Giovanna d'Arco (in francese Jeanne d'Arc, in medio-francese Jehanne Darc; Domrémy, 6 gennaio 1412 – Rouen, 30 maggio 1431) è un'eroina nazionale francese, venerata come santa dalla Chiesa cattolica, oggi conosciuta anche come la Pulzella d'Orléans.
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Riunì al proprio Paese parte del territorio caduto in mano inglese, contribuendo a risollevarne le sorti durante la guerra dei cent'anni, guidando vittoriosamente le armate francesi contro quelle inglesi.
Catturata dai Borgognoni davanti a Compiègne, Giovanna fu venduta agli inglesi che la sottoposero a un processo per eresia (nel cui contesto ebbe gran peso il fatto che fosse solita indossare "abiti maschili") al termine del quale, il 30 maggio 1431, fu condannata al rogo e arsa viva.
Nel 1456 papa Callisto III, al termine di una seconda inchiesta, dichiarò la nullità di tale processo.
Beatificata nel 1909 da Pio X e canonizzata nel 1920 da Benedetto XV, Giovanna fu proclamata patrona di Francia (Poco o nulla sappiamo dell'aspetto fisico di Giovanna d'Arco (se non per un vago accenno da parte di Jean d'Aulon, che la definì "alta, bella e ben formata = vedi
Régine Pernoud, La spiritualità di Giovanna d'Arco, Milano, Jaca Book, 1998. ISBN 88-16-40480-9).
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Il processo a Giovanna [l'opera cui si fa qui riferimento, a mio avviso la più completa in assoluto sul tema è quella a cura di Teresa Cremisi, Il processo di condanna di Giovanna d'Arco, Milano, SE, 2000. ISBN 88-7710-482-1] ebbe inizio formalmente il 3 gennaio 1431, con atto scritto; il 9 gennaio 1431 Cauchon, ottenuta la giurisdizione su Rouen (allora sede arcivescovile vacante), iniziò la procedura ridefinendo il processo stesso, iniziato in un primo tempo "per stregoneria", in uno "per eresia"; conferì infine l'incarico di "procuratore", sorta di pubblico accusatore, a Jean d'Estivet, canonico di Beauveais che lo aveva seguito a Rouen.
La prima udienza si tenne pubblicamente il 21 febbraio 1431 nella cappella del Castello di Rouen.
La carcerazione non aveva fiaccato lo spirito di Giovanna; sin dal principio delle udienze, richiesta di giurare su qualsiasi domanda, ella pretese - ed ottenne - di limitare il proprio impegno a quanto concernesse la fede.
Inoltre, alla domanda di Cauchon di recitare il Padre Nostro rispose che lo avrebbe certamente fatto ma solo in confessione, modo sottile per ricordargli la sua veste di ecclesiastico.
L'interrogatorio di Giovanna si svolse in maniera convulsa, sia perché l'imputata era interrotta continuamente, sia perché alcuni segretari inglesi ne trascrivevano le parole omettendo tutto ciò che fosse a lei favorevole, cosa di cui il notaio Guillame Manchon si lamentò minacciando di astenersi dal presenziare ulteriormente; dal giorno seguente Giovanna fu così sentita in una sala del castello sorvegliata da due guardie inglesi.
Durante la seconda udienza, Giovanna fu interrogata per sommi capi sulla sua vita religiosa, sulle apparizioni, sulle voci, sugli accadimenti occorsi a Vaucouleurs, sull'assalto a Parigi in un giorno in cui cadeva una solennità religiosa; a questo la Pulzella rispose che l'assalto avvenne per iniziativa dei capitani di guerra, mentre le voci le avevano consigliato di non spingersi oltre Saint-Denis.
Questione non trascurabile posta quel giorno, sebbene in un primo momento passata quasi inosservata, il motivo per cui la ragazza indossasse abiti maschili; alla risposta suggeritale da quelli stessi che la stavano interrogando (ossia se fosse stato un consiglio di Robert de Baudricourt, capitano di Vaucouleurs), Giovanna, intuendo la gravità di un'asserzione simile, rispose: "Non farò ricadere su altri una responsabilità così pesante!" In quest'occasione Cauchon, forse toccato dalla richiesta di essere udita in confessione, fatta dalla prigioniera il giorno precedente, non la interrogò personalmente, limitandosi a chiederle, ancora una volta, di prestare giuramento.
Durante la terza udienza pubblica, Giovanna rispose con una vivacità inattesa in una prigioniera, arrivando ad ammonire il suo giudice, Cauchon, per la salvezza della sua anima.
La trascrizione dei verbali rivela anche una vena umoristica inaspettata che la ragazza possedeva nonostante il processo; alla domanda se avesse avuto rivelazione che sarebbe riuscita ad evadere dalla prigione, rispose: "E io dovrei venire a dirvelo?"
L'interrogatorio successivo, sull'infanzia di Giovanna, i suoi giochi di bambina, l'Albero delle Fate, intorno al quale i bambini giocavano, danzavano ed intrecciavano ghirlande, non portò nulla di rilevante per gli esiti processuali, né fece cadere Giovanna in affermazioni che potessero renderla sospetta di stregoneria, come forse era negli intenti dei suoi accusatori.
Di notevole rilevanza, invece, la presenza, tra gli assessori della giuria, di Nicolas Loiseleur, un prete che si era finto prigioniero ed aveva ascoltato Giovanna in confessione, mentre, come riferito sotto giuramento da Guillame Manchon, diversi testimoni ascoltavano nascostamente la conversazione, in aperta violazione delle norme ecclesiastiche.
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Durante la terza udienza pubblica, Giovanna rispose con una vivacità inattesa in una prigioniera, arrivando ad ammonire il suo giudice, Cauchon, per la salvezza della sua anima.
La trascrizione dei verbali rivela anche una vena umoristica inaspettata che la ragazza possedeva nonostante il processo; alla domanda se avesse avuto rivelazione che sarebbe riuscita ad evadere dalla prigione, rispose: "E io dovrei venire a dirvelo?"
L'interrogatorio successivo, sull'infanzia di Giovanna, i suoi giochi di bambina, l'Albero delle Fate, intorno al quale i bambini giocavano, danzavano ed intrecciavano ghirlande, non portò nulla di rilevante per gli esiti processuali, né fece cadere Giovanna in affermazioni che potessero renderla sospetta di stregoneria, come forse era negli intenti dei suoi accusatori.
Di notevole rilevanza, invece, la presenza, tra gli assessori della giuria, di Nicolas Loiseleur, un prete che si era finto prigioniero ed aveva ascoltato Giovanna in confessione, mentre, come riferito sotto giuramento da Guillame Manchon, diversi testimoni ascoltavano nascostamente la conversazione, in aperta violazione delle norme ecclesiastiche.
Nelle tre udienze pubbliche successive si accentuò il divario di prospettiva tra i giudici e Giovanna; mentre i primi si accanivano con sempre maggiore tenacia sul motivo per cui Giovanna portasse abiti maschili, la ragazza sembrava a suo agio parlando delle sue voci, che indicò provenire dall'Arcangelo Michele, Santa Caterina e Santa Margherita, differenza evidente nella risposta data circa la luminosità della sala in cui aveva incontrato per la prima volta il Delfino: "cinquanta torce, senza contare la luce spirituale!" Ed ancora, nonostante la prigionia e la pressione del processo, la ragazza non rinunciava a risposte ironiche; ad un giudice che le aveva domandato se l'Arcangelo Michele avesse i capelli, Giovanna rispose: "Per quale ragione avrebbero dovuto tagliarglieli?"
Il 27 e il 28 marzo furono letti all'imputata i settanta articoli che componevano l'atto di accusa formulato da Jean d'Estivet.
Molti articoli erano palesemente falsi o quantomeno non suffragati da alcuna testimonianza, meno che mai dalle risposte dell'imputata; tra essi si legge che Giovanna avrebbe bestemmiato, portato con sé una mandragora, stregato stendardo, spada e anello conferendo ad essi virtù magiche; frequentato le fate, venerato spiriti maligni, tenuto commercio con due "consiglieri della sorgente", fatto venerare la propria armatura, formulato divinazioni.
Altri, come il sessantaduesimo articolo, sarebbero potuti risultare più insidiosi, in quanto ravvisavano in Giovanna la volontà di entrare in contatto direttamente con il divino, senza la mediazione della Chiesa, eppure passarono quasi inosservati.
Paradossalmente, risultò di sempre maggior rilevanza l'uso di Giovanna di portare abiti da uomo.
(Cremisi, cit., pp. 124–144 Atti d'accusa).
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Il 24 maggio 1431 Giovanna fu tradotta dalla sua prigione nel cimitero dalla chiesa di Saint-Ouen, sul margine orientale della città, ove erano già state preparate una piattaforma per lei, in modo che la popolazione potesse vederla e udirla distintamente, e tribune per i giudici e gli assessori.
Più in basso, il carnefice attendeva sul suo carro.
Presente Henri de Beaufort, vescovo di Winchester e cardinale, la ragazza fu ammonita da Guillame Erard, teologo, che, dopo un lungo sermone, domandò a Giovanna, ancora una volta, di abiurare i crimini contenuti nei dodici articoli dell'accusa.
Giovanna rispose: "Mi rimetto a Dio e al Nostro Santo Padre il Papa", risposta che doveva esserle stata suggerita da Jean de La Fontaine, il quale, pur nella sua veste di assessore, evidentemente aveva ritenuto corretto informare l'imputata dei suoi diritti (fatto che gli sarebbe costato l'esclusione dal processo e l'allontanamento da Rouen); inoltre, presso la ragazza si trovavano i domenicani Isambart de la Pierre e Martin Ladvenu, esperti delle procedure inquisitoriali.
Com'era prassi del tempo, l'appello al Pontefice avrebbe dovuto interrompere la procedura inquisitoriale e portare alla traduzione dell'imputata innanzi al Papa, tuttavia, nonostante la presenza di un cardinale, Erard liquidò la questione sostenendo che il Pontefice era troppo lontano, continuando ad ammonire Giovanna per tre volte; infine, Cauchon prese la parola ed iniziò a leggere la sentenza quando fu interrotto da un grido di Giovanna: "Accetto tutto quello che i giudici e la Chiesa vorranno sentenziare!".
A Giovanna fu quindi consegnato una dichiarazione per mano dell'usciere, Jean Massieu; nonostante lo stesso Massieu l'avvertisse del pericolo in cui incorreva firmandola, la ragazza siglò il documento con una croce.
In realtà Giovanna, seppure analfabeta, aveva imparato a firmare con il suo nome, "Jehanne", così come appare nelle lettere che ci sono pervenute ed anzi la Pulzella aveva dichiarato durante il processo che era solita apporre una croce su una lettera inviata a un capitano di guerra quando voleva significare ch'egli non doveva fare ciò che ella gli aveva scritto; è probabile che tale segno avesse, nella mente di Giovanna, lo stesso significato, tanto più che la ragazza lo tracciò accompagnandolo con un riso enigmatico.
L'abiura che Giovanna aveva firmato non era più lunga di otto righe, nelle quali s'impegnava a non riprendere le armi, né portare abito d'uomo, né capelli corti, mentre agli atti venne messo un documento di abiura di quarantaquattro righe in latino.
La sentenza emessa era comunque durissima: Giovanna era condannata alla carcerazione a vita nelle prigioni ecclesiastiche, a "pane di dolore" ed "acqua di tristezza".
Nondimeno, la ragazza sarebbe stata sorvegliata da donne, non più costretta da ferri giorno e notte, libera dal tormento dei continui interrogatori; quale dovette essere la sua sorpresa quando udì le parole di Cauchon che ordinava: "Conducetela là dove l'avete presa".
Questa violazione delle norme ecclesiastiche fu con ogni probabilità voluta dallo stesso Cauchon per un fine preciso, indurre Giovanna ad indossare nuovamente l'abito da uomo per difendersi dai soprusi dei soldati.
Infatti solamente i relapsi, ossia coloro che, avendo già abiurato, ricadevano in errore, erano destinati al rogo.
Gli inglesi, tuttavia, persuasi che ormai Giovanna fosse sfuggita loro di mano, poco avvezzi alle procedure dell'Inquisizione, esplosero in un tumulto e in un lancio di sassi contro lo stesso Cauchon.
Nuovamente in carcere, Giovanna divenne oggetto di una collera ancora maggiore da parte dei suoi carcerieri; il domenicano Martin Ladvenu riporta che Giovanna gli riferì di un tentativo di violentarla da parte di un inglese, che, non riuscendovi, la percosse con ferocia.
La mattina di domenica 27 maggio, Giovanna chiese di alzarsi ed un soldato inglese le sottrasse gli abiti da donna e gettò nella sua cella quelli maschili; nonostante le proteste della Pulzella, non gliene furono concessi altri.
A mezzogiorno, Giovanna fu costretta a cedere.
Cauchon ed il viceinquisitore Lemaistre, insieme ad alcuni assessori, si recarono il giorno seguente alla prigione.
Giovanna affermò coraggiosamente di aver ripreso l'abito maschile di propria iniziativa, poiché si trovava tra uomini e non, come suo diritto, in una prigione ecclesiastica, sorvegliata da donne, ove poter sentir messa.
Interrogata ancora, ribadì di credere fermamente che le voci che le apparivano erano quelle di Santa Caterina e di Santa Margherita, di essere inviata da Dio, di non aver capito una sola parola dell'atto di abiura, ed aggiunse "Dio mi ha mandato a dire per bocca di santa Caterina e santa Margherita quale miserabile tradimento ho commesso accettando di ritrattare tutto per paura della morte; mi ha fatto capire che, volendo salvarmi, stavo per dannarmi l'anima!" ed ancora: "Preferisco fare penitenza in una sola volta e morire piuttosto che sopportare più a lungo la sofferenza di questa prigione".
Il 29 maggio Cauchon riunì per l'ultima volta il tribunale per decidere la sorte di Giovanna.
Su quarantadue assessori, trentanove dichiararono che fosse necessario leggerle nuovamente l'abiura formale e proporle la "Parola di Dio".
Il loro potere, però, era solo consultivo.
Pietro Cauchon e Jean Lemaistre condannarono Giovanna al rogo.
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L'esecuzione: il rogo = Il 30 maggio 1431 entrarono nella cella di Giovanna due frati domenicani, Jean Toutmouillé e Martin Ladvenu; quest'ultimo la ascoltò in confessione e le comunicò quale sorte era stata decretata per lei quel giorno; nella sua ultima lamentazione, la Pulzella, vedendo entrare il vescovo Cauchon esclamò: "Vescovo, muoio per causa vostra".
In seguito, quando questi si fu allontanato, Giovanna chiese di ricevere l'eucaristia.
Fra Martin Ladvenu non seppe che cosa risponderle, poiché non era possibile ad un eretico comunicarsi e chiese allo stesso Cauchon come dovesse comportarsi; sorprendentemente, ed in violazione, ancora una volta, di ogni norma ecclesiastica, questi rispose di somministrarle il sacramento.
Giovanna fu condotta nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen e fu data lettura della sentenza ecclesiastica.
Successivamente, senza che il balivo o il suo luogotenente prendessero in custodia la prigioniera, fu abbandonata nelle mani del boia, Geoffroy Thérage, e condotta dove il legno era già pronto, di fronte a una folla numerosa riunitasi per l'occasione.
Vestita di un lungo abito bianco e scortata da circa duecento soldati, salì sino al palo dove fu incatenata, sopra una gran quantità di legna.
In tal modo, non c'era possibilità per il boia di abbreviare il supplizio della condannata, facendole perdere i sensi per l'impossibilità di respirare e facendo poi bruciare il corpo già morto.
Sarebbe dovuta ardere viva.
Giovanna, caduta in ginocchio, invocava Dio, la Vergine, l'Arcangelo Michele, Santa Caterina e Santa Margherita; domandava ed offriva perdono a tutti.
Chiese una croce ed un soldato inglese, impietosito, prese due rami secchi e li legò a formarne una, che la ragazza strinse al petto; Isambart de La Pierre corse a prendere la croce astile della chiesa e gliela pose dinanzi; infine, i soldati strattonarono il boia e gli ordinarono: "fa' ciò che devi".
Il fuoco salì veloce e Giovanna chiese dapprima dell'acqua benedetta, poi, investita dalle fiamme, nel dolore atroce, gridò a gran voce: "Gesù!"
Così morì Giovanna la Pulzella, a soli diciannove anni.
[fonte ripresa con modifiche da "Wikipedia, l'Enciclopedia libera on line"].