VERATRO

Rivelando una competenza, peraltro non inconsueta nei religiosi, da erborista (aromatario), il letterato intemelio Angelico Aprosio intitola una sua opera, scritta contro T. Stigliani, Veratro (che qui qui è analizzata nella parte prima e seconda:
Veratro I> la Parte Prima già affidata al Combi, che non vi mette mano anche temendo la presunta insolvenza del frate o la mancanza di mecenati, viene consegnata a Leni quando ormai circola già stampata la Parte Seconda, vedi La Biblioteca Aprosiana, p.166-167.
Il titolo Veratro è emblematico e, col frontespizio, costituisce un’icona che veicola un’aggressione pesante a danno dello Stigliani.
Nell’incisione del frontespizio Mercurio mostra infatti al poeta-critico di Matera (che inforca degli spessi occhiali ma regge con la mano sinistra una copia a stampa del suo Occhiale) un cespuglio di VERATRO che l'incisore rappresenta sotto la specie più nota di ELLEBORO NERO o VERATRO NERO (HELLEBORUS NIGER): in effetti analoghe proprietà ha pure l'ELLEBORO VERDE o VERATRO VERDE.
Entarmbi erano usati nella cura della pazzia, rimedio erboristico oggi abbandonato per la presenza nella pianta di glucosidi troppo velenosi, elleborina e elleboreina, ad effetto narcotico: si cita poi anche per le proprietà officinali (soprattutto però come potente emetico) il VERATRO BIANCO o ELLEBORO BIANCO (HELLEBORUS ALBUS).
Nell’ideazione di questa icona concorse apertamente il gusto aprosiano e non senza una certa efficacia: era una maniera un pò forte ma sicuramente ad effetto per dar del “folle” allo Stigliani, “reo” d’aver osteggiato “il Gran Marino”> vedi B.DURANTE, Aprosio critico e morale, p.25 del II numero (1985) dei “Quaderni dell’Aprosiana” vecchia Serie.
Per ammissione d’Angelico dovrebbe trattarsi del suo ultimo intervento sulla polemica Marino-Stigliani, ormai quasi tramontata. Ritenendo d’aver demolito la “prima censura” dello Stigliani (che l’Adone non sia poema regolare secondo i canoni aristotelici) Aprosio mira ora ad affrontare la II censura, quella molto più articolata, sui vari difetti di varia natura del poema del Marino. Poiché il Veratro è opera importante e complessa ricca d’un’erudizione non sempre vana e di vari tentativi di discussione critica e filologica, vale la pena di proporne la metodica. Nel Veratro I, canto per canto, verso per verso, Aprosio risponde in modo serrato, con minuzia quasi paranoica, alle obiezioni dello Stigliani mirando a confutare sia quelle che il critico di Matera (nell’Occhiale perlopiù ma non soltanto) giudica mende di forma, sintassi e varia cultura sia le frequenti accuse di plagio, anche a proprio danno, lanciate da Stigliani al Marino. Il Veratro I, forse perchè nato e dissoltosi in un’epoca di stanchezza quando la diatriba sul marinismo ortodosso e la polemica Marino-Stigliani s’erano sostanzialmente dissipate, è stata forse, in epoche recenti ma anche al tempo stesso della sua stampa, tra le opere meno lette dell’Aprosio, fra le meno sentite, dallo stesso frate addirittura, in fine. Eppure, fra le righe e se si escludono gli ardori polemici e gli accanimenti sparsi qua e là soprattutto per riscaldare un dibattitto raffreddato, dalla lettura si evidenziano alcune riflessioni non malvage, qualche tecnica interpretativa da non bandire senza una qualche analisi, soprattutto la vastità d’un bagaglio erudito certamente mal usato ma a volte introvabile in altre opere che in queste, un pò a torto giudicate obsolete senza nemmeno scorrerle. Un’occhiata si può dare -un assaggio si suol dire ai giorni nostri- ed allora tentiamolo anche se, per comodità esemplificativa e possibilità di confronti visto che tratta la pur sempre affascinante fiaba dell’amore fra Eros e Psiche, un dio ed un’umana, si sceglie il bel canto IV dell’Adone (usando per un confronto l’ottima edizione mondadoriana del poema, in due volumi e del settembre 1976, curata da G.Pozzi).
1 - Aprosio a p.83 del Veratro I trascrive il verso finale della V ottava del canto IV: “e sferzato paleo più forte sbalza”. Secondo Stigliani il termine “paleo” non sarebbe stato usato con rigore né su salde basi dell’uso letterario. Paleo, propr. “paléo”, era detto in antico una sorta di grossa trottola: stupisce che Angelico per vanificare l’obiezione stiglianea citi una miriade di casi ed interpreti (il suo difetto principale qui ben si evidenzia: la convinzione che l’erudizione tragga energia e possanza non dalla qualità ma dalla quantità) quando gli sarebbe bastato menzionare il Caro (En., 759-780) vera fonte del Marino quando scrisse “Infra la turba de’ fanciulli a volo/ Va sferzato paleo”.
2 - Aprosio a p.84 analizza il verso finale dll’ottava n.8 del c.IV: “ch’era in tutto maggior dell’altrui lodi”. Stigliani lamenta un plagio del Marino nei confronti del suo Mondo Nuovo ma al Ventimiglia -che comunque esagera con una smisurata citazione di luoghi poetici anche non pertinenti- l’accusa non pare giustificabile essendosi rifatti i due poeti ad un’identica fonte classica, cioè APULEIO, IV, 28, 1-2.
3 - Aprosio a p.85 cita l’emistichio “Lascia la Grecia” dal I verso dell’ottava 25 del c.IV. Stigliani critica l’uso del nome “Grecia” inesistente al tempo della vicenda supposta di Adone e Venere: secondo lui sarebbe stato da usare il toponimo “Ellade”, unico verisimilmente noto ai protagonisti. Aprosio anziché rispondere autonomamente e, semmai, rifarsi al principio della libertà poetica -che non gli era estraneo come sostenitore del concettismo- preferisce ribattere con un’ulteriore citazione erudita, affermando che anche il grande Virgilio patì simile accusa dal pedante Igino in merito all’uso d’un’espressione simile, con potenziali squilibri storici (Aen., VI, 366): Aprosio giostra sulle ambiguità che offendono, Virgilio fu un grande a differenza di Igino che fu solo un buon erudito, Marino è un poeta a fronte dello Stigliani che è forse un erudito, certo un pedante e quasi mai, come Igino, un poeta.
4 - Sempre a p.85 Aprosio difende il verso II dell’ottava n.37 del c.IV “Scioglie, ciò detto, le canute guide” che descrive l’atto con cui Venere libera dal giogo i cigni che trainano il suo carro. Stigliani scrive nel suo Occhiale: “La canutezza de’ Cigni è assai impropria, perché si riferisce a penna, ed averebbe a riferirsi a pelo di capo secondo il verace uso della nostra lingua”. Aprosio affronta il rivale con una serie di ironie che rasentano l’ingiuria ma Stigliani ha comunque ragione: l’aggettivo “canuto” si riferisce principalmente all’imbiancamento dei capelli, che è fenomeno collegato al processo di senescenza tipico degli esseri umani. Tale aggettivo, che deriva dal latino medievale canatus a sua volta derivato dal classico canus, segnala altresì il graduale mutamento di una specifica qualità dei capelli (dal “non bianco” al “bianco”) ed in subordine semantico di entità colorate (dal nero, rosso, biondo, castano e via dicendo al bianco): lo stesso aggettivo non può valere per identico significato se riferito alle “penne” dei cigni, la cui bianchezza è qualità costante (magari il processo d’invecchiamento in questi volatili è riconoscibile in base ad una crescente opacità e rarefazione delle penne stesse). Marino -stando ai parametri della polemica che restringe in certi limiti la libertà d’azione poetico/linguistica- non è nel giusto ed Aprosio, anziché banalizzare ma intendendo piuttosto giustificare, finisce per complicare il discorso. Seguendo i meccanismi del suo apparato d’ordine erudito [oltre a Tasso ( G.L., XV, IV) che scrisse “D’incontro è un muro e di canuto flutto”] cita Stigliani stesso per dimostrargli che ha sbagliato in modo simile, sempre che il Marino abbia errato davvero: il Ventimiglia estrapola dal Canzoniere dello Stigliani (libro V, Soggetti Eroici, p.318 dell’ediz. consultata) la canzone “Si è la candida Dea” laddove è scritto “O dei monti canuti/ limpidi figli” e il madrigale “Quando Cerere” (p.358) ove si legge “...la formichetta industre/ per non trovarsi alla stagion canuta/ di cibo sprovveduta”. Lo sforzo d’Aprosio come “parziale” o sostenitore del Marino è encomiabile quanto inutile; i due autori citati hanno giustamente usato il termine “canuto” come “espressione d’un mutamento di qualità” (colle/stagione verdeggiante>colle/stagione bianca di neve; mare/calmo e azzurro>mare/ spumeggiante e biancastro): peraltro lo stesso Vocabolario della Crusca accettava “canuto” per “coperto di neve” e per “bianco di spuma marina”.
5 - Aprosio (p.88) difende il II verso dell’ottava 41 del c.IV che dice “Più ch’ambra molle e più ch’elettro bionda”. Pedantesca e non giusta è l’osservazione stiglianea d’una ripetizione, e quindi d’ignoranza del Marino nel campo delle scienze naturali: a differenza di quanto sostiene Tommaso nell’Occhiale, l’originario grecismo “eléctron” si è volgarizzato in “elettro”, veicolando il valore di “ambra gialla o bionda”, mentre “ambra” deriva dal lat. tardo “ambar -aris” corrispondente del greco “ambar -aros” derivato dall’arabo “anbar” propriamente “ambra grigia”> Aprosio usa fin troppe citazioni di alchimisti e studiosi d’esoterismo del suo tempo per risolvere la questione ma ha ragione a ritenere che “ignorante” nel caso sia piuttosto Stigliani, almeno in termini scientifico-naturalistici.
6 - ”Sono in ciel? sono in terra? il ciel traslato/ è forse in terra?”: III verso dell’ottava n.43 del c.IV, giustificata da Aprosio a p.89. Stigliani parla di furto nei suoi riguardi a proposito di questo verso che vuol esprimere lo sgomento di Eros di fronte alla bellezza di Psiche. Aprosio giustamente risponde “[E’] il detto comunissimo e ne son pieni tutti i libri di Cavalleri”. Sarebbe bastato ciò, ma, rispettando il suo schema difensivo di dar prima una risposta personal-emotiva e quindi fornire un substrato di citazione erudite, riporta fin troppi passi consimili ma di mediocrissimi autori: avrebbe potuto limitarsi a far menzione del Dante della Vita Nova (XXVI,6) dove si legge “[Ella, Beatrice] par che sia una cosa venuta/ da cielo in terra a miracol mostrare”.
7 - "Chi può senza morir mirar l’eccesso/ di sì begli occhi” : a p.90 Aprosio analizza il V verso ed il successivo emistichio dell’ottava 44 del c.IV. Buon retore ma non sempre colmo di sensibilità estetica nell’Occhiale lo Stigliani (anziché magari discutere sull’effettivo buon gusto della paronomasia “morir-mirar” che ha poi lo scopo anagrammatico di suggerire alla mente dotta la parola “amore”) sembra quasi strillare che il verso è stato rubato al suo madrigale “Perché veder mio Sole” (Canzoniere, p.54) dove è scritto “Poiché mirar senza morir n’è tolto”. Il concetto degli “occhi femminei assassini” era ed è comune: già lo si scopre nei versi della scuola siciliana e dello Stil Novo (si veda GUINIZZELLI quando, nel sonetto “Lo vostro bel saluto e il gentil sguardo”, scrisse “Lo vostro bel saluto e il gentil sguardo/ che fate quando v’incontro, m’ancide.../). Senza troppe digressioni Aprosio affronta bene la questione, ricordando allo Stigliani che già nel 1601, prima di lui, nel sonetto “Fra cento belle” della “Lira” (I, p.8 dell’ed.consultata) Marino aveva poetato “Che di tante bellezze il Paradiso/ mirar senza morir non si concede”. Paiono quindi superflui i restanti lazzi aprosiani sullo Stigliani, tranne forse l’osservazione, che non par del tutto priva di fondamento visti certi toni del lirico di Matera, su una certa frenesia del critico e poeta (di qui il Veratro? da qui l’elleboro per curar le malattie mentali?) a proposito dei possibili furti patiti.
8 - "Se il mio specchio fedele il ver mi disse” così Aprosio (p.93) cita il IV verso dell’ottava 73 del c.IV che nella moderna edizione mondadoriana del Pozzi è però trascritto in dipendenza del secondo emistichio del verso precedente: “...se senza inganni/ lo mio specchio fedele il ver mi disse”. Comunque sia, ancora una volta Stigliani accusa Marino di furto mentre Aprosio cerca a ragione di dimostrare che questa era espressione usuale già tra gli autori classici. Menziona quindi Nemesiano (Egl., II, 74): “Quin etiam fontis speculo me mane notavi” e con qualche titubanza Virgilio (Egl., II, 25) “Nec sum adeo informis: nuper me in litore vidi/ Quum placidum ventis staret mare: non ego Daphnim/ Iudice te metuam si numquam fallit imago” e persino il modesto Giovanni Capponi (Porretta di Bologna 1586-Bologna 1628) che nell’egloga “Aurillo” o IV delle sue Egloghe boscherecce e marittime (Venezia, per il Deuchino, 1609) scrisse “E se l’onda non mente in cui mi specchio/ ho merto sì, ma non diforme il volto”.
9 - "Sì che può far, quantunque il sol non voglia/ col proprio lume a sé medesmo il giorno”, versi V e VI dell’ottava 89 del c.IV: Aprosio (p.94) ribatte a Stigliani che nell’Occhiale parla di un ulteriore furto in merito ad un verso del suo Canzoniere ove si legge “Ove tanti begli occhi a sè il dì fanno”. Aprosio (come è suo difetto di fondo, quello di citare quasi sempre oltre misura, anche per una certa mancanza di discernimento critico) intuisce che Stigliani è nel torto, che la fonte è molto più antica dell’ ideazione di quello, che semmai appartiene alla cultura classica su cui è stata costruita la cultura sua, di Tommaso, del Marino stesso: il frate si sfianca però con una profusione di citazioni, anche fuor di luogo, quando gli sarebbe bastato registrare (cosa che fa, ma in un coacervo di mescolanze erudite) trascrivere il passo originale modello, derivato dall’Asino d’oro di Apuleio (5,I,1-3,5).
10 - "Abitante non vede, ostier non ode”: verso IV dell’ottava 92 del c.IV giustificata da Aprosio a p.96. L’argomento è di ordine metrico, linguistico e semantico: per Stigliani è illecito l’uso di “ostiero” termine arcaico, per indicare chi offre ospitalità gratis od a pagamento, al posto di “usciero” che in antico designava il servo addetto a ricevere gli ospiti e che aveva la sua collocazione all’ingresso della casa signorile. Secondo Stigliani questi termini vili mal s’addicono ad un dio come Eros (o Cupido) che, al modo che suggeriscono narrazione e contesto, è colui che invisibile accoglie nel suo palazzo l’amata Psiche: tra i due, tuttavia, visto che qui non si parla di “taverna” il termine “ostier” (il “tavernario”) è certo il meno opportuno e da sostituire con “uscier”, forse non ideale per la situazione “divina” ma certo preferibile specie se inteso nel senso lato di “colui che accoglie nella casa”. Nella sua risposta Aprosio non si destreggia affatto male ben sapendo che Stigliani non ha tanto preoccupazione di provare mancanza di riguardo del Marino per una divinità pagana quanto di dar credito ad una sua probabile ignoranza in campo mitologico e semantico, argomento su cui già serpeggiavano speranzosi sospetti tra i non pochi, e sempre lividi (ammettiamolo finalmente! la fortuna d’uno -oggi come ieri- fa il livore di tanti!), detrattori del poeta napoletano. Aprosio, mutatis mutandis (lui invece è un fautore e vede sempre il bene -anche quando manca- nel lirico prediletto!) rovescia la discussione: Marino non avrebbe mancato per ignoranza ma avrebbe modificato per profondità di cultura letteraria> come dire, rovesciando un proverbio o motto che sia, “Dalle stalle alle stelle”! Per il Ventimiglia Marino aveva ben presente il valore sematico di “usciere” (da lui usato nel canto VII, st.205 sempre dell’Adone) ma qui ha agito per oculata opzione scientifica (peraltro anche sotto il profilo metrico il verso in esame sarebbe stato competente pur se invece di “ostier” si fosse usato “uscier”). Sostituendo però al verso usato “Abitante non vede, ostier non ode” il similare “Abitante non vede, uscier non ode”, secondo Aprosio (di cui si cerca di semplificare e chiarire la defatigante esplicazione), si sarebbe interrotta la musicale allitterazione delle “o” e la corrispondenza simmetrica delle due “t” che risaltano per l’ictus metrico strutturato sulle vocali immediatamente seguenti: allitterazione peraltro continuata e quindi sostenuta nel “castaldo” del verso successivo che, per simmetria, corrisponde all’iniziale “Abitante” e sempre simmetricamente è disposto distanziato di 3 sillabe (con ictus sulla II) da ostier a sua volta staccato per via di 3 sillabe (ancora con ictus sulla II) da “Abitante”. L’introduzione dell’ “uscier”, proposto da Stigliani, vanificherebbe quindi alcuni dei giochi fonici che starebbero alla base di certe squisitezze dell’Adone.
11- "Voce incorporea intanto ode, che dice”: verso I della stanza 93 del c.IV, giustificata da Aprosio a p.96. L’affermazione dell’Occhiale stiglianeo che il verso sia improprio e poco conveniente è smentita da Aprosio che cita APULEIO, 51, 1-3,5: “Hic ei summa cum voluptate visenti offert sese vox quaedam corporis sui nuda”. Queste ultime parole, equivalenti di “incorporeo”(incorporeus viene usato per indicare lo “stato fisico” degli angeli), secondo Aprosio giustificherebbero il verso (vista la dignità del modello) e ragguaglierebbero sulla fonte, cioè il classico Apuleio: Aprosio ha ragione in quasi tutto tranne nel fatto che Marino si è valso di un Apuleio mediato dal rifacimento della sua favola di “Psiche” ad opera di Ercole Udine negli Avvenimenti amorosi di Psiche (con l’erudita allegoria del genovese Angelo Grillo, Venezia, per il Ciotti, 1569)3,35.
12 - "Piumato d’oro, incortinato d’ostro” verso finale dell’ottava 96 del c.IV giustificato da Aprosio a p.97. Per Stigliani pare qui facile una battuta ironica: un letto (di questo si parla nel verso precedente) imbottito di piume d’oro sarebbe durissimo, micidiale! Il verso del Marino è infelice, senza dubbio, quasi indifendibile eppure Aprosio le tenta tutte e con faticoso ingegno (rifacendosi, con artifici di traduzione, anche all’Eneide, XI,770 sgg.) cerca di trasformare quell'"imbottita” in “ricamata”: ma è fatica intellettuale sprecata, peraltro la critica linguistica moderna proverà che plumata, nel senso di “ricamata” in latino usata solo dal IV sec. ad opera di Flavio Vopisco, deve essere necessariamente sostituita col pertinente conserta.
13 - “Ciò ch’al buio tra noi fusse poi fatto” verso I dell’ottava 98 del c.IV giustificato da Aprosio a p. 98.Il modello è chiaramente Orlando Furioso, XIV, 63 ed Aprosio non può certo far obiezione allo Stigliani che, come lui ha affermato, non si tratti d’un plagio da Ariosto: per non star zitto fa svolazzare qualche blanda ironia contro lo Stigliani abbastanza permissiva come in questo caso (quando magari si tratta di furti palesi, ma da opere d’altri) e davvero feroce quando deve difendere i suoi poveri versi da supposti plagi.
14 - “Mascherata di vita, esce la morte” verso finale dell’ottava 105 del c.IV giustificato da Aprosio a p.98. Il verso non presenta grosse lacune secondo l’Occhiale stiglianeo tranne l’uso improprio di “mascherarsi di” in luogo di “mascherarsi da” e che forse potrebbe addebitarsi ad un errore di stampa. Stigliani soprattutto definisce il tutto una “metafora vile” per quel “mascherata” che sa di ridanciano trattandosi invece di situazione seria: secondo lui era più giusto usare “larvata” derivante dall’uso dell’antico termine larva che tra i latini indicava i paurosi spiriti vaganti dei malvagi defunti. A parte la differenza sillabica tra i due termini di cui solo uno “mascherata” essenziale alla metrica dell’endicasillabo (“larvata” sarebbe inutilizzabile), nel contesto in esame, anche per la pregnanza fonica, ad onta dello Stigliani il termine “mascherata” pare davvero il più competente.
Veratro II> questa “Parte Seconda del Veratro” esamina, contro le critiche stiglianee, i restanti canti dell’Adone. Angelico mantiene il consueto procedimento erudito e continua -con una certa stanchezza però- a supportare di motti e battute il castello ironico-satirico antistiglianeo che ha finito per ultimare ed affinare attraverso la lunga militanza polemica. Come detto Aprosio non ha mai del tutto inteso la portata del pensiero di Stigliani e, nel gran complesso dei tanti letterati marinisti del suo ambiente, ha spesso calcata la mano senza fermarsi ad analizzare a fondo l’essenza di certe critiche stiglianee all'"Adone”, che non contestavano di per sè il gusto barocco ma intendevano dimensionarlo entro una lezione più moderata né estranea al magistero del Tasso e, contemporanemanente, miravano a deprimere la passione momentanea per l’iridescenza espressiva del Marino, rischio di danni poetici rilevanti, quasi di obelischi letterari eretti al distorcimento del gusto delle meraviglie. Certamente Stigliani, animo altrettanto indocile che il Marino, è spesso mosso da gelosia ed acredine, sì da rendersi facile bersaglio per gli antagonisti, ma spesso è nel giusto col suo costante invito all’equilibrio e ben presto finisce per trovare proseliti, in forza anche di certe convergenze coi contributi critici moderatori sull’Adone di Nicola Villani. Alla fine anche Aprosio si rende conto dell’impossibilità di condurre una battaglia ad oltranza per il “marinismo ortodosso” di come quello “moderato” sempre più vada affermandosi, quasi in linea opposta col decadere di una polemica -quella tra Marino e Stigliani- dopo tanti anni sempre meno sentita: così il Ventimiglia dopo le prime pagine del “Veratro II”, ancora pregne di bellicosa parzialità, si accontenta di flettere il suo meccanismo difensivo dell’Adone verso una direzione meno intransigente: da qui derivano ammissioni di qualche “lieve colpa” del Marino, di qui soprattutto (e finalmente) l’ammissione che nemmeno un grande poeta è esente da errori. E non è poco! E’ in fondo l’ammissione di un gusto e di una fortuna che cambia e cui persino il monolitico Aprosio finisce per accorgersi sì che eviterà di pubblicare la Spugna ed il Batto, fiacchi doppioni di Sferza Poetica e Veratro, e per fortuna -anche della cultura italiana- si volgerà esclusivamente ad opere moralistiche e, cosa ben più importante, a quei lavori di biblioteconomia, non ancora del tutto esplorati, che costituiscono un tesoro più grande di quanto si credette fino a non molti anni fa, tanto che, studiando il barocco italiano, letterario e non, per un verso o l’altro, quasi senza rendersene conto, si passa attraverso qualche citazione aprosiana, qualche sua opera, le lettere di qualche suo corrispondente letterario.