UNA FOTOGRAFIA DEL 1875 DI GIOSUE' CARDUCCI GIOSUE' CARDUCCI vide la luce in Versilia, a Valdicastello  una frazione di Pietrasanta, in provincia di Lucca, il 27 luglio del 1835.   
 INNO A SATANA  Alcuni anni or sono, specialmente tra i docenti più tradizionalisti e comunque nel contesto di un certo purismo accademico, suscitò un relativo scalpore che la lirica SAN MARTINO di GIOSUE' CARDUCCI fosse stata musicata e in varie maniere proposta come elemento centrali di alcuni spettacoli di varietà e/o di musica leggera.
 
Suo padre si chiamava Michele ed era, fondatamente, ritenuto un bravo medico mentre sua madre Ildegonda Celli era figlia di un orafo fiorentino. 
Solo pochi anni dell' infanzia furono passati da Giosuè nel borgo natio, visto che già (1838) dovette seguire il padre prima a Castagneto e successivamente a Laiatico.
 Michele Carducci, che non aveva mai celate le sue idee repubblicane e la sua simpatia per Mazzini, attesa la restaurazione succeduta al fallimento della prima guerra italiana di indipendenza (in Toscana caratterizzata dal ritorno nel  1849, dell'austriacante granduca Leopoldo II) divenne insofferente della miope esitenza provinciale e scelse di sistemarsi a Firenze ove poteva confrontarsi con altri intellettuali di pari sua estrazione ideologica.
Nella splendida capitale Giosuè seguì gli studi, fino al 1852, presso le scuole dei padri Scolopi di San Giovannino: qui in particolare apprezzò il magistero di due docenti e cioè il fisico Eugenio Barsanti e l'insegnante di retorica Geremia Barsotti che gli permise di approfondire quella grande poesia classica, in particolare quella di Quinto Orazio Flacco, cui egli si era già timidamente accostato in virtù della ricca biblioteca del padre ove aveva scoperto, tra gli altri, Omero, Virgilio, Ovidio, oltre quei grandi italiani che andavano collocandosi al pari deiclassici nella coscienza delle nuove generazioni erudite, vale a dire Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi.
Quasi a tracciare un pronostico della militanza intellettuale del futuro poeta Carducci, Giosuè rigettò invece i toni mediati di quell'Alessandro Manzoni che solo gli "Scapigliati", a fronte del plauso mediamente generale, andavano additando quale espressione di ideali di vita troppo conformisti e poco in sintonia con le grandi aspettative dell'unità nazionale, necessariamente da scrivere nel tessuto delle riforme oltre che nel contesto politico e militare di una soluzione utilitaristica filodinastica.
Padre Barsotti suggerì poi al giovane, già tanto promettente, di partecipare ad un concorso per un posto gratuito di convittore presso la Regia Scuola Normale di Pisa (1853). 
Giosuè aveva riposto considerevoli aspettative in quell'incarico ma, vinto il concorso, si imbattè con disgusto in un tipo di insegnamento antiquato: superata l'avversione dei primi tempi risucì comunque a laurearsi, nel 1855, quindi a soli venti anni, in filosofia e filologia redigendo una tesi sul poema cavalleresco.
Tali successi scolastici costituirono il viatico per le prime soddisfazioni professionali in ambito didattico: e già nel 1856 fu incaricato quale professore di retorica presso una scuola di San Miniato al Tedesco in quel di Pisa.
In siffatta temperie culterale ed esistenziale il giovane Carducci maturò il programma degli Amici Pedanti, quella consorteria poetica destinata a discreta fama (tra le sue più celebri rivendicazioni vi fu quella di virtus e vis classica contro i sentimentalismi della seconda generazione romantica)  ed a positive partecipazioni come quelle degli intellettuali Nencioni e Gargani ed ancor più del Chiarini, futuro grande critico letterario.
 
La prima attività editoriale del Carducci (presso il Ristori di San Miniato pubblicò le Rime)  giammai potè consolare il poeta di impreviste sciagure: terribili furono per lui il suicidio -4/XI/1857- del fratello Dante (che si raccontò giunto a tal gesto estremo, dopo un violento litigio col padre) e poco dopo -15/VIII/1857- la repentina morte proprio del padre Michele.
Certe postulazioni ribelli del Carducci avevano comunque già attirato l'interesse delle forze pubbliche e col tempo la sua condotta divenne apertamente sospetta, sì che fu costretto cambiare ambiente: del resto, per quanto avesse brillantemente vinto nel 1857 la cattedra di greco al Ginnasio di Arezzo, Giosuè non se la vide riconoscere dalle autorità toscane apertamente intimorite dall'idea che potesse trasemttere a generazioni di discenti certe sue, nemmen troppo celate, idee repubblicano-giacobine sublimate da un'aperta adesione all'ateismo. 
Si trovò così obbligato a sopravvivere in virtù di lezioni private e, come poi scrisse, delle cento lire toscane per tomoche gli derivavano dalla direzione della collana Diamante per i tipi dell'editore Barbèra.
Il 7 marzo del 1859 il matrimonio d'amore  con la cugina Elvira Menicucci parve preannunciare tempi migliori.
E per certi versi così fu, anche in dipendenza delle trasformazioni, in senso progressista e quindi unitario (seppur sotto l'egida sabauda), della vita politica italiana.
Senza contestazioni fu quindi nominato professore di latino e greco nel liceo di Pistoia e quindi nel 1860 venne  nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione, Terenzio Mamiani quale professore di eloquenza (successivamente di letteratura italiana) presso la prestigiosa Università di Bologna .
A questo periodo è da ascrivere una serie di appassionati approfondimenti culturali maturati sui testi di grandi  come Mazzini, Hugo, Goethe, Von Platen, Shelly, Tierry, Bèrenger, Barbier, Quinet, Michelet, Teine, Blanc. 
Nel 1863 diede alle stampe le Stanze, l'Orfeo, le Rime del cinquecentesco Poliziano e dopo solo un biennio editò  l'inno A SATANA che suscitò un mare di polemiche forse fin troppo grande  a  fronte delle sue istanze modernistiche positivistiche: l'inno, per quanto forgiato dall'indubbio  anticlericalismo carducciano, contrapponeva (senza però originali slanci parossistici ed al contrario di come poteva invece suggerire l'intitolazione) la cultura illumunistica, della rivoluzione e del progresso scientifico al reazionario Sillabo dell'ultimo Papa Re, cioè Pio IX.
Il nuovo Ministro della Pubblica Istruzione Broglio, fervente manzoniano e conseguentemente ispirato alla rigorosa linea del dovere nel rispetto della tradizione, lo trasferì, d'ufficio, nel 1868 all'Università di Napoli: Carducci era però uno spirito troppo autonomo e sponhtaneo per digerire passivamente un provvedimento che averva i connotati dell' epurazione ideologica. 
Non mascherò in alcuno modo la sua avversione per quella classe politica italiana che non aveva saputo conseguire un unità completa e che aveva inibito ed emarginato, nella persona del re, Giuseppe Garibaldi. 
La raccolta che incarnò al meglio questa sua anche temeraria denuncia socio-politica fu quella di GIAMBI ED EPODI (1867-69) cui seguì nel 1868 quella, di contenuto analogo ma meno vigorosa, intitolata  Levia gravia : per dare un tocco di originalità al suo programma di demitizzazione del mondo clerical-borghese Carducci non si astenne quindi dal ripubblicare nel 1869 l'INNO A SATANA  contrapponendone le istanze moderniste ai postulati moderatissimi del Concilio Ecumenico.
Fu questo il momento della POESIA TIRTAICA DEGLI EMBATERIA: il Carducci cioè, nel celebrare i miti della classicità (il sole, l'esistenza virile, l'ottimismo, la voglia di combattere per nobili ideali) volle riprendere per sè  i modi da POETA VATE (o POETA GUIDA DEI POPOLI VERSO LIBERTA' E DEMOCRAZIA) dell'antico poeta greco TIRTEO che, coi suoi canti da battaglia (gli EMBATERIA e gli STASIOTIKA = "canti da battaglia" - "canti a piè fermo") avrebbe saputo risvegliare negli SPARTANI, al cui servizio stava, la voglia di lottare, senza mai indietreggiare qualunque fosse l'ostacolo da affrontare
In dipendenza di questa attestata e pubblicizzata avversione alla politica governativa conservatrice, il Carducci fvenne sospeso dal servizio e dallo retribuzione per tre mesi.
E peraltro rinnovate disgrazie presero a tormentarlo.
Il 1870 si aprì e si concluse infatti con avvenimenti funesti che lo minarono nella sua più segreta intimità: dapprima gli morì la madre (3 febbraio) e, verso il crepuscolo dell'anno, il figlioletto Dante (9 novembre), colpito da travaso celebrale. 
Da questo avvenimento luttuoso, derivò la struggente "elegia" Pianto antico, forse da ascrivere fra le liriche più umanamente angosciate del poeta 
Terminata questa infelice parentesi Giosuè, il cui rapporto prima solare con la moglie era stato quasi irrimediabilmete incrinato da una complessa venatura di incomprensioni, inaugurò una stagione di amori: la bella Carolina Cristofori Piva, che divenne la passionale amante del sanguigno poeta, venne così metamorfizzata nella  Lina  delle  Primavere elleniche  o nella classicheggiante  Lidia  di altri passi (in particolare nell'ode barbara Alla stazione in una mattina d'autunno), Adele Bergamini, Dafne Gargiolli (a sua volta ricondotta quale Lalage al mondo del mito greco-romano, ed ancora la indimenticata Annie Vivanti.
 Nel 1871 comparvero presso l'editore Barbèra di Firenze, le Poesie, complessa silloge che racchiudeva Decennali, Levia gravia, Juvenilia.
Dopo un biennio  uscirono quindi dai torchi del Galeati di Imola  le Nuove poesie destinate poi a perenne fama col nome della raccolta più vasta in cui anni dopo vennero accorpate cioè  le RIME NUOVE: queste ultime liriche furono  caratterizzata dalla inaspettata VALORIZZAZIONE DEL MEDIOEVO, pur se di un MEDIOEVO ARELIGIOSO o comunque ESENTE DA FOLE E SUPERSTIZIONI in cui (come nella celebre lirica Il Comune Rustico) veniva esaltato un peculiare aspetto della civiltà medievale, ovvero la CIVILTA' DEI COMUNI eternamente nobilitata dalla scoperta dei VALORI REPUBBLICANI E DALLE PRIME ESPERIENZE DEMOCRATICHE.
Mentre la vena poetica andava perdendosi, seppur assai lentamente, l' attività del Carducci quale critico letterario proseguì invece con vivacità estrinsecandosi anche in campo saggistico e filologico con l'opera Studi letterari  e successivamente nel 1876 in Bozzetti critici e discorsi letterari.
Nel 1877 Carducci ammirò per la prima volta le vestigia dell'Urbe in compagnia di Lalage e nello stesso periodo presso l'editore Zanichelli, cui fu legato da lunga e proficua collaborazione, uscì la prima edizione delle ODI BARBARE che costituirono un parzialmente riuscito ESPERIMENTO LETTERARIO: il poeta tentò infatti di proclamare il suo CULTO DEL MONDO CLASSICO GRECO E ROMANO utilizzando la stessa struttura metrica degli antichi seppur in lingua italiana (il nome alla raccolta derivò dal fatto che per un antico greco o romano queste ODI cioè CANTI sarebbero risuonati, espressi nella forma liguistica italiana non quantitativa ma qualitativa, come BARBARE cioè BALBUZIENTI, INCERTE come era per i Romani ed i Greci la parlata incerta degli stranieri o barbari).
 
Attraverso i viaggi che continuò a fare (famose le visite che compì a Venezia e Trieste) il Carducci andò intanto ammorbidendo 
le sue posizioni radicali  e finì col passare da un repubblicanesimo acceso alla difesa della monarchia: si narrò che a tale evoluzione (od involuzione) non fosse stato estraneo il fascino della consorte di re Umberto I ovvero la regina Margherita cui nel 1878 il poeta, tra la sorpresa dei suoi ammiratori repubblicani, fece omaggio dell'ode Alla Regina d'Italia : Carducci stava ormai evolvendosi nella direzione che avrebbe caratterizzato il suo ultimo periodo, quello della raccolta, invero poeticamente modesta, di RIME E RITMI in cui (si veda la poesia Piemonte sostanzialmente un inno alla casata dei Savoia) assunse decisamente i panni del POETA CESAREO cioè del POETA UFFICIALE DELLA CORTE.
L'ultimo anelito giacobino-repubblicano (COMUNQUE PIU' FORMALE CHE POLITICAMENTE SENTITO) fu costituito dalla raccolta di sonetti Ça ira, rievocazione della rivoluzione francese, edita presso il Sommaruga nel 1883.
 
Guai fisici con lo scorrere del tempo presero a minare il suo fisico un tempo robustissimo: fu primieramente colpito da  una paresi al braccio destro che tuttavia rallentò appena la sua ricca attività intellettuale. 
Tra tante cose, egli redasse un saggio in onore del Prati e sul Parini principiante, nel 1886 fu nominato Accademico della Crusca, 
Nel 1887 tiene una prolusione su Dante all'università di Roma ed è sempre lui, un anno dopo, a celebrare l'ottocentenario dell'università di Bologna. inaugurò presso l'editore Zanichelli l' edizione omnia delle sue opere (1889-1905) cui mai smise di dedicarsi anche negli ultimi anni.
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La sua attività culturale lo portò ad intervenire nel 1897 in senato, per la tutela e la pubblicazione degli scritti leopardiani: editò inoltre il commento, presso il Sansoni, alle Rime del Petrarca, che aveva composto con l'ausilio di Severino Ferrari.
 
Progredendo impietosamente la paralisi gli inibì l'uso della mano destra e tuttavia la sua fama continuava ad essere cristallina tanto che  nel 1906 ricevette in Bologna, per mano dell'ambasciatore di Svezia, il premio Nobel per la letteratura.
La sua morte avvenne appena un anno dopo quel prestigioso riconoscimento: nella notte fra il 15 e il 16 febbraio a Bologna, per broncopolmonite. 
I suoi resti riposano attualmente nella Certosa di Bologna.
A te, de l'essere 
Principio immenso, 
Materia e spirito, 
Ragione e senso; 
Mentre ne' calici 
Il vin scintilla 
Sì come l'anima 
Ne la pupilla; 
Mentre sorridono 
La terra e il sole 
E si ricambiano 
D'amor parole, 
E corre un fremito 
D'imene arcano 
Da' monti e palpita 
Fecondo il piano;
 
A te disfrenasi 
il verso ardito, 
Te invoco, o Satana, 
Re del convito. 
Via l'aspersorio, 
Prete, e il tuo metro! 
No, prete, Satana 
Non torna in dietro! 
Vedi: la ruggine 
Rode a Michele 
Il brando mistico, 
Ed il fedele 
Spennato arcangelo 
Cade nel vano. 
Ghiacciato è il fulmine 
A Geova in mano. 
Meteore pallide, 
Pianeti spenti, 
Piovono gli angeli 
Da i firmamenti, 
Ne la materia 
Che mai non dorme, 
Re dei i fenomeni, 
Re de le forme, 
Sol vive Satana. 
Ei tien l'impero 
Nel lampo tremulo 
D' un occhio nero, 
O ver che languido 
Sfugga e resista, 
Od acre ed umido 
Pròvochi, insista. 
Brilla de' grappoli 
Nel lieto sangue, 
Per cui la rapida 
Gioia non langue, 
Che la fuggevole 
Vita ristora, 
Che il dolor proroga, 
Che amor ne incora. 
Tu spiri, o Satana, 
Nel verso mio, 
Se dal sen rompemi 
Sfidando il dio 
De' rei pontefici, 
De' re cruenti; 
E come fulmine 
Scuoti le menti. 
A te, Agramainio, 
Adone, Astarte, 
E marmi vissero 
E tele e carte, 
Quando le ioniche 
Aure serene 
Beò la Venere 
Anadiomene. 
A te del Libano 
Fremean le piante, 
De l'alma Cipride 
Risorto amante: 
A te ferveano 
Le danze e i cori, 
A te i virginei 
Candidi amori, 
Tra le odorifere 
Palme d'Idume, 
Dove biancheggiano 
Le ciprie spume. 
Che val se barbaro
Il nazareno
Furor de l'agapi
Dal rito osceno
Con sacra fiaccola 
I tempi t'arse 
E i segni argolici 
A terra sparse? 
Te accolse profugo 
Tra gli dèi lauri 
La plebe memore 
Ne i casolari. 
Quindi un femineo 
Sen palpitante 
Empiendo, fervido 
Nume ed amante, 
La strega pallida 
D'eterna cura 
Volgi a scorrere 
L'egra natura. 
Tu a l'occhio immobile 
De l'alchimista, 
Tu de l'indocile 
Mago a la vista, 
Del chiostro torpido 
Oltre i cancelli, 
Riveli i fulgidi 
Cieli novelli. 
A la Tebaide 
Te ne le cose 
Fuggendo, il monaco 
Triste s'ascose. 
O dal tuo tramite 
Alma divisa, 
Benigno è Satana; 
Ecco Eloisa. 
In van ti maceri 
Ne l'aspro sacco: 
Il verso ei mormora 
Di Maro e Flacco
 
Tra la davidica 
Nenia ed il pianto; 
E, forme delfiche, 
A te da canto, 
Rosee ne l'orrida 
Compagnia nera, 
Mena Licoride, 
Mena Glicera. 
Ma d'altre imagini 
D'età più bella 
Talor si popola 
L'insonne cella. 
Ei, da le pagine 
Di Livio, ardenti 
Tribuni, consoli, 
Turbe frementi 
Sveglia; e fantastico 
D'italo orgoglio 
Te spinse, o monaco, 
Su 'l Campidoglio. 
E voi, che il rabido 
Rogo non strusse, 
Voci fatidiche, 
Wicleff ed Husse, 
A l'aura il vigile 
Grido mandate: 
S'innova il secolo, 
Piena è l'estate. 
E già già tremano 
Mitre e corone:
 
dal chiostro brontola 
La ribellione, 
E pugna e prèdica 
Sotto la stola 
Di fra' Girolamo 
Savonarola. 
Gittò la tonaca 
Martin Lutero; 
Gitta i tuoi vincoli, 
Uman pensiero, 
E splendi e folgora 
Di fiamme cinto; 
Materia, inalzati; 
Satana ha vinto. 
Un bello e orribile 
Mostro si sferra,
 
Corre gli oceani, 
Corre la terra: 
Corrusco e fumido 
Corre i vulcani, 
I monti supera, 
Divora i piani; 
Sorvola i baratri; 
Poi si nasconde 
Per antri incogniti, 
Per vie profonde;
 
Ed esce; e indomito 
Di lido in lido 
Come di turbine, 
Manda il suo grido,
 
Come di turbine 
L'alito spande: 
Ei passa, o popoli, 
Satana il grande. 
Passa benefico 
Di loco in loco 
Su l'irrefrenabile 
Carro del foco. 
Salute, o Satana, 
O ribellione, 
O forza vindice 
De la ragione! 
Sacri a te salgono 
Gl'incensi e i voti! 
Hai vinto il Geova 
De i sacerdoti. 
[Settembre 1863] 
Quello che ad alcuni parve un affronto, verisimilmente, non sarebbe stato giudicato in tal maniera dal poeta toscano, diverse COMPOSIZIONI del quale (quando direttamente lui stesso non si rese PAROLIERE di CANTI e/o INNI) furono (con il consenso del poeta toscano o con quello postumo del suo editore Zanichelli) variamente MUSICATE da affermati MAESTRI di ottime referenze e quindi presentate al pubblico da CANTANTI di fine XIX e primi XX secolo.
A titolo documentario qui, recuperate dal materiale documentario del "Museo della Canzone di Vallecrosia (IM)", vengono ora proposte TRE CANZONI del CARDUCCI:
1-PASSA LA NAVE MIA... (BRATTI EDITORI, FIRENZE - PAROLE DI G. CARDUCCI - MUSICA DI MARIO SALVADORI)
2-MATTINATA (RICORDI EDITORI, 1924 - PAROLE DI G. CARDUCCI [DALLA RACCOLTA RIME NUOVE] - MUSICA DI GIUSEPPE FATUO)
3-VIVA IL RE - CANTO NAZIONALE (RICORDI EDITORI, 1915 - PAROLE DI G. CARDUCCI - RIDUZIONE DI R. TENAGLIA - MUSICA DI S. GASTALDON)