Documenti ufficiali relativi al periodo tra l'aprile del 1814 e il 7 gennaio 1815

DOCUMENTO 1 - ( 26 aprile 1814: Proclama del generale Bentinck, Comandante in capo dell'Armata di S. M. Britannica nel Genovesato)

DOCUMENTO 2 - (28 aprile 1814: Manifesto del Governo Provvisorio della Serenissima Repubblica di Genova)

DOCUMENTO 3 - (11 maggio 1814: Nota presentata li 11 maggio 1814 a Parigi al Visconte Castlereagh dal March. Agostino Pareto Ministro Plenipotenziario della Repubblica di Genova)

DOCUMENTO 4 - (18 maggio 1814: Altra Nota dello stesso Pareto al suddetto Castlereagh dei 18 maggio detto anno

DOCUMENTO 5 - (31 luglio 1814: Proclama del Generale Bentinck che nomina il grande e piccolo Consiglio del Governo Provvisorio)

DOCUMENTO 6 - (3 ottobre 1814: Nota del Governo Provvisorio)

DOCUMENTO 7 - (12 novembre 1814: Al Ministro Brignole)

DOCUMENTO 8 - (26 novembre 1814: La Giunta degli Affari Esteri al Ministro Brignole a Vienna )

DOCUMENTO 9 - (26 dicembre 1814: Protesta e Abdicazione del Governo Provvisorio di Genova)

DOCUMENTO 10 - (26 dicembre 1814: Proclama dei Governatori e Procuratori della Serenissima Repubblica di Genova )

DOCUMENTO 11 - (27 dicembre 1814: Proclama del Colonnello John P. Dalrymple, Comandante le Truppe di S. M. B. nel Genovesato)

DOCUMENTO 12 - (7 gennaio 1815: Altro Proclama del Colonnello Dalrymple)

DOCUMENTO 13 - (Riunione di Genova al Piemonte - Atto del Congresso di Vienna - Art. 86. 87. 88. 89)

DOCUMENTO 14 - (Condizioni che devono servir alla riunione degli Stati di Genova a quelli di S. M. Sarda concordate dalle Potenze Alleate nel Congresso di Vienna)

DOCUMENTO 15 - (Altra documentazione sulle "Condizioni concordate ecc.")

DOCUMENTO 16 - (Regie Patenti portanti lo stabilimento d'una Regia Delegazione nell'incominciamento dell'amministrazione del Governo di Genova a seconda degli accordati privilegi ivi riferiti, e la continuazione delle attuali leggi)

DOCUMENTO 17 - Presa di possesso del Re sabaudo


















PROCLAMA
DEL GENERALE BENTINCK
COMANDANTE IN CAPO DELL' ARMATA DI S. M. BRITANNICA NEL GENOVESATO

"Avendo l'armata di S. M. Britannica sotto il mio comando scacciati i Francesi dal territorio di Genova, e divenuto necessario il provvedere al mantenimento del loro buon ordine e governo di questo Stato. Considerando che il desiderio generale della Nazione genovese pare essere di ritornare a quell'antico Governo, sotto il quale godeva libertà, prosperità ed indipendenza; e considerando altresì che questo desiderio sembra essere conforme ai principii riconosciuti dalle alte Potenze alleate, di restituire a tutti i loro antichi diritti e privilegi:
DICHIARO
Art.1
Che la costituzione quale esisteva nell'anno 1797, con quelle modificazioni che il voto generale, il pubblico bene e lo spirito dell'originale Costituzione del 1576 sembrano richiedere, è ristabilita.
Art.2
Che le modificazioni organiche insieme colla maniera di formare le liste dei cittadini eligibili, e Consigli Minore e Maggiore, saranno al più presto possibile pubblicate.
Art.3
Che un Governo provvisorio consistente in tredici individui, e formato in due Collegi come prima, sarà immediatamente nominato, e durerà in carica sino al 1° Gennaio 1815, quando i due Collegi verranno compiuti nel numero prescritto dalla Costituzione.
Art.4
Che questo Governo provvisorio assumerà ed eserciterà i poteri Legislativo ed Esecutivo dello Stato, e determinerà un sistema temporaneo, o prorogando e modificando le leggi esistenti, ovvero ristabilendo e modificando le antiche, nel modo che gli sembrerà espediente per il bene dello Stato e la sicurezza dei cittadini, loro persone e proprietà.
Art.5
Che due terzi dei Consigli Minore e Maggiore saranno nominati immediatamente, gli altri saranno eletti a norma della Costituzione, quando le liste dei cittadini eligibili saranno formate.
Art.6
Ai due Consigli sopranominati, i due Collegi proporranno, secondo la Costituzione, tutte le misure che crederanno necessarie per l'intiero stabilimento dell'antica forma di Governo.
Ed in adempimento di questo, io dichiaro col presente Proclama, che il Sig. GEROLAMO SERRA Presidente, ed i signori:
ANDREA DE-FERRARI,
AGOSTINO PARETO,
IPPOLITO DURAZZO,
GIO. CARLO BRIGNOLE,
AGOSTINO FIESCO,
PAOLO PALLAVICINO,
DOMENICO DEALBERTIS,
GIOVANNI QUARTARA,
MARCELLO MASSONE,
GIUSEPPE FRAVEGA,
LUCA SOLARI,
GIUSEPPE GANDOLFO,
senatori, sono eletti a formare il Governo provvisorio dello Stato Genovese, ed io invito ed ordino a tutti gli abitanti di qualunque classe e condizione, di prestar loro aiuto e obbedienza.
Dato dal mio Quartier Generale in Genova, questo giorno 26 Aprile 1814.
Il Comandante in Capo
W. C. BENTINCK









MANIFESTO DEL GOVERNO PROVVISORIO DI GENOVA DELLA SERENISSIMA REPUBBLICA DI GENOVA
"Gli avvenimenti, de' quali siamo stati testimonii, e l'insperato successo che oggi li compie, impongono al Governo il dovere di affrettarsi a far manifesti i sensi suoi non meno, che dell'intera Nazione Genovese.
Scampali per evidente protezione Divina da gravissimi pericoli, e restituiti, mercé la magnanimità del Governo Britannico, al nostro nome, alla Patria, a noi stessi, un solo unanime sentimento abbiamo tutti in cuore, quello della più giusta insieme e più viva riconoscenza. Grazie sieno adunque al Governo generoso, che preferisce con nuovo modo di trionfo alla gloria delle conquiste quella più solida della felicità dei Popoli: e grazie al Capo illustre, che degnamente lo rappresenta fra noi, e a cui si deve tanta parte di così gran benefizio. Popolo essenzialmente industrioso e commerciante, fummo noi sempre legati da naturali vincoli di amicizia coll'inclita Nazione Inglese; e se poi anzi non ci era permesso di palesarli, è ora ben dolce il poterli proclamare altamente.
Ma per assicurarci il potente appoggio di S. M. Britannica, per meritarsi la benevolenza delle alte Potenze alleate, che annunziano all'Europa il nobile disegno di ricomporre, qual era, l'antico suo edifizio sociale, sono ora più che mai necessarie, la tranquillità, l'unione, il concorde volere de' cittadini. Chi mai potrebbe essere così dimentico de' proprii doveri e de' proprii interessi, così nemico a se stesso ed a suoi, che volesse, con inopportuna diffidenza, compromettere quanto v'ha di più prezioso, la sperata indipendenza della Repubblica? Chi mai potrebbe, dopo sì tristo esperimento della dominazione straniera, non desiderare di vivere e morire in seno di una libera Patria? Governati da Leggi, che per quasi tre secoli resero felici i Padri nostri, modificate soltanto a pubblico vantaggio e a generale soddisfazione, noi siamo, quali le Potenze tutte d'Europa ci hanno in ogni tempo conosciuti, e quali lo richiede il voto della Nazione.
A compiere questo voto saranno costantemente diretti i pensieri del Governo, cui è affidato l'onorevole incarico di reggere, in questi primi e più gravi momenti, la Repubblica. Il secondarlo con illimitata fiducia, nelle sue rette intenzioni, a voi si appartiene. Abitanti di Genova, che nella ristorazione della Patria avete il prezzo sicuro di un miglior avvenire; e a voi del pari Abitanti tutti del restante Territorio, che ricongiunti all'antica famiglia, chiamati a parte delle cure pubbliche, scorgete pur una volta riuniti e confusi i vostri particolari interessi in un solo interesse comune. Potremmo così sperare che a giorni di servitù e di travaglio succedano ormai, se la Provvidenza lo conceda, giorni di risorgimento e di prosperità.
Palazzo del Governo, 28 Aprile 1814.
Il Presidente GIROLAMO SERRA".









NOTA
presentata li 11 maggio 1814
A PARIGI
AL VISCONTE CASTLEREAGH
DAL MARCH. AGOSTINO PARETO
Ministro Plenipotenziario della Repubblica di Genova

"Il sottoscritto Ministro Plenipotenziario ed Inviato Straordinario della Repubblica di Genova ha l'onore di sottomettere a S. E. Mylord Castlereagh, primo Segretario di Stato di S. M. Britannica, al Dipartimento degli Affari Stranieri, la Nota seguente:
I grandi avvenimenti che vengono di compiersi in Europa, e le risoluzioni magnanime annunciate dalle alte Potenze alleate, hanno risvegliate le speranze di tutti i popoli soggetti, negli ultimi anni, alla dominazione francese. Quelle della Nazione Genovese non hanno che un solo scopo, quello cioè di ricuperare la sua antica esistenza, momentaneamente sospesa.
Le speranze che il desiderio di scuotere un giogo sopportato impazientemente aveva sempre nudrito, aumentarono all'approssimarsi delle armate vittoriose di S. M. Britannica. Pieni d'una pari confidenza nelle disposizioni benefiche di tutte le alte Potenze alleate, nullameno i Genovesi non hanno potuto vedere senza la più viva gioia, che la loro sorte stava per dipendere più particolarmente da quella Nazione generosa colla quale ebbero, in tutti i tempi, dei rapporti sì stretti d'industria e di commercio. Così l'entusiasmo fu al suo colmo, e i clamori del popolo, e una dichiarazione dei notabili della Città, affrettarono forse il termine d'una resistenza inutile. Certo anche senza di queste circostanze, la liberazione di Genova non era meno assicurata dai trionfi delle armate Britanniche. Ma è onorevole per i Genovesi d'avervi in qualche parte cooperato essi stessi, e di avere altamente proclamato il ritorno alla loro antica indipendenza, e alle loro antiche leggi, essendo ancora, per così dire, sotto le baionette francesi.
Questo voto spontaneo è, non solamente il voto generale della Nazione, ve ne è bisogno. Posta in un territorio stretto e sterile, essa non ha che un solo mezzo d'esistenza, il commercio d'economia; e nella concorrenza dei porti vicini, il commercio non potrebbe aver luogo, secondo un sistema e regolamenti finanziarii, il meno onerosi possibili, tali quali esistevano altrevolte. L'antico Governo Genovese era per sua natura, il più economo e il meno costoso di tutti i Governi d'Europa; l'imposta vi era leggerissima, i diritti sopra il commercio pressoché insignificanti. Invano si nutrirebbe lusinga di conservare questo sistema, se Genova fosse retta da tutt'altra forma Governo, e meno ancora se essa fosse riunita a una Stato più esteso. Dei bisogni senza numero e senza misura verrebbero di nuovo a schiacciare questo infelice paese, che indebolito da quindici anni per perdite immense, sacrificate a interessi stranieri ai suoi, invece di veder rimarginare le sue piaghe, vedrebbe ben tosto diseccare per sempre le sorgenti della sua industria, e consumare la sua rovina.
Considerazioni sì gravi ricevono una nuova sanzione dalla lunga e felice esperienza che si è fatta dell'ordine delle cose di cui si invoca il ristabilimento. Durante più di due secoli e mezzo dopo il 1508, sino al 1797, esso ha fatto costantemente il bene della Nazione, che dopo lunghe tempeste, vi ha trovato il riposo che aveva vanamente cercato negli altri sistemi d'Amministrazione. Se qualche modificazione concernente le modificazioni d'eligibilità alle cariche pubbliche vi sono sembrate necessarie, il risultato di un comune accordo e d'una perfetta unanimità fra tutti i cittadini non sarà che meglio assicurata. Questo accordo e questa unanimità sono stati constatati da S. E. Lord Bentinck, che ha riconosciuto l'espressione legittima della volontà nazionale. Egli ha potuto egualmente riconoscere quale invincibile repugnanza inspirava una dominazione straniera, dopoché i falsi rumori della riunione di Genova ad uno Stato vicino si sparsero nella Città, la costernazione fu generale, e un giorno di festa mutò in un giorno di duolo, fino a che questi timori furono calmati dalla speranza che le dichiarazioni ripetute delle alte Potenze hanno dovuto far rinascere.
Infatti, i voti dei Genovesi sono intieramente conformi al grande disegno, che è stato il nobile scopo di tanti sforzi, quello di ricostrurre, sopra le sue antiche basi, l'antico edificio sociale dell'Europa. La Repubblica di Genova non è scomparsa, nel 1805, nel numero degli Stati indipendenti, che pel solo fatto della violenza. In diritto, essa non ha potuto cessare d'esistere, essendoché la riunione del suo territorio alla Francia non fu mai riconosciuta dagli altri Governi, e meno ancora dal Governo Britannico.
Per conseguenza, l'applicazione a questa Repubblica dei principii stabiliti dalle alte Potenze, non può essere dubbiosa. È anche in ragione della debolezza di questo piccolo Stato, che la loro magnanimità ne risplenderà di più.
Se, secondo i motivi d'una sì alta importanza, si potessero avventurare delle congetture, perciocché, a questo riguardo, sembra convenire agli interessi della Grande Bretagna, il sottoscritto si permetterebbe di osservare che tutti i modi di disporre dello Stato di Genova, quello di conservare l'antica Repubblica, sembra offrire i più utili risultati. Genova, riunita ad uno Stato continentale qualsiasi, potrebbe avere, suo malgrado, la sventura di venire ancora una volta la nemica dell'Inghilterra. Essa, Stato essenzialmente marittimo e pacifico, conservata sotto i potenti auspicii del Governo Britannico, ne sarebbe costantemente l'amica, e non rischierebbe mai di vedere i suoi interessi più preziosi compromessi di bel nuovo da un Governo continentale. Infine il commercio inglese non saprebbe trovare niun porto nel pagamento dei diritti, le agevolezze che un Governo così economo come quello di Genova potrà offrirli.
Ma egli è inutile d'insistere sopra simili considerazioni, dopo che l'illustre Capo delle Armate Britanniche in Italia, depositario delle intenzioni del suo Governo, è di già stato, per la sua proclamazione del 26 Aprile ultimo, il depositario della generosità inglese.
Il Governo Genovese osa per conseguenza lusingarsi che S. A. R. il Primo Reggente, sanzionando ciò che or ora venne fatto in suo nome per Lord Bentinck, degnerà concedere alla Repubblica di Genova la sua benevolenza, e quei buoni ufficii, presso le alte Potenze alleate, per farne riconoscere il ristabilimento del paro che l'integrità e la continuità del suo territorio, egualmente indispensabile per sua esistenza, e senza i quali esso non sarebbe che precario.
Il sottoscritto, raccomandando la sorte del suo paese ai principii liberali, che distinguono eminentemente l'Amministrazione di S. E. Mylord Castlereagh, ecc. ecc.
Sottoscritto AGOSTINO PARETO"





ALTRA NOTA
DELLO STESSO PARETO
AL SUDDETTO CASTLEREAGH
dei 18 maggio detto anno

"Le osservazioni concernenti lo Stato di Genova che S. E. Mylord Castlereagh ha voluto comunicare al sottoscritto nell'udienza che si è compiaciuto d'accordargli il 1O corrente, sembrano dar luogo a delle considerazioni che si fa un dovere di sottomettere a S. E. I fatti ai quali elleno sono appoggiate, possono essere verificati dagli Agenti Inglesi che si trovano a Genova, e non si dubita punto ch'essi non siano riconosciuti perfettamente conformi a ciò che si va ad esporre:
S. E. ha potuto credere che se in seguito degli accomodamenti che avrebbero luogo fra le Alte Potenze alleate, lo Stato di Genova fosse riunito al Piemonte, troverebbe in questa riunione dei vantaggi che potrebbero rifarlo della perdita della sua indipendenza. Ella ha potuto credere che il commercio riprenderebbe il suo corso, l'industria i suoi sbocchi ordinari e tutto il Paese la sua antica prosperità.
Il sottoscritto non saprebbe impedirsi d'osservare che dopo tutti i doni che lo stato attuale delle cose e i rapporti vicendevoli dei due paesi possono fornire, lungi dal lusingarsi che il successo rispondi a queste speranze, si ha fondamento di pensare che questa riunione avrebbe dei risultati i più disastrosi per lo Stato di Genova.
Dapprima gli interessi dei due paesi sono essenzialmente diversi. Il Piemonte è un paese agricolo; lo Stato di Genova non avendo che una stretta costa e di sterili roccie, è uno Stato necessariamente marittimo e commerciale; in Piemonte tutto si riferisce alle terre e ai prodotti territoriali; a Genova tutto deve rapportarsi ai capitali impiegali nelle intraprese commerciali e ai prodotti dell'industria, indipendentemente dalla massima generale che il commercio prospera di più nei paesi liberi, massima sì bene conosciuta in Inghilterra.
Si è di già avuto l'onore d'osservare a S. E. che il genere di commercio che tiene Genova, e s'occupa quasi esclusivamente, è quello di commissione e di transito, il quale, esigendo più agevolezze e meno impacci che sia possibile, è per sua natura il più difficile a conservare. Nella concorrenza dei porti vicini la preferenza che si dà dall'uno sopra all'altro dipende dai diritti meno onerosi o dalle formalità meno impaccianti ai quali si è soggetto. Il minimo aumento nei diritti, o la menoma fiscalità nei regolamenti basta per deviare questo commercio dal suo corso ordinario e per trapiantarlo altrove.
Le spese d'una corte e d'uno scalo militare traendo seco delle imposte considerevoli è facile prevedere che il peso ne ridonderebbe principalmente sul commercio. Gli interessi dell'antica parte della nazione non potrebbero che mancare di vincerla sopra quell'altra parte meno numerosa novellamente riunita. Così la perdita del commercio di Genova sarebbe la conseguenza infallibile di questa riunione.
Se qualche cosa poteva essere aggiunta all'annichilamento d'un solo mezzo d'esistenza del paese, la gelosia della capitale verso una città di cui essa avrebbe a temere la rivalità ne affretterebbe sempre di più la rovina. Genova spogliata dei vantaggi di essere il centro del governo, e perdendo ciascun anno una parte di sua popolazione per andar accrescere quella di Torino gli sarebbe costantemente sacrificata. Gli antichi Piemontesi riunirebbero tutte le cariche della corte tutti i profitti dell'amministrazione e i Genovesi ne diverrebbero gli iloti.
Mylord, V. E. riferendosi agli interessi generali dell'Europa ha annunciato che dopo gli avvenimenti che da sì lunghi tempi la scompigliano bisognava avere degli stati forti e offrenti per la loro estensione, una garanzia sufficiente contro le intraprese della Francia.
Se si potessero permettere delle riflessioni sopra sì grandi oggetti indipendentemente dalla cessazione dei timori ispirati da un sistema caduto per sempre con la caduta del suo autore, il sottoscritto crederebbe dover osservare che non è sempre l'estensione che fa la forza degli stati. La vera forza è là dove si trova l'unione, la concordia, lo spirito nazionale.
Questo spirito non esisterebbe costantemente nella nuova amalgama de' due popoli. Divisi per loro carattere, per le loro abitudini e per una antipatia invincibile frutto di due secoli, di quale politiche, ciò è invano che se vorrebbe fare una sola nazione. Lungi dal riunire i mezzi di forza e di difesa non si farebbe che riunire elementi di discordia e forse il Piemonte da solo sarebbe per se stesso più forte che se fosse riunito allo stato di Genova poiché in caso di guerra la corte di Torino non avrebbe punto a lottare nello stesso tempo contro i nemici esteri e contro i suoi nuovi sudditi impazienti di scuotere un giogo che la necessità sola lor farebbe sopportare.
Da una altra parte ristabilendo l'antico governo di Genova che malgrado le minaccie della Francia nel 1795 e nel 1796 non è giammai stato, fin che ha esistito, il nemico delle corti di Londra e di Vienna, e ponendosi questo governo in caso di guerra sotto la protezione immediata di quella fra le potenze alleate che vi ha un interesse più diretto come l'Inghilterra, si perverebbe allo stesso fine che si propone e che non si effettuerebbe forse dalla riunione col Piemonte.
Lo spirito nazionale che nell'ipotesi di questa riunione agirebbe a Genova in un senso opposto al governo piemontese o che almeno sarebbe infinitamente soffocato, si svilupperebbe al contrario col più grande vigore se la repubblica fosse ristabilita. seconderebbe utilmente i mezzi di difesa a prendersi per preservare l'Italia da tutti i tentativi tendenti a rinnovarvi gli avvenimenti degli ultimi anni. Stato puramente marittimo non avente risorse che per il commercio, legato per la sua riconoscenza come per il suo interesse alla Gran Bretagna, come Genova potrebbe partirsi ella dal sistema politico che solo ne assicurerebbe l'esistenza? Divenuta in certa qual guisa una città inglese essa sarebbe in tempo di pace il centro del Commercio dell'Inghilterra nel Mediterraneo ed in tempo di guerra l'asilo delle sue flotte. Il suo porto, il golfo della Spezia, quello di Vado, presentano, se ve ne è bisogno, altri pegni che il suo interesse, la migliore garanzia che il governo britannico possa desiderare, senza dover ricorrere a una misura distruttiva del paese.
S. E. ha osservato in ultimo luogo che il territorio genovese mostrandosi come un semplice stabilimento di commercio, Genova potrebbe essere limitata, come le Città anseatiche, a un circondario meno esteso.
Ha potuto essere indifferente per il commercio delle Città anseatiche ch'esse abbiamo o non abbiamo punto di territorio, percioché, dopo la loro posizione geografica, questo commercio non saprebbe loro essere tolto. Ma non è punto lo stesso per Genova deposito generale delle mercanzie di ogni specie, essa approvigiona in derrate coloniali, in prodotti di pesca, in prodotti di manifatture inglesi o altre, tutte le parti dell'Alta Italia che s'estende verso l'ovest, e che comprende il Piemonte, il Milanese, e gli stati di Parma, Piacenza e Modena.
Spedisce queste merci inoltrandole nella Svizzera dalla quale riceve come che dalla Germania delle sete e altri articoli che indi spedisce in Spagna, in Sicilia, e Sardegna. E adunque il transito che forma il suo commercio, e questo transito non avrebbe più luogo per Genova se una parte del suo territorio fosse cessa a delli stati vicini: L'interesse di questi stati sarebbe di appropriarsi questo commercio, e lo potrebbe facilmente formando le due riviere da una parte e dall'altra dei punti favorevoli per stabilimenti commerciali. Gli basterebbe di proibire il transito pel loro territorio di tutto ciò che verrebbe per la via di Genova e questi nuovi stabilimenti si eleverebbero sopra le sue rovine. Genova isolata, oppressa dal bisogni, ridotta dall'enorme diminuzione de suoi capitali colle sue ultime risorse non potrebbe più sollevarsi. Aggiungendo ancora a tutte le perdite quella del suo territorio essa non avrebbe più che un'esistenza precaria; quando invece conservandola tale quale era non solamente la sua esistenza è assicurata, ma si compiono anche i voti di tutte le popolazioni dello stato anche più lontane (come quelle di Ventimiglia, e di S. Remo) che non aspirano che a restare riunite alla loro antica famiglia.
Riassumendo le diverse osservazioni che il sottoscritto ha avuto l'onore di sottomettere a S. E. Mylord Castlereagh, si lusinga di aver provato che la riunione di Genova al Piemonte porterebbe la rovina di questo paese senza alcun vantaggio reale per le viste delle alte Potenze alleate; che queste viste saranno egualmente e meglio compiute per lo ristabilimento della Repubblica e con degli accomodamenti proprii ad assicurare in caso di guerra al governo britanico la conservazione dei porti e golfi della Liguria, e infine che non saprebbe Genova separarsi dal suo territorio senza annientare il suo commercio e senza rischiare per conseguenza di consumare quella rovina che avrebbe voluto evitare.
Il sottoscritto
Firmato PARETO."









PROCLAMA
DEL
GENERALE BENTINCK
che nomina il grande e piccolo Consiglio del Governo Provvisorio

"Il Governo Provvisorio stabilito col mio Proclama dei 26 aprile scorso, continuerà nell'esercizio delle sue funzioni fino a che il Congresso che deve tenersi a Vienna dalle Alte Potenze alleate, abbia terminate le sue operazioni.
I signori Domenico Dealbertis, Giuseppe Fravaga, e Marcello Massone, membri del detto Governo Provvisorio, essendosi dimessi dalla loro carica, nomino in loro vece i signori Giuseppe Negrotto, ed Antonio Dagnino di Genova, e Grimaldo Olduini della Spezia.
In adempimento dell'Art. 5 del detto mio Proclama le persone sotto indicate sono destinate per i due terzi del Gran Consiglio, e li primi 67 per i due terzi del piccolo Consiglio, fra quali persone saranno presi coloro che abbisognassero per supplire alle vacanze, che occorressero nel Governo Provvisorio nella maniera indicata dalla Costituzione.
----------
Pasquale Adorno.
Nicolò Ardizzone.
Marcello Aste d'Albenga.
Niccolò Arduino di Diano.
Giambattista Alizeri di Finale.
Francesco Amati di Sarzana.
Francesco Arnaldi di Finale.
Giuseppe Assereto di Rapallo.
Domenico Balbi.
Giovanni Biale di Celle.
Gio. Carlo Brignole.
Antonio Brignole.
Agostino Borlasca di Gavi.
Giambattista Carrega q. Francesco Maria.
Giuseppe Cattaneo.
Lorenzo Centurione.
Giacomo Causa.
Giuseppe Chiesa.
Girolamo Cattaneo.
Girolamo Casanuova
Giulio Castagnola della Spezia.
Giambattista Carrega q. Giacomo Filippo.
Luigi Carbonara.
Giambattista Centurione.
Giuseppe Caimi di S. Stefano.
Innocenzo Candia di Gavi.
Marcello Durazzo q. Giacomo Filippo.
Domenico D'Albertis.
Francesco Doria q. Brancaleone.
Marcello Durazzo di Giuseppe.
Giuseppe Fravega.
Marc'Anlonio Ferrari di Finale Marina.
Giuseppe Gandolfo.
Raffaele Guernieri del Porto Maurizio.
Luigi Grimaldi.
Francesco Gropallo.
Giuseppe Grimaldi.
Cristoffaro Gandolfo di Chiavari.
Francesco Gazzano di Novi.
Pietro Gavotto di Savona.
Franccsco Gismondi di S. Remo.
Marco Lomellino.
Marcello Massone.
Francesco Massone.
Francesco Molfino di Rapallo.
Francesco Morando q. Pietro.
Agostino Montesisto di Savona.
Stefano Mari.
Gio. Carlo Dinegro.
Francesco Negrone q. Ambrogio.
Gaetano Olandini di Sarzana.
Francesco Orengo di Ventimiglia.
Alessandro Pallavicini q. Stefano.
Gio. Batta Pizzorno.
Filippo Pescia.
Gio. Batta Penco
Alberto Pavese di Novi.
Benedetto Perasso.
Luigi Peloso di Novi.
Filippo Raggio di Giulio.
Stefano Rivarola.
Giuseppe Romano di Gavi.
Gio. Carlo Serra q. Domenico.
Paolo Spinola q. Nicolò.
Pompeo Sartorio.
Cottardo Solari.
Vincenzo Spinola.
Agostino Adorno.
Guglielmo Acquarone di Porto Maurizio.
Costantino Balbi.
Emanuele Balbi.
Benedetto Baglietto.
Lorenzo Boggiano.
Francesco Buffa di Ovada.
Vincenzo Berada di Novi.
Francesco Botti di Lerici.
Domenico Bernucci di Sarzana.
Gio. Batta Botta di Rapallo.
Francesco Bianchetti di Chiavari.
Giuseppe Boagni di Finale Marina.
Pietro Baldassare della Pietra.
Sebastiano Borelli della Pieve.
Gio. Batta Borea di S. Remo.
Felice Benedetti q. Angelo di Sarzana.
Francesco Cattaneo.
Gaetano Cambiaso.
Michel'Angelo Cambiaso.
Nicolò Cattaneo Grillo.
Lanfranco Cattaneo q. Leonardo.
Giuseppe Cambiaso
Nicolò Calzia.
Giacomo Causa.
Paolo Francesco Curotto.
Ottavio Cattaneo di Novi.
Carlo Carlini di Novi.
Francesco Camusso di Novi.
Girolamo Copello di Chiavari.
Stefano Castagnola di Lavagna.
Carlo Colonna di Savona.
Carlo Carenzi di Finale Borgo.
Gio. Batta Cavazzola di Finale Borgo.
Gio. Batta Costa di Beverino.
Carlo Dongo q. Gian. Francesco.
Giuseppe Durazzo q. Marcello.
Marcello Durazzo d'Ipolito.
Gio. Luca Durazzo q. Giacomo Filippo.
Luigi Degola q. Gio. Pietro.
Domenico Del Carretto.
Tomaso De-Nobili della Spezia.
Bartolomeo Della Casa di Celle.
Benedetto De Franchi.
Giuseppe Decamilli.
Giuseppe De-Simoni del Cervo.
Pietro Ferreri d'Alassio.
Luigi Franchelli di Finale Marina.
Giovanni Federici della Spezia.
Gio. Batta Ferro di Varazze.
Giovanni De-Fornari q. Bernardo.
Carlo Farina.
Matteo Franzoni di Domenico.
Gio. Batta Ferro.
Giuseppe De-Franchi q. Francesco.
Gio. Antonio Gentile.
Raffaele Guernieri.
Filippo Gentile q. Angelo.
Ipolito Giustiniani di Alessandro.
Alessandro Giustiniani.
Costantino Gropallo.
Giuseppe Ghillini.
Pietro Grillo di Ovada.
Paolo Germi di Ameglia.
Pietro Gnecco.
Giovanni Grillo di Moneglia.
Luigi Imperiale Lercari q. Andrea.
Domenico Imperiale Lercari q. Andrea.
Francesco Isengard della Spezia.
Nicolò Littardi del Porto Maurizio.
Giovanni Lengueglia d'Albenga.
Domenico Lazzotti di Castronuovo.
Gio. Batta Mari q. Nicolò.
Gio. Batta Morando q. Francesco.
Giacomo Masnata.
Stefano Mari.
Pietro Merani.
Pietro Monticelli.
Gio. Batta Molini.
Mario Marini di Sestri.
Luigi Multedo di Savona.
Cristoffaro Musso di Laigueglia.
Stefano Maglione di Laigueglia.
Bendinelli Negrone q. Carlo.
Giuseppe Oneto q. Giacomo.
Alessandro Pallavicini q. Bendinelli.
Stefano Pesagno.
Luigi Pareto.
Domenico Pallavicini q. Stefano.
Giovanni Podestà.
Stefano Piccardo q. Giuseppe.
Vincislao Piccardo.
Francesco Pavese di Novi.
Luigi Peloso di Novi.
Manfredi Pavese di Novi.
Francesco Pernigotti di Novi.
Antonio Panario di Novi.
Camillo Picedi della Spezia.
Nicolò Peloso d'Albenga.
Antonio Giulio Raggio.
Gio. Batta Ricci.
Gio. Antonio Raggio.
Luigi Remedi q. Bartolomeo.
Filippo Raggio q. Ottavio.
Girolamo Ricci.
Ambrogio Rezzo di Gavi.
Antonio Raffo q. Gio. Batta di Deiva.
Gio. Andrea Repetto di Chiavari.
Emmanuele Ricci Borca d'Albenga.
Agostino Spinola.
Paolo Francesco Spinola q. Nicolò.
Ipolito Spinola q. Andrea.
Cristoffaro Sauli.
Paolo Sauli.
Francesco Serra.
Gio. Pietro Serra q. Giacomo.
Filippo Spinola.
Francesco Serra Gerace q. Gio.Batta.
Massimiliano Spinola q. Agostino.
Onofrio Scassi.
Paolo Spinola q. Pier Francesco.
Gio. Batta Serra q. Giacomo.
Giacomo Spinola q. Francesco.
Paolino Sauli di Novi.
Mario Scofferi d'Alassio.
Vincenzo Serra q. Giacomo.
Ambrogio Scorza di Voltaggio.
Michele Tealdi.
Paolo Girolamo Torriglia.
Giuseppe Tiboldi di Novi.
Gio. Batta Tagliaferro di Laigueglia
Gio. Andrea Vaccari di Novi
Leopoldo Vinzone di Levante
Dato dal mio Quartier Generale in Genova questo dì 31 Luglio 1814.
W. C. BENTINCK"









NOTA
DEL GOVERNO PROVVISORIO
DEL GENOVESATO

Dei 3 Ottobre 1814, presentata dal Marchese ANTONIO BRIGNOLE SALE Ministro plenipotenziario ed inviato straordinario di esso Governo, agli Ambasciatori Ministri plenipotenziari dei sovrani collegati, componenti il Congresso di Vienna.
"Il Governo Provvisorio dello stato di Genova è stato informato d'una maniera pressoché officiale, che la riunione di questo stato indipendente al Piemonte non è più un di quei rumori politici che eccitarono non ha guari i suoi allarmi ma un progetto reale, una proposta formale che va ad essere sottomessa al Congresso.
Non v'ha dunque più che un momento a perdere, egli deve dichiarare solennemente a questa illustre assemblea e ai suoi augusti sovrani che l'hanno convocata che la riunione al Piemonte è una misura affatto disapprovata dalla nazione Genovese. Esso deve invocare con rispetto e confidenza i principii immutabili che le alte Potenze hanno proclamato in questa lotta gloriosa, in cui i consigli della giustizia e della generosità hanno preso il disopra sulle combinazioni della violenza e dell'oppressione.
Le promesse fatte in faccia dell'Europa scossa sopra le sue antiche basi, di ristabilire ciò che era stato distrutto, di rendere agli stati oppressi la loro forma primitiva non è stata fatta in vano, la mano che loro è stata tesa per rilevargli e garantirli per sempre da una nuova oppressione, non potrebbe loro essere ritirata senza lacerare e calpestare una delle più belle pagine dell'istoria.
Ma se quei popoli che erano da poco indipendenti hanno dovuto contare sopra una dichiarazione così solenne, qual altro popolo potrebbe avere dei diritti a questa più sacri che il Genovese?
E sopra il suo territorio ove è entrato con questa dichiarazione alla mano, un generale inglese onorato da più anni della confidenza del suo governo sia nelle operazioni militari sia sulle transazioni politiche.
Esso stesso ha riconosciuto coi propri occhi ed ha altamente proclamato che il voto generale dei Genovesi era di ricuperare la libertà, la prosperità, l'indipendenza e di fondare un governo per assicurarne il ritorno. I diversi ordini dello stato vi hanno concorso, gli abitanti della capitale come quelli dei comuni i più lontani si sono associati col loro voto, colla loro devozione e coi sacrificii agli sforzi e ai sudori dei loro capi. Tutte le corti ne sono state informate. Il Parlamento della Gran Brettagna ne ebbe a risonare, né vi si è opposto. Ed è dopo sei mesi di una nuova era di tranquillità di commercio, e di prosperità e in mezzo della più profonda sicurezza pel passato e delle più alte speranze per l'avvenire, che il congresso, questa illustre assemblea sopra la quale riposa la giustizia delle potenze e la felicità del mondo, attossicava ad un tempo tutto il contento del passato e tutte le speranze dell'avvenire.
No questa illustre assemblea, questi augusti sovrani non lo vorranno punto e se le forme repubblicane {che non di meno sono le più proprie a un piccolo stato essenzialmente commerciale) non possono essere ammesse nel sistema generale dei loro ordinamenti, essi conserveranno almeno l'indipendenza dei Genovesi e lor daranno un principe particolare, stretto in alleanza presso alle auguste case che reggono l'Europa come son quelle che fanno la delizia dei popoli della Toscana, dei Modenesi, o che regnavano già sugli stati di Piacenza e di Parma. I mali inseparabili d'una dominazione straniera sono troppo recenti e troppo profondamente impressi nei cuori dei Genovesi per sottomettersi senza ripugnanza e senza lamento.
Un paese agricolo e militare è essenzialmente contrario agli interessi d'un paese commerciale, la nazione è più che mai affezionata alle sue antiche abitudini, a' suoi costumi, alla sua bandiera al suo vessillo, quel vessillo che altre volte copriva il mare colle sue flotte vittoriose. Essa implora la bontà, essa riclama la giustizia e le promesse memorabili delle alte Potenze alleate.
Essa non esita punto a indirizzarsi al ministro di S. M. Sarda che sa come chicchessia la vera grandezza è fondata sopra la felicità, e che la potenza non si misura dall'estensione degli stati, ma piuttosto per l'attaccamento e la fedeltà dei popoli.
Il Presidente del Governo Provvisorio
GIROLAMO SERRA."





AL MINISTRO BRIGNOLE.
"1814, 12 novembre Abbiamo ricevuto il vostro dispaccio de' 26 dello scorso mese, N.° 13. Si sperava che l'interessante conferenza tenuta da voi col Conte di Nesselrode e l'attenzione che il signor Principe di Metternich avea data alla vostra Memoria, a tenore del vostro dispaccio N.° 12, avrebbero avuto qualche risultato maggiore. Il primo sembrava avervi lusingato di parlare al suo Sovrano e di darvi risposta sul nostro indirizzo, e sulla vostra presentazione a S. M. l'Imperatore Alessandro. Il secondo pareva porgere qualche lusinga di un cambiamento a nostro favore e di una prossima udienza. Sarà probabilmente col prossimo corriere che ricaveremo qualche contezza d'ambe le pratiche. Vorremmo ancora con la medesima occasione sentire se la nostra Nota sia stata presentata a tutti i Ministri del Congresso.
Quanto a ciò che concerne le carte che ci richiedete nell'ultima vostra, quelle che ci verrà fatto di radunare vi si spediranno col prossimo corriere, ma per vostro uso particolare; imperciocché il Governo, sull'interpello del sottoscritto e dopo un maturo esame, ha deliberato che non desistiate, per qualunque minaccia o lusinga, dal reclamare l'indipendenza e l'integrità del Genovesato, che la sola violenza, tanto più e sì giustamente detestata dalle alte Potenze contraenti, ha potuto torre a una nazione, la cui indipendenza è tanto antica quanto quella di parecchi e più rispettabili Stati d'Europa; ed ha espressamente presa la deliberazione e commesso a noi di comunicarvela che quando anche foste sicuro che i plenipotenziari del Congresso avesser decisa la riunione del Genovesato agli stati di una Potenza straniera, la proposizione de' privilegi da accordarsi agli abitanti del Genovesato non porti il nome del nostro Governo, ma sia una semplice carta senza sottoscrizione.
Siffatta deliberazione vi farà chiaro vedere, e il vostro cuore affezionato alla patria esulterà in conoscere, quanto prema al Governo l'indipendenza e l'onor nazionale, e quanto sia guardingo, con una proposizione fatta in suo nome, di somministrare un pretesto ad affermare che il popolo genovese, o chi lo rappresenta, abbia acconsentito alla perdita di ciò che di più caro e sacro hanno i popoli genovesi.
Nell'ipotesi espressa di sopra, e nella maniera soltanto ivi indicata, l'articolo 5 che incomincia con le parole: Il continuera a n'y avoir qu'un Port-franc, dovrebbe essere espresso: Il n'y avoir qu'un Port-franc, ecc, il porto d'Oneglia essendo stato recentemente dichiarato libero e franco per un decreto di S. M. Sarda.
E dal Signore Iddio ecc.
GIROLAMO SERRA PRESIDENTE."









La Giunta degli Affari Esteri
al Ministro Brignole
a Vienna

"1814, 26 novembre Ci affrettiamo di accusare la ricevuta del vostro dispaccio N.° 15. Fra i risultati dispiacevoli delle vicende politiche che minacciano la nostra indipendenza, è stata di qualche sollievo la nuova che i vostri poteri sieno stati registrati; quale inserito nella Gazzetta di Genova gioverà a calmare gli animi messi già in agitazione dell'arrivo di Lord Bentink, che apportatore dicevasi della temuta riunione. Riconosciuto così in legal forma il Governo vostro committente, non si tratta più di ricusare di riconoscerlo, bisogna adesso distruggerlo - e la distruzione è cosa affatto contraria a chi si è preso solennemente l'assunto di voler ricomporre ogni cosa -. Sembraci che l'Inghilterra dovrebbe pur persuadersi che i piccoli stati marittimi, ammaestrati da una trista e lunga esperienza, devono aderire a lei sola; laddove questo Stato medesimo, se sia riunito ad un più vasto e continentale, sarà urtato da contrari interessi e strascinato dietro al più forte.
Il progetto sulla Banca di S. Giorgio non essendo stato ancora approvato, non possiamo mandarvi i richiesti documenti.
E dal Signore Iddio vi auguriamo ecc.
GIROLAMO SERRA."









PROTESTA E ABDICAZIONE
DEL
GOVERNO PROVVISORIO DI GENOVA
Del 26 Dicembre 1814

"La speranza di rendere alla nostra cara patria il suo splendore primitivo, ci ha fatto accettare le redini del governo.
Tutto sembrava giustificare il nostro intento: i Proclami d'un generale inglese troppo generoso per abusare della vittoria, troppo illuminato per porre innanzi il diritto dubbioso di conquista, le prerogative imprescrittibili d'un popolo, di cui l'indipendenza s'attacca al principio di sua storia, e forma una base dell'equilibrio d'Italia, garantito nell'ultimo trattato d'Aquisgrana, l'evidente nullità di sua riunione a un impero oppressore poiché vi si ammise il principio che il consentimento degli abitanti era indispensabile e che si conta come avessero dato lor voto in favore di questa riunione, tutti quelli che non avevano punto votato; la dissoluzione di questo impero, soprattutto la garanzia delle alte Potenze alleale dichiaranti d'innanzi all'universo attento e riconoscente che era tempo che i governi rispettassero loro indipendenza reciproca; che un trattato solenne, una pace generale andrebbe ad assicurare i diritti e la libertà di tutti, ristabilire l'antico equilibrio in Europa, garantire il riposo e la libertà dei popoli, e prevenire le invasioni che già da tanto tempo hanno desolato il mondo.
Dopo queste dichiarazioni memorabili, dopo una amministrazione assai felice per aprire le primiere sorgenti della prosperità nazionale, dopo che lo stato ha ripreso senza ostacoli tutte le insegne della sovranità, e che la sua antica bandiera ha sventolato su tutte le coste, ed è stata ricevuta in tutti i porti del Mediterraneo, noi siamo stati altrettanto sorpresi che profondamente afflitti di sapere la risoluzione del Congresso di Vienna, portante la riunione di questo stato a quello di S. M. il Re di Sardegna.
Tutto ciò che poteva fare per i diritti del suo popolo un governo spogliato di tutti gli altri mezzi che quello della ragione e della giustizia, la nostra coscienza ci rende testimonianza, e le prime corti dell'Europa ne sono bene informate che noi l'abbiamo fatto senza riserva e senza esitazione.
Non ci resta adunque più che a compiere un tristo ed onorevole dovere, quello di protestare che i diritti dei Genovesi all'indipendenza possono essere sconosciuti, ma non saprebbero essere annientati.
Questo atto conservatorio non ha nulla di opposto al profondo ed inviolabile rispetto di cui siamo penetrati per le alte Potenze contrattanti nella capitale dell'Austria, ed è dettato dal sentimento intimo e irresistibile del nostro dovere, ed è tale che ogni stato libero posto in simili circostanze l'avrebbe desiderato da' suoi primi magistrati; come i nostri rispettabili vicini l'annuncierebbero, forse se accadesse mai (e il corso impenetrabile dei tempi può un giorno condurre quest'avvenimento) che la loro capitale fosse trasportata sopra una terra straniera, e il lor paese riunito ad un stato più possente.
Il nostro compilo è finito, noi abdichiamo senza disgusto il potere che ci era stato confidato sotto i migliori auspicii. Le autorità amministrative, municipali, e giudiziarie continueranno a esercitare le loro funzioni, le transazioni commerciali seguiranno il loro solito corso; il popolo sarà tranquillo e meriterà, per l'attitudine convenevole in queste gravi circostanze, la stima del principe che viene a governarlo, e l'interesse delle potenze che prendono parte al nostro destino.
Il Presidente del Governo
Sottoscritto
GIROLAMO SERRA."









PROCLAMA
DEI GOVERNATORI E PROCURATORI
DELLA SERENISSIMA REPUBBLICA Dl GENOVA

"Informati che il Congresso di Vienna ha disposto della nostra Patria riunendola agli Stati di S. M. il Re di Sardegna risoluti dall'una parte a non lederne i diritti imperscrittibili, dall'altra a non usar mezzi inutili e funesti, Noi deponiamo un'Autorità che la confidenza della Nazione e l'acquiescenza delle principali Potenze avevano comprovata.
Ciò che può fare per i diritti e la restaurazione de' suoi popoli un Governo non d'altro fornito che di giustizia e ragione, tutto, e la nostra coscienza lo attesta e le Corti più remote lo sanno, tutto fu tentato da noi senza riserva e senza esitazione. Nulla più dunque ci avanza se non raccomandare alle Autorità Municipali, Amministrative e Giudiziarie l'interino esercizio delle loro funzioni, al successivo Governo la cura delle truppe che avevamo cominciato a formare, e degl'Impiegati che han lealmente servito; a tutti i Popoli del Genovesato la tranquillità, della quale non è alcun bene più necessario alle Nazioni.
Riportiamo nel nostro ritiro un dolce sentimento di riconoscenza verso l'Illustre Generale che conobbe i confini della vittoria, e una intatta fiducia nella Provvidenza Divina che non abbandonerà mai i Genovesi.
Dal Palazzo del Governo, li 26 Dicembre 1814.
GIROLAMO SERRA
Presidente del Governo
Senatori:
FR. ANTONIO DAGNINO,
IPPOLITO DURAZZO,
CARLO PICO,
PAOLO GIROLAMI PALLAVICINI,
AGOSTINO FIESCHI,
GIUSEPPE NEGROTTO,
GIOVANNI QUARTARA,
DOMENICO DEMARINI,
LUCA SOLARI,
ANDREA DEFERRARI,
AGOSTINO PARETO,
GRIMALDO OLDOINI.









PROCLAMA
DEL
COLONNELLO JOHN P. DALRYMPLE Comandante le Truppe di S. M. B.
NEL GENOVESATO

"Il Governo temporaneo di Genova eletto dal Generale Bentinck a' 26 del passato Aprile, avendo in me rassegnato l'autorità sua, io pubblicamente dichiaro, che il governo anzidetto ebbe mai sempre operato pel bene e per la prosperità de suoi concittadini.
Essendomi stato commesso dal Principe reggente della Gran Bretagna di consegnare il governo degli stati genovesi ai governanti deputati a riceverli dal re subalpino, in conformità delle deliberazioni prese dal Congresso di Vienna, le quali assegnano questi stati al menzionato re, io ordino che tutti gli abitatori dei territori genovesi ubbidiscano alle presenti autorità amministrative, municipali e giudiziarie, in fin che meglio a me sia conosciuta la volontà del re subalpino.
L'ordine e la concordia che qui durarono fra cittadini d'ogni grado durante il mio dimorare in mezzo a loro, saranno, non ne dubito, mantenuti anche in questa mutazione. Egli è frattanto con vero piacere, che io annunzio una prossima prosperità a questo paese, guarantita dai privilegi inseriti nell'atto di cessione, e dal governo paterno di un re, la cui sola cura sarà di assicurare la felicità de' suoi cari sudditi.
Genova li 27 dicembre 1814
Il Colonnello
JOHN P. DALRYMPLE. "





ALTRO PROCLAMA
DEL
COLONNELLO JOHN P. DALRYMPLE

Visto il mio Proclama del 27 Dicembre del caduto anno;
E S. M. il Re di Sardegna avendo dichiarato a me che S. E. il Cav. Ignazio Thaon di Revel e Sant'Andrea, Conte di Pratolungo, Luogo-tenente generale delle sue armate, è stato nominato per amministrare il Governo dello stato Genovese e delli
feudi imperiali inclusi nel Governo Provvisorio di Genova, in conformità della risoluzione presa dal Congresso di Vienna sotto la data del 12 dicembre p. p.
Rimetto nelle sue mani il detto Governo, ingiungendo a tutte le Autorità di ubbidire alli suoi ordini, dichiarando in questa nuova occasione le mie particolari testimonianze di soddisfazione per la loro condotta, e i sentimenti del mio Sovrano per la futura prosperità de' Genovesi.
Genova, li 7 gennaio 1815
Il Colonnello Comandante le Truppe di S. M. B. nel Genovesato
JOHN P. DALRYMPLE."









RIUNIONE DI GENOVA AL PIEMONTE
(Atto del Congresso di Vienna - Art. 86. 87. 88. 89)

"ART. 86. Gli stati che componevano la già Repubblica di Genova, sono riuniti in perpetuo alli stati di S. M. il Re di Sardegna, per essere come questi posseduti da esso in tutta la sovranità, proprietà ed eredità, di maschio in maschio, per ordine di primogenitura nei due rami di sua Casa, cioè il ramo reale e ramo di Savoia-Carignano.
ART. 87. S. M. il Re di Sardegna aggiungerà ai suoi titoli quello di Duca di Genova.
ART. 88. I Genovesi goderanno di tutti i diritti e privilegii specificati nell'atto intitolato: condizioni che devono servire di base alla riunione degli stati di Genova a quei di S. M. Sarda, ed il detto atto tale quale si trova annesso a questo trattato generale, sarà considerato come parte integrante di questo e avrà la stessa forza e valore che se fosse testualmente inserito nell'articolo precedente.
ART. 89. I paesi nominati
feudi imperiali che erano stati riuniti alla già Repubblica ligure, sono riuniti definitivamente agli stati di S. M. il Re di Sardegna, della stessa maniera che il resto degli stati di Genova; e gli abitanti di questi paesi goderanno degli stessi diritti e privilegii che quelli dello stato di Genova designati nell'articolo precedente.









Condizioni
che devono servir
alla riunione
degli Stati di Genova a quelli di S. M. Sarda
concordate dalle Potenze Alleate nel Congresso di Vienna

"Art. 1. I Genovesi saranno in tutto pareggiati agli altri sudditi del Re. Parteciperanno come questi degli impieghi civili, giudiziarii, militari e diplomatici della Monarchia, e salvo i privilegi, che loro sono sotto concessi ed assicurati, saranno sottomessi alle stesse leggi e regolamenti, con le modificazioni che S. M. crederà convenienti. La Nobiltà genovese sarà ammessa come quella delle altre parti della Monarchia alle grandi cariche ed agli impieghi della Corte.
Art. 2. I militari genovesi componenti attualmente le truppe genovesi, saranno incorporati nelle truppe reali, e gli ufficiali conserveranno i loro rispettivi gradi.
Art. 3. Le armi di Genova faranno parte dello stemma reale, e i loro colori entreranno nella bandiera di S. M.
Art. 4. Il Porto Franco di Genova sarà ristabilito coi regolamenti, che vigevano sotto l'antico Governo genovese.
Ogni agevolezza sarà data dal Re per il transito ne' suoi Stati delle merci uscenti dal Porto Franco, prendendo quelle precauzioni che S. M. giudicherà convenienti, affinché le dette merci non siano vendute o consumate di contrabbando nell'interno. Esse non saranno soggette che ad un dritto di modico uso.
Art. 5. Sarà stabilito in ciascun circondario d'Intendenza un Consiglio provinciale di trenta membri scelti fra i notabili delle diverse classi, sopra una lista di trecento dei maggiori contribuenti di ciascun circondario: essi saranno nominati la prima volta dal Re, e rinnovati nello stesso modo per una quinta parte ogni due anni.
La sorte deciderà dell'uscita dei primi quattro primi quinti: l'organizzazione di questi Consigli sarà regolata da S. M.
Il Presidente nominato dal Re, potrà essere preso fuori del Consiglio. In tal caso non avrà il diritto di votare.
I membri del Consiglio non potranno essere rieletti che quattro anni dopo la loro uscita.
Il Consiglio non potrà occuparsi che dei bisogni e dei richiami dei Comuni dell'Intendenza, in ciò che concerne la loro particolare amministrazione, e potrà fare delle rappresentanze a quest'oggetto.
Si riunirà ogni anno nel Capo Luogo dell'Intendenza all'epoca e per il tempo che S. M. determinerà. S. M. lo riunirà anche straordinariamente, se giudica ciò conveniente. L'Intendente della Provincia, o colui che ne tien luogo, assisterà di diritto alle sedute, come Commissario del Re.
Allorquando i bisogni dello Stato esigeranno lo stabilimento di nuove imposte, il Re riunirà i differenti Consigli provinciali in quella città dell'antico territorio genovese che S. M. designerà, e sotto la presidenza di quella persona, che avrà designato a tal uopo. Il Presidente quando sarà eletto fuori del Consiglio, non avrà voce deliberativa. Il Re non manderà a registrarsi al Senato di Genova alcun editto portante creazione d'imposte straordinarie, se non dopo aver ricevuto il voto d'approvazione dei Consigli provinciali riuniti come qui sopra.
La maggiorità di un voto determinerà il voto dei Consigli provinciali radunati separati o riuniti.
Art. 6. Il maximum delle imposte, che S. M. potrà mettere nello Stato di Genova, senza aver ricorso ai Consigli provinciali riuniti non potrà eccedere la proporzione attualmente stabilita per le altre parti dei suoi Stati. Le imposte, che attualmente si riscuotono, saranno portate a tal misura, e S. M. riserbasi di fare quelle modificazioni che la sua saggezza e la sua bontà verso i sudditi genovesi potranno dettarle a riguardo di ciò che può essere ripartito, sia sui carichi finanziarii, sia sulle percezioni dirette od indirette. Il maximum delle imposte così regolato, ogni qual volta il bisogno dello Stato richiegga nuove imposte o carichi straordinarii, S. M. domanderà l'approvazione dei Consigli provinciali per la somma che giudicherà conveniente di proporre, e per la specie d'imposta a stabilire.
Art. 7. Il debito pubblico, tal quale esisteva legalmente sotto l'antico Governo francese, è garantito.
Art. 8. Le pensioni civili e militari concesse dallo Stato (conforme alle leggi e ai regolamenti) sono conservate per tutti i sudditi genovesi abitanti gli Stati di S. M.
Art. 9. Vi sarà a Genova un gran Corpo giudiziario, o Supremo Tribunale colle stesse attribuzioni e privilegii di quelli di Torino, Savoia e Nizza, e che porterà come essi il titolo di Senato.
Art. 10. Le monete correnti d'oro e d'argento dell'antico Stato di Genova attualmente esistenti saranno ammesse nelle casse pubbliche unitamente alle monete piemontesi.
Art. 11. Le leve d'uomini dette provinciali nello Stato di Genova non eccederanno in proporzione le leve, che avranno luogo negli altri Stati di S. M.: il servizio di mare sarà contato come quello di terra.
Art. 12. S. M. creerà una compagnia genovese di guardie del Corpo la quale formerà una quarta compagnia delle sue guardie.
Art. 13. S. M. stabilirà in Genova un Corpo di Città composto di quaranta nobili, di venti borghesi viventi delle rendite proprie o esercenti arti liberali, e venti dei principali negozianti.
Le nomine saranno fatte la prima volta dal Re, e i rimpiazzi si faranno dal Capo stesso della città sotto la riserva dell'approvazione del Re.
Questo corpo avrà i suoi regolamenti particolari dati dal Re per la residenza e per la divisione del lavoro. I presidenti prenderanno il nome di Sindaci e saranno scelti fra i membri; il Re si riserva, tutte le volte che giudicherà opportuno, di far presiedere il Corpo di Città da un personaggio di grande distinzione.
Le attribuzioni del Corpo di Città saranno l'amministrazione delle rendite della città, la sopraintendenza della piccola polizia della Città, la sorveglianza sugli Stabilimenti pubblici di carità della Città. Un commissario del Re assisterà alle sedute e deliberazioni del Corpo di Città.
I membri di questo Corpo avranno un abito distinto, e i Sindaci godranno del privilegio di portare la zimarra, o toga come il presidente dei Tribunali.
Art. 14. L'Università di Genova sarà mantenuta, e godrà degli stessi privilegi di quella di Torino. S. M. penserà ai modi di provvedere ai suoi bisogni> S. M. prenderà sotto la sua speciale protezione questo Stabilimento, come pure gli altri istituti d'istruzione, d'educazione, di belle lettere e di carità, i quali saranno pure conservati. S. M. conserverà in favore de' suoi sudditi genovesi i posti gratuiti, che sono nel collegio detto Liceo, a carico del Governo, riserbandosi di adottare a questo riguardo quei regolamenti, che giudicherà convenienti.
Art. 15. Il Re conserverà a Genova un Tribunale ed una Camera di Commercio con le attribuzioni, che questi due Stabilimenti hanno attualmente.
Art. 16. S. M. prenderà specialmente in considerazione la condizione degli impiegati attuali dello Stato di Genova.
Art. 17. S. M. accoglierà i progetti e le proposizioni, che le saranno presentate sopra i mezzi di ristabilire il banco di San Giorgio." [documento riportato nel volume di Massimiliano Spinola intitolato La restaurazione della Repubblica Ligure nel MDCCCXIV, Genova, 1863]









Articoli addizionali
al trattato di Vienna 20 maggio 1815
sulla cessione degli stati di Genova a S. M. il Re di Sardegna

(VARIANTE DI DOCUMENTO)
"Art. 1°. I sudditi Genovesi saranno in tutto uguagliati agli altri sudditi di S. M. Parteciperanno come essi agli impieghi civili, giudiziari, militari e diplomatici della Monarchia; e salvi i privilegi che gli sono qui sotto concessi ed assicurati, essi saranno sottomessi alle medesime leggi e regolamenti colle modificazioni che S. M. giudicherà convenienti. La nobiltà Genovese sarà ammessa, come quella delle altre parti della Monarchia, alle grandi cariche ed impieghi della Corte.
Art. 2°. I militari Genovesi componenti attualmente le truppe Geno vesi saranno incorporati nelle truppe Reali. Gli ufficiali e i sott'ufficiali conserveranno i loro gradi rispettivi.
Art. 3° L'arme di Genova entreranno nello scudo Reale, e i suoi colori nello stendardo di S. M.
Art. 4°. Il Portofranco di Genova sarà ristabilito secondo i regolamenti che esistevano sotto l'antico Governo di Genova. Ogni facilità sarà data dal Re pel transito nei suoi Stati delle mercanzie uscenti dal portofranco prendendo le precauzioni che S.M. giudicherà convenienti affinché queste stesse mercanzie non sieno ven= dute o consumate in contrabbando all'interno. Esse non saranno as= soggettate che a un dritto modico d'usanza.
Art. 5°. Sarà stabilito in ciascun distretto d'Intendenza, un Consiglio Provinciale composto di 30 membri scelti fra i nobili di diverse classi sopra una lista di trecento più tassati in ciascun distretto. Essi saranno nominati la prima volta dal Re, e rinnovati per quinto ogni due anni. La sorte deciderà della sortita pel quinto dei primi quattro. L'organizzazione di questi Consigli sarà regolata da S. M. Il Presidente nominato dal Re potrà esser preso fuori dal Consiglio, in tal caso non avrà diritto alla votazione. I membri non potranno essere scelti di nuovo che quattro anni dopo la loro sortita. Il Consiglio non potrà occuparsi che dei bisogni e reclamazioni dei Comuni dell'Intendenza per ciò che riguarda la loro amministrazione particolare, e potrà fare delle rappresentazioni a tale riguardo. Si riunirà ciascun anno al Capoluogo dell'Intendenza, all'epoca e nel tempo che S. M. determinerà. S. M. gli riunirà d'altronde straordinariamente qualora Ella lo credesse conveniente. L'Intendente della provincia o colui che lo rimpiazza assisterà di diritto alle sedute come Commissario del Re. Allorché i bisogni dello stato ezigeranno lo stabilimento di nuove imposte, il Re riuniti i diversi Consigli Provinciali in una città dell'antico territorio Genovese che egli designerà, e sotto la Presidenza di una persona che avrà a tal effetto delegata. Il Presidente qualora fosse preso fuori del Consiglio, non avrà voce deliberativa. Il Re non manderà al registro del Senato di Genova alcun editto portando creazione d’imposte straordinarie che dopo aver ricevuto il voto consenziente dei Consigli Provinciali riuniti come sopra. La maggiorità di una voce determinerà il voto dei Consigli pro= vinciali radunati separatamente o riuniti.
Art. 6°. Il maximum delle imposizioni che S. M. potrà stabilire nello stato di Genova senza consultare i consigli Provinciali riuniti non potrà eccedere la proporzione attualmente stabilita per le altre parti dei suoi stati; le imposizioni ora ricevute saranno portate a questo punto; e S. M. si riserva di fare le modificazioni che la sua saviezza, e la sua bontà verso i Suoi sudditi Genovesi potrà dettarli a riguardo di ciò che può esser diviso sia sulle imposte fondiarie, che sulle imposizioni dirette o indirette. Il maximum delle imposizioni essendo così regolato, tutte le volte che il bisogno dello stato potrà esigere che sieno stabilite delle nuove imposizioni o dei carichi straordinari, Sua Maestà dimanderà il voto consenziente dei Consigli Provinciali per la somma che Ella giudicherà conveniente di proporre e per la specie delle imposte da stabilirsi.
Art. 7°. Il debito pubblico tale e quale esisteva legalmente sotto l'ultimo Governo Francese, è garantito.
Art. 8°. Le pensioni civili e militari accordate dallo stato dietro le leggi ed i regolamenti, sono mantenute per tutti i sudditi Genovesi abitanti gli stati di S. M. Sono mantenute sotto le medesime condizioni le pensioni, accordate agli ecclesiastici, o antichi membri delle case religiose dei due sessi come pure quelle che, sotto il titolo di soccorso, sono state accordate a dei nobili Genovesi dal Governo Francese.
Art 9° Vi sarà in Genova un gran Corpo Giudiziario o Tribunale Supremo avente le stesse attribuzioni e privilegi, che quelli di Torino, della Savoia, e di Nizza, e che porterà come essi il nome di Senato.
Art. 10°. Le monete correnti d’oro e d'argento dell’antico stato di Genova attualmente esistenti, saranno ammesse nelle casse pubbliche concorrente= mente colle monete Piemontesi.
Art. 11°. Le Leve d'uomini dette provinciali nel paese di Genova, non eccederanno in proporzione le leve che avranno luogo negli altri stati di S. M. Il Servizio di mare sarà contato come quello di terra.
Art. 12°. S. M. creerà una Compagnia Genovese della Guardia del Corpo che formerà una quarta Compagnia delle Sue Guardie.
Art. 13°. S. M. stabilirà a Genova un Corpo di città composto di 40 no= bili; venti borghesi viventi de loro rediti, o esercenti delle arti liberali, e venti dei principali negozianti. Le nomine saranno fatte la prima volta dal Re, e i rimpiazzamenti si faranno a nomina del Corpo della Città stessa, sotto la riserva dell'approvazione del Re. Questo corpo avrà i suoi regolamenti particolari dati dal Re per la presidenza e per la divisione dei lavori. I Presidenti prenderanno il titolo di Sindaci, e saranno scelti fra i suoi membri. Il Re si riserva; tutte le volte che giudicherà a proposito, di far presiedere il Corpo di Città da un personaggio di grande distinzione. Le attribuzioni del corpo di città saranno l'amministrazione dei rediti della città; la sopraintendenza della piccola polizia della città e la sorveglianza dei stabilimenti pubblici di carità della città medesima. Un Commissario del Re assisterà alle sedute e deliberazioni del Corpo di città. I membri di questo corpo avranno un uniforme, e i sindaci il privilegio di portare la zimarra o toga come i Presidenti dei tribunali.
Art. 14°. L'università di Genova sarà mantenuta e goderà dei medesimi privilegi di quella di Torino. S. M. terrà conto dei mezzi di provvedere ai suoi bisogni Esso prenderà questo stabilimento sotto la sua protezione speciale come pure altri Istituti di Educazione d'istruzione, di belle lettere, e di carità che saranno pure mantenuti. S. M. conserverà in favore dei suoi sudditi Genovesi i posti che sono nel Collegio chiamato Liceo a carico del Governo, riservandosi di adottare a quest'oggetto i regolamenti che Ella crederà convenienti.
Art. 15°. Il Re conserverà a Genova un Tribunale e una Camera di Commercio colle attribuzioni attuali degli stessi due stabilimenti.
Art.16° S. M. prenderà particolarmente in considerazione la situazione degli Impieghi attuali dello stato di Genova.
Art. 17°. S. M. accoglierà i piani e le proposizioni che gli saranno presentati sui mezzi di ristabilire la Banca di S. Giorgio.
Per copia conforme all’originale deposta nella Cancelleria di Corte e di Stato a Vienna
Segnati - Il Principe De Metternich Il Barone di Wassenburg -
Il Marchese di S. Marzano Il Conte Rossi
Fatto a Vienna il 20 di maggio dell’anno di grazia 1815."









REGIE PATENTI
PORTANTI
Lo stabilimento d'una Regia Delegazione
nell'incominciamento dell'amministrazione del Governo di Genova
a seconda degli accordati privilegi ivi riferiti, e la continuazione delle attuali leggi.

VITTORIO EMANUELE
PER GRAZIA DI DIO RE DI SARDEGNA, DI CIPRO,
E DI GERUSALEMME, DUCA DI SAVOIA E DI GENOVA,
PRINCIPE DI PIEMONTE ECC. ECC. ECC.
"L'unione del territorio componente già la Repubblica di Genova agli antichi stati nostri, c'impone il dovere sacro insieme e caro al nostro cuore di prontamente rivolgere le nostre cure alla maggiore felicità de' nuovi nostri sudditi, acciocché venendo essi a formare parte di quella famiglia, di cui la Divina Provvidenza ci ha affidato il Governo, non tardino a risentire gli effetti delle paterne nostre sollecitudini.
A quest'oggetto, mentre abbiamo determinato di destinare un Commissario plenipotenziario, il quale prendendo possesso in nome nostro di questi nuovi Stati, abbia a rappresentarvi la nostra persona, e ad eseguire gli ordini, che emaneranno da noi. Ci siamo altresì disposti a creare una Delegazione presieduta dallo stesso Commissario Plenipotenziario, e composta di soggetti, che pei loro lumi, per la loro saviezza, esperienza, e per la cognizione anche delle circostanze varie del paese possono meritarsene la confidenza.
Dovrà questa occuparsi degli interessi, e dei bisogni dei nostri nuovi sudditi e proporci le misure che parranno più addattate a promuovere i loro vantaggi, onde possiamo noi regolare, e dirigere ad un tale scopo le ulteriori nostre provvidenze, che participeremo al mentovato Commissario nostro incaricato delle conseguenti disposizioni per la loro esecuzione.
Nel desiderio pertanto di dare in questo primo atto della nostra sovranità una prova del nostro affetto verso di questi nostri popoli con una scelta propria ad ispirar loro la maggior confidenza nel nostro Governo, ci siamo determinati di destinare Capo di questa Regia Delegazione lo stesso nostro Commissario Plenipotenziario, il Cavaliere Ignazio Thaon di S. Andrea e di Revel, Conte di Pratolongo, Luogotenente generale nelle nostre armat3, e per membri della medesima il Maggiore generale, Capo squadra della nostra Marina, e Cav. Gran Croce dell'ordine de' SS. Maurizio e Lazzaro Conte Giorgio Andrea Des Geneys; Cav. Paolo Vincenzo Ferraris di Castelnuovo, Senatore e Reggente il Consiglio di giustizia d'Alessandria; Marchese Paolo Pallavicini; Domenico Demarini; Luigi Carbonara; Conte Egidio Sansoni; Gaetano Olandini; ed il Marchese Alessandro Carron di S. Tommaso, il quale riempirà anche le funzioni di segretario generale della stessa Regia Delegazione.
Vogliamo però, che alla sola riserva del Governo Provvisorio, cessato necessariamente in virtù della riunione di questi stati al nostro dominio, ogni autorità civile, giudiziaria, e militare continui ad esercitare sotto la direzione del nostro Commissario Plenipotenziario, tutte le funzioni ed attribuzioni, che esercita attualmente, e che nulla parimenti s'innovi rapporto alle leggi, ed ai regolamenti, che sono ora in osservanza, finché con piena, e matura cognizione possiamo deliberare sulle variazioni e modificazioni che crederemo opportuno di voler addottare.
Intanto vogliamo che siano noti li privilegi, che colle presenti ci compiaciamo di nuovamente confermare, e che vogliamo siano espressamente qui in appresso riferiti.
Dato in Torino li 30 del mese di dicembre l'anno del Signore 1814, e del regno nostro il decimoterzo.
VITTORIO EMANUELE.
V. PATERI P. P. e Reg.
V. BRET.
V. SERRA."









VITTORIO EMANUELE
PER GRAZIA DI DIO RE DI SARDEGNA,
DI CIPRO E DI GERUSALEMME, DUCA DI SAVOIA E DI GENOVA
PRINCIPE DI PIEMONTE, ECC. ECC. ECC.
"Nel prendere solennemente possesso de' nuovi nostri stati, giusta quanto venne concertato colle Alte Potenze d'Europa, ci è sommamente grato il pensare ai considerevoli vantaggi, che sono per provenire a voi, amatissimi nostri sudditi dalla vostra unione co' nostri antichi Popoli, mediante i vincoli di fratellanza e di amore, ch'essa dee stabilire fra voi.
Se l'antica vostra gloria, e quanto avete in vari tempi operato per la difesa, e per l'onore dell'Italia, sono tutt'ora presenti alla nostra mente, non possiamo a meno però di rammentarci nel tempo stesso le conseguenze necessarie della ristrettezza degli stati, e dell'opposizione degli interessi fra due popoli destinati a stimarsi ed amarsi. Cotali effetti senza dubbio cesseranno sotto un medesimo Governo, il quale, avvicinando gli animi, faccia sentire a tutti la sua benefica influenza.
Questo ci siamo proposti principalmente nel destinare per nostro Commissario plenipotenziario il Cav. Ignazio Thaon di Revel e S. Andrea, Conte di Pratolongo, luogotenente generale nelle nostre armate, che abbiamo incaricato di rappresentare fra voi la nostra persona, e di convincervi de' sentimenti, onde il nostro cuore è animato a vostro riguardo.
Ed affinché possiamo sicuramente pervenire ad un tal fine vivamente desiderato da noi, ci siamo pure determinati di formare una Delegazione composta in gran parte di vostri concittadini, la quale, a tenore delle concessioni, che spontaneamente ci siamo disposti a farvi in pegno del nostro affetto, proponga tutti quei provvedimenti, che le parranno più atti a promuovere qualunque ramo di pubblica Ammistrazione.
Mentre più d'ogni altra cosa le ordiniamo di mantenere nel pieno suo lustro il culto della nostra Santa Religione, le raccomandiamo pure di farci conoscere gli ordinamenti che riguarderanno il commercio, il quale, se per lo passato, quantunque in angusti confini per parte di terra, è stato la sorgente della pubblica ricchezza, abbiamo mottivo di credere, che sia per fiorire maggiormente in avvenire col favore della R. nostra protezione, e colle facilità, alle quali siamo per consentire di buon grado, ogni qualvolta vi ravviseremo il vantaggio, e la prosperità del medesimo.
La stessa cura porremo in favorire gl'Instituti di pubblica beneficenza, con cui tanto si distinse la pietà de' vostri maggiori, nell'animare e proteggere gli stabilimenti di scienze, d'arti, e di pubblica educazione; né sfuggiranno alla nostra paterna sollecitudine i servizi renduti per l'addietro allo stato, i quali saranno da noi considerati, e rimunerati.
Ci piace intanto di credere, che un dolce premio troveremo nella sincera vostra ubbidienza, e nel leale attaccamento, con cui siete per corrispondere alle paterne nostre cure, tutte rivolte al1a maggior vostra felicità.
Mandiamo pertanto il presente pubblicarsi, e alle copie stampate nella nostra Stamperia Reale prestarsi la stessa fede che all'originale.
Dato in Torino li 5 del mese di gennaio 1815.
VITTORIO EMANUELE.





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1814: le condizioni per "l'odiata annessione" di Genova al Regno di Sardegna
[di Franco Bampi in Bollettino «A Compagna», n. 1 - Gen.-Feb. 2000]

"La passione del Brignole nel difendere l'indipendenza, e nel denunciare l'inaccettabilità di quella annessione, tra tutte la più odiosa per i Genovesi, è l'argomento più veritiero, di fronte alle Potenze, che si fa a Genova un torto". (1)
Clemente Venceslao Lotario principe di Metternich".
Così scrive Teofilo Ossian De Negri nel commentare le risultanze del Congresso di Vienna, esiziali per la gloriosa e plurisecolare Repubblica di Genova. In questo terzo scritto (2) relativo all'annessione stabilita d'imperio dal Congresso di Vienna tratterò delle Condizioni che devono servir di base alla riunione degli Stati di Genova a quelli di S. M. Sarda concordate dalle Potenze Alleate nel Congresso di Vienna, esaurientemente elencate ed illustrate nell'interessante libro (3), scritto da Massimiliano Spinola, pubblicato nel 1863 e reperibile presso la Biblioteca Berio. Per brevità non riporterò gli articoli che costituiscono le citate Condizioni, limitandomi a richiamare il loro numero ogni volta che nel testo si fa esplicito riferimento al loro contenuto.
Il Marchese Antonio Brignole Sale, insieme col suo Segretario Giorgio Gallesio di Finale, partì da Genova negli ultimi giorni d'agosto del 1814 e giunse a Vienna il 2 settembre 1814 per partecipare alle trattative circa l'assetto dell'Europa quale Ministro Plenipotenziario genovese in Vienna. Il giorno 13 novembre 1814 Metternich adunò il Comitato delle otto Potenze, a cui sottopose d'urgenza di deliberare l'unione di Genova al Piemonte. Deliberazione che fu presa assieme alla nomina di una Commissione per determinare le concessioni ed i privilegi da concedersi alla città di Genova.
Il Marchese Brignole appena intese questa definitiva deliberazione, si affrettò a protestare altamente presso tutti i ministri e, per render meno duri i mali che sovrastavano alla sua patria, chiese alle Potenze alleate che fosse garantita ai Genovesi una costituzione sulle basi che lui stesso si premurò di indicare. Così commenta lo Spinola. "Ammettendo la necessità e la possibilità di correggere e di migliorare l'elaborato lavoro proposto da Brignole, io sono convinto che nessun vorrà unirsi alla pretensione del San Marzano (4), il quale voleva imporre ai Genovesi una annessione incondizionata. Imperocché è un principio indubitato che allorquando un Paese possiede un Governo con migliori leggi e istituzioni politiche di quelle possedute da quelli i quali vengono aggregati, sarà per gli ultimi un grande benefizio l'essere annessi incondizionatamente e completamente parificati nelle leggi e nelle istituzioni. Prova ne sieno i recenti plebisciti della Lombardia, dell'Emilia, della Toscana, del Regno delle due Sicilie, per far parte del Regno costituzionale italiano di Vittorio Emanuele II. Ora è incontestabile che nell'anno 1814 tale non era la condizione del Piemonte riguardo a Genova, e per conseguenza il disegno del Plenipotenziario piemontese di sottoporre i Genovesi allo stesso regime di Governo a sui erano assoggettati gli altri sudditi di Sua Maestà, il Re di Sardegna, si deve considerare come un'ingiustizia intollerabile".
Nella seduta del primo dicembre la Commissione respinse la domanda d'una annessione condizionata mediante la Costituzione speciale per il Regno di Liguria e stabilì che il Re di Sardegna avrebbe aggiunto agli altri suoi titoli quello di Duca di Genova. Statuì quindi in 18 articoli le condizioni e i privilegi da accordarsi ai Genovesi. Per apprezzare le condizioni compilate dai Commissari, è interessante riferire il giudizio di un storico poco parziale ai Genovesi, Luigi Carlo Farini (5) (Russi, Ravenna, 1812 – Quarto, Genova, 1866), il quale sentenziava che i capitoli di Vienna: "Non fossero sufficienti a dare soddisfazione ad una città in cui era grande la superbia delle passate glorie, ed erano ancor fresche le speranze di franco Stato, e dell'antica forma di governo, che il Bentinck vi avea nutrite; e perciò non essere da meravigliarsi, se i Liguri di tutti i ceti, tranne poche eccezioni, tenevano il broncio al nuovo Governo, adottando una dignitosa astensione, col rifiutarsi dall'accettarne impieghi e cariche".
Lo Spinola ci informa che, prima del Farini, Ferdinando Dal Pozzo (Moncalvo, Asti, 1768 – Torino, 1843) aveva scritto: "...che l'eguaglianza dei Genovesi co' Piemontesi per essere ammessi agli impieghi (art. 1 e art. 16), il confondere insieme la Nobiltà dei due paesi (art. 1), l'incorporare in un solo esercito le truppe dei due paesi (art. 2), l'inquartar gli stemmi de' due paesi (art. 3) (6), il ritirare ed ammettere nelle stesse casse dello Stato monete d'oro e d'argento dei due paesi (art. 10), il fare eguali leve d'uomini (art. 11), l'imporre eguali tributi (art. 6), l'istituire uguali tribunali e corpi amministrativi nei due paesi (art. 9 e art. 15), il conservare in Genova un corpo insegnante (art. 14), l'istituir una compagnia delle guardie del corpo genovese (art. 12), il dividere il corpo amministrativo della città di Genova in quaranta nobili, in venti borghesi, ed in venti negozianti (art. 13): tali condizioni non si possono chiamare privilegi, poiché ad altro non tendono che a equiparare e livellare i diritti dei Genovesi a quelli degli altri sudditi del Re di Sardegna.
D'altra parte quei pochi articoli, che stabilivano qualche privilegio basato su principi fissi e durevoli, come era stato deliberato nel protocollo della Conferenza del 13 novembre, non furono mai eseguiti dal Governo piemontese. Nello specifico non furono mai eseguiti:
l'articolo 4: Il Portofranco di Genova sarà ristabilito con i medesimi regolamenti, che erano in vigore sotto l'antico Governo Ligure e sarà data ogni facilitazione per il transito delle mercanzie che usciranno dal Portofranco;
l'articolo 5: In ciascun circondario d'Intendenza sarà stabilito un Consiglio provinciale composto di 30 Membri, scelti tra le persone rimarchevoli delle diverse classi sopra una lista di 300 contribuenti di ciascun Circondario;
il comma 9 dell'articolo 5: il Re non manderà a registrare dal Senato di Genova alcun editto portante creazione di imposte straordinarie, se non dopo aver ricevuto il voto d'approvazione dei Consigli provinciali;
l'articolo 6: Il maximum delle imposte da imporsi, senza consultare i Consigli provinciali riuniti, non eccederà la proporzione attualmente stabilita per le altre parti dello Stato;
l'articolo 17: S. M. accoglierà i progetti e le proposizioni, che verranno presentate per ristabilire la Banca di S. Giorgio. (7)
La mancata esecuzione di questi articoli, benché fossero garantiti dalle alte Potenze Alleate, prova la nullità dei privilegi accordati ai Genovesi o almeno il poco interesse di farli eseguire dimostrato dai sovrani sottoscrittori del trattato della Santa Alleanza; ciò che ha potuto permettere al Governo sardo di poterli impunemente dimenticare, nonostante le continue lagnanze dei genovesi, che chiedevano fossero messe in esecuzione.
Significative al riguardo sono le affermazioni di Federico Sclopis (8) (Torino, 1798 – ivi 1878): È noto che il Congresso di Vienna prescrivendo la riunione degli Stati di Genova a quelli di S. M. Sarda aveva aggiunte alcune condizioni. Il re Vittorio Emanuele ne inserì la sostanza nelle regie patenti del 30 dicembre 1814 colle quali prendeva legalmente possesso del Territorio aggiunto, e così senza ripetere ciò che a tutti era noto, fece mostra di assumere spontaneamente gli impegni. Lo Sclopis nota che tra queste condizioni le più importanti erano quelle stabilite negli articoli 5 e 6 concernenti l'istituzione dei Consigli provinciali, che non vennero mai dal Governo piemontese convocati. Il dotto scrittore piemontese spiega tale fatto dicendo: "...che Vittorio Emanuele I mai non aderì spontaneamente a condizioni limitative della sua piena autorità nell'ordinamento interno dei suoi stati e ricevette come condizione imposta all'unione di Genova i capitoli del Congresso di Vienna, che però non eseguì".
Questo è quanto ci insegna la storia: spetta a noi, Genovesi di oggi, non far dimenticare ciò che fummo e che i potenti non vollero riconoscere e rispettare, annullando l'identità ligure e negando il ricordo per cancellare la diversità.
Che la conoscenza del nostro glorioso passato sia da stimolo e da guida per un prospero futuro della nostra terra
.
NOTE
(1) De Negri T. O., Storia di Genova, Milano, 1974, p. 774.
(2) Per i primi due scritti si veda Bampi F., 1796: una convenzione segreta tra Genova e Francia , Bollettino "A Compagna", n. 4/5 – Lug.-Ott. '99, Bampi F., 1814: gli inutili tentativi per salvare Genova , Bollettino "A Compagna", n. 6 – Nov.-Dic. '99.
(3) Spinola M., La restaurazione della Repubblica Ligure nel MDCCCXIV, Genova, 1863.
(4) Filippo Antonio Asinari di San Marzano (Torino 1767 – ivi 1828), creato marchese di San Marzano, fu plenipotenziario dei Savoia al congresso di Vienna.
(5) Farini L. C., Storia d'Italia, vol. 4, libro IX, § IV.
(6) A causa di questo articolo 3 la gloriosa bandiera di San Giorgio dei Genovesi fu inserita «legittimamente» nello stemma di Casa Savoia: decida il lettore se fu per onore o per onta di Genova, il cui simbolo, dopo l'annessione, ebbe i grifoni reggistemma rappresentati con la coda fra le gambe, in segno di sottomissione, e la corona che sormontava lo stemma, prima chiusa in segno di sovranità, ora divenne quella comitale (sebbene il re di Sardegna fosse duca di Genova) non potendo superare Torino che, pur essendo capitale, aveva il titolo comitale.
(7) A questo proposito va ricordato che nel sopprimere il Banco di San Giorgio, Napoleone liquidò soltanto le azioni di un terzo dell'antico dividendo e confiscò, considerandole come manimorte, le rendite stabilite sopra il detto Banco in favore delle opere di beneficenza, da pii lasciti dei patrizi genovesi. Suona pertanto come una burla l'articolo 7: Il debito pubblico, tal quale esisteva legittimamente sotto l'antico Governo francese, è garantito. Si osservi infatti che l'articolo fa riferimento all'antico Governo francese e non al precedente legittimo Governo genovese: le ruberie che Napoleone fece ai Genovesi vennero quindi accettate senza sanzione alcuna dal Congresso di Vienna. Su questi aspetti è doverosa la lettura del saggio di G. Felloni, Il debito consolidato della repubblica di Genova nel secolo XVIII e la sua liquidazione, Atti della Società Ligure di Storia Patria, Nuova serie, Vol XXXVIII (CXII) Fasc. I, che così conclude: Infine si deve constatare una singolare continuità nella politica francese e piemontese nei riguardi dei creditori liguri e riconoscere un sostanziale fondamento alla sorda ostilità di molti genovesi verso il nuovo governo. La stagnazione economica e finanziaria di Genova nel primo ventennio dopo l'annessione non può essere spiegata senza tenere conto di queste premesse.
(8) Sclopis F., Storia della Legislazione del Piemonte , in "Memorie dell'Accademia di Torino", serie 2, Tomo 19.


















L'ATTO FINALE del CONGRESSO DI VIENNA del 9 giugno 1815 era composto di centoventun articoli di cui si possono qui scorrere tutti quelli CONCERNENTI L'ITALIA ed ancor più specificatamente (con adeguato sostegno critico e bibliografico), per quanto concerne questa indagine, tutti gli ARTICOLI CONCERNENTI LA REPUBBLICA DI GENOVA soppressa dopo tante vane speranze di conservare la secolare autonomia:
"..............................................................................................................
Articolo 80 -- Sua Maestà il re di Sardegna cede la parte della Savoia che si trova tra le riviere d'Arve, il Rodano, i limiti della Savoia ceduta alla Francia e la montagna di Salève fino a Veiry inclusivamente, più quella che si trova compresa tra la strada, grande detta del Sempione, il lago di Ginevra, l'attuale territorio del cantone di Ginevra, da Venezas fino al punto in cui il fiume Hermance traversa la strada suddetta, e di là continuando il corso di quella riviera fino al lago di Ginevra, a levante del villaggio d'Ermance (l' intera strada del Sempione continuerà ad esser posseduta da S. M. il re di Sardegna), perché quei paesi siano riuniti al cantone di Ginevra, salvo a determinarsi più precisamente i limiti dai rispettivi commissari, soprattutto per ciò che riguarda Veiry e la montagna di Salève, rinunziando la suddetta Maestà, in perpetuo, senza eccezioni né riserve, per sé e i suoi successori, a tutti i diritti di sovranità ed altri che possono appartenerle nei luoghi e territori compresi in quella designazione. Sua Maestà il re di Sardegna consente inoltre a che la comunicazione tra il cantone di Ginevra e il Vallese per la strada del Sempione sia stabilita nel modo stesso che la Francia l' ha accordata tra Ginevra e il cantone di Vaud per la strada di Versoy. Vi sarà ancora in tutti i tempi una comunicazione libera per le truppe ginevrine tra il territorio di Ginevra e il mandamento di Jussy, e saranno accordate le facilitazioni che potrebbero essere necessarie per giungere dal lago alla strada del Sempione. D'altra parte sarà concessa esenzione di qualunque diritto di transito a tutte le mercanzie e derrate che, venendo dagli stati sardi e dal porto franco di Genova, traverserebbero la strada del Sempione in tutta la sua estensione per il Vallese ed il Ginevrino. Questa esenzione si limiterà al transito e non si estenderà né ai diritti stabiliti per la manutenzione della strada, né alle mercanzie e derrate destinate ad essere vendute o consumate all' interno.
Articolo 85 -- I confini degli stati di S. M. il re di Sardegna saranno: dal lato della Francia quali esistevano il 10 gennaio 1792; ad eccezione dei mutamenti recati dal trattato di Parigi del 30 maggio 1814. Dal lato della confederazione Elvetica quali esistevano il 10 gennaio 1792, ad accezione del cambiamento avvenuto con la cessione in favore del cantone di Ginevra, contemplata nell'articolo 80. Dal lato degli stati di S. M. l' Imperatore d'Austria quali esistevano il 1° gennaio del 1792. La convenzione conchiusa tra Maria Teresa e il re di Sardegna il 4 ottobre 1751 sarà mantenuta in tutti i suoi stati. Dal lato degli Stati di Parma e Piacenza il confine, per ciò che riguarda gli antichi stati di S. M. il re di Sardegna, continuerà ad essere come si trovava al 1° gennaio 1792. I confini dei cessati Stati di Genova e dei paesi detti feudi imperiali, riuniti agli statî del re di Sardegna, secondo i seguenti articoli saranno quelli stessi che al 1° gennaio 1792 separavano questi paesi degli stati di Parma e Piacenza e quelli di Toscana e di Massa. L'isola di Capraia, quale possesso dell'antica repubblica di Genova, passa al re di Sardegna.
Articolo 86 - - Gli stati che componevano la cessata repubblica di Genova sono riuniti in perpetuo a quelli del re di Sardegna, per esser posseduti in tutta sovranità, come proprietà ed eredità di maschio in maschio, per ordine di primogenitura, nei due rami della sua famiglia, il reale e quella di Savoia-Carignano.
Articolo 87 - - S. M. il re di Sardegna aggiungerà ai suoi titoli attuali quello di duca di Genova.
Articolo 88 - - I Genovesi godranno di tutti i diritti e privilegi specificati nell'atto intitolato: Condizioni [ stipulate a Vienna il 20 maggio 1815 ] che debbono servire di base alla riunione degli stati di Genova re. quelli di S. M. il re di Sardegna ....[ Franco Bampi autore di un saggio acuto, per quanto forse un po' "genovacentrista" riporta anche, in un suo lavoro "on line" (entro cui accorpa una più che esaustiva documentazione sul caso della soppressione della Repubblica di Genova) due varianti di siffatte condizioni: il testo ritenuto ufficiale ed una copia alternativa proveniente da archivio privato].
Articolo 89 - - I paesi, detti feudi imperiali, che erano stati riuniti alla cessata repubblica ligure, sono riuniti definitivamente agli stati del re di Sardegna .... gli abitanti di questi paesi godranno dei medesimi diritti e privilegi, come quelli designata nel precedente articolo di Genova.
Articolo 90 - - La facoltà che le potenze firmatarie del trattato ili Parigi del 30 maggio 1814 si sono riservate all'articolo terzo di fortificare quel punto dei loro stati che crederanno conveniente alla sicurezza loro, ma è ugualmente riservata senza restrizione al re di Sardegna.
Articolo 92 - - Le province del Cialbese e del Fossigny e tutto il territorio a nord di Ugine appartenente al re di Sardegna faranno parte della neutralità svizzera, quale è riconosciuta e garantita dalle potenze. Per ciò, ogni qualvolta le potenze vicine alla Svizzera si troveranno in stato di ostilità aperta o imminente, le truppe di S. M. il re di Sardegna che si trovassero in queste province si ritireranno, passando, se è necessario, pel Vallese. Nessun'altra potenza potrà stanziare truppe nelle province suddette, eccettuata la Confederazione Elvetica, purché questo stato di cose non intralci l'amministrazione del paese, in cui gli agenti civili del re sardo potranno, per il mantenimento dell'ordine, usare la guardia municipale.
Articolo 93 - - In seguito alle rinunzie (della Francia) stipulate nei trattato di Parigi del 3 maggio 1814, le potenze firmatarie del presente trattato riconoscono S. M. l' imperatore d'Austria e i suoi eredi e successori come sovrano legittimo delle province e territori che erano stati ceduti, in tutto o in parte, con i trattati di Campoformido del 1700, di Luneville, del 1801, di Presburgo del 1805, con la convenzione addizionale di Fontainebleau e con il trattato di Vienna del 1809, e nel possesso delle quali province e territori S. M. I. e R. è rientrata in seguito all'ultima guerra; quali sono l' Istria, sia austriaca che veneta, la Dalmazia, le isole già venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro, la città di Venezia, le lagune, come pure le altre province e distretti della terraferma degli stati già veneti sulla sponda sinistra dell'Adige, i ducati di Milano e di Mantova, i principati di Brigen e di Trento, il contado del Tirolo, il Voralberg, il Friuli austriaco, il Friuli già veneto, il territorio di Monfalcone, il governo e la città di Trieste, la Carniola, l'alta Carinzia, la Croazia alla destra della Sava, Fiume e il litorale ungherese e il distretto di Castua.
Articolo 94 - - S. M. I. e R. riunirà alla sua monarchia, per essere posseduta da loro e dai suoi successori in tutta proprietà e sovranità:
1° Oltre le parti della terraferma degli stati veneti, di cui all'art. precedente, le altre parti degli stessi stati, come qualunque altro territorio situato fra il Ticino, il Po e il mare Adriatico;
2° le valli della Valtellina, di Bormío e di Chiavenna;
3° i territori che formavano la cessata repubblica di Ragusa.
Articolo 95 - - In conseguenza di quanto è detto nei precedenti articoli, le frontiere austriache in Italia saranno: dal lato degli stati sardi, quali erano il l° gennaio del 1792; dal lato di Parma, Piacenza e Guastalla, il Po, la linea di demarcazione secondo il "thalweg" di questo fiume; dal lato di Modena, quali erano al 1° gennaio 1792; dal lato degli Stati della Chiesa, il corso del Po sino all' imbocco del Goro; dal lato della Svizzera l'antica frontiera della, Lombardia e quella che separa le valli della Valtellina, di Bormio e di Chiavenna dei cantoni dei Grigioni e del Ticino. Là dove il thalweg del Po costituirà il confine è stabilito che i mutamenti futuri del corso di questo fiume non influiranno sulla proprietà delle isole che vi si trovano.
Articolo 98 - - S. A. R. l'arciduca FRANCESCO d' Este, i suoi eredi e successori poi, siederanno in tutta proprietà e sovranità i ducati di Modena, di Reggio e di Mirandola nell'estensione medesima in cui si trovavano all'epoca del trattato di Campoformio, S. A. R. l'arciduchessa Maria Beatrice d' Este, i suoi eredi e successori possederanno in tutta proprietà e sovranità il ducato di Massa e il principato di Carrara e i feudi imperiali della Lunigiana. Questi ultimi potranno servire a istituire cambi o altre transazioni con S. A. I. il granduca di Toscana, secondo la reciproca convenienza.. I diritti di successione e di reversione stabiliti nei rami degli arciduchi d'Austria, relativamente,al ducato di Massa, Modena, Reggio e Mirandola, come pure dei principati di Massa Carrara, sono riservati.
Articolo 99 - - S. M. l' imperatrice MARIA LUISA possiederà in tutta proprietà e sovranità i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, eccettuati i distretti incuneati negli Stati austriaci sulla sinistra del Po. La reversibilità di questi paesi sarà determinata di comune consenso fra le corti d'Austria, di Russia, di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, e Prussia, avuto però riguardo ai diritti di reversione delle case d'Austria e di Sardegna.
Articolo 100 - - S. A. I. l'arciduca FERDINANDO d'Austria è ristabilito, per sé e per i suoi eredi e successori, tutti i diritti di proprietà e sovranità sul granducato di Toscana e sue dipendenze, quali erano prima del trattato di Luneville. Le stipulazioni l'art. 20 del trattato di Vienna del 3 ottobre 1736 tra l' imperatore Carlo VI e il re Francia, cui consentirono le altre potenze, sono pienamente ristabilite in favore di S. A. e suoi discendenti, come pure le guarentigie risultanti da queste stipulazioni. Saranno inoltre riuniti al detto granducato lo Stato dei Presidii, le parte dell' isola dell'Elba, e sue pertinenze che erano sotto la sovranità del Re di Napoli e Sicilia prima del 1801, principato di Piombino e i cessati feudi imperiali di Vernio, Montalto e Monte S. Maria. Il principe LUDOVISI BUONCOMPAGNI conserverà per sé e suoi successori legittimi tutte proprietà che la sua famiglia possedeva nel principato di Piombino, nell'isola d' Elba e sue dipendenze, prima dell'occupazione francese del 1799, comprese le miniere, usine e saline. I principe LUDOVISI conserverà egualmente il diritto di pesca e godrà di esenzione da ogni diritto, sia per l'esportazione dei prodotti dei suoi domini che per importazione del necessario ai lavori delle miniere.
Articolo 101 - - Il principato di Lucca sarà posseduto in tutta sovranità dall'Infanta. l' infanta Maria Luisa e i suoi discendenti in linea retta e mascolina. Questo principato viene eretto in ducato e conserverà una forma di governo basata su quella che aveva nel 1805. Alle rendite del principato di Lucca si aggiungerà una rendita di cinquecentomila lire che S. M. l' imperatore d'Austria e S. A. I. il granduca di Toscana si obbligano di pagare regolarmente finché le circostanze non permetteranno di procurare a S. M. l' Infante Maria Luisa e a suo figlio un altro stabilimento.
Articolo 102 - - Il ducato di Lucca sarà reversibile al granduca di Toscana, sia nel caso ch'esso divenga vacante per la morte di S. M. l' infanta Maria Luisa o di suo figlio Don Carlos e loro discendenti maschi e diretti, sia nel caso che l' infanta e suoi discendenti ottenessero un altro stabilimento o succedessero ad un altro ramo della loro dinastia. In caso di reversione il granduca si obbliga di cedere al duca di Modena i distretti di Fivizzano, Pietrasanta, Barga, Castiglione, Galligano, Minucciano e Montignoso.
Articolo 103 - - Le marche con Camerino e dipendenze, il ducato di Benevento e principato di Pontecorvo sono restituiti alla Santa Sede, che rientrerà in possesso delle Legazioni di Ravenna, di Bologna e di Ferrara, eccettuata quella parte del ferrarese posta sulla sinistra dal Po. L'imperatore d'Austria avrà diritto di guarnigione in Ferrara e Comacchio. Gli abitanti dei paesi tornati alla S. Sede godranno dei benefici dell' articolo 16 del trattato di Parigi del 30 maggio 1814. Tutti gli acquisti fatti dai privati in virtù di un titolo riconosciuto legale dalle leggi attualmente esistenti, sono mantenuti; e le disposizioni proprie a garantire il debito pubblico e il pagamento delle pensioni saranno stabilite da una convenzione particolare fra la Corte di Roma e quella di Vienna.
Articolo 104 - - S. M. il re FERDINANDO IV è riconosciuto per sé e per i suoi eredi e successori sul trono di Napoli, e riconosciuto dalle potenze come re del regno delle Due Sicilie.
.............................................................................................................."






Il CONGRESSO DI VIENNA (22 settembre 1814 - 10 giugno 1815) ispirandosi al principio legittimista, sostenuto da Talleyrand, tende a ricostruire gli Stati esistenti anteriormente alla Rivoluzione francese, il che ha per conseguenza la restaurazione dell'equilibrio europeo, rotto dalle guerre rivoluzionarie e napoleoniche.
Dopo la caduta dell’Impero napoleonico, le potenze vincitrici (Austria, Russia, Inghilterra e Prussia) vogliono 1) reprimere le spinte di rinnovamento politico-sociale e le esigenze delle nazionalità che il rivolgimento napoleonico aveva sollevato in tanta parte d’Europa; 2) restaurare le legittime dinastie e le autorità tradizionali; 3) delimitare le nuove frontiere fra gli Stati, assicurando il contenimento della Francia e l’equilibrio europeo.
La Francia inviò come osservatore il ministro Talleyrand, il quale però seppe impedire che il Congresso si trasformasse in una coalizione antifrancese.
Talleyrand, infatti, approfittando del contrasto che divideva Russia e Prussia da Austria e Inghilterra (la Russia voleva la Polonia, mentre l’Inghilterra voleva impedirglielo; la Prussia voleva la Sassonia, ma l’Austria era contraria), affermò il principio di legittimità, secondo cui i territori europei dovevano ritornare a quei sovrani che per eredità vi avevano regnato prima del 1789. Questo principio ignorava volutamente quello della sovranità popolare, affermato dalla Rivoluzione francese.
Costituiscono importanti eccezioni all'applicazione del principio legittimista:
* la mancata restaurazione del Sacro Romano Impero,
* quella di un Regno Indipendente di Polonia,
* l'unione della Norvegia alla Svezia
* il mancato ristabilimento di alcune Repubbliche:
* creazione di un Regno dei Paesi Bassi, che sostituisce la Rep. delle Province Unite, annessione delle Repubblica di Venezia all'Austria.
* In Italia scompaiono le repubbliche di Venezia, Genova e Lucca. Il regno di Sardegna è restituito a Vittorio Emanuele I di Savoia (1802-21) che si annette la Liguria. Il regno Lombardo-Veneto passa all’Austria. Ma come un ombra l'Austria sovrasta e influenza la politica dell'intera penisola. Molti altri ducati vengono assegnati a dinastie imparentate con la Casa d’Asburgo (Parma, Piacenza, Modena, Reggio, Toscana, Lucca...).
I regni di Napoli-Sicilia passano a Ferdinando I di Borbone, che diventa re delle Due Sicilie (1815-25), legato all’Austria da un trattato di alleanza militare. Lo Stato Pontificio venne restituito a Pio VII (1800-23). (*) Ferdinando I di Borbone era figlio di Re Carlo III e di Maria Amalia di Sassonia, salì al trono quando il padre divenne Re di Spagna (1759) e rimase sotto la tutela di un Consiglio di reggenza. Raggiunta la maggiore età aveva sposato (1768) Maria Carolina figlia di Maria Teresa dei Lorena-Asburgo (quindi Austriaca), questa donna (non smentendo il suo sangue) ossessionata dalle idee di libertà e uguaglianza che si diffusero anche a Napoli con la Rivoluzione Francese, influenzò fortemente Ferdinando che diede (fino al 1825) un nuovo indirizzo alla politica estera passando dall'orbita spagnola a quella austro-asburgica).
* la mancata restituzione di Malta all'Ordine omonimo.
* ) L’Inghilterra non ebbe in Europa vantaggi rilevanti, ma entrò in possesso di molte colonie francesi e olandesi (Guiana, Ceylon).
L'Impero Germanico è sostituito dalla Confederazione Germanica, in cui primeggiano Austria e Prussia; la presidenza della Dieta, che ha sede a Francoforte, spetta all'Austria. Il numero degli stati germanici è ridotto da più di 360 a 39 (si tratta soprattutto di una decimazione amministrativa), quello delle città libere da 51 a 4, i Principati e Feudi Ecclesiastici non vengono ristabiliti. L'antico Elettorato di Hannover, eretto in Regno, è restituito alla Casa reale inglese come feudo maschile.
Fanno parte della Confederazione Germanica il Regno dei Paesi Bassi, cui è stato attribuito il Granducato di Lussemburgo, e la Danimarca cui, in cambio della Norvegia, sono stati dati i Ducati di Holstein e di Lauenburg, fonte questa di gravi e lunghe complicazioni future. Anche l'annessione alle antiche Province Unite degli ex Paesi Bassi austriaci, la cui popolazione cattolica latina (i Valloni) si ribellerà contro il Re dei Paesi Bassi, e l'attribuzione all'Austria del Lombardo Veneto dovrà fatalmente indebolire la compagine, già poco salda, dell'Impero austriaco.
Al Congresso di Vienna non è ammessa la Turchia, che non fa pertanto parte del disegno europeo, esclusione voluta soprattutto dalla Russia, la quale spera nella conquista di Costantinopoli e nell'ottenimento di uno sbocco sul Mediterraneo.
Il Congresso di Vienna sebbene si sia opposto alle aspirazioni nazionali ed abbia violato le leggi geopolitiche, ha posto anche dei princìpi giusti e fecondi: ha soppresso la tratta dei Negri, ha favorito la libera circolazione sui fiumi internazionali (Reno, Danubio e Vistola) ed infine ultimo ma non meno importante ha garantito alla Svizzera la sua neutralità permanente.
Modificandosi in tal maniera l'aspetto geopolitico, si resero necessarie nuove alleanze al fine di mantenere l'equilibrio. La Santa Alleanza, stipulata a Parigi il 26 settembre 1815 fra Austria, Prussia e Russia, patto a cui aderiscono in seguito a titolo personale Francia e Inghilterra, verrà strumentalizzata dal Metternich per mantenere l'ordine e l'equilibrio consacrando il principio di intervento, al quale l'Inghilterra opporrà il principio di non intervento, che favorirà l'emancipazione delle colonie spagnole, la trasformazione del regime in Francia (1830) e la costituzione.
Il periodo che segue dal Congresso di Vienna alla Rivoluzione parigina del 1830 (che rilancia l’esperienza liberale su scala europea) si chiama dunque RESTAURAZIONE (di autorità presunte legittime ma, più in generale, di aspetti conservatori della vita pubblica). Si afferma così l’Europa legittimista.
In Italia la restaurazione è portata avanti non solo dall’Austria, ma anche dai Savoia, Borbone e Stato pontificio. Quest’ultimo ristabilì l’ordine dei gesuiti, chiese ai governi che l’istruzione pubblica fosse restituita al monopolio delle scuole confessionali, ottenne che ogni attività culturale fosse sottoposta a preventiva censura ecclesiastica, che la stampa e la diffusione di opere proibite dalla Congregazione dell’Indice venissero perseguite dal potere giudiziario come reati civili, soppresse il codice napoleonico e ricostituì il tribunale dell’Inquisizione.
In Italia la borghesia, frantumata nei vari piccoli Stati, non aveva campo d’azione. La vita interna degli Stati italiani era caratterizzata da strutture proprie di una società preindustriale. L’intensificazione dei traffici coi mercati d’oltralpe (era aumentata la richiesta di seta e cotone nonché di generi alimentari pregiati) rendeva ancor più evidenti le condizioni di arretratezza. L’Italia rischiava d’essere tagliata fuori dagli sviluppi del capitalismo industriale dell’occidente europeo. Produttori e commercianti chiedevano: unificazione doganale e creazione di un organico e moderno sistema di comunicazioni interne.
A far cambiare qualcosa - a partire dal 1820- furono soprattutto gli scrittori romantici, intraprendendo un’opera di sprovincializzazione della cultura italiana, inserendola nel più vasto moto del Romanticismo europeo.




















"La Repubblica di Genova era circondata dai FEUDI IMPERIALI, marche e contee del Sacro Romano Impero che con essa confinavano. Molti nobili come i Fieschi, i Doria e gli Spinola, facenti parte della famiglie che governavano Genova, erano feudatari di questi territori. Alcuni Feudi furono gradualmente incorporati nella Repubblica di Genova. Tra questi citiamo Arenzano che entrò a far parte della Repubblica nel XII secolo, pur mantenendo la sua autonomia, Cogoleto, che passò alla Repubblica nel 1343, Moconesi, Fascia e molti altri ancora.
Altri Feudi, come quelli della Val Borbera, della Valle Scrivia e della Valle dell'Aveto, sopravvissero fino all'avvento di Napoleone. Napoleone infatti soppresse i Feudi Imperiali il 27 giugno 1797 con lettera inviata al cittadino Faipoult da Montebello. In data 8 luglio 1797 l'agente napoleonico Vandryz proclamò ad Arquata in forma ufficiale che i Feudi Imperiali erano soppressi e incorporati nella Repubblica Democratica Ligure. La fine dei Feudi Imperiali venne sancita definitivamente il 17 ottobre 1797 con il Trattato di Campoformido (o Campoformio), nell'attuale provincia di Udine, con cui l'Imperatore d'Austria Francesco II rinunciava ai suoi diritti sui Feudi Imperiali liguri accettando la loro unione alla Repubblica Democratica Ligure.
Gli ex Feudi Imperiali comprendenti le località di Ottone, Garbagna, Santo Stefano, Torriglia, Carrega, Rocchetta, Cabella, Mongiardino, Croce, Isola, Ronco, Roccaforte, Arquata, assunsero allora il nome di «Monti Liguri
Da questo momento i Feudi Imperiali seguirono le sorti della Repubblica Democratica Ligure: vennero annessi alla Francia di Napoleone con il Decreto di Aggregazione del 6 giugno 1805 (17 prativo anno XIII) che sancì la riunione degli Stati della Liguria all’Impero Francese.
Durante l'occupazione francese il territorio ligure su suddiviso, analogamente ad altre regioni dell'Impero, in dipartimenti, circondari, cantoni e comuni. Con lo stesso Decreto del 6 giugno 1805 il territorio della Repubblica Ligure venne ripartito in quattro dipartimenti:
dipartimento di GENOVA con capoluogo Genova - Circondari:
Genova
Novi
Bobbio
Voghera
Tortona
dipartimento di MONTENOTTE con capoluogo Savona - Circondari:
Porto Maurizio
Savona
Ceva
Acqui
dipartimento degli APPENNINI con capoluogo Chiavari - Circondari:
Chiavari
Borgo taro
Sarzana
dipartimento delle ALPI MARITTIME con capoluogo San Remo - Circondari:
Nizza
Poggetto - Theniers
San Remo"
[fonte Franco Bampi - indagine on line / "Storia delle province liguri"]













Esistono alcuni episodi [scrive Franco Bampi nel Bollettino «A Compagna», n. 4/5 - Lug.-Ott. 1999] della Repubblica di Genova avvenuti in occasione del turbine napoleonico (più precisamente tra il 1796 e il 1815) che i maggiori libri di storia genovese trattano in maniera superficiale, sottovalutando l'importanza che, nella rilettura storica attuale, sembrano rivestire. Il primo, che tratterò in questo scritto, riguarda la stipulazione di una convenzione segreta tra la Repubblica di Genova e la Repubblica Francese. La situazione storica in cui si colloca l'episodio è la seguente.
Le idee della Rivoluzione Francese si erano ormai diffuse in Europa. Nell'aprile del 1796 Napoleone, la cui importanza incominciava a rivelarsi all'Europa, intraprende la prima campagna d'Italia. Così scrive il Donaver (1): La Repubblica di Genova, come quella di Venezia, protestò volersi serbare neutrale, sebbene la nobiltà, nelle cui mani stava il potere, tremasse al progresso delle idee francesi. L'Inghilterra, che si era alleata con il re sardo e l'imperatore d'Austria contro la Francia, mandava una flotta nel Mediterraneo, al duplice scopo d'indurre la Repubblica di Genova ad entrare nella loro lega e difendere la riviera di ponente da un'invasione francese. A violare la neutralità della Repubblica, sebbene senza sua colpa, accadde che due navi inglesi entrassero nel porto di Genova, assalissero la fregata francese "La Modesta" e, uccidendone molti marinai, se ne impadronissero. Protestò la Francia a mezzo del suo ministro Tilly, minacciando gravi danni alla Repubblica; ma questa, mediante il pagamento di quattro milioni di lire, compose, pel momento, la vertenza.
Ecco il punto: Genova pagò quattro milioni di lire alla Francia. Ed ecco il problema: quale patto fu stipulato e quali furono le garanzie o le promesse che Genova ottenne dalla Francia? Sugli altri libri di storia genovese non si trovano maggiori chiarimenti. Il Vitale (2) afferma che la Repubblica di Genova in cambio della promessa di rispettare l'integrità del territorio ligure e di non permettere al Regno di Sardegna di ritornare ad Oneglia e a Loano, assicura alla Francia un prestito di sei milioni. Si noti: sei milioni e non quattro. Il De Negri (3) semplicemente non cita l'episodio. Altri autori (Costantini (4), Bergellini (5), Manfroni (6) e, più diffusamente, Varese (7) e Clavarino (8)) parlano genericamente di un accordo e ne indicano qualche clausola.
La documentazione dell'accordo è reperibile in uno scritto conservato presso l'Archivio di Stato di Genova dal titolo: Convenzione segreta fra la Repubblica Francese e la Repubblica di Genova (9). In estrema sintesi la Repubblica di Genova, come era usa fare, ritiene di poter fermare Napoleone pagando ben quattro milioni di franchi a garanzia dell'integrità territoriale. La Francia accetta e, come è noto, non mantiene i patti arrivando, con il Decreto di Aggregazione del 6 giugno 1805 sottoscritto da Napoleone, alla "riunione degli Stati della Liguria all'Impero Francese". La tragica conclusione arriva con il Congresso di Vienna (1814-1815): la Serenissima Repubblica di Genova viene annessa d'imperio al Regno di Sardegna.
Curioso è l'epilogo dell'accordo segreto che è reperibile nel libro di Clavarino. Il Governo Provvisorio, insediatosi il 14 giugno 1797 e presieduto dall'ultimo doge Giacomo Brignole, il 25 agosto 1797 emana un decreto dove si afferma: Il Governo Provvisorio considerando che il passato aristocratico Governo ha caricato indebitamente d'un enorme peso l'intera nazione nella convenzione fatta colla Repubblica Francese l'anno 1796, 9 Ottobre, e considerando che la medesima Repubblica Francese non ha inteso di far passare sul popolo innocente la somma di quattro milioni Tornesi pattuiti coll'estinta oligarchia. Decreta: Art. 1. I quattro milioni tornesi saranno versati nella cassa Nazionale da coloro che, contro la manifesta intenzione del popolo hanno provocata la coalizione, e dato luogo ai giusti reclami della Repubblica Francese contro il passato aristocratico Governo.
In conformità a questo decreto, una commissione, composta da Luca Gentile, Gio. Carlo Serra, Marco Federici, Russa e G.B. Rossi, ha successivamente individuato un centinaio di nobili che la commissione ritenne aver causato il gravame dei quattro milioni di lire tornesi nella Convenzione fatta da Vincenzo Spinola in Parigi e ratificata dal Minor Consiglio. Commenta il Clavarino: decreto veramente incomportabile; perché in primo luogo, chi aveva fatto ed approvato quella Convenzione, aveva facoltà di farla, ed era un pessimo esempio il cominciare a far leggi con effetto retroattivo. Ed in secondo luogo, e per quale causa, se il Minor Consiglio era composto di duecento soggetti, la metà circa solamente doveva essere tassata?
Perché il lettore possa giudicare autonomamente il contenuto dell'accordo segreto, a stralci ne riporto gli articoli precisando che il carattere corsivo indica la trascrizione letterale del documento.
Premessa. La Repubblica Francese e la Repubblica di Genova, desiderando di stringere maggiormente i legami che le uniscono, dissipare le nuvole che qualche avvenimenti disgustosi avevano inalzato fra loro, riparare ai disapori ed impedire che non si rinovino, hanno nominato per suoi Plenipotenziarj, cioè il Direttorio Esecutivo per la Repubblica Francese il cittadino Carlo De La Croix, ministro, delle Relazioni Esteriori, ed il Senato della Repubblica di Genova il patrizio Vincenzo Spinola, li quali, dopo aver cambiato i loro pien poteri rispettivi, hanno convenuto ciò che siegue.
Articolo 1. Il decreto escludente le navi inglesi dai porti di Genova avrebbe vigore ed esecuzione fino alla pace.
Articolo 2. Genova proibirà ai suoi sudditi di recare munizioni e viveri agli Inglesi.
Articolo 3. Genova munirà sufficientemente i porti; se ciò non bastasse, la Francia la servirà dei suoi presidi.
Articolo 6. Il Governo Genovese, avendo riguardo alla dimanda che gli è stata fatta, acconsente ad annullare qualunque decreto e a far cessare qualunque processi cominciati contro di molti genovesi per opinioni, discorsi e scritti relativi alla rivoluzione francese.
Articolo 7. I nobili processati saranno riammessi nel grande e nel piccolo Consiglio.
Articolo 8. La Repubblica Francese promette alla Repubblica di Genova i suoi buoni uffizij:
per la conservazione dell'integrità del suo territorio nel suo stato attuale e conformemente ai trattati attualmente esistenti.
per la conclusione della sua pace con le potenze barbaresche.
perché alla pace con l'Imperatore e l'Impero le differenti porzioni del territorio di Genova sopra le quali esistono dei legami o delle pretensioni di feudalità siano intieramente disimpegnate.
Articolo 9. Genova accetta la mediazione della Francia per comporre le differenze col Re di Sardegna.
Articolo 10. La Repubblica di Genova riconoscente alla amicizia che gli attesta la repubblica Francese, all'interesse che essa prende alla sua indipendenza e all'integrità del suo Stato, come ancora alli vantaggi che devono rissultare per essa dalla presente Convenzione gli pagherà due millioni di franchi, cioè un quarto al primo Frimaire prossimo, e gli altri tre quarti di mese in mese nei tre mesi successivi.
Articolo 11. Ella si obbliga inoltre ad aprire sopra la medesima a profitto della Repubblica Francese un credito di due altri millioni di franchi pagabile per quarto il primo al 36 Vendemmiaire prossimo e gli altri tre al 36 di ciascuno dei tre mesi successivi. Questi due millioni saranno pagati alla sua scadenza a genovesi portatori delle tratte o di ordini del Governo francese per proviste fatte all'armata o alla marina o altre dopo le assegnazioni che saranno date ai portatori dei detti ordini.
Articolo 13. Li due ultimi millioni saranno rimborsati alla repubblica di Genova a ragione di un millione per anno, il primo termine scaderà un anno dopo la sottoscrizione della pace generale e non porteranno alcun interesse.
La convenzione, di quindici articoli e due note, viene firmata A Parigi li diciotto Vendemmiaire anno quinto della Repubblica Francese una et indivisibile corrispondente ai 9 ottobre 1796 vecchio stile.
NOTE
(1) F. Donaver, La Storia della Repubblica di Genova, Genova, 1913.
(2) V. Vitale, Breviario della Storia di Genova, Genova, 1955.
(3) T.O. De Negri, Storia di Genova, Milano, 1974.
(4) C. Costantini, La Repubblica di Genova, Torino, 1986.
(5) M. Bargellini, Storia Popolare di Genova, Genova, 1870.
(6) C. Manfroni, Genova, Roma, 1929.
(7) C. Varese, Storia della Repubblica di Genova, Tomo ottavo, Genova, 1838.
(8) A. Clavarino, Annali della Repubblica Ligure dall'anno 1797 a tutto l'anno 1805, volume primo, Genova, 1852.
(9) A.S.G., Archivio Segreto, "Materie Politiche", "Privilegi, Concessioni, Trattati diversi e Negoziazioni", anni 1750-1797, mazzo n. 18, busta n. 2737, doc. n. 56.











Nel 1800 Genova subì un rigido assedio da parte degli Austriaci e degli Inglesi che fu gestito a Genova dal generale francese Massena.
All'assedio partecipò, come capitano, anche il poeta Ugo Foscolo.
Marina Milan [ Genova 2002] ha pubblicato il Diario genovese, manoscritto di Nicolò Corsi (1796-1809) che, preso a stralci, offre un'idea di quel calamitoso evento:
"Li 15 Maggio (1800) giornata torbida (...) altra pubblicazione del Comitato Edili, nella quale proibisce alle rivenditrici, che vendono basane , il non vendere quelle gusce, (che altre volte pregavano i romentari portargliele via) ora per la gran quantità de poveri, e altre persone, che non hanno sussistenze per mantenersi, chiedendo dette gusce, vogliono vendere, e le vendevano soldi 1.4 la libra; queste v'è chi le bolle, e mangia per insalata, altri che puonno le servono per frittura, ed altri alla meglio che puonno; ecco a che segno è ridotta questa Città, una volta abbondante d'ogni qualità de viveri. (...) Quella dei 27 (maggio 1800) comparisce bella, ma un'ora dopo mezzo ha fatto una borasca di tuoni ed acqua, che ha durato più d'un'ora, ma la pioggia durò lentamente ininterrotta sino alle cinque, poi fattosi sereno verso le sette. Oggi diverse stampe girano per la Città, ma di queste nulla registro del loro contenuto, non essendo il caso di più comprarne, avendole conosciute per imposture (particolarmente quelle di Massena), e di quelle che si chiamano leggi del Governo, poco o nulla si deve mettere in credito, perché il presente Governo Consolare, bisogna che vadi d'accordo col detto Generale (Massena), avendo esso le redini del Governo. Questo si prova di fatto, che se un Governo dei più tiranni, avesse un Popolo morto dalla fame, come la maggior parte è quello di Genova, più tosto di vederlo perire, si darebbe a qualunque Potenza con perdita o di Regno, e di Principato, purché vivesse il Popolo; ma questo Massena nulla le cale, che detto Popolo perisca, avendo esso fatte le requisizioni, di granaglie, vini, carni, e formaggi, de quali generi si è provisto il Forte del Sperone, dove esso pernotta quasi sempre, e quelli giorni, che pranza al suo albergo, dimostra di partecipare alla penuria, che soffre il Popolo, ma cosa dirò di più? Li suoi soldati cascano a pezzi dalla fame, e vanno racattando, foglie di cipolle, di rapanelli per le contrade, e molti ne muojono.

















La sommossa dell'aprile '49 - Quando Genova insorse in difesa della libertà
[articolo in due parti di RENZO PARODI su "Il Secolo XIX" 11 gennaio 2004 e 18 gennaio 2004]
«Mio caro generale, vi ho affidato la faccenda di Genova perché voi siete un uomo coraggioso. Non avreste potuto comportarvi meglio e vi meritate ogni genere di complimenti». Così scriveva, in francese, Vittorio Emanuele II, re di Sardegna da neppure un mese, l'8 aprile 1949, al generale Alfonso La Marmora, ai suoi occhi di monarca un soldato meritevole della più grande riconoscenza: aveva soffocato nel sangue del popolo - ma questo evidentemente non gli importava - la rivolta dei genovesi, ristabilendo l'autorità regia. Che cosa pensasse della città di Mazzini e del suo fiero popolo il futuro Padre della Patria italiana, il re Galantuomo che avrebbe unificato la Penisola grazie alla spada di Garibaldi, lo apprendiamo poche righe oltre.
Riferendosi alla città ribelle, il re auspica «ch'ella infine impari una volta per tutte ad amare le persone oneste che lavorano per il suo bene, e ad odiare questa vile e infetta razza di canaglia alla quale si è affidata e nella quale, sopprimendo ogni sentimento di fedeltà e ogni sentimento d'onore, ella ha riposto tutta la sua speranza».
La città era insorta il 1° aprile, domenica delle Palme, otto giorni dopo la Fatal Novara. La guerra contro l'austriaco oppressore era perduta. Invano il re triste, Carlo Alberto, esponendosi temerariamente sugli spalti, aveva cercato la palla fatale.
Dalla disonorevole disfatta il monarca sabaudo uscì fisicamente incolume ma distrutto nello spirito. Abdicò in favore del primogenito, Vittorio Emanuele e si rifugiò in Portogallo, ad Oporto. Non sarebbe sopravvissuto molto all'onta della disfatta, militare e politica. Il 27 marzo 1849, Genova accolse attonita la notizia della sconfitta di Novara e le condizioni dell'Armistizio, siglato a Vignale dal giovane re (aveva appena 30 anni) e dal Feldmaresciallo Radetzky. L'atto prevedeva condizioni giudicate disonorevoli come la permanenza di guarnigioni austriache nel territorio compreso fra il Po, la Sesia e il Ticino, e nella metà della piazza di Alessandria, la cittadella fortificata che sorgeva come un baluardo fra Torino e Genova. Diciottomila fanti e duemila cavalieri di S.M. l'Imperatore d'Austria si insediavano dunque entro i confini piemontesi. Una forza che - ragionarono i genovesi - poteva essere facilmente scagliata contro la loro città come la testa di un enorme martello.
Lo spettro di una seconda occupazione austriaca - dopo quella che nel 1746 produsse il sasso di Balilla - prese ad aleggiare nei circoli democratici di una città ancora fieramente repubblicana. Angelo Brofferio, scrittore piemontese di idee progressiste, scriveva di quei giorni concitati: «Udito il disastro di Novara che tutti giudicarono tradimento, udite le condizioni dell'armistizio, che a tutti parvero disonorevoli, Genova alzò il capo fieramente e non volle sottoporsi né al Croato che invadeva, né al Ministero che pareva essere in buona intelligenza con l'invasore».
"Tradimento!": l'orribile parola volava di bocca in bocca. In quella disonorevole capitolazione, nella rinuncia alla guerra all'Austria, molti scorsero appunto la mano fedifraga di quanti, a Torino, anteponevano gli interessi dinastici dei Savoia e la conservazione dei privilegi aristocratici, alla sacra causa della riunificazione nazionale. La tesi dei repubblicani all'ingrosso era proprio questa. Pur di non perdere i suoi privilegi feudali, la nobiltà sabauda alla ripresa della guerra aveva intrattenuto rapporti con Radeztsy, informandolo dei movimenti delle truppe regie, al punto che l'odiato Feldmaresciallo poté inviare spie nelle fortezze tenute dai piemontesi e quindi sbaragliare in battaglia, disponendo di appena 50mila uomini, l'esercito sardo che ne contava il doppio.
Questa tesi viene ripresa anche nel volume conosciuto come l'Anonimo di Marsiglia, una puntigliosa e documentata ricostruzione dell'assedio e del sacco di Genova, pubblicata nella città francese nel novembre 1849, scritta da un testimone oculare dei fatti e attribuita, volta a volta, a Emanuele Celesia, al deputato Costantino Reta e - con maggiore verosimiglianza - a Niccolò Accame, segretario del Governo provvisorio di Genova che dopo la repressione della rivolta si era rifugiato proprio a Marsiglia.
Le campane suonavano a stormo, la sera del 27 marzo 1849, il popolo correva alle armi, pronto a battersi a difesa della città e della propria libertà. Non immaginava ancora che di fronte si sarebbe trovato non le aquile imperiali di Vienna ma le baionette e i fucili dei bersaglieri del "suo" re. Eppure già sette mesi avanti, il ministro degli Interni, Pinelli, aveva pronunciato una frase che era una dichiarazione di intenti e insieme un programma: «Credo che uno scoppio di questi malumori sia quasi desiderabile». Nello stesso periodo veniva inviato a Genova, come nuovo governatore, il generale Giacomo Durando, già munito, si vociferava, di un decreto di stato di assedio in bianco. A Torino la reazione stava già predisponendo le sue pedine.
All'inizio della primavera del 1849, il comandante della Divisione Militare di Genova, il generale Giacomo De Asarta, nativo di Sampierdarena, preoccupato dai primi sommovimenti popolari, aveva spedito corrieri a Torino invocando l'intervento delle truppe di La Marmora. Intercettato uno dei messaggeri, l'appello divenne di dominio pubblico. Dunque le truppe piemontesi che andavano ammassandosi entro le mura e nei forti che cingevano la città non s'apprestavano alla difesa di Genova dall'Austriaco, ma erano venute a strangolarne la libertà. La reazione popolare arrivò fulminea.
Sequestrato l'Intendente generale, Farcito, lo si costrinse ad ordinare la consegna dei forti Sperone e Begato ai popolani armati, tra i quali spiccavano 600 facchini, i "camalli" del porto. La presenza nel governo di Torino di Dalaunay e Pinelli «erede dei due nefandi armistizi - scrive l'Anonimo - toglieva purtroppo ogni speranza delle libertà cittadine». Era una profezia destinata tristemente ad avverarsi.
Il giorno 29, il Municipio, riunito in permanenza, inviò a Torino due emissari con la richiesta di trasferire il Parlamento a Genova. Il generale Giuseppe Avezzana, comandante della Guardia Civica, con un editto annunciò di non riconoscere l'Armistizio con l'Austria. Il significato sottinteso di quella mossa era: uniamoci a difesa dell'indipendenza del Regno. Ma a Torino l'interpretarono come l'annuncio di un colpo di Stato di matrice repubblicana. In seguito, per giustificare l'impiego delle truppe contro la città, i commentatori filopiemontesi inventarono una congiura repubblicana che nemmeno si profilò all'orizzonte.
«Niuno forse tra noi che non avesse fior di senno pensava a segregare Genova dal Piemonte e costituirsi un proprio governo - scrive l'Anonimo di Marsiglia che certamente visse dall'interno quei giorni drammatici - La bandiera della Liguria fu sempre l'unificazione non di smembramento delle province italiane». Nel frattempo il generale De Asarta aveva trasferito il proprio quartier generale allo Spirito Santo, proprio dove aveva dislocato le sue truppe, un secolo avanti, l'odiatissimo generale Botta Adorno, comandante del presidio austriaco occupante la città. Il console inglese fece affiggere un manifesto nel quale - in caso di insurrezione - minacciava Genova di bombardamento da parte di una nave di Sua Maestà ancorata in porto.
A mezzanotte la protesta sembrò placarsi ma all'alba del 30 marzo il popolo insorse: studenti, facchini, operai, garzoni, artigiani accorsero ad armarsi, persino preti e frati (tra i quali il celebre e venerato padre Santo, che se ne discolperà adducendo la ragione di esservi stato costretto) risposero all'appello per l'insurrezione. Il Municipio esitava nel prendere decisioni e l'Anonimo precisa che si trattò soltanto di «alcuni che nell'ora del rischio, sceveratisi dalle file del popolo, si rintanarono nelle sale del Municipio e ivi intesero ad organizzare la reazione». Altri invece si unirono ai popolani mentre andò a vuoto il tentativo di arrestare il generale Avezzana, salvato da un manipolo di artiglieri.
Il generale De Asarta, barricato all'Arsenale e protetto dai cannoni della guarnigione piemontese, aveva visto la sua famiglia imprigionata e trattenuta - assieme al generale Ferretti, imparentato con Pio IX - in ostaggio a palazzo Tursi. Gli venne comunicato che avrebbe ricevuto la testa del figlio, al primo colpo di cannone sparato sulla città. Le truppe di stanza in città in parte si rifugiarono allo Spirito Santo, in parte fraternizzarono con gli insorti.
Il 31 una Commissione di salute pubblica chiese al Consiglio Municipale la nomina di un Triumvirato, nelle persone del generale Avezzana, dell'avvocato David Morchio e del deputato Costantino Reta. Anima e braccio della rivolta era un avvocato genovese, fervente repubblicano: Didaco Pellegrini, destinato a morire in esilio volontario a Costantinopoli, nel 1870, avendo rifiutato l'indulto concesso nel 1856 ai capi dell'insurrezione genovese.
A sera un tumulto di popolo mandò in frantumi, nell'esultanza generale, l'Arco che univa Palazzo Ducale alla chiesa di Sant'Ambrogio, covo degli aborriti Gesuiti. Il generale Avezzana, ormai assurto a capo militare dell'insurrezione, frattanto aveva ispezionato le barricate erette in città. Lo accompagnava, riferiranno a distanza di mezzo secolo alcuni testimoni oculari, un giovane biondo, dall'aria assorta: Goffredo Mameli. Era accorso nella sua città e vi si trattenne fino alla avvenuta repressione militare per poi rientrare a Roma, dove cadrà da prode. Vennero alzati i ponti levatoi, un'incursione di soldati fu respinta alla porta Pila, mentre due grossi cannoni furono collocati all'ingresso di palazzo Tursi, per sventare eventuali colpi di mano del De Asarta.
Il giorno appresso, 1° aprile, la Guardia Nazionale, mischiata ai popolani in armi, sfondò le porte della Darsena, facendo causa comune con i marinai e i soldati colà rinchiusi, nel tripudio degli evviva e dei colpi di schioppo sparati in aria. L'Arsenale fornì abbondanti fucili e munizioni agli insorti. Illudendosi di aver guadagnato la fraterna amicizia dei soldati, costoro si presentarono festanti al cospetto dello Spirito Santo. Incoraggiati dai gesti amichevoli di alcuni ufficiali sugli spalti e da teli di candido lino esposti alle mura, il popolo in armi si avvicinò al presidio, accolto all'improvviso da un terribile fuoco di mitraglia che aprì larghi vuoti tra la gente.
A sparare furono i Carabinieri e le riserve del Reggimento Guardie, dai balconi dell'Annona. Lo scontro si accese fortissimo, condotto con coraggio dal generale Avezzana in persona. Egli riuscì a far occupare le alture dirimpetto all'Arsenale, l'Acquaverde e il campanile di San Giovanni di Prè. Da via Balbi un cannone cominciò a prendere d'infilata il nemico. Durò tre ore il combattimento fierissimo, con gravi perdite su entrambi i fronti, si contarono 23 morti e 19 feriti tra i cittadini inizialmente caduti nel tranello e rimasti a corto di munizioni. Il colonnello Morosso, delle Guardie, odiatissimo dai genovesi, cadde trafitto al cuore da una palla. Lo scontro si riaccese, rinfocolato dall'irrompere di altri popolani armati, fra i quali donne, giovinetti, anziani e persino preti e frati, che si slanciarono all'assalto, disselciando le strade e innalzando barricate. In breve gli otto cannoni presenti alla Darsena furono catturati, trascinati sulla collina di Pietraminuta e rivolti contro la truppa.
All'alba il De Asarta dette l'ordine ai suoi di ripiegare in fretta e furia e in seguito dovette addirittura chiedere la Capitolazione che Avezzana concesse: 5.600 militari piemontesi sgomberarono il presidio, seguiti da un grosso corpo di Carabinieri reali. Nelle condizioni di resa si precisò che il governo di Genova si sarebbe adoperato per impedire che la Divisione Lombarda, in marcia verso la città, si scontrasse con i soldati piemontesi in ritirata. A sua volta - si legge nella Capitolazione - «il De Asarta si impegna a impiegare i suoi buoni uffici affinché nessun corpo d'armata, sia del generale La Marmora che di qualunque altro Comandante del Governo sardo, marci alla volta di Genova, ma abbia ugualmente che il suo a ritirarsi oltre l'Appennino». Al punto 6 della Capitolazione si legge: «Genova rimarrà inalterabilmente unita al Piemonte». Eppure La Marmora era già in marcia e si appressava alla Superba.
Annusata l'aria, il 2 aprile, il Triumvirato si tramutò in Governo Provvisorio. Si inviarono messaggeri ai Lombardi perché si affrettassero, furono spediti quattro piroscafi a Chiavari per facilitare il loro arrivo in città. Lorenzo Pareto, illustre esponente dell'aristocrazia progressista, veniva nominato Ispettore generale delle fortificazioni di Genova. «Non si ebbe fra tanti un solo proclama dal cui tenore trapelasse il concetto di voler spodestare i Reali di Savoia e crearsi un nuovo governo - scrive l'Anonimo - Questa città generosa fece sull'altare della Patria olocausto di ogni privato rancore».
Esploratori a cavallo distaccati sulla strada di Novi tornarono annunciando quel che già molti temevano. Le avanguardie di La Marmora - non gli Ulani austriaci - si stavano avvicinando a Genova. Trentamila soldati formavano il corpo di spedizione. Reta inviò al generale un messaggio, implorandolo di non volgere le armi verso i fratelli ma semmai di usarle contro l'austriaco invasore. Per tutta risposta La Marmora fece imprigionare il messo, minacciandolo di fucilazione. Giunto in Val Polcevera, concesse un breve riposo ai soldati, in attesa di sferrare l'attacco. «Ma i più fieri avversari del popolo non erano gli assalitori: che molti come si disse, e di peggiore tempra erano i nemici domestici. - scrive l'Anonimo - Le loro arti subdole, i loro inganni, non il valore piemontese, spianarono al La Marmora l'ingresso in città». Vedremo come.
Accampato con trentamila uomini in Valpolcevera, La Marmora si preparava a dare l'assalto alla città. Secondo l'Anonimo di Marsiglia (testimone oculare dell'insurrezione) il comandante piemontese aveva promesso ai suoi soldati libertà di saccheggio. In un libello apologetico ed autocelebrativo, pudicamente intitolato: "Un episodio del Risorgimento", La Marmora esibisce questa barcollante autodifesa: se non fosse giunto, alla testa delle truppe, a "liberare" Genova dai sediziosi che l'avevano presa in pugno, si sarebbe rischiato «di vedere gli Austriaci e i Francesi fare a gara per aiutarci e giungere forse anche contemporaneamente, gli uni per terra, gli altri per mare, sotto le mura di Genova». La Marmora aveva quindi "salvato" la città riempiendone la strade di morti e le case di soldati votati al saccheggio e alle violenze sui cittadini inermi. Di gratuite violenze si macchiarono anche i genovesi. Il 3 aprile una folla inferocita riconobbe (sebbene in abiti borghesi), il maggiore dei Carabinieri Ceppi, lo linciò e fece scempio del cadavere.
«Alle due del pomeriggio (4 aprile), il battere della generale e i rintocchi delle campane chiamavano il popolo all'armi. - scrive l'Anonimo - Correa voce che i bersaglieri si fossero per sorpresa impodestati del forte di S. Benigno. Ma questa voce, lungi dall'abbattere l'animo dei popolani, era loro anzi di sprone a riacquistarlo». Un falso ordine di Avezzana - propagato in realtà dai piemontesi - fece accorrere diecimila armati a difesa della Porta Pila, lungo il Bisagno, con la scusa che l'assalto a San Benigno era una manovra diversiva. Il vero sforzo dei regi viceversa si stava producendo proprio a ponente, provenendo da Sampierdarena. Fra gli insorti circolava un gran numero di spie e provocatori al soldo dei piemontesi. Un tale R. si offerse ad Avezzana di guidare la difesa del forte delle Tenaglie. Il comandante purtroppo accondiscese e il traditore, il giorno 3 aprile, prese possesso del forte, rifiutando, il giorno appresso, l'aiuto portato dalla Compagnia N.N., con la scusa che i suoi 138 uomini sarebbero bastati alla difesa. Quindi si procurò, con l'inganno, l'ordine firmato dal colonnello Federico Campanella, dello Stato Maggiore, di spalancare le porte del forte ad una fantomatica Compagnia se questa fosse stata respinta dai piemontesi. Senonché, al posto dei soldati amici, furono i bersaglieri ad irrompere nel forte delle Tenaglie.
Frattanto La Marmora aveva inviato un messo ai genovesi con l'intimazione alla resa. La risposta fu un grido solo: Genova «si sarebbe sepolta fra le sue rovine anziché cedere così vilmente». Le difese presero posizione alla batteria di San Teodoro paventando un attacco alle spalle condotto dal forte delle Tenaglie attraverso la porta degli Angioli. Le batterie della Darsena, del Molo, della Cava, di Monte Galletto aprirono un fuoco tremendo in direzione di San Benigno, dove si erano attestati i soldati regi, facendone strage. Dal mare la barca cannoniera la "Valorosa" sparava sulla costa da Sampierdarena. Le mura di Granarolo si riempivano di volontari pronti a combattere, rinforzati dalla Legione Universitaria. Con due pezzi da sedici pollici si sparava anche contro un'uccelliera al Lagaccio, costringendo a sgomberare un manipolo di bersaglieri. Nella notte Lorenzo Pareto ordinò di ritirarsi sul Forte Begato.
Alla porta della Lanterna, ordini e contrordini (spesso fasulli) si incrociavano gettando nello scoramento i difensori (110 artiglieri e 100 fra Guardie nazionali e popolani). Alle 4, di fronte all'attacco dei regi, fuggirono via mare. Il Conte N.N., avvicinatosi con la bandiera bianca alle mura per parlamentare a nome di La Marmora, venne respinto. Un ufficiale e alcuni bersaglieri che avanzavano con un vessillo bianco furono centrati e disintegrati da un colpo di cannone sparato dal Molo Vecchio. Si presentò La Marmora in persona che si accorse come le difese fossero sguarnite. Ordinò l'assalto e gli otto (!) difensori dovettero trovare scampo via mare. Insediatisi alla Lanterna, i soldati regi volsero contro la città le batterie che vi avevano trovato intatte e neppure il coraggioso tentativo di 50 polacchi (dei 160 accorsi a battersi a Genova) valse a sloggiarli. Nei successivi attacchi si distinsero per crudeltà i bersaglieri comandati da Alessandro La Marmora, fratello maggiore del comandante in capo.
Caduta anche la porta di Granarolo, i regi rintuzzarono un attacco proveniente dal Begato, nel quale si distinse il barcaiolo Nicola Ghio, detto Guerra. Le truppe regie strinsero d'assedio le pendici del Begato, i genovesi alle otto del 5 aprile dovettero sgomberare il palazzo e la piazza del Principe, presa d'assalto da diversi battaglioni nemici. Si rinserrarono dietro le barricate erette a Porta San Tomaso, dalla quale si sparava ad alzo zero contro la cavalleria che invano si slanciava all'attacco. Si riconquistò alla baionetta il palazzo del Principe. L'Anonimo cita ammirato una bella cortigiana, I.B. «le cui mollezze riscattava ampiamente generoso sentire e forte amor cittadino. Fremente d'ardor bellicoso lanciavasi prima in quel vasto palagio a rintracciare il nemico e del suo più che maschio ardire meravigliò lo stesso Avezzana». Il palazzo Doria venne tre ore dopo riperso e subito bombardato dall'alto dagli insorti, appostati alla barricata di San Tomaso, da Monte Galletto e dalla Specula.
Altri personaggi si distinsero in quelle giornate di sangue. Uno è Gio Batta Chiappara, detto il Moscettiere, console dei facchini del Ponte della Legna. Già avanti negli anni, posto a guardia del magazzino delle polveri sopra il Lagaccio, sorpreso dai bersaglieri, si offerse loro come ostaggio e riuscì a scampare. Frattanto si stipulava un fragile armistizio fra un gruppo di insorti e i soldati di La Marmora. Nella lotta era entrata anche una nave britannica, la "Vengeance", ormeggiata al porto, al comando di Lord Ardwich, al quale La Marmora era ricorso per propiziare un cessate il fuoco. Ben due imbarcazioni spedite a terra dalla nave vennero respinte a colpi di fucile. La terza, armata, riuscì a ricacciare i pochi arditi rimasti sul molo, catturare e smontare quattro pezzi di artiglieria, gettare in acqua un gran numero di palle e portar via, per consegnarli ai piemontesi, 26 cassoni di polvere.
I consoli si erano presentati a La Marmora, in compagnia dell'Avezzana, il quale chiedeva un armistizio e si vide offrire appena 4 ore di tregua. «Se non cederete Genova ai piemontesi, la cederete agli austriaci», lo minacciò il console di Sua Maestà britannica. Avezzana inviò a Lord Ardwick una nota nella quale lo minacciava di colare a picco a cannonate la "Vengeance", se non avesse abbandonato la posizione all'ormeggio dalla quale avrebbe potuto volgere i cannoni contro la popolazione. La nave venne spostata ma il Commodoro continuò a trescare a favore dei piemontesi.
Gli eventi precipitavano. A mezzogiorno del 5 le batterie dei piemontesi cominciarono a battere la città. Il bombardamento durò trentasei ore, provocando incendi, crolli, devastazioni sui quartieri poveri e una moltitudine di vittime e feriti. Particolarmente bersagliato il quartiere di Portoria. In spregio a Balilla? Venne colpito più volte l'Ospedale di Pammatone, undici proiettili esplosero nelle corsie, facendo strage dei degenti e costringendo i superstiti a fuggire seminudi e sanguinanti. Le dimore signorili di via Nuova e via Nuovissima (le attuali via Garibaldi e via Balbi) furono completamente risparmiate. Centrate dai proiettili, colarono a picco alcune delle navi ormeggiate in porto, tra loro il "Liamone", battello-posta francese. La Marmora fu costretto a scusarsene. Gli orrori dell'ignobile bombardamento sui civili vennero superati quando entrarono in azione le soldataglie. Lasciamo la parola all'Anonimo: «In ben 350 famiglie di San Rocco degli Angioli, S. Teodoro e di S. Lazzaro, come risulta dai documenti raccolti dal Municipio, infuriò la bestialità delle forsennate milizie, che sfondavano gli usci delle pacifiche case, e tutto mandavano a ruba. Oltre agli averi dei cittadini si diè piglio ai vasi sacri, e agli arredi dei templi, si stuprarono le vergini, le madri insultavansi; nel palazzo del principe Doria si fecero ingollare ad alcuni de' nostri prigioni gallette inzuppate di sangue. Diversi ufficiali, quelli in ispecie dei bersaglieri, furono i primi a bottinare (alcuni di essi già scontano in carcere le loro scelleratezze) animando coll'esempio i soldati».
Fra i tanti scellerati che disonorarono la divisa il bersagliere Alessio Pasini, mantovano, si distinse per aver sottratto intere famiglie alla brutalità dei commilitoni. Verrà premiato dal Municipio di Genova con una daga d'onore.
In Valbisagno il giorno 6 le compagnie nazionali delle borgate di Marassi, Quezzi e San Fruttuoso abbandonarono il Forte dei Ratti. Preso il Forte dei Ratti, i piemontesi si accamparono a Bavari e occuparono anche il forte di Santa Tecla, abbandonato dai difensori. Il Richelieu, difeso da appena 16 uomini, si diede al nemico che tributò ai difensori l'onore delle armi. Mentre il comandante del forte di San Giuliano, portatosi a parlamentare a Sturla con Alessandro La Marmora, si condusse appresso 200 piemontesi ai quali consegnò la fortezza.
I promotori della rivolta il giorno 7 lasciarono la città, che aveva ottenuto un armistizio. Solo Reta andò a parlamentare col corpo consolare a bordo della nave francese "Tonnerre", da dove gli venne impedito di sbarcare. Il Municipio pensava alla resa e se ne accorse l'Avezzana che avrebbe voluto proseguire la lotta fidando nell'arrivo dei Lombardi. A cercare loro notizie spedì Aureliano Borzino, sul piccolo legno il "Rimorchiatore". Il mare in pessime condizioni lo costrinse a riparare, malconcio, nell'insenatura di Portofino. I Lombardi, al comando del generale Fanti, tra il 26 e il 27 marzo avevano lasciato Alessandria. La divisione era forte di 4 reggimenti di fanteria, due battaglioni di bersaglieri, 28 pezzi di artiglieria, 700 cavalli, un corpo del Genio, più le salmerie e l'intendenza. In tutto, novemila uomini. Un'avanguardia aveva preceduto il grosso della divisione sulla via di Genova e il 29, lasciata Tortona, era giunta a Serravalle. Fanti, in movimento da Alessandria a Tortona, si era imbattuto in altri drappelli di soldati decisi a battersi in difesa di Genova. Decise quindi di diramare ordini alle truppe giunte a Serravalle e le convinse a non procedere oltre fino a che non avesse fatto ritorno una deputazione spedita a Torino. Lo stratagemma diede mano libera a La Marmora per schiacciare Genova. La deputazione inviata a Torino, della quale faceva parte anche Luciano Manara, comandante dei bersaglieri (che cadrà nella difesa della Repubblica Romana), presentatasi al ministro della guerra e al generale Czarnowski, Capo di Stato maggiore, ottenne di ripartire per Genova ma attraverso la via di Bobbio. La marcia si tramutò in un'anabasi su un percorso privo di strade, coperto di neve, afflitto da rocce e strapiombi che costrinsero a gettar via l'equipaggiamento pesante, cannoni e munizioni. Le truppe giunsero lacere e spossate, fra il 7 e il 10 aprile, a Chiavari, dove le attendevano il "Giglio" e altri battelli spediti dal governo provvisorio per condurli a Genova. Fanti si oppose, affermando che mai avrebbe levato le armi contro il Piemonte. Genova era spacciata.
Dopo l'armistizio del giorno 6, un secondo armistizio venne proclamato per permettere a tre inviati - i civici consiglieri Orso Serra, Caveri e Cataldi - di raggiungere Torino e ottenere l'amnistia, che venne concessa, con l'esclusione dei Triumviri e di altri nove personaggi troppo compromessi con la sollevazione. Avezzana fu fra gli ultimi a lasciare la città, inseguito dalla accusa - calunniosa - di aver ordinato la liberazione dei condannati del bagno penale. Andò a Roma, a difesa della Repubblica.
Il 9 aprile le truppe piemontesi fecero il loro ingresso in città, in testa gli efferati bersaglieri a passo di carica, quindi gli squadroni di cavalleria, a chiudere i fanti. Ad accoglierle trovarono usci sprangati, persiane serrate, strade deserte. Genova in lutto piangeva i suoi morti e le libertà perdute. La Marmora - in un dispaccio dell'8 aprile - denunciava la perdita di circa duecento soldati, ma vi è il sospetto che fossero anche più del doppio. Difficile conteggiare le vittime civili fra la popolazione. Una cifra realistica, in base agli atti di morte rinvenuti in diverse parrocchie, li avvicina alla cifra di duecento. La Guardia nazionale venne sciolta, i cittadini disarmati, le libertà civili e politiche concultate, abolita la libertà di stampa, proibita la libertà di associazione. Gli arresti, provocati da delazioni non sempre disinteressate, si moltiplicarono. Tornarono i gesuiti, cacciati a furor di popolo. Dovevano trascorre undici anni prima che il tricolore dell'Italia Unita sventolasse sulla città, "colpevole" di amare la libertà dei suoi cittadini, l'unità e l'indipendenza della Patria.