[PROPHETIA DE MAHOMETANI, ET ALTRE COSE TURCHESCHE, TRADOTTE PER M. LODOVICO DOMENICHI]
LA MISERIA COSI DE PRIGIONI, COME ANCHE DE CHRISTIANI, CHE VIVONO SOTTO IL TRIBUTO DEL TURCO, INSIEME CO COSTUMI, & CERIMONIE DI QUELLA NATIONE IN CASA, & ALLA GUERRA - TRADOTTI PER M. LODOVICO DOMENICHI EPISTOLA CONFORTATORIA CONTRA GL'INFEDELI, ALL'ILLUSTRISSIMO PRENCIPE MASSIMIANO ARCIDUCA D'AUSTRIA DI BARTOLOMEO GIORGIEVITS
XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX
PROPHETIA DE MAHOMETANI, ET ALTRE COSE TURCHESCHE, TRADOTTE PER M. LODOVICO DOMENICHI]
Volesse Iddio, che i prencipi Christiani si preparassero à queste vittorie fatali, & s'opponessero, che non crescer piu le forze de Macomettani, i quali gia pur troppo sono andati innanzi. Habbiamo perduta l'Africa, & l'Asia, spenta è la Grecia, l'Ungheria inferma à morte, l'Austria debilitata: tanto che la furia di questo male, ò vogliano essi, ò no, è sopra il collo de Tedeschi, & minaccia à tutta la Christianità: talmente che niuno si puo chiamar sicuro da questo pericolo. Essi per l'avenire non faranno piu per altri, ma per se stessi, & per le propie case combatteranno contra l'inimico, se gia non voglioni di prencipi divenire schiavi, ò piu tosto esser morti. Percioche i Turchi perdonano à plebei per servirsi di loro, ma à nobili levano la vita, accioche i plebei non habbiano capo.
LA MISERIA COSI DE PRIGIONI, COME ANCHE DE CHRISTIANI, CHE VIVONO SOTTO IL TRIBUTO DEL TURCO, INSIEME CO COSTUMI, & CERIMONIE DI QUELLA NATIONE IN CASA, & ALLA GUERRA - TRADOTTI PER M. LODOVICO DOMENICHI
EPISTOLA CONFORTATORIA CONTRA GL'INFEDELI, ALL'ILLUSTRISSIMO PRENCIPE MASSIMIANO ARCIDUCA D'AUSTRIA DI BARTOLOMEO GIORGIEVITS
I nomadi ottomani stanziatisi in Anatolia vollero la loro prima capitale importante nella città di Prusa, in Bitinia, ai piedi dell’Olimpo di Misia, un vulcano spento di oltre 2300 metri che ancora oggi riversa nella pianura un reticolo di rivoli di acqua caldissima e solforosa. Quando vi arrivarono, nel XIV secolo, la trovarono ricca di terme, alcune delle quali ancora oggi in perfetta funzione. E nei secoli dello splendore ottomano ne costruirono altre, come buona azione di cui farsi credito al cospetto del misericordioso Dio di Abramo (Ibrahim) che chiamano Allah.
L’antica Prusa, divenuta Bursa, è la vera capitale mondiale del bagno turco. Chissà quanti sono, tutti riforniti di acqua calda termale attraverso i cunicoli che scendono a precipizio dall’Olimpo di Misia, oggi detto Ulu Dagh, Monte Grande-Alto. D’estate vi si può trovare straordinario sollievo allo stress del viaggio. In inverno ve lo si può cercare dopo avere sciato sulla vetta dell’Ulu Dagh. Meritano una visita in qualsiasi stagione: chi sia stato in Turchia e non abbia visitato Bursa, non sa niente dei veri bagni turchi.
Non sa, probabilmente, che si dividono in due grandi categorie: quelli al cui centro domina una grande piscina di acqua termale calda (anche bollente), detti kaplica (kapligia), e quelli - detti hamam - dove la piscina non c’è ed è sostituita da una specie di grande tamburo in marmo riscaldato da sotto con il fuoco, come riscaldata dal fuoco è l’acqua per lavarsi, normalissima e niente affatto termale. Nei kaplica si nuota beatamente in acqua capace di curare tutti i malanni, negli hamam ci si stende a sudare sul tamburone di marmo. C’è una bella differenza. Uguale per entrambe le varianti è però la labirintica congerie di sale, salette, passaggi e nicchie per il vapore, il caldo e il freddo, per il lavaggio, il massaggio e il relax. Pare, anche, per altre attività meno canoniche, di cui però il turista comune non si accorge. E ci mancherebbe altro. Omnia munda mundis.
Come andare in Turchia e non passare due ore nello Yeni Kaplica (il Bagno Nuovo) di Bursa? Se ne viene fuori rinnovati. È l’ultimo grande bagno antico della città rimasto pubblico e frequentato dall’industrioso popolo dell’ex Bitinia romano-bizantina. Lo ha fatto edificare nel 1533 per il pubblico bene Rüstem Pascià, Gran visir di Solimano il Magnifico. È ancora lì in tutta la sua eleganza delabré, mangiucchiato e sforacchiato dall’acqua solforosa, illuminato da arcani fasci di luce che spiovono dalla cupola e si mescolano con i vapori sboffati dalla piscina o spifferati dai fori nelle pareti. Una tappa obbligatoria per il viaggiatore che sa il fatto suo. E il massaggio, preceduto dal più corroborante dei lavaggi! (Ricordandosi, per avere il servizio migliore, di dare prima una spontanea mancia al massaggiatore.) Se ne esce davvero nuovi, dopo la mezz’oretta di relax nelle salviette comprese nel prezzo. Poi c’è tutta la città da visitare, con le sue bellezze proto-ottomane e il bazar (e le botteghe di economicissimi accappatoi e asciugamani fatti con il cotone più robusto del mondo, in particolare la fornitissima Özdilek).
Quelle di Yeni Kaplica sono le terme popolari più interessanti di Turchia, anche se sarà opportuno non perdere l’occasione di visitare le altre di Bursa, in particolare Eski Kaplica (le Terme Vecchie: nel 1333, tra la sua cerchia di colonne ellenistiche fece il bagno il grande viaggiatore Ibn Battuta). Purtroppo non è più un bagno totalmente pubblico, ma racchiuso nella struttura del charterizzato Hotel Kervansaray. Come chiuso nel palazzone dell’Hotel Celik Palas è un altro splendido bagno di epoca ottomana. Quest’ultimo è l’unico “bisessuale”, dove, cioè, i turisti dei due sessi possono godere assieme i vantaggi delle acque. A una settantina di chilometri da Bursa, infine, nelle pendici dell’Ulu Dagh, tra fresche pinete e pascoli bucolici, c’è la piccola meraviglia dei bagni di Oylat. Meritano la deviazione. Ma tutta l’Anatolia è una costellazione di kaplica, da Küthaya a Erzurum, attraverso Eskisehir, Konya, Kangal e Bitlis: basta osservare le frecce stradali e ricordarsi che il terminale “ica” nei toponimi indica sempre la presenza di acque termali. Spesso poverissime, certo, ma quasi sempre di grande interesse e civiltà. Da quei luoghi, il culto del “bagno turco” si è diffuso in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa. Ma anche in Europa.
Che delusione devono avere provato i rudi cavalleggeri delle avanguardie turche, quando finalmente conquistarono Costantinopoli. Vi trovarono bagni meravigliosi, costruiti dai loro predecessori greco-latini, ma senza acqua calda naturale. Si adeguarono, affollando i bagni bizantini di Cagaloglu (giallolu) e Cemberlitas e costruendo quello di Galatasaray, oltre a decine di altri in ogni quartiere della città. Ma rimasero di sicuro con un po’ di amaro in bocca. Tra l’altro, forse, già allora la mancia al lavatore-massaggiatore non era un fatto di spontanea cortesia ma di fastidiosa e pressante imposizione. Che nervi.
Fu forse per questo che, un secolo più tardi, i turchi mostrarono tanta ostinazione nel voler conquistare l’ungherese Buda. Certo, era abitata da loro lontani cugini del ceppo ugro-finnico, arrivati molti secoli prima dalle steppe siberiane, ma - cristianizzata -, non voleva proprio lasciarsi prendere. Tuttavia non era forse la lontana parentela con i magiari il motivo principale per affrontare una così larga deviazione sul percorso che avrebbe dovuto portare gli ottomani a conquistare la Mela Rossa - Roma -, loro mitica meta di sempre. Una deviazione che probabilmente li rallentò e fiaccò senza rimedio, impedendo loro di proseguire oltre Vienna. Ma a Buda c’era l’acqua! Due tipi di acqua, altrettanto vitali. Quella fredda del Danubio, la più grande via naturale di comunicazione tra l’Europa centrale e l’Asia Minore. E quella caldissima, che nella città sul Danubio sgorga da decine di polle naturali.
A Buda, dove finalmente entrarono alla metà del ’500, i turchi costruirono forse i loro bagni più belli. Sono lì ancora adesso, perfettamente conservati e funzionanti, con il medesimo labirinto di ambienti (ma con in più una straordinaria molteplicità di vasche di diverse temperature). Il viaggiatore che arriva a Budapest non può non visitare i bagni pubblici costruiti dai turchi. Il Király (il più bello di tutti, 1566), il Rudas (stesso anno), il Rácz (il più antico). Funzionano a date alterne per uomini e donne, e non bisognerà essere troppo moraleggianti di fronte agli “sport acquatici” che vi vengono praticati con un’ostentazione al di là della sfrontatezza, ma tant’è… li si deve visitare, magari chiudendo più di un occhio e tenendosi alla larga dalle vasche più piccole e affollate. Al Rácz e al Rudas non è assolutamente consentito mettersi il costume da bagno portato da casa e bisogna aggirarsi natiche al vento, con lo stretto perizoma ricevuto dagli inservienti. Ma il massaggio è di prima qualità (se si riesce a spiegarsi con le streghe ungarofone che presidiano l’ingresso).
Molto più tranquillizzante è il Lucáks, in quanto aperto contemporaneamente ai due sessi. Autentica gioia, infine, non può non dare una pacifica visita alle terme Széchenyi, in mezzo al parco più bello e animato di Pest. È quasi impossibile dire quante siano le vasche, e di quante temperature. Ce n’è un immenso parterre, all’aperto, con colonnine acquatiche sormontate da scacchiere, dove il popolo budapestino si dedica a interminabili partite a scacchi in stato di lieve sobbollimento (come facciano a uscirne crudi, è un mistero). Poi, attraverso una porticina e una scaletta a chiocciola, si entra in un labirinto di salette, sale e saloni, in un delirio di colonne e decori rococò, dove l’acqua impera, caldissima, calda, tiepida, fredda. Ma, a Budapest, in mezzo all’acqua calda si può anche risiedere: nel tripudio liberty dell’elegante Hotel Gellért, che agli ambienti termali affianca addirittura un salone in forma di piscina.
Era inevitabile che, arrivati a Buda, i già rudi soldati ottomani si sfiancassero e non ce la facessero più a proseguire oltre. Anzi, per colpa delle mollezze dei bagni termali vennero ricacciati a casa, e la Storia cambiò corso.
Chi, viaggiando per gli altipiani vulcanici e i laghi salati dell’Anatolia centrale, arrivi a Konya, non trova più le mirabili moschee, i preziosi palazzi e la dotta, tollerante università del sultanato selgiuchide. Ne rimangono soltanto alcune interessanti ma smozzicate vestigia. Trova però ancora, intatta, la Tekke del Mevlana, ovvero il «Convento del Nostro Signore». Che ora è un museo, ma per secoli fu il principale centro dell’ordine dei mistici mevlevi, i dervisci «ruotanti», fondato nel XIII secolo dal sapiente e poeta di origini afgano-persiane Celaleddin Rumi. Fu sotto quel cielo di maiolica e nel pungere di quell’aria di mezza montagna che Celaleddin incontrò lo sguardo di Shams (il Sole) di Tabriz. Tra il dotto e maturo docente e il giovanissimo predicatore sciita nacque un’attrazione mistica che mise a dura prova la pazienza dei figli del primo, oltre che i pettegolezzi di tutta la città.
Shams scomparve, probabilmente fatto uccidere. Celaleddin fondò il suo ordine di dervisci, ovvero di mistici islamici, e compose quella che rimane una delle più grandi raccolte di canti d’amore del mondo musulmano. Un Canzoniere dedicato al «Sole» e composto secondo quella tradizione, in cui l’«amante» è il credente e l’«amato» è Dio. Ancora oggi la Tekke è meta di un fiume di visitatori. In gran parte strani, visto che sentono l’obbligo di togliersi le scarpe all’ingresso, quasi che l’edificio non fosse ormai soltanto un museo, ma ancora un luogo di culto. Nella Turchia moderna i dervisci sono fuorilegge dai tempi di Kemal Atatürk. Erano troppo legati al decrepito regime ottomano. Con il loro integralismo e irrazionalismo rappresentavano un elemento di disturbo intollerabile per la coscienza laica e riformatrice del «Padre» della repubblica turca. Eppure, a sessant’anni di distanza, i musulmani che entrano nel mausoleo funebre di Celaleddin Rumi si tolgono ancora le scarpe in segno di venerazione.
A qualche centinaio di chilometri di distanza da Konya si trova il villaggio di Hacibektash (siamo costretti a rendere con «sh» la «s con cediglia» dell’alfabeto turco), dove altre schiere di «turisti» musulmani accorrono al mausoleo funebre di Hagi (Pellegrino alla Mecca) Bektash, fondatore dell’altro grande ordine mistico turco, quello dei dervisci bektascì. Anch’esso bandito. A pochi chilometri da lì, il viaggiatore incontra la Cappadocia, stupefacente scenario rupestre di uno dei centri del misticismo cristiano. E a un centinaio di chilometri a sud di Konya si trovano i mirabili resti del monastero di Alahan. E’ riparato tra i monti come un nido di aquila. Domina la valle del Calicadno (Goeksu), dove trovò morte il Barbarossa. Insomma: un’area di questo mondo evidentemente deputata al misticismo, fosse esso cristiano o musulmano. O misto. Non a caso, infatti, i dervisci turchi, e in particolare i bektascì, vennero accusati di essere «mezzo cristiani». I sultani se ne servirono largamente per forgiare in senso islamico le coscienze dei giovinetti cristiani che, presi come tributo dai villaggi dei Balcani, andavano a formare la loro milizia personale, quello yeni ceri («nuovo esercito»), che dei signori della Sublime Porta costituì il braccio armato, la guardia del corpo. I «giannizzeri».
Ragazzi cristiani, da far rimanere tali, poiché il Corano vieta di trarre in schiavitù i musulmani, ma da educare allo spirito dell’Islam. Dall’incontro tra bektascì e yeni ceri nacque un sincretismo religioso islamico-cristiano esplosivo, che accompagnò le sorti dei sultani della Sublime Porta, prima nella loro impetuosa espansione e poi nel gretto declino. In origine elementi propulsivi, essi si trasformarono alla fine nei retrogradi e prepotenti difensori della più chiusa conservazione, finendo con il portare l’impero ottomano allo sfacelo. In nome delle esigenze della modernità, ai primi dell’800, l’illuminato sultano Mahmut II decise di far sterminare i giannizzeri. Agli inizi del ’900 il grande riformatore Atatürk fece bandire i dervisci che erano stati i loro assistenti spirituali. Sopravvissero, i bektascì, tra gli aspri monti dell’Albania, dove erano arrivati con gli eserciti ottomani conquistatori. L’avvento dello stato «ateo» li ha messi al bando anche lì.
Le vicende di mevlevi e bektascì vengono diffusamente e dottamente raccontate da Gerhard Schweizer in un libro che appare oggi in Italia, ma è di circa otto anni fa e li dimostra tutti nelle conclusioni che trae. Insieme a quella dei dervisci turchi, l’autore segue con appassionata partecipazione anche la vicenda di tutti gli altri mistici dell’ Islam, sunniti e sciiti, dagli immediati discendenti di Maometto - alla Mecca, nell’Andalusia mora e nella favolosa Baghdad delle Mille e una notte - fino ai più recenti fenomeni dei wahabiti saudiani, del mahdi sudanese, dei senussi libici e così via. La sua conoscenza del fenomeno è profonda, e il libro appare veramente prezioso per stabilire un ponte verso un fenomeno - quello appunto del misticismo islamico - che da noi risulta praticamente sconosciuto. Non del tutto accettabili ne appaiono tuttavia le conclusioni. L’autore, infatti, se da un lato riconosce esplicitamente il carattere unicamente retrogrado e di potere di certi movimenti islamici moderni (dai wahabiti fino a Khomeini), dall’altro sembra aspettarsi messianicamente troppo dal ritorno di un mitizzato misticismo derviscio accesamente rinnovatore, riformatore, quale sarebbe stato quello delle origini. La rinascita dell’integralismo islamico è purtroppo in corso in tutto il mondo musulmano, con esiti tutt’altro che rinnovatori. Il chador e i pasdaran insegnano. Se è vero che alla fine dei tumultuosi anni ’70 certi manifestanti turchi inalberavano rivoltosi cartelli con scritte coraniche, all’autore è sfuggito che si trattava degli alleati dello squadrismo più turpe, quello dei «Lupi Grigi», scatenato contro i timidi tentativi del governo riformatore turco di quei tempi. Fatto colare a picco in nome, anche, dell’«Islam, unica via».
MAONA o MAGONA fu il termine di origine araba (dal valore semantico di "aiuto, soccorso") col quale si identificò dal XIII secolo una unione di mercanti e capitalisti i quali avevano anticipato allo Stato delle somme di denaro da destinarsi ad imprese coloniali ricevendo quale contropartita alcune imposte statali. Col tempo siffatti creditori ottennero il diritto allo sfruttamento delle risorse per la cui occupazione avevano offerta la loro liquidità: in base a siffatto meccanismo si vennero a costituire tra i sottoscrittori di tali unioni determinati legami societari, originariamente di natura personale. Con lo scorrere del tempo le quote rappresentanti la somma presa in prestito vennero a perdere la caratteristica di vincolo personale ed assunsero la caratteristica di quote astratte che gradualmente si evolsero in veri e propri titoli al portatore..
LODOVICO DOMENICHI AL MOLTO MAGNIFICO SIGNORE AGOSTO D'ADDA
AL REVERENDISSIMO PRENCIPE , ET SIGNORE, IL SIGNORE OTTO DE BARONI DI VALTPURG, CARDINALE DELLA SACROSANTA CORTE DI ROMA, & VESCOVO D'AUGUSTA, LUOGOTENENTE DELLA MAESTA CESAREA NELLA DIETA DI VORMATIA DEGLI ORDINI DELL'IMPERIO, SIGNORE, & MECENATE SUO, BARTOLOMEO GIORGIEVITS
INCOMINCIA LA PROPHETIA IN LINGUA TURCHESCA
SEGUITA L'INTERPRETAZIONE QUANTO AL SENSO
SEGUITA IL COMMENTARIO
ALLO INVITTISSIMO IMPERADORE DE ROMANI SEMPRE AUGUSTO CARLO QUINTO
BARTHOLOMEO GIORGIEVITS HUMILE, & AFFETTIONATISSIMO SERVIDORE
COME I CHRISTIANI PRESI IN BATTAGLIA DA TURCHI SONO VENDUTI
IN CHE COSA L'IMPERADOR DE TURCHI INTRATIENE I SUOI PRIGIONI
QUEL CHE SI FA DELLE FANCIULLE, & ALTRE DONNE
QUEL, CHE FANNO GLI ALTRI TURCHI DE SERVI
CIO, CHE SI FA DE CHRISTIANI, CHE NON HANNO ARTI MECHANICHE
COME SI TRATTANO IN VIAGGIO QUEGLI CHE NUOVAMENTE SON PRESI.
IN CHE MODO SONO TRATTATI QUEGLI, CHE S'HANNO A' VENDERE.
DI QUE PRIGIONI, CHE FANNO PASTORI
DELLA FUGA DE PRIGIONI DELL'EUROPA
DELLA FUGA DELLA NATOLIA
DELLA PENA DI QUEGLI, CHE FUGGONO
DELLA PIETA' DE GRECI, & ARMENI VERSO PRIGIONI
DE GLI INCANTI DE TURCHI CONTRA QUEGLI, CHE FUGGONO
LA MEMORIA DI CHRISTO NELLE PROVINCIE, CHE GIA FURON CHRISTIANE, SI VA PERDENDO A POCO A POCO
DELLO STATO DE VINTI
SULLA RIVERENZA, CHE I CHRISTIANI SONO TENUTI FARE A' TURCHI
DE TRIBUTI DE CHRISTIANI
DELLO STATO DE SACERDOTI, & MONACI I QUALI VIVONO SOTTO IL TRIBUTO DEL TURCO
LAMENTO DE PRIGIONI, & TRIBUTARI A' RE, & PRENCIPI CHRISTIANI
DE COSTUMI, & CERIMONIE DE TURCHI LIBRO SECONDO, & PRIMA DELLA ORIGINE LORO. CAPITOLO PRIMO
DELLA ORIGINE DI MAOMETTO
DE TEMPI LORO
DELLA QUARESIMA LORO
DELLA CIRCONCISION LORO
DE SACERDOTI LORO
DELLE SCHUOLE LORO
DE MONACI LORO
DEL MODO DEL MATRIMONIO
DEL PELLEGRINAGGIO LORO
DELL'ELEMOSINA LORO
DELLE VITTIME LORO
DELLE LASCITE, & TESTAMENTI
DELLA CERIMONIA DE MORTI
DELL'EDIFICIO DEL SEPOLCRO CHIAMATO TULBA
DELLA MILITIA, CAPITOLO SECONDO
DELLA CONDITIONE DE BARONI
DELLA CONDITIONE DE CHAZILARI
DELL'ORDINE DE PEDONI [SOLACLARI, GIANNIZZERI, AZAPPI, VOINICLAR]
DE PADIGLIONI DEL SIGNOR TURCO
DEL VIVERE DEGLI ANIMALI
DELLA GIUSTITIA CHE FANNO ALLA GUERRA
DELLA FESTA, CHE SI FA PER LA VITTORIA DEL GRAN TURCO
DELLA CACCIA LORO
DEGLI OPERAI, & LAVORATORI DI TERRA. CAPITOLO III
DELLA GIUSTITIA FRA CITTADINI
DELL'AGRICOLTURA
DELLA DIVERSITA' DE GLI ANIMALI
DE' GLI EDIFICI DELLE CASE
DE VESTIMENTI LORO
DEL MANGIAR LORO
DELLA BEVANDA LORO
DEL MODO DI SEDERE, & DI MANGIARE
LODOVICO DOMENICHI AL MOLTO MAGNIFICO SIGNORE AGOSTO D'ADDA
La virtu porta seco uno splendore, che in ogni parte riluce, talmente ch'è compresa da quegli anchora, che le stanno lontani. Et come ella non n'ha bisogno, cosi non desidera predicamento altrui. Io ho molta cognitione delle molte virtu vostre per relatione d'infiniti, che vi conoscono, & honorano, & specialmente per bocca del molto nobile, & mio carissimo amico M. Bernardin Merato; di maniera che sono sforzato anch'io amarvi, & riverirvi piu che mediocremente, cosi per merito vostro, come per istituto mio; il quale m'astringe ad haver caro, & ammirare il sole della virtu in ogni parte, dove spiega i suoi raggi. Percio non vi sarà nuovo, che io vi dimostri un ben picciolsegno dell'animo mio verso voi, il quale è col domandarvi à leggere questa breve traduttione, che ho fatta d'alcune cose Turchesche. Credo, che ella non vi dovrà dispiacere per la novita sua, & per rispetto del dono, che vi viene, d'onde non l'aspettavate. Accettatelo dunque, come conviene alla gentilezza del cuor vostro; & rendetevi certo, che il disiderio mio è tutto rivolto à far cosa, che vi piaccia; certissimo d'acquistar percio l'amicitia vostra. Et vi bacio la mano. A xxix di Febraio, MDXLVIII. Di Fiorenza.
AL REVERENDISSIMO PRENCIPE , ET SIGNORE, IL SIGNORE OTTO DE BARONI DI VALTPURG, CARDINALE DELLA SACROSANTA CORTE DI ROMA, & VESCOVO D'AUGUSTA, LUOGOTENENTE DELLA MAESTA CESAREA NELLA DIETA DI VORMATIA DEGLI ORDINI DELL'IMPERIO, SIGNORE, & MECENATE SUO, BARTOLOMEO GIORGIEVITS
Come i marinari dopo i naufragi ragionano volentieri de pericoli loro, qui l'abbaiare di Silla, qui le Simplegadi col loro affrontarsi spezzar le navi colte in mezo di loro, altrove le Sirti mutare ogni di guado, altrove le smisurate balene, che si truovano in mare, altrove gli Antropophagi mangiare i corpi humani, altrove i corsari rubare tutto quel, che il mar porta, altrove le voragini dell'acque chete inghiottire le navi nell'abisso, cosi à me Illustrissimo Prencipe, giova ritornare à memoria i pericoli corsi nella guerra d'Ungheria, i durissimi legami, la cattività peggiore che la Babilonica, la servitù piena della crudelta di tutti i supplici, & oltre à cio le molte vendite, che di me furon fatte mutato padrone, et i vari casi nella mia fuga. Ma perche io ho gia scritto in certi commentari le miserie di quella servitu, & ho trattato anchora de costumi, & delle cerimonie di ciascuna natione, & tanto che disciplina essi vivano in pace, & in guerra, & di tutte le cose, che in ciascun luogo dell'Asia, et dell'Europa sono da esse vedute per maestà, riverite per religione, & maravigliose per novità. Percio che tutti questi paesi ho veduti, & non per passaggio, ma con lunga dimora: talmente che non m'è mancato spatio di tempo da considerare le cose: in che, quanto hanno potuto le mie debili forze, ho imitato Platone, & Pithagora.
Restami hora, che io faccia mentione d'una certa prophetia celebratissima tra Maomettani. Percioche quella natione come da principio è derivata da Christiani (perche da principio ella non fu altro, che una certa setta, & heresia) cosi hanno anchora molte cose non differenti dalle Christiane: tanto che hora non mezi Christiane, ma scimie de Christiani gli potremmo chiamare: perche in grandissime cose diversi da noi, nelle minime quasi nosi stessi paiono. Cosi veder possiamo un simulacro della leonessa nel gatto, nel ramarro del crocodillo, nella scimia dell'huomo; benche grandissima differenza vi sia nella grandezza, anzi, ne costumi, & ne fatti.
Hanno essi adunque, secondo l'usanza nostra, di molte prophetie, & vanno attorno di loro in ogni luogo indovini, & spiritati propheti: ma nondimeno cosa non hanno tanto certa, & sicura, quanto questa sorte di prophetia, nella quale si contengono innumerabili vittorie della gente nostra, & finalmente la ruina loro. Et perche infino ad hora la ritrovano vera, la riputano anchora verissima ne gli altri casi: di maniera che publicamente si mettono à piangere, ogni volta che leggono il fine di questa prophetia, non altramente che se la calamità denuntiata à venire, hora stia lor sopra il capo.
A me come non piace, & non è lecito affermar alcuna cosa della fede di questo oracolo, cosi mi diletta trattenere in quelle cose, che si contengono nella fine di questo oracolo, & desidero, che da loro medesimi con vero augurio sia predetta la ruina di quella scelleratissima gente, & che il propheta, il quale insino ad hora si è trovato vero contra noi, si truovi anchora vero per noi.
Vero Propheta fu Balam anchora fuori d'Israel; & tra Pagani furono molte Sibille, le quali predissero il vero: & per questo è possibile, che fuor de Christiani sia, chi habbia spirito prophetico. Ma, come ho detto io non affermo nulla, nondimeno poi che sono avenute (qualmente quivi è stato predetto) le calamità nostre, cosi vorrei anchora, che avenissero i contenti. Che se si correggessero i costumi nostri, & non piu tosto ogni di tutte le cose andassero di male in peggio; io spererei, che gia fosse appresso quel tempo, nel quale CHRISTO riguardasse le miserie della sua gente: il qual tempo i Turchi anche credono, che sia giunto: percioche molti stimano, che i Christiani debbano avere que rivolgimenti di cose, che hebbero gia i Giudei.
ùFurono menate prigioni dieci tribu d'Israel, essendo salva anchora, & poco dipoi fiorita la Giudea. Et gia molti indovini di loro affermano, che queste dieci tribu sono l'Arabia, la Siria, la Caldea, l'Armenia, la Phrigia, la Thracia, la Grecia, l'Ungheria, l'Egitto, & l'Africa; & cio che vi rimane, nella Europa essere l'unica tribu di Giuda, con le reliquie di Beniamin, & che per questo ella habbia anchora ad haver l'imperio, & che tra i Turchi, & nostri habbiano cambievolmente à succedere di molte disgratie.
Alcuni altri credono, che l'ordine delle Turchesche habbia ad esser perpetuo, fin che tutti i regni Christiani siano loro soggetti, & che poi ogni cosa si muterà al contrario, ritornando di nuovo in fiore lo stato de Christiani, & ricuperando essi l'antiche signorie, signoreggiando, & incrudelendosi la spada de Christiani, la quale, interpretano, che habbia ad essere qualche propheta, ò fortissimo prencipe de Christiani, il quale soggiogandoli, gli chiamerà alla vera fede di CHRISTO: ma questa cosa s'intenderà meglio nella prophetia.
Ma havendo io conosciuto per esperienza, che gli Illustrissimi, & dottissimi huomini per le vostre eccellentissime virtu nella chiesa di DIO, & nel governo della Repubblica, Reverendissimo Prencipe, vi riveriscono, & hanno in sommo honore, & sopra tutti il Reverendissimo Monsignore, & Signore Christoforo Mandrucio Cardinale della sacrosanta corte di Roma, & Vescovo di Trento, huomo per grandezza d'animo, per fede, & per sapientia prestantissimo, fedelissimo amico di Ferdinando Re d'Ungheria, di Bohemia, & di carlo Imperadore de Romani; il quale nuovamente dopo la rotta di Carignano, essendo venuta tutta la Lombardia i9n pericolo di cadere nelle mani de Francesi, havendovi mandato il fratello con di molti soldati fatti in un subito, con le facultà, & forze sue quivi sostenne l'Imperio, che stava per cadere. Il Signore di Granuela anchora domestico consigliere di Cesare, e'l suo figliuolo l'Arcivescovo d'Arasse: nel quale rilucendo tutte le doti dell'animo, sopra tutto la humanità vi riluce, si come quegli, che pare, che voglia imitare il costume di Tito Vespasiano, il quale non lasciava partire mal contento alcuno da lui: Et anche il chiarissimo principe il Signor Vuolfango Vescovo Pataviese, huomo per molta dottrina, pieta, & ogni laude singulare; Anchora il Reverendissimo Vescovo di Costanza, il Signor Giovanni Veza, huomo per fortezza d'animo, & di corpo, per santita, & bontà, et per dottrina eccellentissimo, che nelle cose di Cesare felicissimamente ha fatto molte legationi. Accio che in tanto io taccia di Cornelio Sceppero, huomo dotto di molte lingue, ambasciadore incomparabile della Cesarea Maestà non solo tra Christiani, ma anchora appresso gli Imperadori de Turchi: di cui è in dubbio qual piu sia degna di maraviglia ò la fede, ò la felicità nel maneggio delle imprese. Lascierò anchora tutti gli Elettori dell'Imperio Romano, Satrapi, Consiglieri, & baroni del Sommo Pontefice; i quali tutti in honorarvi, & riverirvi maravigliosamente consentono. Anzi carlo medesimo Imperadore Romano tanto vi stima, & con quella riverenza, & carità v'abbraccia, che vi ha fatto suo vicario, & luogotenente nella dieta de gli ordini dell'Imperio in Lamagna.
Volendo dunque dimostrare anch'io la divotione dell'animo mio verso l'altezza vostra, niente altro haveva, che offerirvi, se non questa prophetia Turchesca: la quale ben che sia molto piu piena di ciancie, & vana, che non dovrebbe intitolarsi alla grandezza vostra, confidandomi non dimeno nella benignità della humanità vostra, sono stato ardito di farlo. Percioche veggendo che'l cielo dopo tanti lumi di stelle, non rifiuta anchora la debile luce delle lucerne, certissimo mi rendo, che cio che v'offerisce uno humil servitor vostro, tutto che sia di pochissimo valore; alla altezza vostra congiunta con humanità infinita non sarà discaro. Siate sano Reverendissimo Monsignore, & lungo tempo al popolo Christiano, & à tutti gli studiosi IDDIO vi conservi. In Lovagno à XVII di Marzo l'annp MDXLV.
Ma accioche le cose, che io qui dico, non siano riputate vane, ò da me finte, ho qui messo sotto l'istesse parole Turchesche, le quali, chi intende quella lingua, subito potrà conoscere, & confesserà, ch'elle sono quelle medesime, che quivi si ragionano tra il volgo. V'ho aggiunto poi l'interpretatione della Lingua Romana insieme con un breve commentario.
INCOMINCIA LA PROPHETIA IN LINGUA TURCHESCA
Patissahomoz ghelur, Ciaserun memleketialurkeu zul almai alur, kapzeiler, iedi Yladegh Giaur keleci esixmasse, on iki yladegh onlarum begligheder: eufi iapar, baghi diker, bahesai baghlar, ogli kezi, oìur: on iki yldenssora Cristianon keleci esikar, ol Turki gheressine tuskure.
SEGUITA L'INTERPRETAZIONE QUANTO AL SENSO
Verrà l'Imperadore nostro, piglierà il regno d'un prencipe infedele, piglierà anchora un pomo rosso, & lo ridurrà in sua possanza: che se insino al settimo anno non si leverà la spada de' Christiani, sarà loro signore sino al duodecimo anno: edificherà case, pianterà vigne, fornirà gli horti di siepi, ingenererà figliuoli: dopo il duodecimo anno, che egli havrà ridotto il pomo rosso in sua possanza, apparirà la spada de Christiani, la quale metterà in fuga i Turchi
Ma perche le prophetie in ciascuna parola chiuggono misteri grandi delle cose avenire, mi è paruto secondo la debilità delle forze mie asaminare in modo di commentario à una per una tutte le parole del parlar Turchesco.
SEGUITA IL COMMENTARIO
PATISSAHOMOZ, è nome di degnità composto col pronome del numero del piu; & significa Re nosto, ò vero Imperador nostro: percioche essi sogliono con questo medesimo nome di degnità domandare l'Imperador Romano, & gli altri Re Christiani, cio è URUM PATISSAH, cio è, l'Imperador Romano, UNGRUZ PATISSAH, cio è, l'Unghero Re, & FRENK PATISSAH, cio è il Francese Re, & cio non s'attribuisce à Signori di piu bassa conditione dopo l'Imperadore e'l Re. Oltre à cio sogliono essi col medesimo nome chiamare il Re di Persia: ma piu spesso lo domandano, SULTAN, il qual nome segnifica prencipe, come SAHI SULTAN ZMAIL, perche questo moderno Re di Persia Soffi ha per propio nome, ZMAIL, che significa Ismael. Hanno anchora un'altro nome di degnità de Re, HVNKER, ma io non ho mai inteso chiamar per questo nome alcun Re Christiano, ò infedele, eccetto che SOLIMANO Re loro, il quale è hora signore; & questo nome non so se significhi signore de gli Hunni; perche la parola Tedesca par quasi, che voglia dire il medesimo, HUNCH HEER, cio è degli Hunni signore.
GHELER è verbo, & vuol dire verrà.
CSIAFERUN è un nome che significa pagano, ò vero infedele. Perciche essi sogliono con questo nome chiamare tutti i Christiani; ben che habbiano anchora de gli altri vocaboli à domandare i Christiani, si come sono GIAUR, & CAUR, ma, GIAUR, significa uno huomo solo, se non vi s'aggiugne in fine, LAR, la quale parola aggiunta fa il numero del piu, come, GIAUR, ò vero, KAUR, cioè Christiano: GIAULAR, ò vero, KAULAR, cioè, Christiani. Ma, CSIAFER, anchora senza quella fine, la quale si da al numero del piu, significa moltitudine di nationi. Ma perche il testo dice, CSIAFERUN, & è caso genitivo per la giunta di UN, come, CSIAFER, cio è, pagano in nominativo, CSIAFERUN, cio è, pagano in genitivo, quasi dicesseo del Re pagano.
MEMBLIKBT, significa regno; benche essi habbiano anchora de gli altri diversi vocaboli à significare il regno, come, ISTAN, perche quando fanno mentione de regni di Francia, ò di Spagna, allhora dicono, FRANKISTAN, la qual cosa significa uno huomo di questi paesi come FRANK, GIAUR cio è Italiano Francese, ò vero Spagnuolo Christiano.
Ma quando vogliono nominare la Grecia, mutano vocabolo, & dicono, URUN, ELLI, cioò Grecia, & non URUN ISTAN, cio è greco regno. Sogliono anche tal'hora dire, URUM MEMLEKET, & allhora intendono tutto l'Imperio de Greci. In somma questo vocabolo, MEMLEKET, appresso quelle nationi suole piu tosto significare Imperio, che regno.
ALUR è verbo; et vuol dire, prenderà, ò vero torrà.
KUZULALAMI, è nome, che significa rosso pomo; perche KUZUL, significa color rosso, &, ALMA, Pomo: & dicono, che cio è una qualche grandissima, & fortissima città Imperiale, & talhora nasce quistione tra i piu dotti per questa cagione; perche alcuni vogliono interpretare quel vocabolo la città di Costantinopoli: percioche in alcuni volumi loro in due modi si legge, cio è, KUZULALMAI &, URUM PAPAI, cio è rosso pomo, ò vero Greco sacerdote, ò patriarcha. Perche, come habbiamo gia detto, URUN, significa Greco: percioche tutta la Grecia era sotto l'Impero Romano: & è corrotto per la giunta della lettera U in principio, & mutando O in U: perche se tu levi à questa parola, URAM, il primo U, & quel di mezo si muti in O, dirà ROM. Molti sono dunque di questa opinione, che significhi l'Impero Costantinopolitano: ma noi piu diffusamente dichiareremo la differenza al suo luogo.
KAPZEILER, è verbo, & vuol dire opprimere con giogo di servitu: & niun dubita, che la tirannica afflitione loro non sia una crudel oppressione: la qual cosa agevolmente confesseranno coloro, i quali hanno provato la lor cattività, & essatione di tributi; si come sono i Greci, gli Armeni, e i Thraci; nella maniera che facilmente hanno potuto intendere quegli, che hanno letto il nostro libretto delle afflittioni divolgato in lingua Latina, Francese, Tedesca, & Bohema.
IEDI, YLADEGH, il settimo anno dopo la presa di quel sopradetto luogo.
GIAUR, KELECI, CSIKMASSE, cio è, pagana ò vero infedele spada se non apparirà, & contra quello non si leverà: & credono, che queste predestinazioni del settimo anno siano in possanza de Christiani: i quali, se di commune aiuto volessero contra di loro stringere la spada, senza dubbio piena vittoria ne riporterebbono. Ma che questo non habbia effetto, colpa n'è la dapocaggin nostra, mentre che tra noi facciamo guerre civili, ò invecchiamo in ocio vergognoso.
ONIKI YLADEGH, cio è, fino all'anno duodecimo, ONLARUM, BEGHLIGHEDER, cioè di questi (dico de pagani) signoreggierà. Ma perche ne dopo il settimo, ne dopo il duodecimo anno (ch'è stato preso l'Imperio di Costantinopoli) la spada de Christiani contra di loro non ha prevaluto; perche sono gia quasi cento anni, che tutta la Thracia, & l'Imperio Orientale è sotto la Signoria loro, dicono, che sotto il nome del pomo rosso s'intende un'altra sede d'Imperio. Nondimeno gran dubbio sta sotto la coperta de gli anni; percio che se nelle sacre scritture la settimana di sette giorni significa anni, qual numero, & grandezza di tempo porremo noi nell'anno? La onde sono tra alcuni; i quali contano uno anno per uno anno del Giubileo, il quale gia si voleva fare di cinquanta anni; alcuni altri credono, che uno anno significhi un centinaio d'anni. Vi sono anchora di quegli, i quali pensano, che uno anno contenga trecento sessanta sei anni, appunto quanti giorni ha l'anno del sole. Ma come gli oracoli dirittamente non sono intesi, se non dopo il successo, cosi s'intenderà il certo, & diffinito spatio di tempo, quando la cosa havra effetto.
EUFI, IAPAR cio è, edificherà la casa. Per l'edificatione della casa credono, che s'intenda, ch'egli sia per dedicare i nostri tempi al suo Macometto: si come hanno gia lordato le chiese di tutta l'Asia, dove erano gia i Christiani sino à Gierusalem, & di piu il tempio istesso di Nostro Signore; il quale è in Gierusalem. Il medesimo hanno fatto anchora della maggior parte d'Europa, cio è della Grecia, della Thracia, fino all'Austria: di tutta quasi l'Ungheria, della Schiavonia, & Dalmatia. Io non so se noi con questa indegnità provochiamo l'ira di Dio, mentre che alcuno co cani à guisa di cacciatore passeggia nella chiesa; altri vi ragiona d'usura, altri di meretrici; altri vi spande orina, & vi fa cose tanto vituperose, che non si potrebbono pur vedere tra gl'infedeli. Et però s'ha da credere, che per questa poca riverenza Iddio voglia piu tosto, che le nostre chiese siano sotto Macometto, che sotto noi.
BAGHI, DIKER, cio è, pianterà la vigna. Per lo piantar della vigna intendono nuove colonie, & passaggi di popoli delle habitationi loro, & ampliamento d'Imperio.
BAHCSAI, cio è horti, ò vero quel piantar di vigne, BAGLAR, cio è, fortificherà, vogliono inferire, ch'egli da ogni parte fortificherà le nuove provincie, accioche malagevolissimamente si possano racquistare. Et questa è cosa maravigliosa, che dopo tanti anni, ch'egli ha incominciato à incrudelire, talmente habbia fortificato; che da lui non habbiamo potuto ricuperare pure un villaggio.
OGLU, KEZI, OLUR, cio è haverà figliuolo, & figliuola. Qui per la procreatione de figliuoli intendono l'accrescimento della gente Macometana; si come è manifesto à ogniuno, ch'ella è di modo accresciuta & moltiplicata, che nulla piu. Gia non ci resta piu dunque altro se non la rovina, & distrution loro.
ON IKI YLDENSSORA, cio è, dopo il duodecimo anno.
HRISTIANON, cio è Christiana.
KELECI, cioè, spada.
CSIKAR, cio è, apparirà, ò vero si leverà. Et di questo anchora è dubbio appresso di loro se quella spada, con la quale la nation Christiana ritornerà in libertà, & renderà il cambio à Macomettani, habbia ad essere qualche gran Re Christiano, che con infinito esercito sia per pigliare tutto l'Imperio de Turchi, ò pure qualche propheta Christiano con la dottrina sua sia per convertire i Macomettani alla nostra fede. Per la qual cosa come ho detto, l'ultime parole di questo oracolo sono lette da gli huomini con sospiri, da fanciulli con pianto, dalle donne con lagrime, & singhiozzi.
Piaccia à Dio finalmente, che gli Italiani, gli Spagnuoli, i Francesi, gl'Inglesi, i Tedeschi, & gli Ungheri stringano l'armi loro contra questi cani della fede, condannati, per via di dire, dal destino, & s'ingegnino di tor via la discordia da gli animi loro la quale è sola, che indugia le vittorie nostre. Ma ritorniamo alle parole della prophetia della rovina loro.
TURKI, cio è, il Turco istesso, che tutta via regna.
GHERESSINE, cio è à dietro, donde egli è uscito, di maniera che sia cacciato, ò sino à ripostigli della Bithinia, donde egli uscì la prima volta, ò in Scithia, donde ha havuto origine.
TUSKURE, cio è, caccierà, ò metterà in rotta. Ma perche ò non si sappia, donde sia per nascere questa spada Christiana, che ha à fare la vendetta, i Turchi veramente ò per paura concetta altronde, non lasciano che Christiani adoperino in alcun modo spade, ne altre armi. Et benche essi gia di gran lunga habbiano tralignato dalla fede Christiana, nondimeno molti di loro nelle battaglie portano per certissima difesa sotto l'ascelle l'Evangelio di Giovanni, cio è, en arkè en ò lògos, cio è, in principio erat verbum, fino alla fine scritto in greco, & si reputano con questa cosa talmente esser sicuri, come se circondati fossero da qualche fortezza; la qual sorte di iscritto in lor lingua sogliono domandare, HAMAILI.
La onde essendovi tante reliquie della nostra fede, si puo sperare, ch'essi quando che sia, & non con molta fatica si possan chiamare alla religion Christiana. Perche havendo essi ogni cosa sospetta, & prohibita à Christiani (come habbiamo gia detto) i quali vivono appo loro, l'usare alcuna sorte d'armi, di maniera che eccetto gli istromenti di villa, essi non possono havere cosa alcuna di ferro. Come che ne anche in questo modo non siano sicuri da servigi Christiani; i quali amazzano i padroni hora col dentale, hora col vomero, & hora con la zappa. Che se vedessero i Christiani muover l'armi di fuori, incontanente quanti schiavi son quivi, si leverebono à battagtlia i quali vi sono in tanto numero, che avanzano tre, & quattro volte tutti i Turchi habitatori di qualsivoglia paese.
Ma se ogniuno emendasse uno, cio è, ciascuno se medesimo, talmente che i plebei non meno amassero, che temesser, i magistrati. I magistrati si mostrassero padri à plebei, i dotti insegnassero à gli ignoranti la via delle virtu, & della verita, gli idioti conoscessero la loro ignoranza, & non si riputassero maestri in quelle arti, dove non hanno imparato nulla, il soldato militasse per la vittoria, e'l Capitano per l'honore: gli Ecclesiastici lasciassero le pompe, i mercanti l'usure, gli hosti i ruffianamenti, & i prencipi in commune lasciando gli errori, & l'ostinatione del difendere gli errori, congiurassero all'unità della fede, & alla concordia della chiesa, & lasciati i prencipi Christiani rivolgessero le forze contro à Turchi: chi dubita, che come agli Israheliti per li peccati loro ridotti in servitu, & finalmente facendo essi penitenza delle ribalderie loro, mandò il conservatore, & gli ritornò in liberta; cosi anchora in brieve non sia per venire aiuto da cielo? Et se cio si facesse, chi non ispererebbe, che tosto havesse à venire, che l'Imperador Romano non fosse per essere ornato cosi dell'Imperio Costantinopolitano, come del Romano? Ferdinando non fosse per regnare non meno in Ungheria, che sopra i Gethi, i Daci, & i Tartari? & che'l Re di Francia non fosse per aggiungere al suo Imperio l'Asia minore? che Portoghesi si facessero signori dell'Egitto? gli Spagnuoli di tutta l'Africa? & gli Italiani non fossero per havere in loro possanza tutte le riviere del mare mediterraneo? & che gl'Inglesi anch'essi non fosser per accrescere il loro Imperio tra Turchi? Hora ci tagliamo à pezzi quando per uno, & quando per un'altro castelluzzo, & dopo le crudelissime battaglie, dopo consumate le ricchezze, non accresciamo punto l'Imperio nostro.
Ah quanto mar s'havrebbe, & quanta terra
Potuto guadagnare con questo sangue
Civil, versato da le nostre mani.
Hora adunque, che i potentissimi monarchi, & veramente Christiani consentono alla pace tra loro, c'è speranza, che vogliano valersi delle occasioni de tempi, et delle mutationi del destino, & che non vogliano comportare che le reliquie del regno d'Ungheria, che vi restano anchora, & aggiunte le forze degli altri posson molto, vengano in signoria, & possanza de Turchi: i nomi de quali, benche non di tutti, ho qui messi di sotto: accio che quegli, i quali credono, che gia si sia perduto il tutto in Ungheria, prendano qualche consolatione, veggendo, che in quel regno tanto rimane anchora di sano.
Dolgansi di nuovo de gli altri, se pur doler si possono, di sentire ch'ogn'hora piu s'appressa il pericolo loro, che cosi debili particelle dell'Imperio à' Ungheria, che gia si distendeva dal mar Baltheo fino alle paludi Meotidi, siano ridotte in tante angustie: benche per dire il tutto in poche parole, noi stessi Ungheri ci habbiamo data grandissima cagione di questo male, mentre habbiamo in odio i Tedeschi non meno, che i Turchi, mentre partiamo ogni cosa in due Re, mentre alcuni chiamano il Turco, altri lo cacciano: & se non tardi habbiamo conosciuto, ch'ogni regno in se stesso diviso va in rovina, & che una casa cade sopra l'altra, & che le grandissime cose scemano per la discordia. Ma tardi sono i mlamenti. Et io voglio piu tosto cantare il triompho, & la festa, & voglio indovinare cose piu allegre. la onde porrò qui sotto brevita i nomi degli Ungheri, i quali ho avuti in iscritto nuovamente da loro ambasciadori, cio è del singolare huomo Giorgio Euskero senatore Cremonese, & Christano Hofkircher, huomini dottissimi mandati alla Maesta della Regina Maria per domandar soccorso: i quali confessavano, che le reliquie dell'Ungheria potevano anchor mettere insieme esercitatissimi cavalieri, pur che vedessero comparire le genti dell'Imperadore Romano., & degli altri prencipi Christiani. Per la qual cosa io metterò hora quegli, che hanno alcune forze, senza servare alcuno ordine, ma secondo che ciascuno mi verrà à memoria, così sarà posto prima.
Magnificamente s'ha da sperare dal Reverendissimo Signor Paolo di Varda Arcivescovo di Strigonia, le facultà del quale sono anchora molto potenti, et tanto sapere è nell'animo suo, che anchora senza le ricchezze sue gran fede si potrebbe havere in lui, benche egli habbia perduta la maggior parte dello stato, poi ch'è stata presa Strigonia.
Promettono anchora cose allegre, & grandi l'auttorità di Nicolo Olaho Vescovo Zagabriese, & vicecancelliere del regno d'Ungheria, insieme con la infinita esperienza, & varia dottrina, & fortezza d'animo, & di corpo le quali si truovano in lui.
Grande animo similmente tiene il Reverendissimo Signor Martino di Kechet Vescovo Vesprimese, huomo singolare nelle cose della guerra, & nato (come si puo veder) a danno de Turchi; il quale ò gia pareggia, ò tosto è per aguagliare nelle imprese di guerra il suo predecessore Pietro Berisolo. Aggiungo à questi Francesco Turzone Vescovo della Chiesa Nitriese, del quale ogniuno si promette cose maravigliose, & liete.
Tra Baroni anchora chiarissima è la famiglia Bathorea, i quali per successione antica, & d'armi, et di animo inimicissimi sono alla nation Turchesca. Et anche i magnifici huomini Thomaso Nadasdi, & Francesco Batiani, famiglia Balassea non mancheranno all'ufficio della loro illustrissima degnità: tra quali sarà agevolmente il primo Melchior Balassa.
Et parimenti danno di loro grandissima speranza i valorosi baroni nuovamente ricevuti in gratia del Re Ferdinando, cio è Rafaello, & Giovanni Apodamiani, à mquali meritatamente s'aggiugne Francesco Bevai vicepalatino del regno d'Ungheria; perche nel consiglio, prudenza, & fede di lui si puo sperare ogni cosa. Io non dirò nulla di Francesco Nyari, & di Bartolomeo Horvat, i quali spesse volte sono ritornati al Re Ferdinando con vittoria, havendone amazzati, & presi molti.
Fra Giorgio anch'egli Vescovo di Varadino, hora tutore del fanciullo del Re, & della moglie di Giovanni Vaivoda, Duca della Transilvania: il quale quando vedesse fermi soccorsi contra Turchi, agevolmente, & subito calerebbe, come, veramente di lui si crede, co detti Baroni d'Ungheria, & merrebbon seco al meno quaranta mila cavalli espeditissimi nelle cose di guerra; i quali in fino ad hora hanno di continovo guerreggiato co' Turchi.
Tutti questi adunque, perche già è lor venuta à noia la crudeltà de Turchi, disiderebbono di morir piu tosto per la salute della patria, che d'esser sottoposti al lor tirannico giogo: la qual cosa s'intende per le legationi di molti. Et in questo modo conserveremo si grandi, & si gagliarde reliquie del regno d'Ungheria, se finalmente muoveremo la guerra, ò le perderemo affatto, se come fin'hora abbiamo fatto, resteremo in pace.
E da sapere, che questaq prophetia non si legge nell'Alchorano ma in altri libri, à quali portano grande auttorità, & riverenza, percioche essi hanno & i nostri propheti, & altri assai della loro natione.
ALLO INVITTISSIMO IMPERADORE DE ROMANI SEMPRE AUGUSTO CARLO QUINTO
BARTHOLOMEO GIORGIEVITS HUMILE, & AFFETTIONATISSIMO SERVIDORE
Dice Didone in Virgilio; Io, che ho provato il male, imparo à soccorrere à miseri, percio che egli è cosa naturale, haver compassione à quelle calamità de gli altri, che tu alcuna volta hai patite. Io adunque, invittissimo, & augustissimo Cesare, che tredici anni ho provata la servitu Turchesche, sette volte sono stato venduto; il quale co sentimenti istessi ho sentito le miserie di quella vita, ho diliberato sottilmente ombreggiare con un piccio libretto l'imagine di quelle Tragedie: perche niuna forza d'ingegno humano la potrebbe esprimere appieno, accio che quegli, che sono anchora liberi, intendano, quanto con tutte le sustanze, & forze loro, si debbano sforzare di non venire in questa miseria, & quanto meritino essere odiati coloro, i quali con le guerre (per modo di dire) civili ritardano l'armi tue dall'impresa Turchesca: essendo certa speranza, & questo per le prophetie, le quali non meno in Turchia, che qui son divolgate, che tu solo hai da esser quegli, che rovini quel regno del Diavolo; pur che tu potessi mettere tutte le forze a quella guerra. Percioche lasciando hora da parte le prophetie, vi sono molte congietture, per le quali il medesimo si puo indovinare, che per gli oracoli. Non è mai stato nella Christianità sa settecento anni à dietro il piu potente imperadore, niuno piu pieno di vittorie, ne piu inclinato con l'animo à quella guerra, ne piu istrutto di pratichi soldati: di modo che per soggiogare i Turchi pare che solamente l'ocio, & non altro ti manchi: la qual cosa, coloro che te la levano, qualunque essi siano, & con che animo lo facciano, pessimo servigio fanno alla religion Christiana. Settecento anni sono ò circa, che l'armi Turchesche sono state superiori, & fino ad hora niuno l'ha spuntate: percioche niuno t'è stato eguale di ricchezze, di fortuna, & di volontà. Onde è bene hora da dolersi, & da riprender molto che tu solo per altre guerre sia distornato da cosi tante imprese. Io adunque ho pensato dedicarti questo libro delle miserie de Christiani: à te, che'l mondo conoscere essere quello uno tra tutti gli altri, che possa, et voglia dar rimedio à queste sciagure; & speriamo che in brieve sia per darlo. Conservi lungo tempo IDDIO la tua Cesarea Maestà, & non sia molestata da infermità, ne da morte, prima che tu non drizzi le insegne Christiane di nuovo nell'Asia, nell'Africa, & per tutto il mondo. In Lovagno à xv, di Marzo, MDXLV.
COME I CHRISTIANI PRESI IN BATTAGLIA DA TURCHI SONO VENDUTI
Quando l'Imperadore de Turchi muove guerra à Christiani, fra gli altri mercanti sempre l'accompagna una gran turba di cozzoni, che stanno sopra Cameli: costoro portano seco lunghissime cathene per isperanza di comperar servi, nelle quali agevolmente si legano cinquanta, & sessanta alla fila. Questi comprano tutti quegli, che non sono morti da ladroni: la qual cosa è loro concessa con patto, che paghino la decima de servi al prencipe: gli altri possono essi ritenersi per loro uso, ò per contrattargli in altro modo & non hanno altro piu ricco, ne piu spesso traffico di questo. Come anche anticamente era costume appresso de Romani, i quali chiamavano cose da mancipio le mercantie comperate senza alcun difetto, et nelle quali non era pericolo, che halcuno si domandasse haver ragione.
IN CHE COSA L'IMPERADOR DE TURCHI INTRATIENE I SUOI PRIGIONI
I vecchi, & la gioventu dell'uno, & l'altro sesso, che gli tocca per decima, discerne in questo modo; quegli, che sono di piu tempo, vende per lavorar la terra; i quali nondimeno di rado son presi: percioche rade volte perdonano à quegli, che per l'età di molti anni sono poco vendibili. Le fanciulle, & i giovani confinano à un certo luogo, che si chiama il Serraglio, & quivi gli fanno imparar certe arti, per servirsi poi meglio di loro nell'avvenire. Et prima fanno ogni opera, ch'essi rinegata la fede Christiana, si circoncidano. Poi che sono entrati nelle loro cerimonie, considerati diligentemente i lineamenti del corpo per Phisionomia, secondo l'inclinatione di ciascuno, sono posti ò à imparare le leggi di quella natione, ò alla militia; se maggior forza di corpo, che d'ingegno, appare in loro: & ogni di dan lor provisione di due, ò tre aspri; & cio si credono, che gli debba bastare per mangiare, & per vestire, fin che s'ha d'andare à qualche impresa. I principi della militia s'insegnano loro in questo modo; prima secondo la tenerezza delle forze si gli da uno arco piu leggiero, poi crescendo la forza, & la maestria, un piu grave, & piu grande, sin che è sofficiente alla guerra. Hanno un maestro severissimo, che vuole intendere l'esercitio d'ogni giorno, & quante volte fallano il segno, tante volte sono battuti con isferze: & questi tali sono poi scritti nell'ordine dei Solachi, cio è arcieri. Alcuni s'ammaestrano per diventare poi gianizzeri, & questi anch'egli hanno i maestri loro, i quali gli sforzano ogni giorno à giuocare insieme di bastone. Gli altri, ò gran ribalderia, che sono un poco piu belli, sono talmente tagliati, che segno alcuno d'huomo non rimane loro in tutto il corpo con grandissimo pericolo della vita: che se scampano, in altro non gli adoperano, che in dishonesto servigio di sceleratissima lussuria. Poi quando la bellezza invecchia, sono posti à gli uffici de gli Eunuchi, alla guardia delle donne, ò sono confinati à guardar cavalli & muli, ò à servigi della cucina.
QUEL CHE SI FA DELLE FANCIULLE, & ALTRE DONNE
Quelle, che bellissime sono, s'eleggono in concubine: le mezane sono date alle donne per fantesche; fra le quali vi sono alcuni tanto sporchi servigi, che honestamente non si posson dire: percioche elle sono sforzate andar lor dietro con un vasetto d'acqua, quando elle vanno à scaricare il corpo, & purgar quelle parti. L'altre sono poste à opere servili, come à tessere, & fare il pane. Ma a nessuna di loro è lecito, mentre vive, riservare la fede Christhiana, ò haver mai speranza di ritornare in libertà.
QUEL, CHE FANNO GLI ALTRI TURCHI DE SERVI
Fin qui habbiamo detto quel, che ne fa il gran Signore: hora diremo cio, che ne fanno i privati. Subito che hanno acquistato i nuovi servi, usano tutte le minaccie, promesse, & lusinghe à fare, ch'il nuovo servo si lasci circoncidere: & poi che cio ha fatto, è trattato un poco piu piacevolmente: ma la speranza di ritornare alla patria gli è levata in tutto: & chi si mettesse in pruova di tornarvi, è fatto abbruciare. Costoro, perche sono reputati piu fermi, & manco fuggitivi, son posti da padroni à servigi della guerra: et allhora son messi in libertà: quando esso è disutile per gli anni, è piu tosto abbandonato, che licentiato dal padrone: ò vero quando il padrone in guerra fra i pericoli lo havrà lasciato libero. E gli concesso à maritarsi, ma i figliuoli loro secondo che piace al padrone sono venduti: la qual cosa è cagione, che i piu savi non cercano di maritarsi. Gli altri, che non si voglioni circoncidere, son crudelmente trattati: la qual miseria ho provata io tredici anni, ne con parole posso esprimere, quanta calamità è in questa sorte di vita.
CIO, CHE SI FA DE CHRISTIANI, CHE NON HANNO ARTI MECHANICHE
Durissima è la condition di coloro, i quali non hanno imparato le arti mechaniche: percio che queste sole quivi sono in honore, & pregio. La onde i litterati, i sacerdoti, i gentili huomini, che hanno menata la vita loro in otio, tosto che son venuti nelle mani di costoro, sono piu che tutti gli altri, miseramente trattati. Percio che il cozzone non si cura di spendere in loro alcuna cosa: come in quegli, che a fatica si posson vendere: vanno questi meschini col capo scoperto, & co piedi scalzi, & le piu volte ignudi la maggior parte del corpo. Perche poi che hanno logori i vestimenti vecchi, non glie ne fanno piu de nuovi; & cosi sono stracciati la state e'l verno per le nevi, & per li sassi, & non si truova fine alle miserie loro, fin che essi non muoiono, ò non ritruovano qualche pazzo padrone, che comperi la mala mercantia; percioche di loro si fa questo giudicio. Ma di tutti loro non v'è alcuno tanto aventurato, sia di che si voglia conditione, ò età, ò arte, ò bellezza, che amalando per viaggio, sia lasciato appresso l'hoste. Prima è sforzato andare con le battiture, & se non puo, è messo sopra una bestia, & quivi se non puo sedere, è legato col corpo all'ingiu, non altramente che se fosse qualche soma, ò sacco: quando muore, trattegli le vesti lo gettano nella prima fossa, ò valle à cani, & à gli avoltori.
COME SI TRATTANO IN VIAGGIO QUEGLI CHE NUOVAMENTE SON PRESI.
Non solamente legano insieme i prigioni in una perpetua cathena, ma gli mettono anchora in viaggio le manette alle mani, & tra l'uno & l'altro lasciano lo spacio d'un passo, perche non si calpestino fra loro: & cio fanno per non esser lapidati da gli schiavi. Percioche menandone ogni cozzone un gran numero, di maniera che spesse volte dieci huomini ne hanno cinquecento in cathena, hanno paura della forza di tanta moltitudine, ogni volta che havessero le mani in libertà di poter trarre. Ma quando sopragiunge la notte, gli mettono anche i ferri à piedi, & messigli col corpo in su, gli lasciano à ogni ingiuria dell'aria. Ma le donne sono un poco piu humanamente trattate: quelle che son gagliarde, caminano à piedi: le più dilicate son portate sulle bestie: quelle che son tanto inferme, che non possono reggersi sulla bestia, sono portate nelle ceste à guisa d'oche. La notte hanno peggior conditione; percioche ò sono serrate in luoghi forti, ò sono sforzate à patire la dishonesta lussuria de cozzoni: onde si sente un gran pianto al buio di giovani dell'uno, & l'altro sesso, i quali sono sforzati: ne l'età di se, o sette anni difende i miseri da simil vituperio; tanto quella scelerata gente & contra natura, et innanzi natura lussuriosamente incrudelisce.
IN CHE MODO SONO TRATTATI QUEGLI, CHE S'HANNO A' VENDERE.
Tosto che s'apre il giorno, quegli, che s'hanno à vendere, son menati in piazza, come gregge di pecore, & di capre. La dove i mercanti si ragunano, & si serra il mercato. Se'l servo piace, trattegli le vesti, colui che vuol comperare, minutamente lo guarda: guardansi tutte le membra, toccansi, consideransi, se forse vi fosse qualche difetto nelle giunture, & ne nodi. Se dispiace è ritornato al cozzone; & tante volte è per essere spogliato, quante volte viene alcuno, che lo voglia comperare, se e' piace, è posto à una grave servitu, ò ad essere aratore, ò pastore, per non ragionare di cose piu moleste. Quivi son molti, & non piu uditi esempi di miseria. Ma io non ho mai veduto gli huomini giunti al giogo tirar l'aratro. Le fanti sono tenute strettissime in perpetue fatiche, & fuor della vista de gli huomini; & non è pur loro concesso ragionare con gli altri schiavi. Se alcuno vien preso con la moglie, & figliuoli, i magnati molto volentieri lo comprano, & è messo sopra le ville, ad haver cura delle campagne, delle vigne, & de pascoli: quegli, che nascono di loro, rimangono schiavi. Se preseverano nella fede Christana, gli è ordinato un certo tempo di servire, dopo il quale sono fatti liberi: nondimeno i figliuoli loro, se non sono riscossi, rimangono in servitu, secondo la volonta del padrone; ò à dover restare nelle medesime stanze ò ad esser menati altrove: per cio che quivnon è alcuno tanto obligato al terreno, che habbia certa stanza di servitu. Et se, havuta che hanno la libertà, e' disiderano ritornare alla patria, si gli fan letter di fede della licenza. Ma quegli, che hanno rinegato la nostra sede, non hanno tempo alcuno diterminato à servire, ne ragione alcuna di ritornare alla patria: solamente la speranza della libertà loro pende dalla volontà del padrone. Nondimeno poi che son posti in libertà, pagano le decime, come gli altri Turchi; essendo però liberi dall'altre gravezze, che si pongono à Christiani.
DI QUE PRIGIONI, CHE FANNO PASTORI
Dura vita è di quegli che lavorano la terra, ma molto peggio la franno coloro, che sono comperati à essere pastori: Percioche primieramente hanno à vivere in solitudine, & in perpetuo à star di & notte all'aria: solo il padrone con la moglie sta sotto il padiglione, & oltre à gli uffici di guardar le greggi, sono sforzati à certe hore del giorno fare quando tappeti, & quando altre cose. Mutano i pascoli ogni mese, passando di monti in monti. I padroni, che un poco piu piacevoli sono, danno un poco di salarietto à gli schiavi, come si legge, che solevano i Romani: & cio si chiama il loro peculio, il quale si salvano ò per poter caminare, se poi che hanno havuta la libertà voglion tornare alla patria, ò per altri bisogni della vita. Ma questo non si fa in ogni luogo: & è cio un misero allettamento di servitù, col quale s'ingegnano di levargli il pensiero di fuggirsi. Ma à quegli, che hanno rinegato Christo, gia sono circoncisi, perche son sicuri, che non si fuggiranno, non s'usa cortesia alcuna.
DELLA FUGA DE PRIGIONI DELL'EUROPA
Piu agevolmente si posson fuggire quegli, che sono in Europa, che quegli, i quali sono venduti ne paesi d'oltra mare: perciche questi altro non hanno à passare, che i fiumi, i quali facilmente si nuotano: maggior difficultà è passare lo stretto di Gallipoli. Coloro, che disegnano di fuggirsi, sono usati di farlo al tempo, che le biade sono mature, per poter piu facilmente nascondersi, & per havere anchora da vivere nelle biade. Caminano la notte, e'l giorno s'ascondono ne boschi, nelle paludi, ò nelle biade: & piu tosto vogliono essere mangiati da lupi, & dall'altre bestie, che essere strascinati à loro antichi padroni.
DELLA FUGA DELLA NATOLIA
Quegli, che voglion fuggirsi di Natolia, vanno allo stretto fra Gallipoli, & bquelle rocche, chiamate gia Sesto, & vAbido, & hora Bogazassar. Questo si puo interpretare, castella delle foci del mare: percioche il mare quivi è strettissimo. Costoro portano seco una scure, & le funi, per tagliar legna, & legarle insieme, da farne una barchetta per passare il mare; & non portando con loro altro che sale, la notte montano sulla barchetta. Se i venti, & la fortuna del mare gli favoriscono passano in tre, ò quattro hore: quanto che no, ò affogano, ò msono ributtati alle riviere d'Asia. Passato che hanno il mare, se ne vanno à monti; & tenendo gli occhi à Tramontana, caminano à Settentrione. Quando hanno fame, si sostentano d'herbe condite col sale. Se sono molti, che fuggano in compagnia, la notte assalgono i guardiani delle pecore, & amazzatigli, portan seco cio, che quivi truovano da poter mangiare. Nondimeno anch'essi spesse volte muoiono uccisi da pastori, ò vero presi da loro, & consegnati al primiero padrone, ritornano alla servitu antica. Ma molti piu ne consumano i pericoli, che quegli non sono, i quali vanno à salvamento: percioche ò muoiono per naufragio, ò mangiati dalle bestie, ò per ferro d'inimici, ò finalmente di fame, quando gli accade fuggendo caminar lungo tempo.
DELLA PENA DI QUEGLI, CHE FUGGONO
A quegli, che fuggono, sono ordinate diverse pene: percioche alcuni attaccati per li piedi sono crudelissimamente battuti: perche à quegli, che commettono homicidio, tagliano con un coltello le piante de piedi in molte righe; & poi vi metton sopra sale: ad alcuni altri pongono un collare al mcollo con una gran forca di ferro; la quale per lungo tempo portano di & notte.
DELLA PIETA' DE GRECI, & ARMENI VERSO PRIGIONI
La pena di coloro, che fanno fugtgire i prigioni, è la morte, & la confiscatione di tutti i beni. Non cessano però gli Armeni, e i Greci d'ascondere appresso di se i prigioni Christiani, & travestitigli nell'habito loro, menargli alle navi Vinitiane, ò d'altri Christiani: & danno loro danari per il viaggio, & tutte le cose necessarie; senza lasciare adietro alcuno ufficio di pietà, & d'amorevolezza: percioche essi dicono, che quella medesima pietà è loro usata da nostri, quando essi vengono nà Roma, ò Compostella.
DE GLI INCANTI DE TURCHI CONTRA QUEGLI, CHE FUGGONO
Hanno una certa sorte d'incanto, con la quale gli ritengono per forza. Scrivono il nome dello sciavo in una poliza, & l'appiccano nel padiglione, ò stanza dello schiavo: poi con certe parole crudeli, & scongiuri, gli minacciano sopra la vita sua. Onde vien poi, che per possanza del diavolo à colui, che fugge, pare di dovere incontrare nel viaggio ò leoni, ò draghi, ò che'l mare, & i fiumi l'inghiottiscano, ò che ogni cosa gli si faccia buio: & cosi da questi spaventi impaurito, ritorna al suo padrone.
LA MEMORIA DI CHRISTO NELLE PROVINCIE, CHE GIA FURON CHRISTIANE, SI VA PERDENDO A POCO A POCO
Vivono anchora alcuni, i quali ricordano la presa di Costantinopoli, & i regni della Grecia, d'Albania, di valacchia, & di Servia, che i Turchi hora chiamano Bosna, essersi ridotti in provincie; questi tali saldamente ritengono Christo: ma la gioventù se lo scorda: & non anderà molto, che vi si scorderanno affatto del nome Christiano. Il medesimo interverrà nella Croatia, nella Ungheria, & nella Sciavonia; le quali sono fresche vittorie, & ampliationi dell'Imperio Turchesco.
DELLO STATO DE VINTI
Quando egli ha preso una provincia, tutti i beni de paesani cosi mobili, come immobili vanno à sacco. La nobiltà sterpa egli infin sulle radici, & specialmente il sangue reale. Et benche essi hora ritengano appresso di loro il figliuolo del Vaivoda, non lo fanno con altro pensiero, se non che venedo, che fosse lor tolta l'Ungheria, lon manderebbono à tentar cose nuove; ma se rimane loro sicuro il possesso d'Ungheria, senza dubbio alcuno lo faranno morire: percioche i Turchi in questa cosa non perdonano ne à generi, ne à suoceri, ne anche à fratelli. Se non amazzano i preti, privandogli d'ogni facultà, & riputatione, gli lasciano vituperosi, & mendichi. Levano delle chiese tutte le campane, gli organi, & gli altri istormenti di musica; et le chiese istesse lordate consacrano al suo Macometto. Lasciano à Christiani alcune misere, & bassissime chiesette, dove celebrino gli uffici loro non publicamente, ma piano, & sotto voce. Le quali chiese, se avviene, che rovinino per tremuoto, ò che s'abbrucino, ò invecchino, non si possono piu rinovare, se non si paga loro di molti danari. La predica, & l'ufficio di publicare l'Evangelio è lor vietato in tutto, & non è lecito à Christiano alcuno maneggiar la Rep. [?] ò portare armi, ò vestire l'habito Turchesco, ò fare spettacoli di piu allegra vita, ò menar danze. Se con parole vituperosissime è fatta ingiuria à te, ò à Christo, ti bisogna tacere & portarla in pace. Et se tu dicessi alcuna parola dishonesta contra la religion loro, sarai contra tua voglia circonciso: & poi, pur che tu apra la bocca contra Maometto, sarai subito abbruciato.
SULLA RIVERENZA, CHE I CHRISTIANI SONO TENUTI FARE A' TURCHI
Se un Christiano à cavallo passerà innanzi à un Musulmano, cio è à uno, che sia entrato nella religione de Turchi, bisogna, che smonti da cavallo, & chinato il capo l'adori: & se nol fa, con bastoni è gettato da cavallo. Oltre à cio possono i corrieri, & le staffette de Turchi pigliare il cavallo del Christiano, & servirsene fin che egli è stanco: in quel mezo il Christiano gli va dietro à piedi.
DE TRIBUTI DE CHRISTIANI
I Christiani pagano la quarta parte di tutti i frutti: & questa parte non solo si raccoglie de frutti de campi, & del bestiame: ma i mechanici anchora pagano il quarto del guadagno loro. Evvi un'altra gravezza altresi della testa, per la quale quanti ne sono in una famiglia, pagano un ducato per ciascuno. Et se i padri non posson pagare, sono sforzati vendere i loro figliuoli per schiavi. Alcuni altri legati in catene vanno d'uscio in uscio mendicando i danari: & se anche à questo modo non posson pagare, son confinati à perpetue prigioni. Et poi che essi hanno fatto tutti gli uffici loro, sempre anchora è lecito al Turco eleggersi il migliore de suoi figliuoli; il quale circonciso, & levato da occhi de parenti s'alleva per soldato, ne mai piu torna à rivedere i suoi: & prima perche il fanciullo agevolmente si scorda Christo, si dimentica anchora poi i parenti; talmente che anchor che fosse alla presenza loro, non riconosce alcuno de suoi. Niuno potrebbe esprimere con parole, con quai lagrime, pianti, & sospiri si faccia tal separatione. Partesi il figliuolo havendo perpetuamente à vivere fra gli strani, & lascia cio, che gli è caro per sangue, grato per compagnia, & amico per dimestichezza; i quali i Greci chiamano apapras, & amepras. Il padre vede il figliuolo che egli haveva allevato al servigio di Christo, essere strascinato alla militia del Diavolo, & combattere contra Christo.
DELLO STATO DE SACERDOTI, & MONACI I QUALI VIVONO SOTTO IL TRIBUTO DEL TURCO
Il Sacerdote, e'l monacho quivi sono in pessima conditione, quivi sono stimati come sacrilegi, & scandali di Dio, & de gli huomini, & nulla ricevono dalla chiesa. I giorni feriati gli è dato un poco di pane da alcune donnicciuole, gli altridi non si da lor niente. Vivono di tagliar legna: percioche loro usanza è di tagliar legna ne boschi, & di quelle caricare uno asinello, & con quella mercantia vanno per tutte le piazze, gridando legna da vendere. Se quelle genti s'havessero preveduta questa miseria, mille volte piu tosto s'vrebbono desiderata la morte, che patir simili sciagure. Se in alcun luogo la vita è mescolata con la morte, anzi se in qualche luogo la vita lungo tempo ti resta, accio che lungamente tu muoia, questo è in Turchia. Non ha punto che fare con queste miserie la servitu d'Egitto, l'essiglio di Babilonia, la cattività d'Assiria, ne la distruttione de Romani: Quivi ogni di si sentono i lamenti di Gieremia, i quali si pruovano non in parole, ma in fatti.
LAMENTO DE PRIGIONI, & TRIBUTARI A' RE, & PRENCIPI CHRISTIANI
I Miseri, i quali vivono quasi in quella fornace ardente d'Hur de Chaldei, con voti, & con sospiri gridano al Cielo; fino à quanto tempo dormi tu, ò Signore? levati hoggimai, & non ci cacciare in perpetuo. Appresso volgono gli occhi dal Cielo alla Patria, la quale anch'essa veggono in servitu: nondimeno banditi dalla patria, disiderano servire nella patria. I disideri loro non chiamano la libertà, ma la medesima servitu, mutate solamente le stanze: voltano poi gli occhi verso i Re, & i Prencipi Christiani, disiderano, che'l Papa padre della patria rivolga le forze di sua santità alla liberatione de figliuoli: Bramano che la invitta mano di Cesare muova le armi vittoriose contra il Turco: Sanno, che gli ubbidiscono gli Spagnuoli valorosissimi in battaglia, i Fiamminghi ferocissimi, i Tedeschi fortissimi, gli Italiani di corpo, & d'ingegno eccellentissimi: Sanno, come à lui è d'animo congiuntissimo il suo fratello Ferdinando Re de Romani, espertissimo nelle guerre Turchesche, fortificato da popoli Dalmati, & Transalpini: Sanno, che tutta Lamagna, & tanti Elettori dell'Imperio forti, per forze reali di buona voglia seguono la volontà di Cesare. Et così credono, che il desiderio loro debba havere buono effetto: Pensano, ò Invittissimo Cesare, che tu habbia à essere il loro Esra, e'l loro Giosue. Percioche simili profetie di te non solo vanno attorno tra Christhiani, ma fra Pagani anchora. Niuna eta, niun sesso, niuno ordine d'huomini abbandonerebbe l'armi tue. Ogni Turco in casa sua haverebbe un servo, che l'amazerebbe, in campo, che lo tradirebbe, nella battaglia, che lo abbandonerebbe. Tutti i Christiani, che son quivi, stimano assai poco l'armi de Turchi, come quegli, che solamente gli conoscono buoni à far correrie. Egli assaltano da lontano gl'inimici con le freccie, come uccelli: & se in quello spavento non fuggono, essi si danno à fuggire. Salvo gli scudi, & le celate, del resto son quasi tutti ignudi. Non osano venire alle mani, non feriscon mai coloro, che stanno forti, se non di lontano. Che se hoggimai i Vinitiani, et i Portughesi contribuissero à questa impresa le sue genti di mare: Inglesi, Poloni, & gli altri Prencipi le sue genti da terra, specialmente con la guida, & governo d'un tale Imperadore, non piu contrasterebbe Solimano à Carlo, che Dario ad Alessandro, Xerse à Themistocle, Antiocho à Giuda Machabeo. Di questa oppenione sono tutti i prigioni Christiani. Il medesiomo ho conosciuto io per la esperienza di tredici anni, cio è che'l Turco è fortissimo contra chi fugge, & fugacissimo contra chi l'assalta. Il Turco adunque essendo di natura fuggitivo, è da essere assalito. Percioche l'empio senza che alcuno lo perseguiti si fugge. Levisi adunque Iddio, & rompansi gli inimici suoi; & fuggano dinanzi à lui quegli, che l'hanno in odio: manchino si come manca il fumo, & come si strugge la cera innanzi il fuoco, cosi si struggano i peccatori alla faccia d'Iddio. Piaccia à Dio ottimo massimo, che sotto la tua scorta, invittissimo Cesare, quel mostro Turchesco, vituperio della natura humana si spenga, & rovini, accioche tu ritorni in libertà i miseri Christiani oppressi da grandissima titannia: conciosia che dopo Dio in te solo è fondata tutta la speranza della salute loro.
DE COSTUMI, & CERIMONIE DE TURCHI LIBRO SECONDO, & PRIMA DELLA ORIGINE LORO. CAPITOLO PRIMO
2
L'Historie degli Armeni dicono, che i Turchi sono natione Scithica (Zmaildan) quasi Ismaeliti, & che furono menati per i monti Capi, & per le porte di Caucaso fino à Costantinopoli da un certo Capitano del Re d'Armenia per tradimento, & ingiuria fatta à suoi soldati. Io non m'affaticherò con troppe parole circa l'origine loro: solo porrò dinanzi à gli occhi la consuetudine nelle cerimonie, & la disciplina usata da quella gente à casa, & alla guerra, ne mi servirò punto de gli altri scrittori, ma con molta fede quello che io ho veduto in presenza, & per lungo uso imparato, secondo le debili forze del mio ingegno descriverò modestamente.
DELLA ORIGINE DI MAOMETTO
Gran dubbio si ha della origine di Mehemetto, che i nostri chiamano Mahometto, & non si sa anchora bene, se egli fosse Persiano, ò Arabo. Nondimeno piu veritieri sono tenuti quegli, che vogliono, che egli fosse Ismaelita, del sangue del Re, che si domandanao (Othomani sai), & (Sultan lar). Dicesi che nella natività di costui caddero cinque mila tempi d'idoli: il quale augurio ò significò le calamità nostre, ò è stato finto delle calamità nostre.
DE TEMPI LORO
Hanno tempi assai grandi, & sontuosi, chiamati in lingua loro (Meschit); ne quali non ho veduto imagini alcune, eccetto queste parole scritte in lingua Araba, cio è, (La illah illah Mahemmet ire sul allah tanre bir pegamber hach); cio è, non è se non uno Iddio, & Maometto profeta suo, un creatore, e profeti eguali. O vero queste, (File galib ilellah) cio è, non è alcun forte, come Iddio. Vedesi poi una grande abondanza di lampade, ch'ardono d'olio, tutto il tempio imbiancato, il pavimento coperto da stuoie, & di sopra ornato di tappeti. Circa il tempio è una torre di mirabile altezza; sopra la quale, montando il sacerdote loro al tempo dell'oratione, con voce alta, messosi i diti nell'orecchie, replica tre volte queste parole; ( Allah hehber ) cio è, Dio vero uno. Udito il grido, si ragunano al tempio i nobili, & gli ociosi, solamente obligati alla divotione. Dipoi il detto sacerdote smontando fa oratione con loro, & cio per obligo dee fare cinque volte fra il di & la notte. Ora tutti quegli, che vanno all'ufficio sono obligati lavarsi le mani, i piedi, & le parti vergognose: finalmente si versano tre volte dell'acqua sul capo, recitando queste parole, (Elhemdu lillahi;) cio è, gloria à Dio mio. Trattesi poi le scarpe, da loro chiamate (Fatsmagh;) & lasciatele innanzi la porta del tempio, vanno dentro, alcuni à piedi nudi, alcuni altri con scarpe nette chiamate (Mefth;) con le quali non toccano la terra. Le femine non entrano mai insieme con gli huomini; ma separatamente in certo luogo, in tutto riposto dal vedere, & udire de gli huomini: & esse rade volte vanno al tempio, se non al tempo della Pasqua, & talhora il venerdi, il quale in lingua loro è chiamato (Glumaagun;) & orano dalle nove hore di notte fino alle dodici, come sarebbe meza notte: & mentre fanno oratione con continovo battersi, & terribili grida maravigliosamente si travagliano il corpo; di misura che mancandoli spesso l'animo, & le forze, cadono boccone in terra: & se alcuna da quel tempo si sente gravida, affermano ch'ella è impregnata per gratia dello Spirito Santo. Et quando elle partoriscono i bambini, che nascono, sono chiamati da loro (Nefesoglu;) cio è, anime, overo figliuoli dello Spirito Santo. Cosi mi è stato detto alle fanti loro: percioche ne io l'ho veduto, ne huomo alcuno puo intervenire à questo spettacolo. Ma alle orationi de gli huomini col mio padrone spesse volte sono stato presente, i quali tengono questa usanza. Mentre fanno oratione, non si tranno di capo i loro cappelli, che in lingua loro sono chiamati Tsalma; ma con la cima delle dita se gli toccano, quasi per volergli alzare; si mettono in ginocchione, & spesso basciano la terra. Pensano, che gran peccato sia, che un Christiano intervenga à loro uffici: percio che credono, che i tempi loro s'imbrattino (come essi dicono) da gli huomini non lavati: perche i Christiani non sogliono, come essi fanno, cosi spesso lavarsi. Quivi il lor sacerdote monta sul pergamo, & predica circa lo spatio di due hore: finita la predica, sagliono su due fanciulli, i quali cantando dicono i preghi loro: fornito il canto, comincia il sacerdote con tutto il popolo a cantare con voce sommessa, squassando il corpo da un lato, niente altro se non queste parole, (Illah ilellah,) cio è, non è se non un Dio: & cosi quasi meza hora grida, & si muove. Ma cosi fatte orationi, & cerimonie, come il canto, & la predica, non si fanno ogni di, se non il tempo della Quaresima, & di festa: come il Giovedi dalle nove hore di notte, fino alle xii. E'l venerdi (nel quale dicono, che nacque Maometto) è da alcuni religiosamente riverito.
DELLA QUARESIMA LORO
Hanno anchora la Quaresima, chiamata in lingua loro (Orutz,) digiunando ogni anno un mese, & una settimana, ma non sempre il medesimo: ma se questo anno havranno digiunato il Gennaio, l'anno seguente il Febraio, andando per ordine: talmente che nello spatio di dodici anni, uno anno, & dodici settimane offeriscono à Dio in luogo di decima. Quando digiunano, non mangiano in tutto di cosa alcuna, non pure vpane, ne acqua. Dipoi vedute le stelle, è lecito loro mangiare d'ogni cosa, eccetto soffocato, & carne di porco. Il soffocato è chiamato da loro (Murdar,) cio è, cadavero, ò vero immondo, e'l porco (Domuz). Finita la Quaresima, fanno la Pasqua, che in lingua loro si domanda (Bairam,) con gran solennità per tre giorni, ungendosi l'unghie delle mani, & de piedi con un certo cerotto, chiamato da loro (Chna;) il quale cerotto fa l'unghie rosse: & con la medesima tintura tingono le code & i piedi de cavalli. Questo colore s'appicca di maniera, che non si puo lavare, ne sorbire: perche se non escono l'unghie nuove dalle radici, l'unghie stanno sempre rosse; ma delle mani lavandole spesso si puo levar via. Le donne non solamente s'ungono di quel cerotto l'unghie, ma le mani, & i piedi.
DELLA CIRCONCISION LORO
Fanno la circoncisione in lingua loro detta (Tsuneth,) non l'ottavo di, secondo l'usanza de Giudei, ma subito che'l fanciullo ha compito sette, ò vero otto anni, si che gia sa molto ben parlare: & questo mistero hanno per le parole della confessione, le quali si ricercano innanzi la circoncisione, alzato su il dito grosso della mano, detto da loro (Parmach,), cio è quelle medesime, che dispora ho detto, che sono scritte ne tempi. Per questo il fanciullo non è portato al tempio, ma circoncidesi in casa del padre. Io sono stato spesse volte presente à questa solennità, la quale si fa in tal modo. Prima invitano gli amici à un convito, a quali s'apparecchiano assai dilicate vivande, di tutte le sorti carni, ch'e' posson mangiare. & comunemente, cio è appresso i piu ricchi, s'amazza un bue, nel quale scorticatolo, & trattogli le budella, mettono una pecora, nella pecora una gallina, & nella gallina, uno uovo: & tutte queste cose intere s'arrostiscono allo splendor di quel giorno. Dipoi fra le vivande e'l tempo della cena si fa venire oltre il fanciullo, che s'ha à circoncidere; al quale il medico di quella arte scuopre le ghiande [intendi: il glande del pene, ritratto manulamente il prepuzio], & con le forbicette piglia quella pelle replicata: di poi per levar la paura al fanciullo, dice, che l'altro giorno fornirà la circoncisione; & cosi si parte: di poi mostrando haversi scordato alcuna cosa, ch'appartenga alla preparatione, all'improviso taglia il prepucio, mettendo sulla ferita un poco di sale, & di pomo cotogno: & cosi per l'avenire si domanda (Mutsulman) cio è, circonciso. Il di della circoncisione non si mettono loro i nomi, ma il proprio di natale, quando vengono in luce; i quali sono di questa sorte, & prima de Re, come (Tsuleiman,) interpretato Salomone. (Tsultan tscelim,) cio è, prencipe di pace. (Murath begh,) cio è, disiderato Signore. (Mustafa,) & simili. De Capitani, (Pirin, hairadun hader, ebraim), de Signori di piu bassa conditione, si come sono (Tspahalar, tsavlar, eminler, behram, memmi, mehemmet, alli, ahamat, tcielebi, paiazith, chatsun, hutscref.) A tutti gli altri (Mutsaionuz, tschender, perhat, ferro.) De gli schiavi, & prigioni per la maggior parte (Seremeth; il quale nome significa ardito, & veloce). Continovato poi il convito di tre giorni, menasi il circonciso alla Stufa, con una grandissima pompa. Quando ritorna à casa, si mena per mezzo de gl'invitati, i quali gli presentano i doni apparecchiati; alcuni vestimenti di seta, alcuni tazze d'argenti, altri danari, & cavalli anchora. Le donne donano camiscie, moccichini, & altre simili cose. Et cosi ciascuno de gli invitati dona secondo la volonta, & la qualità sua. Le femine non patiscono circoncisione, ma solamente proferendo le gia dette parole, si fanno (Musluman). Et quando si ritruova alcun Christiano, che di propio volere confessato Maometto voglia esser circonciso; la qual cosa spesse volte accade, per il gravissimo giogo, & carico del tributo, questo tale è menato per tutte le contrade, & piazze della città, con grande honore, & allegrezza del popolo, il quale suona tamburi: & anche si gli fanno doni, dipoi non paga piu tributo; che in lingua loro si domanda Haracs: Et per disiderio di questo guadagno, molti Greci, ch'essi chiamano Urumlar, & Albanesi domandati Arnautlar, si fanno circoncidere. Et quando si circoncide alcuno per forza, perche habbia ferito, ò fatto altra vergogna à qualche Muslumano, ò perche habbia bestemmiato Maometto, come ho veduto intervenire à un certo Vescovo Greco, non si gli dona nulla, & nondimeno si libera da pagare il tributo, come anchor gli altri (Muslumanlar,) cio è, circoncisi.
DE SACERDOTI LORO
i Sacerdoti, chiamati in lingua loro Talismanlar, sono poco, ò niente differenti da secolari, ne anchor da prelati nelle cerimonie, come sono appresso di noi i Vescovi, ne in loro si ricerca gran dottrina: che assai è loro, che sappian leggere l'Alcorano, e'l Musapho. Ma quegli anchora, che li sanno interpretare secondo il testo, son tenuti dottissimi: percioche Maometto non gli scirsse in lingua volgare Turchesca, ma in Arabica: perche reputerebbono cosa mal fatta, che fossero tradotti in lingua volgare. Questi Pontefici sono eletti dal popolo, & hanno salario dal Re per la fatica loro. Hanno mogli; & vestono come secolari. Se la provisione non basta loro per la moltitudine de figliuoli, fanno qualche arte mecanica, & fanno anche esercitij degni d'huomo libero: aprono schuola, ò scrivon libri. Io non ho veduto in que paesi Stampatore alcuno, ma ben fanno bonissima carta da scrivere. Alcuni fanno altri esercitij, come calzolaio, sarto, & simili.
DELLE SCHUOLE LORO
Hanno anchor luoghi da insegnare, chiamati in lingua loro Ochuma chgirleri, & suoi maestri, i quali domandano Hogsialar, cosi maschi, come femine: Et insegnano loro pero separatamente; i maschi à maschi, le femine alle femine. Quando essi imparano gridando in chiara voce muovono il corpo da una parte. Non fanno Musica artificiale; ma fanno versi à certe regole ordinate, le quali stanno in questo modo. Ogni verso dee havere undici sillabe. Però m'è paruto mettere qui sotto questi pochi versi per cagion d'essempio.
Versi da loro chiamati Bethler.
Birichen aes on eiledum
Iaradandan istemiscem iardumi
Terch eiledum Zahamanumi gurdumi
Ne ileim ieniemezum gunglumi
Questi son versi d'amore, della Dea chiamata in lingua loro Assich, cio è dea d'amore; l'interpretatione de quali è questa di parola in parola.
Birichen, cio è, d'una. bes, cio è, cinque. on, cio è, dieci. eiledum, cio è, io feci. derdumi, cio è tribulatione mia.
Iaradandan, cio è, del creatore. istemiscem, cio è, domandai. iardumi, cio è, aiuto.
Terch eiledum, cio è, disprezzai. zahamanumi cioè, della patria mia. gurdumi, cio è, la visitatione.
Ne, cio è, cosa. ileim, cio è farò. ieniemezum, cio è, non posso vincere. gunglumi, cio è, la mente mia.
DE MONACI LORO
Non mancano loro monaci, chiamati Dervislar, vari cio è, & prima di tre ordinationi. Il primo ordine è tale, che non havendo cosa alcuna di propio, vanno quasi ignudi, eccetto che si cuoprono le vergogna loro con pelli di pecore, & similmente al tempo del freddo si cuoprono le spalle d'una pelle: ma i fianchi, le mani, i piedi, e'l capo non cuoprono di vestimento alcuno. Domandano elemosina cosi à Christiani, come à Turchi, domandandola (Allahitsi,) cioè, per DIO. Costoro poi che hanno mangiato una herba, chiamata Matslach, vanno in furore; di maniera che à traverso di tutto il petto si danno delle ferite, & cosi per le braccia senza mostrare alcuna passione, & fanno un profumo al capo, al petto, alla mano d'un fungo, fin che si risolve in cenere. Io n'ho veduta un'altra sorte, i quali vanno con la cima del membro virile forata, & v'hanno appiccato uno anello di rame di peso di tre libre, separati dal coito, per servar castità. La terza sorte rade volte esce fuora; ma di, & notte stanno ne tempi, & hanno ne canti de tempi alcune loro capannuccie, senza scarpe, vestimento, & col capo scoperto; ne altro portano, eccetto che una camicia: digiunano molti giorni; pregando Iddio, che manifesti loro le cose avenire. A costoro il gran Turco suol domandar consiglio, quando è per muovere guerra.
DEL MODO DEL MATRIMONIO
Il matrimonio in lor lingua chiamato Eulemmech, si fa in questo modo. Si fanno le nozze senza giuramento, & le pigliano quasi senza dote; & sono poco meno che sforzati à comperarle, al contrario di quel, che gia solevano fare i Romani, dove il genero soleva esser comperato, & non la nuora. Non ha la sposa sul corpo ornamento, ne pompa alcuna, ch'ella non sia sforzata riscuoterla da suoceri. Si fa separatione del matrimonio appresso di loro, ò per cattivi costumi, ò per non far figliuoli: & sopra queste cose rende ragione un giudice loro. Lasciano fare il matrimonio anchora fra gli schiavi comperati, ma i figliuoli loro nascono servi anch'essi.
DEL PELLEGRINAGGIO LORO
I Pellegrini chiamati in lingua loro Hagsilar, visitano i luoghi tenuti santi da loro, cio è (Mecha) come i nostri Gierusalem: quivi dicono, che mori Maometto: ma cio fanno non tanto per religione, & divotione, quanto per conto di guadagno. Quivi veduto che hanno la scarpa chiamata Isaroh, la quale indorata solamente è appiccata alla cupola del tempio, & comperate alcune sottilissime tele, dette Chumas, ritornano alla patria con guadagno grande. Et poi che son tornati alcuni per divotione portano l'acqua ne gli otri per le piazze, & senza pagamento danno bere à chi ha sete, altri fanno i fatti loro.
DELL'ELEMOSINA LORO
Hanno gli spedali chiamati Imareth, edificati per testamento del Re, dove si da da mangiare à poveri, & à pellegrini, ma diversamente, secondo i luoghi: sono di quegli, che danno riso, detto Pirincts tsorba, con carne, in altro luogo Boghdaias, che si fa di fromento, aggiungevisi per companatico un pane assai grande; il bere, che danno, è acqua. Ma quivi non si da luogo per dormire ad alcuno; ma hanno un'altro luogo publico da dormire Charvatsandrie, dove sono alloggiati senza pagamento: non hanno però letti, ma dormono nel fieno, ò nelle strame sotto il tetto.
DELLE VITTIME LORO
Sacrificano anchora le vittime, ma per lo piu per voto, cosi in lingua Turchesca, come in Arabica chiamate Chorbon: percioche quando sono amalati, ò posti in qualche pericolo, secondo la conditione loro promettono di sacrificare in certi luoghi una pecora, ò un bue: la vittima del voto non s'abbrucia poi in sacrificio, si come usano fare i Giudei, ma morto l'animale, si da al sacerdote la pelle, il capo, i piedi, & la quarta parte della carne; l'altra parte si da à poveri, la terza à vicini. L'altre reliquie quelli che fanno il sacrificio se le mangiano insieme co compagni, & non sono obligati à sodisfare il voto, se non sono liberati dal male, ò dal pericolo. Percioche tutte le cose loro sono conditionali; io ti darò, se tu mi darai. Il simil modo anchora s'osserva appresso i Greci, gli Armeni, & l'altre nationi Asiatiche della Christiana Religione.
DELLE LASCITE, & TESTAMENTI
Se qualche Musulmano venendo à morte vorrà far testamento, le lascite si fanno quasi in questo modo, chiamati gli amici, & i vicini, come sarebbe ò menar rivi di parti lontane dinanzi à qualche spedale, ò tempio, ò vero in luogo secco, ch'è frequentato dagli huomini hairitsi, cio è per cagion di pietà, & Csianitsi, cio è, per l'anima. Alcuni altri lasciano, che prigioni, & schiavi comperati sien fatti liberi. Alcune donniciuole (percioche questa generatione è piu superstitiosa di tutte l'altre) lasciano danari à soldati, perche amazzino certo numero di Christiani, & cio credono, che molto giovi alla salute delle anime loro. Ma i Re, & s'alcuni altri ve ne sono de grandi, lasciano, che s'edifichino tempi, & spedali.
DELLA CERIMONIA DE MORTI
Quando viene à morte qualche Muslmanlaro maschio, allhora gli huomini hanno cura del mortorio, s'è femina, le femine. Lavano il corpo morto, & lo vestono di bianchissimi panni di lino: poi lo portano à sepelire fuor della città in qualche luogo: percioche non è loro lecito sepelire ne tempi. Vanno innanzi i monaci loro con le candele in mano, poi seguono i sacerdoti, che in quel mezo cantano, fin ch'arrivano al luogo della sepoltura. Et se il morto sarà povero, si vanno cercando per le piazze denari per le fatiche de religiosi.
DELL'EDIFICIO DEL SEPOLCRO CHIAMATO TULBA
Alla sepoltura, come sarebbe à dire d'un Re, s'edifica un tempio: percioche i Re si sepeliscono dentro delle città, & à ricchi, & à poveri si fa à guisa d'uno altare in quella altezza, accio che le bestie non vi possano andar sopra, ne imbrattare il luogo. Spesse volte vi ritornano con pianto, & fanno sopra il monumento l'esequie di cibi, pane, carne, formaggio, uova, latte: & questa cena, à usanza di gentili, per l'anima del morto è mangiata da poveri, ò dagli uccegli del cielo, & dalle formiche. Percioche dicono, che egualmente è a grado à DIO, che si faccia elemosina cosi à gli animali, che hanno bisogno, come à gli huomini, quando si da per l'amor di DIO: Io n'ho veduti molti, che pagato l'uccello, ch'era in gabbia, l'hanno fatto volar via, & degli altri, che per l'amor di Dio hanno gettato del pane nell'acqua à pesci, dicendo, che per tal pietà verso i bisognosi grandissima merce conseguiranno da DIO.
DELLA MILITIA, CAPITOLO SECONDO
Hanno tutti un Re, che in lingua loro Huncher othmanlardan sahitsultan tsuleiman, quel d'oggi cosi si chiama da loro, cioè, l'Imperadore de gli Othomanni Sahi Prencipe Solomone; il quale ha hora il suo figluolo primogenito di xxiii anni, ò circa, chiamato Mustafa; che avanza gli antecessori suoi di tirannia, & di crudeltà; & spesso tende insidie al padre, se in qualche modo lo potesse amazzare, per lo desiderio, ch'egli ha di regnare. Il Re ha sotto di se due Capitani ò Satrapi, chiamati Tsamgiach begler, quel d'Europa, & d'Asia; i quali hanno sotto di loro ufficiali minori detti Timargilar; a quali ubbidiscono i soldati ordinari: i quali se cessano, quando sono chiamati alla guerra, sono impiccati per la gola. Bassalar, i quali vogliono dire capi, son molti: questi per lo consiglio sempre accompagnano il Signore: Sulihtarlar anchora, i quali sono la guardia della sua persona, sempre sogliono andargli dietro le spalle, insieme con Capugtsibegler, cio è i camerieri, co Iazigtsibegler, cio è, co cancellieri, Eminler, cio è, con quegli, che riscuotono il tributo, de fanciulli, & de danari, co Tsphalar, cio è, cavalli leggeri, con molti Vlachlari, cio è, messi, & altri cosi fatti, i quali di continovo seguono la corte.
DELLA CONDITIONE DE BARONI
Niun Satrapa possiede provincia, ò città alcuna per successione hereditaria, la quale senza consentimento del suo Re dopo la morte possa lasciare à figluoli, ò successori suoi. Ma se qualche Capitano, ò Prencipe desidera havere certe possessioni, questo si gli concede con tal conditione. Viensi alla ragione del prezzo, & all'entrata di quelle possessioni. Appresso vuole intendere il Turco, quanti soldati si possano mantenere di quella rendita ogni anno: allhora quel Satrapa è sforzato haver sempre tanto numero di soldati, presti à ogni comandamento, altramente è punito nella testa: Et non è cosa alcuna, che lo possa scusare dallo andare alla guerra, se non la infirmità del corpo. Et se talhora al Turco parrà di volerlo privare di quel beneficio, è in libertà sua: & se non è deposto, rimane suo fino alla morte. Et se dopo la morte i successori del morto vogliono osservare il patto, sono admessi: quanto che no, si da ad altri. Et se talhora alcun di questi baroni viene à parlare col Re, tien gli occhi chini in terra, & non osa guardarlo in volto.
DELLA CONDITIONE DE CHAZILARI
I Soldati, chiamati Chazilar, valorosi, & nelle cose della guerra mirabilmente esercitati, i quali nel primo scontro rompono le lancie con gli aversari loro, senza alcuna armadura, usando solamente la targa, la lancia, & la scimitarra, secondo il costume de nostri come sarebbe à dire corazza, & elmo; ma rotte le lancie, et tratta la scimitarra, difendendosi con la targa, virilmente combattono, insidiando sempre alla testa, & alla mano de gli aversari, & con tutte le forze loro cercando sempre d'atterrare l'inimico. Sarebbe loro vergogna, & non lode ferire di stoccata l'inimico e'l cavallo. Hanno costoro tutta la vita, & salute loro in protettione della Dea Fortuna, chiamata in lingua loro nassup, ò vero Ctsutara; essendo appresso tutti celebratissimo questo proverbio (Iazilan gelur bassina;) che cosi si puo interpretare in lingua nostra, (Iezilan), cio è, scrittura: (Gelur) cio è, verrà. (Bassina), cio è, alla testa; quasi che volessero dire, tutto quello, che nel giorno della nascita di ciascuno la Dea Fortuna gli ha scritto sopra il capo, è impossibile, che si fugga; posto che tu fossi ascoso in una inespugnabile rocca. I fatti di costoro scritti in verso nelle historie, sono recitati da tutti; accioche gli altri col medesimo ardire (svegliati dal desiderio dell'honore, & della lode) valorosamente, & con molto animo assaltino lo inimico. Ora per ciascuna vittoria di questi tali, si gli da doppia paga, di maniera che tutti i detti huomini à cavallo sono obligati à seguire il Signore, forniti di queste armi, cio è, lancia, scimitarra, freccie, & mazza di ferro; alcuni hanno targhe, alcuni no; & sempre sono pagati cosi in tempo di pace, come di guerra.
DELL'ORDINE DE PEDONI
Il primo ordine de pedoni è de Solachlari, cio è, arcieri: questi tali adoperano, arco, freccie, & scimitarre, & sono differenti di berette da Ianitzeri. Il secondo ordine è de Ianitzeri: costoro hanno anch'essi l'arme simili à Solachlari; ma in cambio dell'arco, et delle freccie, portano l'arcobuso, & una scure. Tutti costoro raccolti da Christiani, che quivi vivono sotto tributo, presi per forza, & circoncisi, allevati in un luogo chiamato il serraglio, valorosissamente combattono contra Christiani, & hanno assai debil paga per vivere, cio è, chi quattro, chi cinque, ò sei danari chiamati aspri; sessanta de quali fanno uno Scudo: & costori sotto pena della vita non possono cavalcare, se non sono amalati. Truovansi anchora assaissimi de figliuoli de Turchi fatti Ianitzeri. Il terzo ordine de pedoni è d'Azapli; i quali finita la guerra non tirano piu paga, & tutti sono figliuoli de Turchi. Portano costoro una hasta lunga, & scimitarra, hanno berette rosse, ò d'altro colore di panno, con quattro canti aguzzi, detti Tachia, & sono differenti da Ianitzeri, & Solachi nel vestire, & nell'armadura: costoro amazzano in battaglia i cavalli de gli inimici. Evvi un'altra sorte di pedoni di Vualacchia, della setta de Greci, chiamati Voinichlar: essi non hanno altra paga dal Turco, se non che non pagano ne tributo, ne decime. Questi tali sono obligati à pascere à propie spese i cavalli ociosi del gran Signore, & haverne cura, & poi menargli in tempo di guerra.
DE PADIGLIONI DEL SIGNOR TURCO
Quando il gran Signore partendo di Costantinopoli se ne va alla guerra, usa due padiglioni; chiamati Satorlar; l'uno de quali si pianta hoggi per lui, l'altro alla prossima magione, dove ha d'alloggiare il giorno seguente. La grandezza di questo padiglione è tanta, che à chi lo vede da lungi pare proprio una città: appresso sono alloggiati i prencipi; & circondano il padiglione del Signore; da poi i cavalieri, i quali ò ciascun per uno, ò tre insieme hanno un padiglione. I pedoni anch'essi hanno i loro padiglioni, & hanno per ammaestramento di non alloggiare all'aria. I guastatori fanno la strada all'esercito, quando camina, faccendo di qua, & di la i monti delle pietre, & le cataste di legna, per segno della via; si che ne anche al buio si puo smarrir la strada. Muovonsi à meza notte, & fino al mezo del giorno seguente stanno in ordinanza. Il gran Signore, quando cavalca, sta in mezo di due Bascia, che ragionano con lui: & innanzi à costoro vanno alcuni Ianizari à cavallo, i quali portano candele accese: & cio si fa la notte, quando è buio. Sono poi Tsaullar, cio è, i Capitani, che hanno in mano mazze di ferro con due punte, i quali fanno star gli huomini lontani dalla presenza del Signore, quanto puo trarre una freccia: quivi son poi Sulihtarlari, cio è, la guardia, fra quali sono carrette piene di giovanetti, per uso del Turco, & de Baroni. Sono dinanzi, & dietro i detti Capitani, con infinito numero di soldati à cavallo, & à piedi, & huomini di diverse conditioni; alcuni de quali hanno paga, altri vi vanno per guadagnare, & son tutti huomini, senza menar seco donna alcuna.
DEL VIVERE DEGLI ANIMALI
Seguita poi una moltitudine di cameli, di muli, et di cavalli (sogliono anche talhora menare de gli Elefanti, chiamati in lingua loro Phil, i quali portano le vettovaglie, i padiglioni, & l'altre cose necessarie à soldati. Et dove si pianta il padiglione del Turco, quivi debbono provedere tutte le cose all'ordine suo ciascuna, come in una città. Quivi è il luogo de sarti, fornari, & macellai: alcuni altri proveggono vivande di carne di tutte le sorti: & se non possono haver carni fresche, allhora mettono fuori quelle cose, che sono portate da gli animali, cio è biscotto, carne secca, chiamata Pastarma, cascio, & latte rappreso. Sono patientissimi della fame, della sete, & del freddo. Rade volte alloggiano nelle città, ma alla campagna sotto i padiglioni, crica i fenili, & i rivi; havendo maggior cura degli animali, che di lor medesimi, contenti di poco, & assai grosso cibo, cio è del detto latte rappreso temperato con l'acqua, & messovi dentro pane ò fresco, ò biscotto, del quale cosi mangiano i servi, come i padroni. Quivi la notte si sta in un silentio grande, tanto che non tengon cura de prigioni, che fuggono, per non levar romore, per la pena, che v'è posta: ma quando vanno à dormire, & quando si mettono in camino, tutti ad alta voce gridano queste parole, tre volte dicendo (Allah, allah, allahu,) cio è, ò Dio.
DELLA GIUSTITIA CHE FANNO ALLA GUERRA
Tanta severità di disciplina s'usa alla guerra, che niun soldato ardirebbe ingiustamente torre alcuna cosa; altramente sarebbe senza misericordia punito: percio che tra loro sono guardiani ordinari, ò vero difensori di quelle cose, che i soldati truovano fra via; di maniera che i fanciulli di otto, ò di dieci anni portano à vendere pane, uova, frutti, vena, & cose simili. Sono obligati anchora i detti guardiani difendere gli horti de frutti, i quali sono posti lungo la strada, di modo che ne anch'essi ardirebbono senza licenza del padrone levarne un pomo, ò altra cosa tale: altramente anch'essi incorrerebbero nella pena della testa. Essendo io nell'esercito del Turco nell'impresa contra Persiani, vidi tagliar la testa à uno Tsaphia insieme col cavallo, et servidore, perche il cavallo sciolto era entrato in certe campagne.
DELLA FESTA, CHE SI FA PER LA VITTORIA DEL GRAN TURCO
Quando vien la nuova di qualche vittoria, le città fanno ogni sorte d'allegrezza. La notte torsto che si fa buio, s'incomincia questa festa con torchi, faccelle, & altre cose; & tutte le case si parano di tappeti, arazzi, & vesti di seta, & la strada anchora, dove ha da entrare il gran Signore. Ma il vero trionfo porta egli in Costantinopoli, dove fa di continovo residenza, se non muove guerra à qualche altro paese. Ma per le leggi loro egli è obligato, passato tre anni muover guerra in paese de Christiani, per accrescimento, & difesa del regno.
DELLA CACCIA LORO
Non è natione alcuna sotto il Sole, che tanto s'allegri della caccia, quanto la Turchesca. Percioche essi vanno correndo à cavallo per luoghi aspri, & montuosi, perseguendo le fiere, pigliando diversi animali: & se lo animal morto sarà soffocato da cani, non lo mangiano essi, ne anche i Christiani, i quali habitano in quel paese. Et se amazzano un porco selvatico lo danno à Christiani di quel paese: perche i Musulmani non possono mangiar carne di porco.
DEGLI OPERAI, & LAVORATORI DI TERRA. CAPITOLO III
I Terrazzani fanno lavorare i campi da gli schiavi loro, & ne pagano la decima al Signore. Ma gli artigiani si sostengono con le arti mecaniche. Esercitano anchora valorosamente la mercantia. Vanno attorno per l'Asia minore, la quale chiamano la Natolia, l'Arabia, l'Egitto, & vanno à Vinegia. Hanno le stufe in tutte le città, dove solennemente si lavano due, ò tre volte. Se spandono urina, si lavano il membro; Se scaricano il corpo, si lavano il culo: il medesimo fanno le donne, con le quali vanno gli schiavi; i maschi con maschi, & donne con donne. Et quando le femine vanno à lavarsi, s'ungono d'una certa sorte d'unguento, il quale nello spatio di meza hora fa cadere i peli: gli huomini da loro stessi si radono il membro virile, & per alcun modo non si lasciano crescere i peli; ma ogni nese fanno cosi due ò tre volte, cosi i maschi, come le femine; & massimamente quando frequentano le chiese; altramenti (come violatori del luogo sacro) sarebbono abbruciati. Hanno anchora diversi artifici, come calzolai, sarti, fabri d'oro, & d'argento, & d'ogni sorte metallo, pittori, & scultori; ma non di cosi sottile, et eccellente ingegno, come in queste nostre parti.
DELLA GIUSTITIA FRA CITTADINI
Hanno tutti un medesimo giudice, cosi Christiani, come Turchi; nondimeno de Muslumani, il quale è tenuto render ragione egualmente à ciascuno. Se alcuno amazza, anch'egli debbe essere amazzato. Se alcuno invola, ò per forza ruba, è appiccato per la gola: come intervenne à un certo Ianizzero, il quale haveva bevuto il latte à una certa donniciuola, che lo haveva portato à vendere in piazza, senza pagarlo: perche essendo accusato innazi il giudice, & negando d'haverlo fatto; appiccato per li piedi, & legato con una fune à traverso, subito gettò fuori il latte; & incontanente fu condannato à essere strangolato. Questo avenne in Damasco, essendo io presente, venendo d'Armenia à Gierusalem. Se alcuno commette adulterio, il maschio messo in prigione, dopo alcuni mesi si riscatta con danari, & la donna, cio è, l'adultera è menata sopra l'asina per le strade, & per le piazze; poi spogliata ignuda, & battuta con scope, è lapidata, portando al collo le budella d'un bue.
DELL'AGRICOLTURA
Cosi i Christiani, come i Muslumani lavorano i campi, le vigne, e i pascoli, & hanno molto fromento simile à quel de nostri paesi, di grano, miglio, orzo, vena, saggina, fave, & ogni sorte legumi; oltre à cio riso in abondanza, lino, mele cotogne, piu che questi paesi. Et anchor l'una, & l'altra natione ha delle vigne, & variamente si servono de frutti di quelle. I Christiani ne fanno vino, & i Turchi mele chiamato in lingua loro Pechmez: condiscono poi certe uve passe in modo, ch'a vederle, & gustare paiono sempre fresche, & le chiamano Uzum tursi. Hanno copia grande di frutti. Quivi son pieni gli horti alla stagion sua di poponi, melloni, & cetriuoli. Quivi son noci, mele, pere, melagrane, castagne, fichi, ciriegie, mele arancie, & altri cosi fatti frutti à vil prezzo, ma non in ogni regno. Sono anche luoghi, come è per tutta la Capadocia, & l'Armenia, dove per il gran freddo, non possono havere alcuna di queste cose.
DELLA DIVERSITA' DE GLI ANIMALI
Hanno i pecorai chiamati Tsobanlar: costoro vivono sempre in luoghi solitari, & quasi ogni mese mutano stanze per li pascoli: non hanno case alcune ne possessioni, eccetto i padiglioni, & le mandre de gli armenti; ma pascono cameli, muli, cavalli, buoi, pecore, & capretti: fanno cacio, butiro, tosano la lana, & ne fanno tappeti, chiamati in lingua loro Chepenech: gli vendono poi, & ne comperano fromento per il vivere della sua famiglia. Tutti questi pagano decime al gran Signore di tutti gli animali, che nascono ogni anno. I Christiani anch'essi, i quali vivono sotto tributo, sono sforzati pagar tributo, cio è d'un maschio uno scudo: & quello ch'è cosa crudelissima, ne menano i figliuoli di tutti quegli che non hanno moglie, cercandone ogni anno per le case loro.
DE' GLI EDIFICI DELLE CASE
Non usano molta magnificenza nelle case, & la maggior parte son fatte di mattoni, di due sorti: percioche vi sono de mattoni, alcuni cotti nelle fornaci, alcuni al sole. Cuoprono i tetti à modo di cuneo, come s'usa qui; & questo in tutta Europa: ma nella Natolia i tetti sono piani à guisa di tavolato, senza colmo alcuno: i canali mandan giu, l'acqua che piove.
DE VESTIMENTI LORO
Il vestire loro è di materia di lana, di lino, & di seta, assai magnifico: usano una veste chiamata Chattan, stretta con falde, & lunga fino à talloni; biasimano le nostre calze, come quelle, che mostrano troppo le membra vergognose. Chiamano le camiscie Fhumlech; & i moccichini loro tingono in color paonazzo: il capo loro s'edifica rilevato à modo di torre, & va su à foggia di piramide: & questo tal cappello si chiama in lingua loro Turbent, ò vero Csalma. Le donne de ricchi vanno con la faccia coperta, ne mai si lascian vedere in volto da gli huomini strani, ne mai vanno in piazza. Le calze cosi de gli huomini, come delle donne, chiamate in lingua loro Babucs, overo Csisme, hanno una suola sotto, accio che durino piu lungo tempo.
DEL MANGIAR LORO
Fanno anch'eglino un pane, che non è cattivo, detto Echmech, nero, & bianco, come fanno altresi i nostri, ma e' vi spargon sopra una certa sorte di semenza, chiamata Suffam; poi lo cuocono: la quale da una gran soavità à chi ne mangia: & questo non è usato in luogo alcuno da nostri huomini, eccetto in Hispagna, in certi luoghi, cio è, nel regno di Granata, e introno Siviglia. Usano grande artificio, & vario condimento nelle vivande loro: e' piu solenne cibo, è polte di riso, talmente spessa, che se ne levano i pezzi con le mani. S'astengono mirabilmente da pesci. Mangiano carne d'ogni sorte, eccetto di porco. Quivi non sono taverne disegnate per alberghi, ò publiche hosterie, come s'usano tra noi: nondimeno si vendono nelle piazze diverse cose da mangiare, & altre cose tali necessarie al vivere.
DELLA BEVANDA LORO
Hanno bevanda di tre sorti: la prima di zucchero, chiamata da loro Secher, ò con mele stemperato con acqua: & questa tal bevanda si chiama Tserbeh. La seconda si fa d'uve passe, tratti fuori i grani, & cotte nell'acqua: aggiugnevisi poi acqua rosa, & un poco di vero mele; & questa si domanda Hossaph; & vendesi per tutta la Turchia: è dolce, & fa gonfiare il corpo. La terza si fa di quella sapa, chiamata Pechmez, la quale fatta di mosto, somiglia al vedere, & al gusto come mele: & questa si stempera con l'acqua, & si da bere à gli schiavi.
DEL MODO DI SEDERE, & DI MANGIARE
Quando voglion mangiare distendono stuoia, chiamate Haciser; poi vi mettono sopra tapeti, ò cuscini. Alcuni s'assettano sopra la terra nuda: la tavola loro detta Tsophra, si fa di cuoio, & si distende, & s'increspa come una borsa. Non si pongono à sedere secondo la nostra usanza, ne si prostrano come solevano gli antichi, appoggiandosi sul gombito: ma come è costume de sarti, si tirano sotto le gambe: & prima che comincino à mangiare, fanno oratione. Mangiano in fretta, & in silentio grande: in quel mezo tutte le mogli stanno in luogo appartato: ma gli schiavi come hanno passato i xii anni, non si lasciano entrare in casa, dove son le donne: ma i fanciulli da xii anni in su entrano, & escono, & portano à maggiori le cose necessarie, i quali habitano lontano separati in un'altra casa. Le schiave non hanno licenza d'uscir fuori, se non con le donne de Turchi, quando elle vanno alla stufa à lavarsi, ò vero in alcun luogo fuori della città per diporto à gli horti, & alle vigne,( & cio soglion fare spesso) ma sempre rinchiuse nelle case si stanno à lavorare, & non sono lasciate praticare con gli schiavi. ò Dio, chi potrebbe giamai esprimere, ò descrivere le afflittioni, & miserie de prigioni, & de Christiani, i quali habitano sotto il tributo del Turco? & chi basterebbe mai à raccontare la crudeltà, & i dishonesti abusi, cosi nelle cose secolari, come nelle cerimonie della setta Maomettana, come leggendo havete potuto intendere del lavare, & nettezza loro; nella quale sola sperando si credono di dover guadagnare la salute dell'anime loro: intanto ripieni d'ogni sporchezza di ribalderie, con la scorta del cieco Maometto, provocano l'immortale Iddio: Molte altre cose sono tenuti strettissimamente osservare secondo i precetti di Maometto, le quali à bello studio ho voluto lasciare, per non infastidire con molte ciancie il lettore.
Spesse volte mi son meravigliato fra me stesso, Illustrissimo Prencipe, onde sia, che parendo tutte le cose promettere vittoria à Christiani, essi però nello spatio di tanti anni non l'hanno conseguita giamai. Habbiamo CHRISTO IDDIO, il quale in una notte distrusse l'esercito di Senacherib; che per mano di donna della fanciulla Giudith uccise Holoferne; & per dirlo in poche parole, dalla divinità, & volontà del quale pendono tutte le vittorie.
Per lo contrario i Turchi hanno Maometto, che vivendo fu scelerato, & dopo la morte perpetuamente senza resurrettione sta nella sepoltura: tanto che tra l'una & l'altra divinità v'è quella differenza appunto, ch'è tra un vivo figliuolo di DIO vivo, & un puzzolente cadavere d'un'huomo, & nato d'huomo, di maniera che nelle calamità de Christiani se ben si considera la natura dell'uno & l'altro Iddio, pare che i morti vincano i vivi d'armi, & di possanza. Et ben che noi di fortezza di corpo, & delle doti dell'animo gli avanziamo, le quali cose, pare, che grandissimo aiuto diano à rompere gli inimici, non dimeno noi miseramente in ogni luogo siamo rotti.
Chi è piu indurato dell'Unghero? chi piu terribile del Tedesco? piu valoroso del Francese? & piu gagliardo dell'Italiano? per non parlar dell'altre nationi, le quali hanno le doti del corpo ò migliori, ò veramente eguali. Appresso se si guarderà ben la qualità dell'animo, chi è piu sicuro nelle ferite, & ne pericoli dell'Unghero? chi piu generoso del Tedesco? piu savio dell'Italiano? piu ambitioso del Francese? & piu accorto dello Spagniuolo? & tutte queste cose da se possono ò dar la vittoria, ò aiutarla. Spesse volte senza altre forze l'ardimento vince, spesse volte anche la generosità dell'animo, spesso quella ambitiosità desiderosa dell'honore, spesso la sapientia, & spesso l'accortezza: non dimeno, miseri noi, fra tante cose vincitrici la vittoria ci esce dalle mani.
Ora se vorremo considerare l'apparato, & le qualità dell'armi, per molte ragioni pare, che noi siamo piu valorosi de Turchi. Nostre inventioni sono l'artiglierie, & nostre sono tante sorti d'armature. I Persiani vanno nudi, ò poco men che nudi alla battaglia: essi hanno gli archi, noi gli archibusi, noi i folgori, essi le saette; le quali per lo duro delle armi non hanno forza alcuna di poter passare, & alle bombarde non è appena scoglio, che possa star saldo.
Hanno hora eglino altresì i Musulmani i loro archibusieri, ma piu radi, & manco esperti. Ma hora guardate per DIO che genti menano seco in battaglia Scithi, & Thraci: ne quali non è alcuna sapientia Italiana, ò astutia Spagnuola: ma una certa crudelta bestiale, barbarie, grande ignorantia d'animo, indotta, & pazza. Con questi si congiugne il Greco consumato nella poltroneria, l'Asiatico corrottissimo nella lussuria, l'Egittio non meno castrato nell'animo, che del corpo, l'Arabo biscotto, minuto, & senza sangue. Chi crederebbe, che da soldati tali potessero esser vinti i ferocissimi Francesi, gli animosissimi Tedeschi, gl'ingegni degli Italiani, & l'astutie de gli Spanuoli? & nondimeno, oime, siamo vinti, & siamo vinti da coloro, i quali ne vincono in servitu: & gli schaivi per la servitu muovon guerra contra di noi; i quali siamo dagli avoli, & bisavoli nostri ingenerati in libertà, lasciataci intera, & sana.
Che se vorrai vedere gli ordini, & le leggi dell'una, & l'altra natione, ne anche in questa parte siam loro inferiori. Percioche che cosa è piu divina dell'Evangelio? che piu regolare della ragion canonica? che cosa piu savia ò piu civile delle leggi civili? & all'incontro essi vivono secondo l'Alcorano, cosa non meno pazza, che vana: il qual libro (come odo dire hora) si divolga fra Christiani; cio è affine che maturamente impariamo le leggi altrui noi, i quali tosto pare che siamo per perdere le nostre; accio che prima siamo Turchi nell'animo, che nella Signoria.
Quale è la causa adunque, che fra tante prerogative di combattere sempre siamo vinti in battaglia? onde viene che gli stendardi adornati di croci, che gia solevano essere spaventosi non meno alle nationi infedeli, che à gli spiriti dell'inferno, hora tante volte son posti in fuga? Io lo dirò in poche parole, & dirò il vero. Noi habbiamo uni IDDIO & grande, & vero, ma sdegnato con esso noi; di maniera che col vocabolo del profeta quasi possiamo esser domandati non popolo di DIO. Et perche dee esser CHRISTO con noi, ch'è da noi per tante heresie stracciato in tante parti? Et fuor che'l nome solo, che habbiamo noi Christiani di Christiano? Al tempo nostro il contadino è dishonesto, & fattioso, il cittadino fallace, et avaro: gli ufficiali seguono le retributioni, amano i doni, la nobiltà attende alla lussuria, & alla poltroneria, il soldato, eccetto la paga, & la preda, non cerca altro dalla guerra, sicuro dove cadano i regni, & non meno dannoso à suoi, che à gli inimici. Gli ecclesiastici, eccetto la pompa ecclesiastica, non hanno altro di chiesa, non santità, non pietà, non dottrina, tutti cercano le cose, che son sue; & non quelle di Christo.
Che meraviglia è adunque, se Christo non vuole essere amico a si fatti costumi? Però noi combattiamo senza Dio: & quel' ch'è piu calamitoso, havendo noi per inimico Iddio, portiamo le croci ne gli stendardi, e'l nostro Crocifisso sta col suo favore appresso gl'inimici.
Rovina adunque ogni cosa, & si rivolge in infinite calamità: & quando una nation Christiana combatte contra Turchi, un'altra natione è impedita in altre guerre, ò si sta in ocio: il soldato, ch'è menato in battaglia, serve al danaio, & non à Christo: & se non ha la paga, subito ò abbandona il campo, ò passa dall'altra parte. Che giova adunque quivi la sapientia Italiana? ò la industria Spagnuola? ò la fortezza Tedesca? ò la ferocità Francese? ò l'ardire Unghero? dove il soldato non pensa à Christo, ne alla gloria; & dove viene alla guerra, non altramente che alla taverna, & quivi con animo & fermo proposito di fare le dishonestà sue.
Habbiamo buone leggi, ma pessimi costumi, buone armi ma pessimi animi. E si riputano per una gran gloria, se fra loro valorosamente combattono; ma se contra l'inimico gagliardamente combattono, ò non è lor vergogna, ò non ne son puniti. Quando s'è udito mai dire, che un soldato ò per la fuga, ò per haver gettato l'armi sia stato gastigato? & pure al tempo antico per si fatte cagioni le pene della vita, & le decimationi scemavano non pure à uno à uno, ma le legioni intere.
Meniamo adunque un picciol numero, & quello di corrotti costumi, contra tante migliaia di inimici, i quali usano una ottima disciplina. Percioche il gran Turco pon giu i suoi vitij in campo, & il Christiano gli piglia. In campo de Turchi non hanno delitie alcune, solamente l'armi, e'l vivere necessario: nell'esercito de Christiani è la delicatezza, & tutto l'apparato della lussuria: & vi è maggior numero di puttane, che d'huomini. L'Unghero assassina, lo Spagnuolo ruba, il Tedesco tracanna; l'Italiano lussuria; il Francese canta; l'Inglese ingoia; & lo Scoto divora: tanto che à fatica si puo ritrovare un soldato, che sia soldato ne costumi.
Qual maraviglia è adunque, se vicono coloro, appresso i quali è la sobrietà, la parsimonia, la continentia, & la viglantia& & che siano vinti quegli, i quali sono ritrovati dagli inimici ò vagabondi à rubare, ò fra bicchieri, ò nel sonno, ò con la puttana, ò in altre ribalderie? Ma questa è colpa de plebei. I Principi istessi mentre che fanno guerra l'un l'altro, son cagione, che noi non possiamo metter mai insieme forze eguali contra Turchi.
Ma perche hora la guerra Francese ha avuto fine, s'ha da sperare, che non solo l'heresia sparsa fra gli Ecclesiastici, & ogni abuso s'habbia à levare della Chiesa, ma che anchora cesseranno le discordie de prencipi, & che finalmente s'habbiano à ragunare insieme fermi soccorsi contra Turchi.
Lamagna, adunque facilmente armerà cinquanta mila pedoni, xx mila cavalli. Ne minor numero ne farà l'Italia. Il medesimo, ò alquanto più s'ha da sperar dalla Francia. Et la Spagna anch'ella non aggignerà manco forze à questa impresa. Oltre à ciò gli stati della Barbantia, della Fiandra, dell'Hollandia, della Zelanda, & della Frisia, insieme con Traiettesi, faranno il numero di dieci mila cavalli, et di xx mila pedoni, & forse anche maggiore. Le reliquie della Ungheria, della Moravia, della Slesia, della Bohemia, & ciò ch'è d'intorno al Danubio, alla Polonia, & alla Schiavonia, facilmente metteranno insieme sessantamila cavalli.
Che se con queste forze s'andasse alla guerra, placato IDDIO, & riformati i costumi, facil cosa sarebbe vincere gli inimici della fede, ricuperare la Grecia, & la Thracia, dove anchora la maggior parte de gli huomini adhora Christo: i quali con disiderio grandissimo aspettano l'armi de Christiani, & stanno per ribellare à ogni occasione, che si presenti loro, & per opporsi à lor Signori, & tiranni, da quali miseramente sono oppressi: la qual cosa puo dare, ò affrettar la vittoria.
Ma poi che una volta havremo havuto vittoria, ci sarà aperta tutta l'Ungheria, & piu facilmente potremo giu per il Danubio à seconda portare tutte le machine, & gli altri apparati della guerra à Costantinopoli, che i Turchi contro acqua à Vienna.
La qual cosa quando i Persiani intendederanno, essi d'altra parte scorreranno fino à Costantinopoli: Ne ci mancheranno i valorosi re della Russia, & de Giorgiani, i quali non hanno manco forza, che odio contra Turchi. Ne starà in ocio il Prete Ianni Imperador dell'India; ma con tutte le forze sue intenderà ad opprimere il comune inimico.
Queste cose ho volute io scrivere a te Massimiano degnissimo figliuolo de gli Augustissimi Imperadori; parte perche io ho vedute, & provate le miserie de Christiani, & quelle insopportabili calamità sotto l'Imperio de Turchi; & queste perche ogniuno s'ha da te concetta quella speranza, & oppenione, che si stimano che tu debba rappresentare i costumi di Massimiano tuo bisavolo, di Ferdinando tuo padre, & di Carlo Cesare tuo Zio: la quale aspettatione de gli huomini si conferma molto, veggendo eglino ogni di le virtu della tua eccellentissima persona. Noi adunque habbiamo à pregare l'Onnipotente Iddio, che voglia con la sua divinità favorire, & affrettare la speranza, & aspettation tua, alla quale tu punto non manchi: accioche finalmente la Christianità possa da tante miserie respirare. A XVII di Marzo.
Praticamente solo a GENOVA si sviluppò questa sorta di istituto economico, anche se si ha notizia di una MAONA realizzata in Firenze.
La prima MAONA di GENOVA si può identificare con quella realizzata tramite l'organizzazione di una flotta di 100 navi (1235) da impiegare allo scopo di far scontare al signore arabo di CEUTA alcune offesse procurate a commercianti genovesi.
Si ricorda altresì nel 1346 la realizzazione della MAONA DI MONACO realizzata per assalire dei profughi genovesi che si erano rifugiati in tale città: il meccanismo dell'iniziativa avrebbe fatto leva sull'impegno da parte dello Stato di rimborsare il prestito appena lo avrebbero consentito le sue finanze. Atteso il fallimento dell'impresa (i transfughi avevano preferito rifugiarsi nella più sicura Provenza) i MAONESI concentrarono altrove le loro iniziative occupando (1347) l'isola di CHIO che venne assegnata alla MAONA sotto l'alta sovranità genovese e la supervisione di un podestà inviato dalla Repubblica
Ulteriore MAONA fu quella del 1374 mirante all'occupazione dell'isola di CIPRO: vi presero parte più forze, tra cui monasteri, mercanti ed armatori di modo che ognuno di questi gruppi si impegnò ad armare una galea da guerra. Secondo gli accordi a tutte queste varie forze sarebbe toccato un utile proporzionale ma, profittando della debolezza dei Lusignano sovrani dell'isola impossibilitati a versare l'enorme somma loro richiesta, i MAONI o MAONESI assunsero di fatto il controllo totale dell'isola sì che nei porti di Famagosta e Cerines vennero addirittura eletti, dalla Repubblica e dai soci della MAONA, dei podestà con il necessario corteo di funzionari.
Pochi anni dopo non andò invece a buon fine la MAONA organizzata per un'analoga operazione in Corsica: del resto questo istituto, formato da un'associazione tra privati, a partire dal Quattrocento patì vieppiù la forza economica del Banco di S. Giorgio, inevitabilmente destinato a surrograne le funzioni.
Non si può tuttavia far a meno di rammentare che la MAONA di Chio garantì la custodia del possedimento insulare oltre al controllo di Focea di cui erano sfruttate la miniere di allume. Inoltre cespiti diversi di guadagno provenivano ai MAONI DI CHIO dalle risorse dell'agricoltura e dalla gestione di altri opifici insulari. Questo capillare sistema imprenditoriale rese a lungo fattibile pagare un alto tributo al sultano di modo che CHIO venne a lungo risparmiata dall'espansionismo ottomano: ciò sin almeno al 1564 quando, per il sopravvenire di una crisi finanziaria, CHIO, non essendo in grado di pagare quanto stabilito, venne conquistata dalle forze turche: vedi G. Heyd, Storia del commercio del Levante, Torino, 1913, p. 511 e sgg.
E' inevitabile comunque affermare che la conquista di Costantinopoli ad opera dei Turchi di Maometto II l'espugnatore costituì un colpo davvero pesante per Genova. I nuovi padroni del Medio Oriente, aggressivi ed in piena espansione, non indulsero ai comodi compromessi che aveva prima consentito il fragile Impero di Bisanzio . Sotto i Turchi vennero infatti presto abrogate tutte le espressioni di autonomia politica od amministrativa e le esenzioni dal pagamento di molti dazi concessi agli esponenti delle comunità cristiane straniere: inoltre non fu più consentita l'alienazione di quartieri, moli e fondachi.
A differenza dei Veneziani che avevano corposamente partecipato alla difesa di Costantinopoli i Genovesi non erano stati compatti: se è vero che un buon numero di essi partecipò alla sfortunata battaglia contro i Turchi è altrettanto vero che i Genovesi di PERA (il quartiere "al di là" -come detta il nome stesso- del Corno d'Oro, ove si erano stabiliti e fortificati dal 1160) tennero nell'ambito del conflitto una posizione di neutralità sperando di potersi ingraziare i conquistatori turchi: ma ciò si rivelò fragile speranza presto disillusa, sì che (smantellate le mura sul Corno d'Oro) tutti costoro divennero, pur conservando qualche privilegio, dei sudditi imperiali.
Peraltro ai genovesi vennero meno anche i possedimenti che avevano nell'Egeo, reputato una sorta di dominio feudale di principi di Genova come quelli delle casate dei Gattuso e degli Zaccaria.
Parimenti i Turchi assorbirono i possessi genovesi sul mar Nero, le isole di Lesbo, Lemno, Samotracia, compresa la città "industriale" di Focea in Anatolia.
Fu in particolare un colpo grave per l'economia repubblicana la perdita di CAFFA in Crimea che per secoli aveva rappresentato una fondamentale base commerciale di Genova visto che controllava lo sbocco al mar d'Azov e dal momento che costituiva un solido avamposto ideato per la salvaguardia di tutte le colonie genovesi del mar Nero.