbe effetto; e col solenne rito 
l'imeneo non si strinse.
 CLISTENE
 Io chiedo solo 
se il dono è tuo.
 LICIDA
 Sì. 
CLISTENE
 Da qual man ti venne?
 LICIDA
 A me donollo Aminta.
 CLISTENE
 E questo Aminta 
chi è? LICIDA
 Quello a cui diede
 il genitor degli anni miei la cura.
 CLISTENE
 Dove sta? 
LICIDA
 Meco venne; 
meco in Elide è giunto. 
CLISTENE
 Questo Aminta si cerchi.
 ARGENE
 Eccolo appunto. 
SCENA X 
AMINTA
 Ah, Licida...[vuole abbracciarlo] 
CLISTENE
 T'accheta. 
Rispondi, e non mentir. Questo monile
 donde avesti?
 AMINTA
 Signor, da mano ignota,
 già scorse il quinto lustro
 ch'io l'ebbi in don.
 CLISTENE
 Dov'eri allor? 
AMINTA
 Là, dove
 in mar presso a Corinto 
sbocca il torbido Asopo.
 ALCANDRO
 (Ah! ch'io rinvengo 
[guardando attentamente Aminta] 
delle note sembianze
 qualche traccia in quel volto. Io non m'inganno:
 certo egli è desso). Ah! d'un antico errore
 [inginocchiandosi] 
mio re, son reo. Deh mel perdona: io tutto 
fedelmente dirò. 
CLISTENE
 Sorgi, favella. 
ALCANDRO
 Al mar, come imponesti, 
non esposi il bambin: pietà mi vinse. 
Costui straniero, ignoto 
mi venne innanzi, e gliel donai, sperando
 che in rimote contrade 
tratto l'avrebbe.
 CLISTENE
 E quel fanciullo, Aminta, 
dov'è? Che ne facesti?
 AMINTA
 Io... (Quale arcano 
ho da scoprir!) 
CLISTENE
 Tu impallidisci! Parla, 
empio; dì, che ne fu? Tacendo aggiungi
 all'antico delitto error novello. 
AMINTA
 L'hai presente, o signor: Licida è quello. 
CLISTENE
 Come! non è di Creta 
Licida il prence? 
AMINTA
 Il vero prence in fasce
 finì la vita. Io, ritornato appunto 
con lui bambino in Creta, al re dolente 
l'offersi in dono: ei dell'estinto in vece
 al trono l'educò per mio consiglio. 
CLISTENE
 Oh numi! ecco Filinto, ecco il mio figlio.[abbracciandolo] 
ARISTEA
 Stelle! 
LICIDA
 Io tuo figlio? 
CLISTENE
 Sì. Tu mi nascesti 
gemello ad Aristea. Delfo m'impose 
d'esporti al mar bambino, un parricida
 minacciandomi in te. 
LICIDA
 Comprendo adesso 
l'orror che mi gelò, quando la mano 
sollevai per ferirti. 
CLISTENE
 Adesso intendo
 l'eccessiva pietà, che nel mirarti 
mi sentivo nel cor. 
AMINTA
 Felice padre! 
ALCANDRO
 Oggi molti in un punto
 puoi render lieti.
 CLISTENE
 E lo desio. D'Argene
 Filinto il figlio mio,
 Megacle d'Aristea vorrei consorte; 
ma Filinto, il mio figlio, è reo di morte.
 MEGACLE
 Non è più reo, quando è tuo figlio. 
CLISTENE
 E` forse
 la libertà de' falli 
permessa al sangue mio? Qui viene ogni altro
 valore a dimostrar, l'unico esempio 
esser degg'io di debolezza? Ah questo 
di me non oda il mondo. Olà, ministri,
 risvegliate su l'ara il sacro fuoco.
 Va, figlio, e mori. Anch'io morrò fra poco. 
AMINTA
 Che giustizia inumana! 
ALCANDRO
 Che barbara virtù! 
MEGACLE
 Signor, t'arresta.
 Tu non puoi condannarlo. In Sicione 
sei re, non in Olimpia. E` scorso il giorno, 
a cui tu presiedesti. Il reo dipende 
dal pubblico giudizio.
 CLISTENE
 E ben s'ascolti
 dunque il pubblico voto. A prò del reo
 non prego, non comando, e non consiglio.
 CORO DI SACERDOTI E POPOLO
 Viva il figlio delinquente,
 perché in lui non sia punito 
l'innocente genitor.
 Né funesti il dì presente, 
né disturbi il sacro rito
 un'idea di tanto orror.
 
LICENZA
 Ah no, l'augusto sguardo 
non rivolgere altrove, eccelsa Elisa. 
Ubbidirò. Tu ascolterai, se m'odi, 
(dura legge a compir!) voti e non lodi.
 Veggano ancor ben cento volte e cento
 i numerosi tuoi sudditi regni 
tornar sempre più chiaro 
questo giorno per te: per te, che sei 
la lor felicità, che nel tuo seno
 le più belle virtù, come in lor trono, 
l'una all'altra congiunte... Aimè! Perdono. 
Voti in mente io formai; ma dal mio labbro 
escon (per qual magia dir non saprei)
 trasformati in tua lode i voti miei. 
Errai: ma il mondo intero
 ho complice nel fallo; e (non sdegnarti)
 mi par bello l'error. L'anime grandi
 a vantaggio di tutti il Ciel produce. 
Nasconderne la luce 
perché, se agli altri il buon cammino insegna?
 Le lodi di chi regna
 sono scuola a chi serve. Il grande esempio 
innamora, corregge,
 persuade, ammaestra. Appresso al fonte 
tutti non sono: è ben ragion che alcuno 
disseti anche i lontani. Ah, non è reo 
chi, celebrando i pregi
 dell'anime reali, ubbidisce agli dei, giova a' mortali. 
Nube così profonda
 non può formarsi mai, 
che le tue glorie asconda, 
che ne trattenga il vol.
 Saria difficil meno 
torre alle stelle i rai, 
a' fulmini il baleno,
 la chiara luce al sol. 
FINE
ARGOMENTO
ATTO PRIMO
ATTO SECONDO
ATTO TERZO
 
[Dramma scritto dall'autore in Vienna, d'ordine dell'imperatrice Elisabetta per doversi produrre in occasione di festeggiare il prossimo giorno di nome dell'augustissimo suo consorte Carlo VI, il dì 4 novembre 1740. Ma, avendo egli cessato di vivere prima della preparata solennità, rimase occulto il dramma per lo spazio di anni dieci: dopo i quali mandato dall'autore a richiesta di Augusto III di Polonia, fu nella corte di Dresda con reale magnificenza la prima volta rappresentato con musica dell'Hasse (Johann Adolf Hasse, nato nel 1699 e morto nel 1783, al tempo dell'Attilio Regolo maestro di cappella a Dresda) alla presenza de' sovrani nel carnevale dell'anno 1750]
Fra i nomi più gloriosi, de' quali andò superba la romana repubblica, ha per consenso di tutta l'antichità occupato sempre distinto luogo il nome d'Attilio Regolo poiché non sacrificò solo a prò della patria il sangue, i sudori e le cure sue; ma seppe rivolgere a vantaggio della medesima fin le proprie disavventure.
 Carico già d'anni e di merito trovossi egli sventuratamente prigioniero in Cartagine, quando quella città, atterrita dalla fortuna dell'emula Roma, si vide costretta, per mezzo d'ambasciadori, a proccurar pace da quella o il cambio almeno de' prigionieri. La libertà, che sarebbe ridondata ad Attilio Regolo dalla esecuzione di tai proposte, fé crederlo a' Cartaginesi opportuno stromento per conseguirle: onde insieme con l'ambasciadore africano lo inviarono a Roma, avendolo prima obbligato a giurar solennemente di rendersi alle sue catene, quando nulla ottenesse. All'inaspettato arrivo di Regolo proruppero in tanti trasporti di tenera allegrezza i Romani, in quanti di mestizia e di desolazione eran già cinque anni innanzi trascorsi all'infausto annunzio della sua schiavitù. E per la libertà di sì grande eroe sarebbe certamente paruta loro leggiera qualunque gravissima condizione: ma Regolo, in vece di valersi a suo privato vantaggio del credito e dell'amore, ch'egli avea fra' suoi cittadini, l'impiegò tutto a dissuader loro d'accettar le nemiche insidiose proposte. E lieto d'averli persuasi, fra le lagrime de' figli, fra le preghiere de' congiunti, fra le istanze degli amici, del Senato e del popolo tutto, che affollati d'intorno a lui si affannavano per trattenerlo, tornò religiosamente all'indubitata morte, che in Africa l'attendeva: lasciando alla posterità un così portentoso esempio di fedeltà e di costanza. 
Appian. Zonar. Cic. Oraz. ed altri.
 INTERLOCUTORI  
 Regolo Manlio, consolo 
Attilia, figliuola di Regolo
 Publio, figliuolo di Regolo
 
 Barce, nobile africana, schiava di Publio 
Licinio, tribuno della plebe, amante d'Attilia 
Amilcare, ambasciadore di Cartagine, amante di Barce
 ATTO PRIMO
 SCENA PRIMA
 LICINIO.
 Sei tu, mia bella Attilia? Oh dei! confusa
 fra la plebe e i littori
 di Regolo la figlia
 qui trovar non credei. 
ATTILIA. 
Su queste soglie 
ch'esca il console attendo. Io voglio almeno
 farlo arrossir. Più di riguardi ormai 
non è tempo, o Licinio. In lacci avvolto 
geme in Africa il padre; un lustro è scorso:
 nessun s'affanna a liberarlo; io sola 
piango in Roma e rammento i casi sui.
 Se taccio anch'io, chi parlerà per lui? 
LICINIO.
 Non dir così; saresti ingiusta. E dove, 
dov'è chi non sospiri 
di Regolo il ritorno, e che non creda 
un acquisto leggier l'Africa doma, 
se ha da costar tal cittadino a Roma?
 Di me non parlo; è padre tuo;
 t'adoro; lui duce appresi a trattar l'armi; e, quanto
 degno d'un cor romano
 in me traluce, ei m'inspirò. 
ATTILIA.
 Fin ora 
però non veggo... 
LICINIO.
 E che potei privato
 fin or per lui? D'ambiziosa cura 
ardor non fu, che a procurar m'indusse 
la tribunizia potestà: cercai
 d'avvalorar con questa
 le istanze mie. Del popol tutto a nome
 tribuno or chiederò... 
ATTILIA.
 Serbisi questo 
violento rimedio al caso estremo. 
Non risvegliam tumulti
 fra 'l popolo e il Senato. E` troppo, il sai,
 della suprema autorità geloso 
ciascun di loro. Or questo, or quel n'abusa;
 e quel che chiede l'un, l'altro ricusa.
 V'è più placida via. So che a momenti
 da Cartagine in Roma
 un orator s'attende: ad ascoltarlo 
già s'adunano i padri 
di Bellona nel tempio; ivi proporre 
di Regolo il riscatto
 il console potria. 
LICINIO.
 Manlio! Ah rammenta
 che del tuo genitore emulo antico
 fu da' prim'anni. In lui fidarsi è vano:
 è Manlio un suo rival.
 ATTILIA.
 Manlio è un romano; 
né armar vorrà la nimistà privata 
col pubblico poter. Lascia ch'io parli; 
udiam che dir saprà.
 LICINIO.
 Parlagli almeno, 
parlagli altrove; e non soffrir che mista
 qui fra 'l volgo ti trovi.
 ATTILIA.
 Anzi vogl'io 
che appunto in questo stato 
mi vegga, si confonda; 
che in pubblico m'ascolti e mi risponda. 
LICINIO.
 Ei vien. 
ATTILIA.
 Parti.
 LICINIO.
 Ah né pure
 d'uno sguardo mi degni. 
ATTILIA.
 In quest'istante
 io son figlia, o Licinio, e non amante.
 LICINIO.
 Tu sei figlia, e lodo anch'io
 il pensier del genitore;
 ma ricordati, ben mio, 
qualche volta ancor di me.
 Non offendi, o mia speranza,
 la virtù del tuo bel core, 
rammentando la costanza 
di chi vive sol per te. [parte]
SCENA II 
[Attila, Manlio dalla scala, littori e popolo]
 ATTILIA.
 Manlio, per pochi istanti 
t'arresta, e m'odi. 
MANLIO
 E questo loco, Attilia, 
 
parti degno di te? 
ATTILIA.
 Non fu sin tanto
 che un padre invitto in libertà vantai;
 per la figlia d'un servo è degno assai.
 MANLIO
 A che vieni? 
ATTILIA.
 A che vengo! Ah sino a quando
 con stupor della terra, 
con vergogna di Roma, in vil servaggio
 Regolo ha da languir? Scorrono i giorni,
 gli anni giungono a lustri, e non si pensa 
ch'ei vive in servitù. Qual suo delitto 
meritò da' Romani 
questo barbaro obblio? Forse l'amore,
 onde i figli e se stesso 
alla patria pospose? Il grande, il giusto,
 l'incorrotto suo cor? L'illustre forse
 sua povertà ne' sommi gradi? Ah come
 chi quest'aure respira 
può Regolo obbliar! Qual parte in Roma 
non vi parla di lui? Le vie? per quelle
 ei passò trionfante. Il Foro? A noi 
provvide leggi ivi dettò. Le mura
 ove accorre il Senato? I suoi consigli
 là fabbricar più volte
 la pubblica salvezza. Entra ne' tempii, 
ascendi, o Manlio, il Campidoglio, e dimmi,
 chi gli adornò di tante 
insegne pellegrine 
puniche, siciliane e tarentine?
 Questi, questi littori,
 ch'or precedono a te; questa, che cingi, 
porpora consolar, Regolo ancora 
ebbe altre volte intorno: ed or si lascia
 morir fra' ceppi? Ed or non ha per lui
 che i pianti miei, ma senza prò versati? 
Oh padre! Oh Roma! Oh cittadini ingrati! 
MANLIO
 Giusto, Attilia, è il tuo duol, ma non è giusta 
l'accusa tua. Di Regolo la sorte 
anche a noi fa pietà. Sappiam di lui
 qual faccia empio governo
 la barbara Cartago... 
ATTILIA.
 Eh che Cartago 
la barbara non è. Cartago opprime 
un nemico crudel: Roma abbandona 
un fido cittadin. Quella rammenta 
quant'ei già l'oltraggiò; questa si scorda 
quant'ei sudò per lei. Vendica l'una
 i suoi rossori in lui; l'altra il punisce
 perché d'allòr le circondò la chioma.
 La barbara or qual è? Cartago o Roma?
 MANLIO
 Ma che far si dovrebbe?
 ATTILIA.
 Offra il Senato 
per lui cambio o riscatto 
all'africano ambasciador. 
MANLIO
 Tu parli, 
Attilia, come figlia: a me conviene
 come console oprar. Se tal richiesta 
sia gloriosa a Roma,
 fa d'uopo esaminar. Chi alle catene
 la destra accostumò...
 ATTILIA.
 Donde apprendesti
 così rigidi sensi? 
MANLIO
 Io n'ho su gli occhi 
i domestici esempi. 
ATTILIA.
 Eh dì che al padre 
sempre avverso tu fosti.
 MANLIO
 E` colpa mia, 
se vincer si lasciò? Se fra' nemici 
rimase prigionier?
 ATTILIA.
 Pria d'esser vinto
 ei v'insegnò più volte...
 MANLIO
 Attilia, ormai 
il Senato è raccolto: a me non lice
 qui trattenermi. Agli altri padri inspira
 massime meno austere. Il mio rigore
 forse puoi render vano;
 ch'io son console in Roma e non sovrano.
 Mi crederai crudele, 
dirai che fiero io sia;
 ma giudice fedele 
sempre il dolor non è. 
M'affliggono i tuoi pianti,
 ma non è colpa mia, 
se quel, che giova a tanti,
 solo è dannoso a te.
 SCENA III
 ATTILIA.
 Nulla dunque mi resta 
da' consoli a sperar. Questo è nemico; 
assente è l'altro. Al popolar soccorso 
rivolgersi convien. Padre infelice, 
da che incerte vicende
 la libertà, la vita tua dipende! 
BARCE
 Attilia, Attilia.
 ATTILIA.
 Onde l'affanno?
 BARCE
 E` giunto
 l'africano orator.
 ATTILIA.
 Tanto trasporto 
la novella non merta.
 BARCE
 Altra ne reco
 ben più grande. 
ATTILIA.
 E qual è?
 BARCE
 Regolo è seco.
 ATTILIA.
 Il padre! 
BARCE
 Il padre.
 ATTILIA.
 Ah, BARCE
, t'ingannasti o m'inganni?
 BARCE
 Io nol mirai,
 ma ognun... 
ATTILIA.
 Publio... [vedendolo venire]
SCENA IV
PUBLIO
 Germana... 
Son fuor di me... Regolo è in Roma.
 ATTILIA.
 Oh Dio! 
Che assalto di piacer! Guidami a lui. 
Dov'è? Corriam... 
PUBLIO
 Non è ancor tempo. Insieme
 con l'orator nemico attende adesso 
che l'ammetta il Senato. 
ATTILIA.
 Ove il vedesti? 
PUBLIO
 Sai che questor degg'io
 gli stranieri oratori
 d'ospizio provveder. Sento che giunge
 l'orator di Cartago; ad incontrarlo 
m'affretto al porto: un africano io credo 
vedermi in faccia, e il genitor mi vedo. 
ATTILIA.
 Che disse? che dicesti?
 PUBLIO
 Ei su la ripa
 era già, quand'io giunsi, e il Campidoglio,
 ch'indi in parte si scopre, 
stava fisso a mirar. Nel ravvisarlo
 corsi gridando: "Ah, caro padre!" e volli
 la sua destra baciar. M'udì, si volse, 
ritrasse il piede, e, in quel sembiante austero
 con cui già fé tremar l'Africa doma, 
"Non son padri" mi disse "i servi in Roma". 
Io replicar volea: ma, se raccolto
 fosse il Senato, e dove, 
chiedendo m'interruppe. Udillo, e senza
 parlar là volse i passi. Ad avvertirne
 il console io volai. Dov'è? Non veggo 
qui d'intorno i littori...
 BARCE
 Ei di Bellona
 al tempio s'inviò. 
ATTILIA.
 Servo ritorna
 dunque Regolo a noi? 
PUBLIO
 Sì; ma di pace
 so che reca proposte: e che da lui
 dipende il suo destin.
 ATTILIA.
 Chi sa se Roma
 quelle proposte accetterà. 
PUBLIO
 Se vedi 
come Roma l'accoglie,
 tal dubbio non avrai. Di gioia insani 
son tutti, Attilia. Al popolo, che accorre, 
sono anguste le vie. L'un l'altro affretta;
 questo a quello l'addìta. Oh con quai nomi 
chiamar l'intesi! E a quanti 
molle osservai per tenerezza il ciglio! 
Che spettacolo, Attilia, al cor d'un figlio! 
ATTILIA.
 Ah Licinio dov'è? Di lui si cerchi:
 imperfetta saria 
non divisa con lui la gioia mia.
 Goda con me, s'io godo, 
l'oggetto di mia fé, 
come penò con me
 quand'io penai. 
Provi felice il nodo
 in cui l'avvolse Amor: 
assai tremò fin or, 
sofferse assai. [parte]
SCENA V 
PUBLIO
 Addio, Barce vezzosa. 
BARCE
 Odi. Non sai 
dell'orator cartaginese il nome?
 PUBLIO
 Sì; Amilcare si appella. 
BARCE
 E` forse il figlio 
d'Annone?
 PUBLIO
 Appunto.
 BARCE
 (Ah l'idol mio!) 
PUBLIO
 Tu cangi
 color! Perché? Fosse costui cagione 
del tuo rigor con me? 
BARCE
 Signor, trovai
 tal pietà di mia sorte 
in Attilia ed in te, che non m'avvidi 
fin or di mie catene; e troppo ingrata
 sarei, se t'ingannassi: a te sincera
 tutto il cor scoprirò. Sappi...
 PUBLIO
 T'accheta: 
mi prevedo funesta
 la tua sincerità. Fra le dolcezze
 di questo dì non mescoliam veleno;
 se d'altri sei, vo' dubitarne almeno. 
Se più felice oggetto 
occupa il tuo pensiero,
 taci, non dirmi il vero, 
lasciami nell'error.
 E` pena, che avvelena, 
un barbaro sospetto; 
ma una certezza è pena
 che opprime affatto un cor.[parte] 
SCENA VI  
BARCE
 Dunque è ver che a momenti 
il mio ben rivedrò? L'unico, il primo, 
onde m'accesi? Ah! che farai, cor mio, 
d'Amilcare all'aspetto, 
se al nome sol così mi balzi in petto? 
Sol può dir che sia contenta 
chi penò gran tempo in vano, 
dal suo ben chi fu lontano 
e lo torna a riveder.
 Si fan dolci in quel momento
 e le lagrime e i sospiri;
 le memorie de' martiri 
si convertono in piacer.[parte] 
SCENA VII 
Parte interna del tempio di Bellona; sedili per li senatori romani e per gli oratori stranieri. Littori, che custodiscono diversi ingressi del tempio, da' quali veduta del Campidoglio e del Tevere: Manlio, Publio e senatori; indi Regolo ed Amilcare. Seguito d'Africani e popolo fuori del tempio]
MANLIO
 Venga Regolo, e venga 
l'africano orator. Dunque i nemici 
braman la pace?[a Publio] 
PUBLIO
 O de' cattivi almeno 
vogliono il cambio. A Regolo han commesso
 d'ottenerlo da voi. Se nulla ottiene,
 a pagar col suo sangue
 il rifiuto di Roma egli a Cartago
 è costretto a tornar. Giurollo, e vide
 pria di partir del minacciato scempio
 i funesti apparecchi. Ah! non sia vero 
che a sì barbare pene
 un tanto cittadin... 
MANLIO
 T'accheta: ei viene. 
[Il consolo, Publio e tutti i senatori vanno a sedere, e rimane vuoto accanto al consolo il luogo altre volte occupato da Regolo. Passano Regolo ed Amilcare fra' littori, i quali lasciato ad essi aperto ilvarco tornano subito a chiudersi. Regolo entrato appena nel tempio s'arresta pensando]
AMILCARE.
 (Regolo, a che t'arresti? E` forse nuovo
 per te questo soggiorno?) 
REGOLO.
 (Penso qual ne partii, qual vi ritorno).
 AMILCARE.
 Di Cartago il Senato,[al consolo] 
bramoso di depor l'armi temute,
 al Senato di Roma invia salute. 
E, se Roma desia 
anche pace da lui, pace gl'invia. 
MANLIO
 Siedi ed esponi. [Amilcare siede]
E tu l'antica sede,
 Regolo, vieni ad occupar.
 REGOLO.
 Ma questi
 chi sono?
 MANLIO
 I padri. 
REGOLO.
 E tu chi sei? 
MANLIO
 Conosci 
il console sì poco?
 REGOLO.
 E fra il console e i padri un servo ha loco? 
MANLIO
 No; ma Roma si scorda
 il rigor di sue leggi 
per te, cui dee cento conquiste e cento. 
REGOLO.
 Se Roma se ne scorda, io gliel rammento.
 MANLIO
 (Più rigida virtù chi vide mai?)
 PUBLIO
 Né Publio sederà.
 REGOLO.
 Publio, che fai? 
PUBLIO
 Compisco il mio dover: sorger degg'io 
dove il padre non siede.
 REGOLO.
 Ah tanto in Roma
 son cambiati i costumi! Il rammentarsi
 fra le pubbliche cure
 d'un privato dover, pria che tragitto 
in Africa io facessi, era delitto.
 PUBLIO
 Ma... 
REGOLO.
 Siedi, Publio; e ad occupar quel loco 
più degnamente attendi.
 PUBLIO
 Il mio rispetto
 innanzi al padre è naturale istinto.
 REGOLO.
 Il tuo padre morì, quando fu vinto.
 MANLIO
 Parla, Amilcare, ormai.[Publio siede]
 AMILCARE.
 Cartago elesse
 Regolo a farvi noto il suo desio. 
Ciò ch'ei dirà, dice Cartago ed io. 
MANLIO
 Dunque Regolo parli. 
AMILCARE.
 Or ti rammenta
 che, se nulla otterrai,
 giurasti... 
REGOLO.
 Io compirò quanto giurai.[pensa]
 MANLIO
 (Di lui si tratta: oh come
 parlar saprà!) 
PUBLIO
 (Numi di Roma, ah voi
 inspirate eloquenza a' labbri suoi!)
 REGOLO.
 La nemica Cartago,
 a patto che sia suo quant'or possiede, 
pace, o padri coscritti, a voi richiede. 
Se pace non si vuol, brama che almeno 
de' vostri e suoi prigioni
 termini un cambio il doloroso esiglio. 
Ricusar l'una e l'altro è il mio consiglio.
 AMILCARE.
 (Come!) 
PUBLIO
 (Aimè!)
 MANLIO
 (Son di sasso).
 REGOLO.
 Io della pace
 i danni a dimostrar non m'affatico;
 se tanto la desia, teme il nemico.
 MANLIO
 Ma il cambio? 
REGOLO.
 Il cambio asconde
 frode per voi più perigliosa assai. 
AMILCARE.
 Regolo?
 REGOLO.
 Io compirò quanto giurai.[ad Amilcare] 
PUBLIO
 (Numi! il padre si perde). 
REGOLO.
 Il cambio offerto 
mille danni ravvolge; 
ma l'esempio è il peggior. L'onor di Roma,
 il valor, la costanza, 
la virtù militar, padri, è finita,
 se ha speme il vil di libertà, di vita.
 Qual prò che torni a Roma 
chi a Roma porterà l'orme sul tergo
 della sferza servil? chi l'armi ancora
 di sangue ostil digiune
 vivo depose, e per timor di morte
 del vincitor lo scherno
 soffrir si elesse? Oh vituperio eterno!
 MANLIO
 Sia pur dannoso il cambio:
 a compensarne i danni
 basta Regolo sol.
 REGOLO.
 Manlio, t'inganni: 
Regolo è pur mortal.Sento ancor io 
l'ingiurie dell'etade. Utile a Roma
 già poco esser potrei: molto a Cartago
 ben lo saria la gioventù feroce,
 che per me rendereste. Ah sì gran fallo 
da voi non si commetta. Ebbe il migliore
 de' miei giorni la patria, abbia il nemico
 l'inutil resto. Il vil trionfo ottenga
 di vedermi spirar; ma vegga insieme
 che ne trionfa in vano, 
che di Regoli abbonda il suol romano.
 MANLIO
 (Oh inudita costanza!) 
PUBLIO
 (Oh coraggio funesto!) 
AMILCARE.
 (Che nuovo a me strano linguaggio è questo!)
 MANLIO
 L'util non già dell'opre nostre oggetto, 
ma l'onesto esser dee; né onesto a Roma 
l'esser ingrata a un cittadin saria. 
REGOLO.
 Vuol Roma essermi grata? Ecco la via.
 Questi barbari, o padri,
 m'han creduto sì vil, che per timore
 io venissi a tradirvi. Ah questo oltraggio 
d'ogni strazio sofferto è più inumano. 
Vendicatemi, o padri; io fui romano. 
Armatevi, correte
 a sveller da' lor tempii
 l'aquile prigioniere. In sin che oppressa
 l'emula sia non deponete il brando. 
Fate ch'io là tornando 
legga il terror dell'ire vostre in fronte
 a' carnefici miei; che lieto io mora 
nell'osservar fra' miei respiri estremi 
come al nome di Roma Africa tremi. 
AMILCARE.
 (La maraviglia agghiaccia 
gli sdegni miei).
 PUBLIO
 (Nessun risponde? Oh Dio!
 mi trema il cor). 
MANLIO
 Domanda
 più maturo consiglio
 dubbio sì grande. A respirar dal nostro
 giusto stupor spazio bisogna. In breve 
il voler del Senato
 tu, Amilcare, saprai. Noi, padri, andiamo
 l'assistenza de' numi
 pria di tutto a implorar.[s'alza e seco tutti] 
REGOLO.
 V'è dubbio ancora? 
MANLIO
 Sì, Regolo: io non veggo 
se periglio maggiore
 è il non piegar del tuo consiglio al peso, 
o se maggior periglio è il perder chi sa dar sì gran consiglio. 
Tu, sprezzator di morte,
 dai per la patria il sangue;
 ma il figlio suo più forte 
perde la patria in te.
 Se te domandi esangue,
 molto da lei domandi: 
d'anime così grandi 
prodigo il Ciel non è.
 
SCENA VIII 
[Regolo, Publio, Amilcare, indi Attilia, Licinio e popolo] 
AMILCARE.
 In questa guisa adempie
 Regolo le promesse?
 REGOLO.
 Io vi promisi
 di ritornar; l'eseguirò. 
AMILCARE.
 Ma...
 ATTILIA.
 Padre! 
LICINIO.
 Signor! 
ATTILIA., LICINIO.
 Su questa mano... [voglion baciargli la mano]
REGOLO.
 Scostatevi. Io non sono, 
 lode agli dei, libero ancora. 
ATTILIA.
 Il cambio
 dunque si ricusò?
 REGOLO.
 Publio, ne guida 
al soggiorno prescritto
 ad Amilcare e a me.
 PUBLIO
 Né tu verrai
 a' patri lari, al tuo ricetto antico? 
REGOLO.
 Non entra in Roma un messaggier nemico. 
LICINIO.
 Questa troppo severa
 legge non è per te.
 REGOLO.
 Saria tiranna, 
se non fosse per tutti. 
ATTILIA.
 Io voglio almeno 
seguirti ovunque andrai. 
REGOLO.
 No; chiede il tempo,
 Attilia, altro pensier che molli affetti
 di figlia e genitor.
 ATTILIA.
 Da quel che fosti, 
padre, ah perché così diverso adesso? 
REGOLO.
 La mia sorte è diversa; io son l'istesso. 
Non perdo la calma
 fra' ceppi o gli allori: 
non va sino all'alma
 la mia servitù.
 Combatte i rigori
 di sorte incostante 
in vario sembiante 
l'istessa virtù.[parte seguito da Publio, Licinio e popolo]
 
SCENA IX 
 BARCE
 Amilcare! 
AMILCARE.
 Ah mia Barce [ritornando indietro]
! Ah di nuovo io ti perdo! Il cambio offerto
 Regolo dissuade. 
BARCE e ATTILIA.
 Oh stelle!
 AMILCARE.
 Addio: 
Publio seguir degg'io. Mia vita, oh quanto,
 quanto ho da dirti! 
 BARCE
 E nulla dici intanto. 
 AMILCARE.
 Ah! se ancor mia tu sei, 
 come trovar sì poco 
 sai negli sguardi miei
  quel ch'io non posso dir! 
 Io, che nel tuo bel foco 
 sempre fedel m'accendo, 
 mille segreti intendo, 
 cara, da un tuo sospir.[parte] 
 
SCENA X 
 
ATTILIA.
 Chi creduto l'avrebbe! Il padre istesso
  congiura a' danni suoi. 
 BARCE
 Già che il Senato 
 non decise fin or, molto ti resta, 
 Attilia, onde sperar. Corri, t'adopra,
  parla, pria che di nuovo
  si raccolgano i padri. Adesso è il tempo
  di porre in uso e l'eloquenza e l'arte.
  Or l'amor de' congiunti, 
 or la fé degli amici, or de' Romani 
 giova implorar l'aita in ogni loco. 
 ATTILIA.
 Tutto farò; ma quel, ch'io spero, è poco. 
 Mi parea del parto in seno
  chiara l'onda, il ciel sereno; 
 ma tempesta più funesta
  mi respinge in mezzo al mar.
  M'avvilisco, m'abbandono;
  e son degna di perdono
  se, pensando a chi la desta,
  incomincio a disperar.[parte] 
 
SCENA XI 
 BARCE
 Che barbaro destino
  sarebbe il mio, se Amilcare dovesse
  pur di nuovo a Cartago
  senza me ritornar! Solo in pensarlo 
 mi sento... Ah no; speriam più tosto. Avremo 
 sempre tempo a penar. Non è prudenza, 
 ma follia de' mortali l'arte crudel di presagirsi i mali. 
 Sempre è maggior del vero
  l'idea d'una sventura 
 al credulo pensiero 
 dipinta dal timor.
  Chi stolto il mal figura, 
 affretta il proprio affanno, 
 ed assicura un danno, 
 quando è dubbioso ancor.
  
ATTO SECONDO
 SCENA PRIMA 
 [Logge a vista di Roma nel palazzo suburbano destinato agli ambasciatori cartaginesi] 
 REGOLO.
 Publio, tu qui! Si tratta 
 della gloria di Roma, 
 dell'onor mio, del pubblico riposo,
  e in Senato non sei?
  PUBLIO
 Raccolto ancora, 
 signor, non è. 
 REGOLO.
 Va, non tardar; sostieni 
 fra i padri il voto mio: mostrati degno 
 dell'origine tua. 
 PUBLIO
 Come! e m'imponi 
 che a fabbricar m'adopri 
 io stesso il danno tuo? 
 REGOLO.
 Non è mio danno
  quel che giova alla patria.
  PUBLIO
 Ah di te stesso, 
 signore, abbi pietà. 
 REGOLO.
 Publio, tu stimi 
 dunque un furore il mio? Credi ch'io solo,
  fra ciò che vive, odii me stesso? Oh quanto
  t'inganni! Al par d'ogni altro
  bramo il mio ben, fuggo il mio mal. Ma questo
  trovo sol nella colpa, e quello io trovo
  nella sola virtù. Colpa sarebbe 
 della patria col danno 
 ricuperar la libertà smarrita;
  ond'è mio mal la libertà, la vita: 
 virtù col proprio sangue
  è della patria assicurar la sorte;
  ond'è mio ben la servitù, la morte. 
 PUBLIO
 Pur la patria non è... 
 REGOLO.
 La patria è un tutto, 
 di cui siam parti. Al cittadino è fallo 
 considerar se stesso 
 separato da lei. L'utile o il danno, 
 ch'ei conoscer dee solo, è ciò che giova
  o nuoce alla sua patria, a cui di tutto 
 è debitor. Quando i sudori e il sangue
  sparge per lei, nulla del proprio ei dona; 
 rende sol ciò che n'ebbe. Essa il produsse, 
 l'educò, lo nudrì. Con le sue leggi
  dagl'insulti domestici il difende, 
 dagli esterni con l'armi. Ella gli presta 
 nome, grado ed onor: ne premia il merto;
  ne vendica le offese; e madre amante
  a fabbricar s'affanna 
 la sua felicità, per quanto lice 
 al destin de' mortali esser felice.
  Han tanti doni, è vero, 
 il peso lor. Chi ne ricusa il peso, 
 rinunci al benefizio; a far si vada 
 d'inospite foreste 
 mendìco abitatore; e là, di poche 
 misere ghiande e d'un covil contento, 
 viva libero e solo a suo talento.
  PUBLIO
 Adoro i detti tuoi. L'alma convinci, 
 ma il cor non persuadi. Ad ubbidirti 
 la natura repugna. Al fin son figlio, 
 non lo posso obbliar.
  REGOLO.
 Scusa infelice
  per chi nacque romano. Erano padri 
 Bruto, Manlio, Virginio... 
 PUBLIO
 E` ver; ma questa 
 troppo eroica costanza
  sol fra' padri restò. Figlio non vanta 
 Roma fin or, che a proccurar giungesse 
 del genitor lo scempio. 
 REGOLO.
 Dunque aspira all'onor del primo esempio. 
 Va.
  PUBLIO
 Deh... 
 REGOLO.
 Non più. Della mia sorte attendo 
 la notizia da te. 
 PUBLIO
 Troppo pretendi,
  troppo, o signor. 
 REGOLO.
 Mi vuoi straniero, o padre? 
 Se stranier, non posporre 
 l'util di Roma al mio; se padre, il cenno
  rispetta, e parti. 
 PUBLIO
 Ah se mirar potessi 
 i moti del cor mio, rigido meno
  forse con me saresti.
  REGOLO.
 Or dal tuo core 
 prove io vo' di costanza e non d'amore.
  PUBLIO
 Ah, se provar mi vuoi,
  chiedimi, o padre, il sangue;
  e tutto a' piedi tuoi,
  padre, lo verserò. 
 Ma che un tuo figlio istesso 
 debba volerti oppresso?
  Gran genitor, perdona, 
 tanta virtù non ho. [porte]
 
SCENA II  
 REGOLO.
 Il gran punto s'appressa, ed io pavento
  che vacillino i padri. Ah voi di Roma 
 deità protettrici, a lor più degni 
 sensi inspirate. 
 MANLIO
 A custodir l'ingresso 
 rimangano i littori; e alcun non osi 
 qui penetrar.
  REGOLO.
 (Manlio! A che viene?) 
 MANLIO
 Ah lascia
  che al sen ti stringa, invitto eroe. 
 REGOLO.
 Che tenti!
  Un console... 
 MANLIO
 Io nol sono
  Regolo, adesso: un uom son io che adora
  la tua virtù, la tua costanza; un grande 
 emulo tuo, che a dichiarar si viene
  vinto da te; che, confessando ingiusto 
 l'avverso genio antico, 
 chiede l'onor di diventarti amico. 
 REGOLO.
 Dell'alme generose
  solito stil. Più le abbattute piante
  non urta il vento, o le solleva. Io deggio
  così nobile acquisto 
 alla mia servitù. 
 MANLIO
 Sì, questa appieno 
 qual tu sei mi scoperse; e mai sì grande, 
 com'or fra' ceppi, io non ti vidi. A Roma 
 vincitor de' nemici
  spesso tornasti; or vincitor ritorni 
 di te, della fortuna. I lauri tuoi 
 mossero invidia in me; le tue catene
  destan rispetto. Allora
  un eroe, lo confesso, 
 Regolo mi parea; ma un nume adesso.
  REGOLO.
 Basta, basta, signor: la più severa
  misurata virtù tentan le lodi 
 in un labbro sì degno. Io ti son grato
  che d'illustrar con l'amor tuo ti piaccia 
 gli ultimi giorni miei. 
 MANLIO
 Gli ultimi giorni! 
 Conservarti io pretendo 
 lungamente alla patria; e, affinché sia
  in tuo favor l'offerto cambio ammesso, 
 tutto in uso porrò.
  REGOLO.
 [turbandosi] Così cominci, 
 Manlio, ad essermi amico? E che faresti,
  se ancor m'odiassi? In questa guisa il frutto 
 del mio rossor tu mi defraudi. A Roma
  io non venni a mostrar le mie catene
  per destarla a pietà: venni a salvarla
  dal rischio d'un'offerta,
  che accettar non si dee. Se non puoi darmi
  altri pegni d'amor, torna ad odiarmi.
  MANLIO
 Ma il ricusato cambio
  produrria la tua morte.
  REGOLO.
 E questo nome 
 sì terribil risuona
  nell'orecchie di Manlio! Io non imparo
  oggi che son mortale. Altro il nemico 
 non mi torrà che quel che tormi in breve 
 dee la natura; e volontario dono
  sarà così quel, che saria fra poco
  necessario tributo. Il mondo apprenda
  ch'io vissi sol per la mia patria; e, quando
  viver più non potei, 
 resi almen la mia morte utile a lei
 . MANLIO
 Oh detti! Oh sensi! Oh fortunato suolo 
 che tai figli produci! E chi potrebbe
  non amarti, signor? 
 REGOLO.
 Se amar mi vuoi, 
 amami da romano. Eccoti i patti 
 della nostra amistà. Facciamo entrambi 
 un sacrifizio a Roma; io della vita,
  tu dell'amico. E` ben ragion che costi 
 della patria il vantaggio
  qualche pena anche a te. Va; ma prometti
  che de' consigli miei tu nel Senato
  ti farai difensore. A questa legge
  sola di Manlio io l'amicizia accetto.
  Che rispondi, signor? 
 MANLIO
 [pensa prima di rispondere] Sì, lo prometto.
  REGOLO.
 Or de' propizi numi
  in Manlio amico io riconosco un dono.
  MANLIO
 Ah perché fra que' ceppi anch'io non sono! 
 REGOLO.
 Non perdiamo i momenti. Ormai raccolti 
 forse saranno i padri. Alla tua fede 
 della patria il decoro, l
 a mia pace abbandono e l'onor mio. 
 
MANLIO
 Addio, gloria del Tebro.
  REGOLO.
 Amico, addio. [abbracciandosi]
 MANLIO
 Oh qual fiamma di gloria, d'onore 
 scorrer sento per tutte le vene, 
 alma grande, parlando con te! 
 No, non vive sì timido core, 
 che in udirti con quelle catene 
 non cambiasse la sorte d'un re. 
 
SCENA III 
 
REGOLO.
 A respirar comincio: i miei disegni
  il fausto Ciel seconda. 
 LICINIO.
 [molto lieto] Al fin ritorno
  con più contento a rivederti. 
 REGOLO.
 E donde
  tanta gioia, o Licinio?
  LICINIO.
 Ho il cor ripieno 
 di felici speranze. In fino ad ora 
 per te sudai. 
 REGOLO.
 Per me! 
 LICINIO.
 Sì. Mi credesti
  forse ingrato così, ch'io mi scordassi
  gli obblighi miei nel maggior uopo? Ah tutto
  mi rammento, signor. Tu sol mi fosti
  duce, maestro e padre. I primi passi 
 mossi, te condottiero,
  per le strade d'onor: tu mi rendesti... 
 REGOLO.
 Al fine, in mio favor, dì, che facesti?  [impaziente]
 LICINIO.
 Difesi la tua vita
  e la tua libertà. 
 REGOLO.
[turbato]  Come?
  LICINIO.
 All'ingresso 
 del tempio, ove il Senato or si raccoglie,
  attesi i padri, e ad uno ad un li trassi 
 nel desio di salvarti. 
 REGOLO.
 (Oh dei, che sento!) 
 E tu...
  LICINIO.
 Solo io non fui. Non si defraudi 
 la lode al merto. Io feci assai, ma fece
  Attilia più di me. 
 REGOLO.
 Chi? 
 LICINIO.
 Attilia. In Roma 
 figlia non v'è d'un genitor più amante.
  Come parlò! Che disse! 
 Quanti affetti destò! Come compose
  il dolor col decoro! In quanti modi
  rimproveri mischiò, preghiere e lodi!
  REGOLO.
 E i padri?
  LICINIO.
 E chi resiste 
 agli assalti d'Attilia? Eccola: osserva 
 come ride in quel volto
  la novella speranza.
  
SCENA IV
  ATTILIA.
 Amato padre,
  pure una volta... 
 REGOLO.
 [serio e trobido] E ardisci
  ancor venirmi innanzi? Ah non contai 
 te fin ad or fra' miei nemici.
  ATTILIA.
 Io, padre, 
 io tua nemica!
  REGOLO.
 [come sopra+ E tal non è chi folle 
 s'oppone a' miei consigli? 
 ATTILIA.
 Ah di giovarti 
 dunque il desio d'inimicizia è prova?
  REGOLO.
 Che sai tu quel che nuoce o quel che giova? [con isdegno]
 
 Delle pubbliche cure
  chi a parte ti chiamò? Della mia sorte
  chi ti fé protettrice? Onde...
  LICINIO.
 Ah signore,
  troppo...
  REGOLO.
 [come sopra] Parla Licinio! Assai tacendo
  meglio si difendea; pareva almeno
  pentimento il silenzio. Eterni dei! 
 Una figlia!... un roman! 
 ATTILIA.
 Perché son figlia...
  LICINIO.
 Perché roman son io, credei che oppormi 
 al tuo fato inumano...
  REGOLO.
 Taci: non è romano [a Licinio] 
 
chi una viltà consiglia. 
 Taci: non è mia figlia èad Attilia] 
 chi più virtù non ha. 
 Or sì de' lacci il peso
  per vostra colpa io sento;
  or sì la mia rammento
  perduta libertà. [parte]
 
SCENA V 
 
 ATTILIA.
 Ma dì; credi, o Licinio, 
 che mai di me nascesse
  più sfortunata donna? Amare un padre
 , affannarsi a suo prò, mostrar per lui
  di tenera pietade il cor trafitto 
 saria merito ad altri; è a me delitto. 
 LICINIO.
 No; consolati, Attilia, e non pentirti 
 dell'opera pietosa. Altro richiede 
 il dover nostro, ed altro
  di Regolo il dover. Se gloria è a lui
  della vita il disprezzo, a noi sarebbe
  empietà non salvarlo. Al fin vedrai 
 che grato ei ci sarà. Non ti spaventi 
 lo sdegno suo. Spesso l'infermo accusa 
 di crudel, d'inumano 
 quella medica man, che lo risana
 . ATTILIA.
 Que' rimproveri acerb
 i mi trafiggono il cor: non ho costanza 
 per soffrir l'ire sue. 
 LICINIO.
 Ma dì: vorresti
  pria d'un tal genitor vederti priva? 
 ATTILIA.
 Ah questo no: mi sia sdegnato, e viva.
  LICINIO.
 Vivrà. Cessi quel pianto:
  tornatevi di nuovo,
  begli occhi, a serenar. Se veggo, oh Dio! 
 mestizia in voi, perdo coraggio anch'io.
  Da voi, cari lumi, 
 dipende il mio stato;
  voi siete i miei numi,
  voi siete il mio fato:
  a vostro talento 
 mi sento cangiar. 
 Ardir m'inspirate, 
 se lieti splendete;
  se torbidi siete, 
 mi fate tremar. [parte]
 
SCENA VI 
 
 ATTILIA [sola]
 Ah che pur troppo è ver! non han misura 
 della cieca fortuna
  i favori e gli sdegni. O de' suoi doni
  è prodiga all'eccesso, 
 o affligge un cor fin che nol vegga oppresso.
  Or l'infelice oggetto
  son io dell'ire sue. Mi veggo intorno 
 di nembi il ciel ripieno;
  e chi sa quanti strali avranno in seno. 
 Se più fulmini vi sono, 
 ecco il petto, avversi dei:
  me ferite, io vi perdono; 
 ma salvate il genitor.
  Un'immagine di voi 
 in quell'alma rispettate;
  un esempio a noi lasciate
  di costanza e di valor. [parte]
 
SCENA VII 
  REGOLO.
 Tu palpiti, o mio cor! Qual nuovo è questo
  moto incognito a te? Sfidasti ardito
  le tempeste del mar, l'ire di Marte,
  d'Africa i mostri orrendi, 
 ed or tremando il tuo destino attendi! 
 Ah, n'hai ragion: mai non si vide ancora
  in periglio sì grande 
 la gloria mia. Ma questa gloria, oh dei, 
 non è dell'alme nostre
  un affetto tiranno? Al par d'ogni altro
  domar non si dovrebbe? Ah no. De' vili 
 questo è il linguaggio. Inutilmente nacque 
 chi sol vive a se stesso: e sol da questo 
 nobile affetto ad obbliar s'impara 
 sé per altrui. Quanto ha di ben la terra,
  alla gloria si dee. Vendica questa 
 l'umanità del vergognoso stato
  in cui saria senza il desio d'onore;
  toglie il senso al dolore, 
 lo spavento a' perigli, 
 alla morte il terror; dilata i regni, 
 le città custodisce; alletta, aduna 
 seguaci alla virtù; cangia in soavi 
 i feroci costumi, 
 e rende l'uomo imitator de' numi.
  Per questa... Aimè! Publio ritorna, e parmi
  che timido s'avanzi. E ben, che rechi? 
 Ha deciso il Senato?
  qual è la sorte mia? 
 SCENA VIII
 
 PUBLIO
 Signor... (Che pena
  per un figlio è mai questa!)
  REGOLO.
 E taci? 
 PUBLIO
 Oh dei! 
 Esser muto vorrei.
  REGOLO.
 Parla. 
 PUBLIO
 Ogni offerta 
 il Senato ricusa. 
 REGOLO.
 Ah dunque ha vinto 
 il fortunato al fin genio romano! 
 Grazie agli dei; non ho vissuto in vano.
  Amilcare si cerchi. Altro non resta 
 che far su queste arene: 
 la grand'opra compii, partir conviene. 
 PUBLIO
 Padre infelice! 
 REGOLO.
 Ed infelice appelli
  chi poté, fin che visse, 
 alla patria giovar? 
 PUBLIO
 La patria adoro, 
 piango i tuoi lacci. 
 REGOLO.
 E` servitù la vita; 
 ciascuno ha i lacci suoi. Chi pianger vuole, 
 pianger, Publio, dovria 
 la sorte di chi nasce, e non la mia. 
 PUBLIO
 Di quei barbari, o padre,
  l'empio furor ti priverà di vita. 
 REGOLO.
 E la mia servitù sarà finita.
  Addio. Non mi seguir. 
 PUBLIO
 Da me ricusi 
 gli ultimi ancor pietosi uffizi?
  REGOLO.
 Io voglio 
 altro da te.  Mentre a partir m'affretto, 
 a trattener rimanti
  la sconsolata Attilia. Il suo dolore
  funesterebbe il mio trionfo. Assai
  tenera fu per me. Se forse eccede, 
 compatiscila, o Publio. Al fin da lei 
 una viril costanza 
 pretender non si può. Tu la consiglia;
  d'inspirarle proccura
  con l'esempio fortezza:
  la reggi, la consola; e seco adempi 
 ogni uffizio di padre. A te la figlia,
  te confido a te stesso; e spero... Ah veggo 
 che indebolir ti vuoi. Maggior costanza 
 in te credei: l'avrò creduto in vano? 
 Publio, ah no: sei mio figlio, e sei romano. 
 Non tradir la bella speme,
  che di te donasti a noi:
  sul cammin de' grandi eroi 
 incomincia a comparir.
  Fa ch'io lasci un degno erede 
 degli affetti del mio core;
  che di te senza rossore 
 io mi possa sovvenir. [parte]
SCENA IX 
  PUBLIO
 Ah sì, Publio, coraggio: il passo è forte, 
 ma vincerti convien. Lo chiede il sangue,
  che hai nelle vene; il grand'esempio il chiede,
  che su gli occhi ti sta. Cedesti a' primi 
 impeti di natura; or meglio eleggi; 
 il padre imìta, e l'error tuo correggi.
  ATTILIA.
 Ed è vero, o german?  [con ispavento]
 BARCE
 [con ispavento] Publio, ed è vero? 
 PUBLIO
 Sì: decise il Senato; 
 Regolo partirà.
  ATTILIA.
 Come! 
 BARCE
 Che dici!
  ATTILIA.
 Dunque ognun mi tradì? 
 BARCE
 Dunque... 
 PUBLIO
 Or non giova...
  BARCE
 Amilcare, pietà.[vedendolo da lontano] 
 ATTILIA.
 [come sopra] Licinio, aiuto. 
 AMILCARE.
 Più speranza non v'è. [a Barce]
 
LICINIO.
 [ad Attilia] Tutto è perduto. 
 ATTILIA.
 Dov'è Regolo? Io voglio 
 almen seco partir. 
 PUBLIO
 Ferma; l'eccesso 
 del tuo dolor l'offenderebbe. 
 ATTILIA.
 E speri
  impedirmi così?
  PUBLIO
 Spero che Attilia
  torni al fine in se stessa, e si rammenti 
 che a lei non è permesso...
  ATTILIA.
 Sol che son figlia io mi rammento adesso.
  Lasciami. 
 PUBLIO
 Non sperarlo. 
 ATTILIA.
 Ah parte intanto
  il genitor! 
 BARCE
 Non dubitar ch'ei parta,
  finché Amilcare è qui.
  ATTILIA.
 Chi mi consiglia?
  chi mi soccorre? Amilcare?
  AMILCARE.
 Io mi perdo
  fra l'ira e lo stupor
 . ATTILIA.
 Licinio? 
 LICINIO.
 Ancora
  dal colpo inaspettato 
 respirar non poss'io. 
 ATTILIA.
 Publio?
  PUBLIO
 Ah germana,
  più valor, più costanza. Il fato avverso 
 come si soffra il genitor ci addìta.
  Non è degno di lui chi non l'imìta.
  ATTILIA.
 E tu parli così! tu, che dovresti
  i miei trasporti accompagnar gemendo! 
 Io non t'intendo, o Publio.
  AMILCARE.
 Ed io l'intendo. 
 Barce è la fiamma sua: Barce non parte,
  se Regolo non resta; ecco la vera 
 cagion del suo coraggio. 
 PUBLIO
 (Questo pensar di me! Stelle, che oltraggio!) 
 AMILCARE.
 Forse, affinché il Senato 
 non accettasse il cambio, ei pose in opra 
 tutta l'arte e l'ingegno. 
 PUBLIO
 Il dubbio in ver d'un africano è degno.
  AMILCARE.
 E pur... 
 PUBLIO
 Taci, e m'ascolta. 
 Sai che l'arbitro io sono 
 della sorte di Barce? 
AMILCARE.
 Il so. L'ottenne
  già dal Senato in dono
  la madre tua: questa cedendo al fato,
  signor di lei tu rimanesti. 
 PUBLIO
 Or odi
  qual uso io fo del mio dominio. Amai 
 Barce più della vita, 
 ma non quanto l'onor. So che un tuo pari 
 creder nol può; ma toglierò ben io
  di sì vili sospetti
  ogni pretesto alla calunnia altrui.
  Barce, libera sei; parti con lui. 
 
BARCE
 Numi! Ed è ver? 
 AMILCARE.
 D'una virtù sì rara...
  PUBLIO
 Come s'ama fra noi, barbaro, impara. [parte]
 
SCENA X 
 
 ATTILIA.
 Vedi il crudel come mi lascia! [a Licinio che non l'ode] 
 
BARCE
 Udisti, 
 come Publio parlò? [ad Amilcare, come sopra]
 
ATTILIA.
 [a Licinio] Tu non rispondi! 
 
BARCE
 Tu non m'odi, idol mio!  [ad Amilcare]
 
AMILCARE.
 Addio, Barce; m'attendi.[risoluto incamminandosi per partire]
 
 LICINIO.
 [come sopra] Attilia, addio. 
 ATTILIA, BARCE
 Dove?
  LICINIO.
[ad Attilia]  A salvarti il padre. 
 AMILCARE.
 Regolo a conservar.[a Barce] 
 ATTILIA.
[a Licinio]  Ma per qual via?
 
 BARCE
 Ma come?[ad Amilcare]
 
 LICINIO.
 [ad Attilia] A' mali estremi
  diasi estremo rimedio.
  AMILCARE.
[a Barce]  Abbia rivali 
 nella virtù questo romano orgoglio.
  ATTILIA.
 Esser teco vogl'io. [a Licinio]
 
BARCE
 [ad Amilcare] Seguirti io voglio.
  LICINIO.
 No; per te tremerei. [ad Attilia]
 AMILCARE.
 No; rimaner tu dèi.[a Barce]
 
 BARCE
[ad Amilcare]  Né vuoi spiegarti? 
 
ATTILIA.
 Né vuoi ch'io sappia almen...[a Licinio]
 
 LICINIO.
 [ad Attilio] Tutto fra poco
  saprai.
  AMILCARE.
 Fidati a me.[a Barce] 
 
LICINIO.
 Regolo in Roma
  si trattenga, o si mora. [parte]
 AMILCARE.
 Faccia pompa d'eroi l'Africa ancora.[s'incammina, e poi si rivolge]
  Se minore è in noi l'orgoglio,
  la virtù non è minore; 
 né per noi la via d'onore
  è un incognito sentier.
  Lungi ancor dal Campidoglio 
 vi son alme a queste uguali;
  pur del resto de' mortali
  han gli dei qualche pensier.[parte]
 
SCENA XI 
 
 ATTILIA.
 Barce! 
 BARCE
 Attilia! 
 ATTILIA.
 Che dici?
  BARCE
 Che possiamo sperar? 
 ATTILIA.
 Non so. Tumulti 
 certo a destar corre Licinio; e questi
  esser ponno funesti
  alla patria ed a lui, senza che il padre 
 per ciò si salvi.
  BARCE
 Amilcare sorpreso 
 dal grand'atto di Publio e punto insieme
  da' rimproveri suoi, men generoso
  esser non vuol di lui. Chi sa che tenta
  e a qual rischio s'espone?
  ATTILIA.
 Il mio Licinio 
 deh secondate, o dei!
  BARCE
 Lo sposo mio,
  numi, assistete! 
 ATTILIA.
 Io non ho fibra in seno, 
 che non mi tremi.
  BARCE
 Attilia,
  non dobbiamo avvilirci. Al fin più chiaro
  è adesso il ciel di quel che fu; si vede
  pur di speranza un raggio. 
 ATTILIA.
 Ah Barce, è ver; ma non mi dà coraggio.
  Non è la mia speranza 
 luce di ciel sereno; 
 di torbido baleno
  è languido splendor:
  splendor, che in lontananza
  nel comparir si cela; 
 che il rischio, oh Dio! mi svela, 
 ma non lo fa minor. [parte]
SCENA XII 
  BARCE [sola]
 Rassicurar proccuro
  l'alma d'Attilia oppressa, 
 ardir vo consigliando, e tremo io stessa. 
 Ebbi assai più coraggio 
 quando meno sperai. La tema incerta 
 solo allor m'affliggea d'un mal futuro; 
 or di perder pavento un ben sicuro.
  S'espone a perdersi
  nel mare infido
  chi l'onde instabili 
 solcando va.
  Ma quel sommergersi 
 vicino al lido 
 è troppo barbara 
 fatalità.
  
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
 
[sala terrena corrispondente a' giardini]
 
 REGOLO.
 Ma che si fa? Non seppe
  forse ancor del Senato
  Amilcare il voler? Dov'è? Si trovi; 
 partir convien. Qui che sperar per lui, 
 per me non v'è più che bramar. Diventa
  colpa ad entrambi or la dimora. 
 [vedendo venir Manlio] Ah vieni,
  vieni, amico, al mio seno. Era in periglio
  senza te la mia gloria; i ceppi miei
  per te conservo; a te si deve il frutto 
 della mia schiavitù. 
 MANLIO
 Sì; ma tu parti; 
 sì; ma noi ti perdiam.
  REGOLO.
 Mi perdereste, 
 s'io non partissi. 
 MANLIO
 Ah perché mai sì tardi
  incomincio ad amarti! Altri fin ora, 
 Regolo, non avesti
  pegni dell'amor mio, se non funesti. 
 REGOLO.
 Pretenderne maggiori 
 da un vero amico io non potea; ma pure
  se il generoso Manlio altri vuol darne, 
 altri ne chiederò. 
 MANLIO
 Parla. 
 REGOLO.
 Compìto
  ogni dover di cittadino, al fine
  mi sovvien che son padre. Io lascio in Roma
  due figli, il sai; Publio ed Attilia: e questi 
 son del mio cor, dopo la patria, il primo, 
 il più tenero affetto. In lor traluce 
 indole non volgar; ma sono ancora 
 piante immature, e di cultor prudente 
 abbisognano entrambi. Il Ciel non volle
  che l'opera io compissi. Ah tu ne prendi
  per me pietosa cura; 
 tu di lor con usura
  la perdita compensi. Al tuo bel core
  debbano e a' tuoi consigli
  la gloria il padre, e l'assistenza i figli. 
 MANLIO
 Sì, tel prometto: i preziosi germi 
 custodirò geloso. Avranno un padre, 
 se non degno così, tenero almeno 
 il par di te. Della virtù romana
  io lor le tracce additerò. Né molto 
 sudor mi costerà. Basta a quell'alme, 
 di bel desio già per natura accese, 
 l'istoria udir delle paterne imprese.
  REGOLO.
 Or sì più non mi resta... 
 
SCENA II 
 
PUBLIO
 Manlio! Padre!
 
 REGOLO.
 Che avvenne? 
 PUBLIO
 Roma tutta è in tumulto: il popol freme;
  non si vuol che tu parta. 
 REGOLO.
 E sarà vero 
 che un vergognoso cambio
  possa Roma bramar?
  PUBLIO
 No, cambio o pace
  Roma non vuol; vuol che tu resti.
  REGOLO.
 Io! Come? 
 E la promessa? e il giuramento?
  PUBLIO
 Ognuno 
 grida che fé non dessi
  a perfidi serbar. 
 REGOLO.
 Dunque un delitto 
 scusa è dell'altro. E chi sarà più reo, 
 se l'esempio è discolpa? 
 PUBLIO
 Or si raduna 
 degli àuguri il collegio: ivi deciso
  il gran dubbio esser deve. 
 REGOLO.
 Uopo di questo
  oracolo io non ho. So che promisi; 
 voglio partir. Potea 
 della pace o del cambio
  Roma deliberar: del mio ritorno 
 a me tocca il pensier. Pubblico quello,
  questo è privato affar. Non son qual fui; 
 né Roma ha dritto alcun sui servi altrui. 
 PUBLIO
 Degli àuguri il decreto
  s'attenda almen. 
 REGOLO.
 No; se l'attendo, approvo 
 la loro autorità. [agli Africani] Custodi, al porto. 
 Amico, addio.[a Manlio partendo]
  MANLIO
 No, Regolo; se vai 
 fra la plebe commossa, a viva forza 
 può trattenerti; e tu, se ciò succede, 
 tutta Roma fai rea di poca fede. 
 REGOLO.
 Dunque mancar degg'io?... 
 MANLIO
 No; andrai; ma lascia 
 che quest'impeto io vada 
 prima a calmar. Ne sederà l'ardore
  la consolare autorità. 
 REGOLO.
 Rimango, 
 Manlio, su la tua fé: ma... 
 MANLIO
 Basta; intendo.
  La tua gloria desio, 
 e conosco il tuo cor: fidati al mio. 
 Fidati pur; rammento
  che nacqui anch'io romano:
  al par di te mi sento
  fiamme di gloria in sen.
  Mi niega, è ver, la sorte
  le illustri tue ritorte; 
 ma, se le bramo in vano,
  so meritarle almen.
  
SCENA III 
 
REGOLO.
 E tanto or costa in Roma, 
 tanta or si suda a conservar la fede! 
 Dunque... Ah Publio! e tu resti? E sì tranquillo
  tutto lasci all'amico 
 d'assistermi l'onor? Corri; proccura 
 tu ancor la mia partenza. Esser vorrei 
 di sì gran benefizio 
 debitore ad un figlio.
  PUBLIO
 Ah padre amato, 
 ubbidirò; ma...
  REGOLO.
 Che? Sospiri! Un segno 
 quel sospiro saria d'animo oppresso?
  PUBLIO
 Sì, lo confesso, 
 morir mi sento; 
 ma questo istesso
  crudel tormento
  è il più bel merito 
 del mio valor. 
 Qual sacrifizio,
  padre, farei, 
 se fosse il vincere 
 gli affetti miei 
 opra sì facile
  per questo cor? [parte]
 
SCENA IV 
  AMILCARE.
 Regolo, al fin... 
 REGOLO.
 Senza che parli, intendo 
 già le querele tue. Non ti sgomenti 
 il moto popolar: Regolo in Roma 
 vivo non resterà.
  AMILCARE.
 Non so di quali
  moti mi vai parlando. Io querelarmi 
 teco non voglio. A sostenerti io venni
  che solo al Tebro in riva
  non nascono gli eroi,
  che vi sono alme grandi anche fra noi. 
 REGOLO.
 Sia. Non è questo il tempo 
 d'inutili contese. I tuoi raccogli, 
 t'appresta alla partenza.
 
 AMILCARE.
 No. Pria m'odi, e rispondi.
  REGOLO.
 (Oh sofferenza!) 
 AMILCARE.
 E` gloria l'esser grato? 
 REGOLO.
 L'esser grato è dover: ma già sì poco 
 questo dover s'adempie, 
 ch'oggi è gloria il compirlo. 
 AMILCARE.
 E se il compirlo
  costasse un gran periglio?
  REGOLO.
 Ha il merto allora 
 d'un'illustre virtù. 
 AMILCARE.
 Dunque non puoi 
 questo merto negarmi. Odi. Mi rende,
  del proprio onor geloso, 
 la mia Barce il tuo figlio, e pur l'adora:
  io generoso ancora
  vengo il padre a salvargli, e pur m'espongo
  di Cartago al furor.
  REGOLO.
 Tu vuoi salvarmi! 
 AMILCARE.
 Io. 
 REGOLO.
 Come? 
 AMILCARE.
 A te lasciando 
 agio a fuggir. Questi custodi ad arte
  allontanar farò. Tu cauto in Roma
  celati sol fin tanto 
 che senza te con simulato sdegno
  quindi l'ancore io sciolga.
  REGOLO.
 (Barbaro!) 
 AMILCARE.
 E ben, che dici?
  ti sorprende l'offerta. 
 REGOLO.
 Assai.
  AMILCARE.
 L'avresti 
 aspettata da me?
  REGOLO.
 No.
  AMILCARE.
 Pur la sorte 
 non ho d'esser roman.
 REGOLO.
 Si vede.
  AMILCARE.
 Andate, 
 custodi... [agli Africani]
 REGOLO.
 Alcun non parta.[a' medesimi]
  AMILCARE.
 Perché?
  REGOLO.
 Grato io ti sono
  del buon voler; ma verrò teco. 
 AMILCARE.
 E sprezzi 
 la mia pietà?
  REGOLO.
 No; ti compiango. Ignori 
 che sia virtù. Mostrar virtù pretendi,
  e me, la patria tua, te stesso offendi. 
 AMILCARE.
 Io! 
 REGOLO.
 Sì. Come disponi 
 della mia libertà? Servo son io
  di Cartago, o di te?
  AMILCARE.
 Non è tuo peso
  l'esaminar se il benefizio... 
 REGOLO.
 E` grande
  il benefizio in ver! Rendermi reo,
  profugo, mentitor... 
 AMILCARE.
 Ma qui si tratta 
 del viver tuo. Sai che supplizi atroci 
 Cartago t'apprestò? Sai quale scempio
  là si farà di te?
  REGOLO.
 Ma tu conosci, 
 Amilcare, i Romani?
  Sai che vivon d'onor? che questo solo
  è sprone all'opre lor, misura, oggetto?
  Senza cangiar d'aspetto
  qui s'impara a morir; qui si deride, 
 pur che gloria produca, ogni tormento;
  e la sola viltà qui fa spavento.
  AMILCARE.
 Magnifiche parole,
  belle ad udir; ma inopportuno è meco
  quel fastoso linguaggio. Io so che a tutti 
 la vita è cara, e che tu stesso...
  REGOLO.
 Ah troppo 
 di mia pazienza abusi. I legni appresta,
  raduna i tuoi seguaci, 
 compisci il tuo dover, barbaro, e taci. 
 AMILCARE.
 Fa pur l'intrepido,
  m'insulta audace, 
 chiama pur barbara
  la mia pietà.
  Sul Tebro Amilcare 
 t'ascolta e tace; 
 ma presto in Africa
  risponderà.èparte]
SCENA V
 
 REGOLO.
 E Publio non ritorna!
  e Manlio... Aimè! Che rechi mai sì lieta,
  sì frettolosa, Attilia? 
 ATTILIA.
 Il nostro fato 
 già dipende da te; già cambio o pace,
  fida a' consigli tuoi, 
 Roma non vuol; ma rimaner tu puoi. 
 REGOLO.
 Sì, col rossor... 
 ATTILIA.
 No; su tal punto il sacro
  Senato pronunciò. L'arbitro sei 
 di partir, di restar. "Giurasti in ceppi; 
 né obbligar può se stesso
  chi libero non è".
  REGOLO.
 Libero è sempre
  chi sa morir. La sua viltà confessa 
 chi l'altrui forza accusa. 
 Io giurai perché volli;
  voglio partir perché giurai.
 
SCENA VI
 
 PUBLIO
 Ma in vano, 
 signor, lo speri. 
 REGOLO.
 E chi potrà vietarlo?
  PUBLIO
 Tutto il popolo, o padre: è affatto ormai 
 incapace di fren. Per impedirti
  il passaggio alle navi ognun s'affretta 
 precipitando al porto; e son di Roma 
 già l'altre vie deserte.
  REGOLO.
 E Manlio? 
 PUBLIO
 E` il solo
  che ardisca opporsi ancora 
 al voto universal. Prega, minaccia; 
 ma tutto inutilmente. Alcun non l'ode, 
 non l'ubbidisce alcun. Cresce a momenti 
 la furia popolar. Già su le destre
  ai pallidi littori
  treman le scuri; e non ritrova ormai 
 in tumulto sì fiero
  esecutori il consolare impero.
  REGOLO.
 Attilia, addio: Publio, mi siegui. [in atto di partire]
 ATTILIA.
 E dove?
  REGOLO.
 A soccorrer l'amico; il suo delitto 
 a rinfacciare a Roma; a conservarmi
  l'onor di mie catene;
  a partire, o a spirar su queste arene.[partendo]
  ATTILIA.
 Ah padre! ah no! Se tu mi lasci... [piangendo]
 REGOLO.
 [serio ma senza sdegno] Attilia,
  molto al nome di figlia, 
 al sesso ed all'età fin or donai:
  basta; si pianse assai. Per involarmi 
 d'un gran trionfo il vanto
  non congiuri con Roma anche il tuo pianto.
  ATTILIA.
 Ah tal pena è per me... [piangendo]
 REGOLO.
 Per te gran pena
  è il perdermi, lo so. Ma tanto costa
  l'onor d'esser romana.
  ATTILIA.
 Ogni altri prova
  son pronta... 
 REGOLO.
 E qual? Co' tuoi consigli andrai 
 forse fra i padri a regolar di Roma 
 in Senato il destin? Con l'elmo in fronte
  forse i nemici a debellar pugnando
  fra l'armi suderai? Qualche disastro
  se a soffrir per la patria atta non sei
  senza viltà, dì, che farai per lei? 
 ATTILIA.
 E` ver. Ma tal costanza... 
 REGOLO.
 E` difficil virtù: ma Attilia al fine
  è mia figlia, e l'avrà.[partendo]
 
 ATTILIA.
 Sì, quanto io possa, 
 gran genitor, t'imiterò. Ma... oh Dio! 
 Tu mi lasci sdegnato:
  io perdei l'amor tuo. 
 REGOLO.
 No, figlia; io t'amo, 
 io sdegnato non son. Prendine in pegno 
 questo amplesso da me. Ma questo amplesso
  costanza, onor, non debolezza inspiri.
  ATTILIA.
 Ah sei padre, mi lasci, e non sospiri! 
 REGOLO.
 Io son padre, e nol sarei 
 se lasciassi a' figli miei 
 un esempio di viltà.
  Come ogni altro ho core in petto;
  ma vassallo è in me l'affetto; 
 ma tiranno in voi si fa.[parte con Publio]
 
SCENA VII 
 
 ATTILIA.
 Su, costanza, o mio cor. Deboli affetti, 
 
sgombrate da quest'alma; inaridite
  ormai su queste ciglia, 
 lagrime imbelli. Assai si pianse; assai
  si palpitò. La mia virtù natia 
 sorga al paterno sdegno;
  ed Attilia non sia
  il ramo sol di sì gran pianta indegno.
  BARCE
 Attilia, è dunque ver? Dunque a dispetto
  del popol, del Senato,
  degli àuguri, di noi, del mondo intero
  Regolo vuol partir? 
 ATTILIA.
 [con fermezza] Sì.
  BARCE
 Ma che insano 
 furor? 
 ATTILIA.
 [come sopra] Più di rispetto, 
 Barce, agli eroi. 
 BARCE
 Come! del padre approvi 
 l'ostinato pensier?
  ATTILIA.
 Del padre adoro
  la costante virtù.
  BARCE
 Virtù che a' ceppi, 
 che all'ire altrui, che a vergognosa morte
  certamente dovrà...
  ATTILIA.
 [s'intenerisce di nuovo] Taci. Quei ceppi, 
 quell'ire, quel morir del padre mio
  saran trionfi. 
 BARCE
 E tu n'esulti?
  ATTILIA.
 [piange] (Oh Dio!)
 
 BARCE
 Capir non so... 
 ATTILIA.
 Non può capir chi nacque 
 in barbaro terren per sua sventura 
 come al paterno vanto 
 goda una figlia.
  BARCE
 E perché piangi intanto? 
 ATTILIA.
 Vuol tornar la calma in seno 
 quando in lagrime si scioglie
  quel dolor che la turbò:
  come torna il ciel sereno, 
 quel vapor, che i rai ci toglie, 
 quando in pioggia si cangiò. [parte]
 
SCENA VIII
  BARCE [sola] 
 Che strane idee questa produce in Roma 
 avidità di lode! Invidia i ceppi 
 Manlio del suo rival: Regolo abborre 
 la pubblica pietà: la figlia esulta 
 nello scempio del padre! E Publio... Ah questo
  è caso in ver che ogni credenza eccede:
  e Publio ebro d'onor m'ama e mi cede!
  Ceder l'amato oggetto,
  né spargere un sospiro,
  sarà virtù; l'ammiro, 
 ma non la curo in me.
  Di gloria un'ombra vana
  in Roma è il solo affetto; 
 ma l'alma mia romana,
  lode agli dei, non è. [parte]
 
SCENA IX 
 
[Portici magnifici su le rive del Tevere. Navi pronte nel fiume per l'imbarco di Regolo. Ponte che conduce alla più vicina di quelle. Popolo numeroso che impedisce il passaggio delle navi. Africani su le medesime. Littori col console]
 LICINIO.
 No, che Regolo
  parta Roma non vuole. 
 MANLIO
 Ed il Senato ed io 
 non siam parte di Roma?
  LICINIO.
 Il popol tutto
  è la maggior.
  MANLIO
 Non la più sana. 
 LICINIO.
 Almeno
  la men crudel. Noi conservar vogliamo
  pieni di gratitudine e d'amore
  a Regolo la vita.
  MANLIO
 E noi l'onore. 
 LICINIO.
 L'onor... 
 MANLIO
 Basta; io non venni 
 a garrir teco. Olà: libero il varco
  lasci ciascuno. [al popolo]
  LICINIO.
[al medesimo] Olà: nessun si parta.
  MANLIO
 Io l'impongo. 
 LICINIO.
 Io lo vieto. 
 MANLIO
 Osa Licinio
  al console d'opporsi?
  LICINIO.
 Osa al tribuno
  d'opporsi Manlio?
  MANLIO
 Or si vedrà. Littori, 
 sgombrate il passo. [i littori innalzando le scuri tentano avanzarsi]
 
LICINIO.
 Il passo difendete, o Romani.[al popolo, che si mette in difesa]
 
 MANLIO
 Oh dei! Con l'armi 
 si resiste al mio cenno? In questa guisa
  la maestà... 
 LICINIO.
 La maestade in Roma 
 nel popolo risiede; e tu l'oltraggi
  contrastando con lui.
  POPOLO 
 Regolo resti.
  MANLIO
 Udite: 
 lasciate che l'inganno io manifesti. 
 POPOLO 
 Resti Regolo. 
 MANLIO
 Ah voi...
  POPOLO
  Regolo resti. 
 
SCENA ULTIMA 
  REGOLO.
 "Regolo resti!" Ed io l'ascolto! Ed io 
 creder deggio a me stesso! Una perfidia
  si vuol? Si vuole in Roma?
  si vuol da me? Quai popoli or produce 
 questo terren! Sì vergognosi voti 
 chi formò? chi nudrilli?
  Dove sono i nepoti 
 de' Bruti, de' Fabrizi e de' Camilli?
  "Regolo resti!" Ah per qual colpa e quando
  meritai l'odio vostro?
  LICINIO.
 E` il nostro amore,
  signor, quel che pretende
  franger le tue catene. 
 REGOLO.
 E senza queste
  Regolo che sarà? Queste mi fanno
  de' posteri l'esempio,
  il rossor de' nemici, 
 lo splendor della patria: e più non sono, 
 se di queste mi privo,
  che uno schiavo spergiuro e fuggitivo.
  LICINIO.
 A perfidi giurasti,
  giurasti in ceppi; e gli àuguri... 
 REGOLO.
 Eh lasciamo
  all'Arabo ed al Moro
  questi d'infedeltà pretesti indegni.
  Roma a' mortali a serbar fede insegni.
 
 LICINIO.
 Ma che sarà di Roma, 
 se perde il padre suo?
  REGOLO.
 Roma rammenti 
 che il suo padre è mortal; che al fin vacilla 
 anch'ei sotto l'acciar; che sente al fine 
 anch'ei le vene inaridir; che ormai 
 non può versar per lei
  né sangue, né sudor; che non gli resta
  che finir da romano. Ah m'apre il Cielo
  una splendida via: de' giorni miei
  possa l'annoso stame 
 troncar con lode; e mi volete infame!
  No, possibil non è: de' miei Romani 
 conosco il cor. Da Regolo diverso
  pensar non può chi respirò nascendo 
 l'aure del Campidoglio. Ognun di voi
  so che nel cor m'applaude;
  so che m'invidia e che fra' moti ancora 
 di quel, che l'ingannò, tenero eccesso,
  fa voti al Ciel di poter far l'istesso. 
 Ah non più debolezza. A terra, a terra 
 quell'armi inopportune: al mio trionfo
  più non tardate il corso
 , o amici, o figli, o cittadini. Amico,
  favor da voi domando; 
 esorto, cittadin; padre, comando. 
 ATTILIA.
 (Oh Dio! Ciascun già l'ubbidisce).
  PUBLIO
 (Oh Dio! 
 ecco ogni destra inerme).
  LICINIO.
 Ecco sgombro il sentier.
  REGOLO.
 Grazie vi rendo,
  propizi dei: libero è il passo. Ascendi, 
 Amilcare, alle navi;
  io sieguo i passi tui. 
 AMILCARE.
 (Al fin comincio ad invidiar costui). [sale su la nave]
 REGOLO.
 Romani, addio. Siano i congedi estremi 
 degni di noi. Lode agli dei, vi lascio, 
 e vi lascio Romani. Ah conservate 
 illibato il gran nome; e voi sarete
  gli arbitri della terra; e il mondo intero 
 roman diventerà. Numi custodi 
 di quest'almo terren, dee protettrici
  della stirpe d'Enea, confido a voi 
 questo popol d'eroi: sian vostra cura 
 questo suol, questi tetti e queste mura.
  Fate che sempre in esse
  la costanza, la fé, la gloria alberghi,
  la giustizia, il valore. E, se giammai
  minaccia al Campidoglio 
 alcun astro maligno influssi rei,
  ecco Regolo, o dei: Regolo solo 
 sia la vittima vostra; e si consumi 
 tutta l'ira del Ciel sul capo mio:
  ma Roma illesa... Ah qui si piange! Addio. 
 CORO DI ROMANI 
 Onor di questa sponda, 
 padre di Roma, addio. 
 Degli anni e dell'obblio 
 noi trionfiam per te.
  Ma troppo costa il vanto; 
 Roma ti perde intanto; 
 ed ogni età feconda
  di Regoli non è. 
 FINE