PAU' è località di Rocchetta Nervina.
Fu un importante sito della antica vita rurale connessa pure alla zootecnia ed all'allevamento oltre che al commercio del bestiame piccolo (ovini e caprini) che degli animali grandi (bovini) mediamente portati (TRANSUMANZA) sin alle bandite di valle. Il sito costituì peraltro una base storica della vita di relazione protostorica e storica degli antichi liguri: su un grande masso (di m.2,50 x 2,60) si individuano particolari incisioni che, secondo le tecniche della vita agreste antichissima, potrebbero rimandare ad una sorta di mappa "catastale> La dilavazione dell'acqua pluviale sulla cuspide di mezzo del macigno ha centralmente eroso, per più di 2 cm., tali graffiti il che ha suggerito la convinzione di incisioni molto antiche>B.DURANTE-A.EREMITA, Guida di Dolceacqua e della Val Nervia, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1991, p.9 e p.69 con imm. e didascalie.
Suggestivo è altresì il medievale PONTE DI PAU' donde si ha una vista suggestiva e da dove si può contemplare il paesaggio tipico del luogo: particolarmente suggestiva è la visione dello STESSO PONTE (foto R.Marro) dall'alto sì da poter individuarne la poeticità assieme all'antichità.
Nel 1764 CESARE BECCARIA col suo celebre volume Dei delitti e delle pene inaugura il manifesto dell’Illuminismo penale europeo e della lotta per l’abolizione della pena di morte. L'autore, nel sostenere ciò, è più guidato da scelte edonistico-utilitaristiche che umanitarie e non a caso nel Par. XXVIII del suo libro scrive "Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato , ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che divenuto bestia da servigio, ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti".
I lavori forzati quindi comq pena socialmente utile in luogo della sentenza capitale cui non si riconosce alcuna funzione catartica.
E del resto BECCARIA neppure esclude totalmente la pena di morte dalle sanzioni penali del diritto e la reputa utilmente comminabile (Par.XXVIII) in almeno due circostanze:"
Le proposte di riforma sollecitate dagli intellettuali, eredi della grande esperienza illuministica, faticano però a incidere nel quadro legislativo della prima metà del XIX secolo, dove sono ancora numerose (se ne calcolano più di cento) le ipotesi punite con la morte, specie per tutte le diverse fattispecie comunque rientranti nel delitto di lesa maestà. La prima concreta rivoluzione nel sistema normativo penale si ha nel 1786, con la Riforma della legislazione criminale toscana meglio nota come Leopoldina, voluta e predisposta dal granduca di Toscana Pietro Leopoldo. Non sappiamo se anche Beccaria abbia contribuito alla redazione di tale riforma, momento di transizione, quanto a struttura e assetto delle fonti, tra le consolidazioni settecentesche e le codificazioni del nuovo secolo: certo è che senza ambiguità interpretative o eccezioni vengono bandite la pena di morte e la tortura giudiziaria. L’art. LI spiega nel dettaglio quali scelte giuridiche e quali opzioni di politica legislativa hanno portato a questa decisione che esprime l’umanitario ‘spirito della riforma’:
"art. LI: Abbiamo veduto con orrore con quanta facilità nella passata legislazione era decretata la pena di morte per delitti ancor non gravi, ed avendo considerato che l’oggetto della pena deve essere la soddisfazione al privato ed al pubblico danno, la correzione del reo, figlio anche esso della società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi , la sicurezza, nei rei dei più gravi ed atroci delitti, che non restino in libertà di commetterne altri, e finalmente il pubblico esempio che il governo nella punizione dei delitti, e nel servire agli oggetti ai quali questa unicamente è diretta, è tenuto sempre a valersi dei mezzi più efficaci col minor male possibile al reo, che tale efficacia, e moderazione si ottiene più che con la pena di Morte, con la pena dei Lavori pubblici, i quali servono ad un esempio continuato, e non di un momentaneo terrore che spesso degenera in compassione, e tolgono la possibilità di commettere nuovi delitti, e non la possibile speranza di veder tornare alla società un cittadino utile e corretto; avendo altresì considerato che una ben diversa legislazione potesse più convenire alla maggior dolcezza, e docilità di costumi del presente secolo, e specialmente nel popolo Toscano, siam venuti nella determinazione che la pena di morte sia abolita.
La Leopoldina resta, tuttavia, un episodio isolato nel panorama legislativo. Il Codice penale ‘rivoluzionario’, emanato in Francia nel 1791, prevede la pena di morte in trentadue ipotesi.
Il Progetto di codice penale per la Lombardia austriaca, fatto predisporre sempre nel 1791 proprio da Pietro Leopoldo divenuto imperatore d’Austria col nome di Leopoldo II, disciplina il ‘delitto di Stato’ (che altro non è che la lesa maestà del diritto comune) in modo assolutamente indeterminato ed elastico e lo sanziona con la morte del reo, estesa anche ai complici: "§ 25: Chi in qualsivoglia modo tramasse un’azione contro l’ordine pubblico stabilito nello Stato, che tenda a sovvertirlo, si renderà reo di delitto di Stato e sarà punito con la morte. § 26: Con la stessa pena verranno puniti anche i complici del predetto delitto".
Anche in Toscana, con la partenza di Leopoldo, la pena di morte è ristabilita con legge del 30 giugno 1790 per i ‘ribelli e sollevatori’, poi con legge del 30 agosto 1795 viene estesa ai profanatori con pubblica violenza della religione cattolica, agli omicidi premeditati e al delitto di lesa maestà e con motu proprio del 22 giugno 1816 alla rapina; è prevista anche nel Codice penale toscano del 1853.
Le Codificazioni di inizio Ottocento non segnano alcun passo avanti verso l’abolizione: il Codice dei delitti e delle pene pel Regno d’Italia , titolo con il quale il Code pénal napoleonico viene esteso all’Italia, prevede come pene afflittive (ancora distinte dunque da quelle infamanti) la morte, i lavori forzati a vita, la deportazione, i lavori forzati a tempo.
Il Codice penale promulgato nel 1819 da Ferdinando di Borbone Re delle Due Sicilie ancora mantiene, nello stile medievale e inquisitorio, diversi modi di infliggere l’estremo supplizio (l’art. 4 prevede decapitazione, laccio sulle forche e fucilazione) e differenti gradazioni della pena che comportano vestizioni ed esecuzioni del condannato a seconda del tipo di reato commesso: «art. 6: La legge precisa i casi nei quali la pena di morte si debba espiare con modi speciali di pubblico esempio. I gradi di pubblico esempio sono i seguenti: 1°) esecuzione della pena nel luogo del commesso misfatto, o in luogo vicino; 2°) trasporto del condannato nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, e con un velo nero che gli ricopra il volto […]; 4°) trasporto del condannato nel luogo dell’esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, con velo nero che gli ricopra il volto, e trascinato su di una tavola con piccole ruote al di sotto e con cartello in petto in cui sia scritto a lettere cubitali: l’uomo empio».
Nel Codice penale per gli Stati di S. M. il Re di Sardegna , emanato da Carlo Alberto nel 1839, cambiano le forme ma i reati più gravi (parricidio, veneficio, infanticidio, assassinio, attentato e cospirazione contro il re) continuano ad essere sanzionati con la morte: il Codice albertino risente tuttavia già del dibattito culturale sulla legittimità della pena di morte e peraltro l'opinione pubblica ligure-piemontese è sempre più influenzato da una pubblicistica (anche spiccatamente romantica e di tipo letterario e poetico) avverso l'applicazione del supplizio capitale nel diritto penale.
Dopo l’Unità d’Italia, nella penisola restano in vigore tre differenti codici penali: quello sardo-piemontese del 1859 nel settentrione, lo stesso codice ma nella versione modificata per le Province Napoletane dal decreto luogotenenziale di Eugenio di Savoia il 17 febbraio 1861 e in Toscana il codice del 1853.
Il problema dell’unificazione legislativa penale sarà al centro dei dibattiti dei giuristi e dei politici post-unitari [un esauriente quadro della questione si può leggere in M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in A. Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp.147-232]: la convinzione che l’unità politica faticosamente raggiunta non possa non implicare necessariamente anche un uniforme sistema normativo, si scontra però proprio con i differenti regimi sanzionatori.
In Toscana, con editto emanato nel 1861, il ‘governo provvisorio toscano’ composto da Ubaldino Peruzzi, poi deputato ministro e sindaco di Firenze, Vincenzo Malenchini, garibaldino deputato e poi senatore, e un non meglio identificato maggiore A. Danzini, si richiama alla tradizione riformista e umanitaria della Leopoldina e abroga la pena di morte:
"Il governo provvisorio toscano:
Considerando che fu la Toscana la prima ad abolire la pena di morte;
Considerando che se questa venne in seguito ristabilita lo fu solamente quando le passioni politiche prevalsero alla maturità de’ tempi e la mitezza degli animi;
Considerando però che quantunque per tal modo ripristinata non venne applicata giammai perché fra noi la civiltà fu sempre più forte della Scure del Carnefice:
HA DECRETATO E DECRETA
Articolo unico: La pena di morte è abolita. Dato in Firenze li trenta Aprile milleottocentocinquantanove.
Cav. U. Peruzzi, Avv. V. Malenchini; magg. A. Danzino".
Questo ‘contrattempo toscano’ diverrà occasione di aspri scontri in Parlamento e nelle riviste giuridiche, evidente momento di contraddizione nello Stato appena formato, segnato dal conflitto tra le esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della stessa unità nazionale in seguito al fenomeno del brigantaggio meridionale e l’affermazione legislativa dei principi liberali di moderazione e proporzione delle pene.
Mentre i riformisti, abolizionisti, si rifiutano di estendere alla Toscana il Codice Penale del 1859 che ancora prevede la pena di morte, e anzi chiedono l’abolizione in tutto il Regno, la classe dirigente teme che l’abrogazione totale possa favorire l’aumento della criminalità e minacciare l’unità e l’ordine del paese.
Soluzione si ha solo nel 1889, quando il Codice Zanardelli definitivamente bandisce la pena capitale.
Tuttavia è un percorso assai difficile e lungo, che vede coinvolti sul fronte abolizionista intellettuali e autorevoli penalisti della seconda metà dell’Ottocento, in Riviste, convegni, lezioni universitarie, interventi parlamentari, manuali di diritto penale: l’impegno primario di questi giuristi impegnati nella battaglia per la civiltà e le riforme si spende in primo luogo proprio nella giustificazione delle ragioni giuridiche e politiche a favore dell’abrogazione del patibolo.
Pietro Ellero fonda nel 1861 il Giornale per l’abolizione della pena di morte (edito fino al 1865), cui collaborano Carrara, Pessina, Gabba, Mittermaier; a Roma nel 1872 si svolge il Primo Congresso Giuridico Italiano, dedicato all’ ‘Abolizione della pena di morte e proposta di una scala penale’; altra rivista abolizionista è il Cesare Beccaria edita a Firenze dal 1864 al 1870 mentre sulla Rivista Penale che Luigi Lucchini fonda nel 1874, si svolge una convinta ed efficace campagna contro il patibolo, che ne mostra gli effetti controproducenti:
"Per sradicare dagli animi più timidi e restii il pregiudizio che la pena cruenta abbia una efficacia intimidatrice e moralizzatrice, e persuaderli invece che la sua attuale presenza nei Codici delle nazioni civili non è che una causa perturbatrice della dinamica repressiva".
Svariate proposte e progetti di commissioni parlamentari falliscono e la questione viene praticamente risolta quando nel 1876 Pasquale Stanislao Mancini diventa Ministro della giustizia, inaugurando il regime della abolizione di fatto, in un periodo che coincide anche con una tendenziale diminuzione dei crimini più gravi puniti con la pena di morte.
Dopo il felice traguardo del Codice Zanardelli, la pena di morte viene reintrodotta in Italia dal regime fascista.
Prima anche giuristi del calibro di Arturo Rocco e di Vincenzo Manzini si dichiarano favorevoli alla reintroduzione della pena e poi con legge 25 novembre 1926, n. 2008 essa diviene effettiva: Art. 1: Chiunque commette un fatto diretto contro la vita, l’integrità e la libertà personale del Re o del Reggente è punito con la morte. La stessa pena si applica se il fatto è diretto contro la vita, l’integrità personale della Regina, del Principe ereditario e del Capo del governo.
La pena di morte è poi ulteriormente estesa dal Codice Rocco del 1930 (in vigore dal 01/07/1931): la fucilazione viene introdotta, oltre che per i reati politici, anche per quelli comuni contro il patrimonio e le persone. Nella concezione totalitaria del regime
– afferma Mereu - "lo Stato ha il supremo diritto di vita e di morte su tutti i componenti della società per la tutela del bene comune.
Nel contesto dei Lavori preparatori del nuovo Codice penale italiano la pena di morte è definita ‘legittima e necessaria’, segno di progresso e della ‘riconquistata virilità’ degli italiani.
Anche giuristi e intellettuali, sottoposti da Mussolini al giuramento di devozione "alla patria e al Regime Fascista", si schierano a favore della pena: oltre a Rocco e Manzini anche Giuseppe Maggiore, Raffaele Garofalo e Francesco Carnelutti.
Con la caduta del fascismo, la pena di morte viene gradualmente cancellata.
Il Dll del 10 agosto 1944 la abolisce per i reati previsti dal codice penale comune, con esclusione dei delitti fascisti e dei reati di collaborazionismo.
Reintrodotta nel 1945 per i più gravi fatti di rapina, interviene poi Costituzione del 1948, che all’art. 27 co.4 sancisce: "Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra".
L’abolizione totale e definitiva in Italia si ha con l’art. 1 della legge 13.10.94, n. 589, il quale dispone che, anche per i delitti previsti dal codice penale militare di guerra e dalle leggi militari di guerra, la pena di morte è abolita ed è sostituita dalla pena massima prevista dal codice penale.