cultura barocca
Antonio Aniante

"Memorie di Francia ovverossia il Rapisardino arcimiliardario a Montparnasse"
opera di
Antonio Aniante

SODALIZI PRIVILEGIATI
Racimolo, affastello, riordino, elaboro, fisso sulla bianca carta i miei ricordi, e mi dico che avrei potuto non conoscere tanti uomini illustri, e più triste e magra sarebbe stata la mia carriera, e priva di preziosi insegnamenti e di esperienze la mia esistenza.
Non a tutti, invero, è dato di entrare nell'intimità dei grandi, raro privilegio che è stato mio fin da fanciullo allor che mio padre mi condusse dal vate Rapisardi, che abitava una palazzina accanto alla mia, a Catania. Gli invidiavo una balconata, che per metri e metri circondava la solitaria sua dimora. Il Rapisardi, dalle lunghe chiome e dagli opulenti baffi, riparandosi dal sole con un cappello dalle larghissime falde, e con un ombrellino grigio, passeggiava lungo il balcone. Chi sostava sulla strada ad ammirarlo, doveva aspettare un bel po' prima di vederlo riapparire ogni qualvolta che il sommo scantonava dall'altra parte della magione.
Non avevo pù di undici anni quando egli spirò, in una notte di tempesta tellurica, marina, celeste; il mare aveva invaso la Piazza della cattedrale,e, ritirandosi, aveva lasciato sul suolo abbondanza di pesci. I funerali, imponentissimi, si svolsero sotto raffiche di pioggia e di vento. Prima di venir chiuso nella cassa, era stato esposto nella grande aula municipale entro un bottiglione di vetro. Il misterioso male che lo portò alla tomba lo aveva rimpicciolito tanto che, gigante in vita, si era ridotto, da cadavere, nano.
Nobile, sdegnoso, fiero, leale amico dei poveri e dei deboli, in continua rivolta contro l'ingiustizia, l'ineguaglianza, l'abuso, la cattiveria, la violenza, il vate e apostolo morì come visse, lottando per un ideale di umana fraternità.
Vous etes un précurseur, gli aveva telegrafato Victor Hugo.
Ma gli elementi della più selvaggia natura ionica scatenatisi, si unirono ai suoi avversari e detrattori, facendolo passare per Lucifero in persona, lui che era stato mite e dolce, lui che era stato nient'altro che bontà.

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Più tardi, a Roma, conobbi Pirandello, gli stetti vicino nei suoi anni tragici quando viveva e lavorava in una modesta villetta di fuori Porta Pia e insegnava faticosamente al Magistero. Tutte le sere lo accompagnavo a casa; tutte le sere, egli apriva la cassetta delle lettere e spesso la trovava vuota o con qualche insignificante missiva.

Ho conosciuto sulla Costa Azzurra ben altri quattro fortunati vincitori del Premio Nobel della letteratura: Materlink, Martin du Gard, Bunin, Gide.
Incontrai Gide, per la prima volta, poco dopo la seconda guerra mondiale, nell'anticamera del Consolato Generale d'Italia in Nizza. Il signor console, occupatissimo con un politicante locale, lo lasciò aspettare per oltre un'ora, e ingnora ancor oggi d'avermi dato, così, l'occasione di conversare con André Gide, non certo su futili argomenti.
Rividi Gide, qualche anno più tardi, nell'ostello della Colombe d'Or a Saint-Paul de Vence. Colpito da infarto, trascorreva la convalescenza sulla balsamica collinetta. Aveva apprezzato il mio piccolo libro, Voyage en Sicile, per cui parlava e passeggiava volentieri con me.
Un pomeriggio, i fotografi lo presero d'assalto nel patio dell'albergo, mitragliandolo. Gide, che era alto e forte nonostante i suoi ottanta anni e più, si scagliò contro le loro macchine, e, a una a una, le scaraventò a terra.
Ma la rissa gli costò una mortale ricaduta.

Maurice Maeterlinck mi raccontava che, di ritorno da un lungo viaggio, aveva chiesto all'autista di condurlo dalla vecchia bicocca, Les Abeilles, sulla collina delle Baumettes a Nizza, alla sua nuova villa, Orlamonde, che sorge alle porte della mirifica baja di Villefranche.
Ma, o stupore, nella sua nuova villa trovò l'antico proprietario come lo aveva lasciato; alcun lavoro di restauro era stato eseguito durante la sua assenza.
Era avvenuto semplicemente questo: il suo uomo d'affari aveva dilapidato i milioni che Maetrlinck gli aveva affidato, prima di partire, e per l'acquisto e la toeletta dell'orlamonde.
Ho avuto l'amicizia di Henri Matisse, Pablo Picasso, Marc Chagall, Giorgio de Chirco, Filippo de Pisis, Mario Tozzi, Bruno Cassinari; e i lettori, mentre sventaglio tanti nomi illustri, penseranno che sono stati per me fonte di ricchezza.
Nemmeno per sogno, purtroppo.
Il vate Rapisardi, lo conobbi che ero troppo ragazzo. Pirandello, ricordo soltanto che, sull'asfalto di Parigi, in un mio crudele inverno, mi prestò a mala pena cinquanta franchi, dietro mie vive insistenze. Gide, mi avrebbe presentato volentieri alla Nouvelle Revue Française, mai io non gli chiesi mai il minimo favore. Scrissi e pubblicai in francese un appassionato saggio su Maeterlinck, e questi si adombrò per aver io detto che una delle api che egli studiava si era permessa di trovar nido nel suo villoso petto (si era arrabbiato con me miserrimo per così poco mentre aveva perdonato il suo uomo d'affari, non esigendo nemmeno la restituzione dei milioni versatigli per comperare la villa Orlamonde).
Chiesi a Matisse ed ebbi, non per me ma per un giovane pittore povero e cieco, di Cremona, un prezioso dipinto. Da Picasso e da Chagall e pure da Matisse ebbi non per me ma per i sinistrati del Polesine e per il Museo di Faenza opere inedite d'inestimabile valore. De Chirico, De Pisis, Tozzi, li frequentai a Parigi quando i loro quadri non li voleva nessuno, nemmeno regalati. Cassinari, non mi resi conto che troppo tardi della sua ascesa, allor che egli era lontano da me anche con il cuore.
Quel tantino che avevo avuto da loro, la guerra, se lo portò via per pochi spiccioli insieme con le mie valigie: il tutto, liquidato sulla Baja degli Angioli, lo stesso giorno dell'armistizio, firmato dal maresciallo Pétain.
Il mio destino ha voluto che io non conservassi n libri né quadri. Non posseggo nemmeno un dipinto di De Chirico; eppure sono stato proprio io che, a diciotto anni, scrissi per primo sulla sua pittura metafisica nel "Piccolo Giornale d'Italia", in occasione della sua prima mostra inaugurata dal Re, nella galleria d'arte Bragaglia, in via Condotti. Fui primo ad apprezzare il suo talento di geniale ed originale pittore.
Di sotto la tavola sontuosamente imbandita non ho raccolto nemmeno le briciole. Ma ne parlo perché? Forse per rabbia? oh no, ma soltanto per vantarmi d'aver avuto un singolare destino che mi vuole sempre a mani vuote, e ricco di esperienze e di insegnamenti; per ciò son grato ai grandi che mi hanno onorato della loro stima e amicizia.

1
LA MODELLA PREFERITA DI MODIGLIANI
Il quotidiano d'informazione "Nice-Matin", pubblica una intervista, concessa al collega Roland Moreau dalla nobildonna polacca
Lunia Czechowska , che fu per ben quindici fiate la modella preferita di Modigliani.
Lunia aveva conosciuto il pittore maledetto in un caffé di Montparnasse, or son cinquant'anni, a un tavolo occupato da matisse, Picasso, Léger, Cendrars, Kisling, Fugita, Dérain.
Un ragazzone dal largo cappello, vestito di velluto, entrò con aria spavalda e si diresse verso di lei come se fosse un amico di lunga durata.
- Ignorando che al mio fianco stava mio marito, - racconta Lunia, - Modi mi baciò la mano e mi invitò a pranzo. pensai che si era fulmineamente innamorato di me; niente affatto; mi voleva semplicemente come modella; arrossendo, accettai di posare per lui.
Egli abitava in un alberguccio di infimo ordine, insieme con la sua compagna e il suo amico e mercante Zborowsky.
- Mentre posavo, si accorse del mio turbamento e, per distrarmi, si mise a parlare nel suo idioma natale: appresi, più tardi, che recitava fra gli amici o tutto solo, dipingendo, passaggi della "Divina Commedia". Così ebbi occasione di imparare anche io, a memoria, senza volerlo e senza saperlo, alcune terzine dell'"Inferno". Sempre in compagnia di mio marito, Modi ed io attraversavamo, a piedi, interi quartieri di Parigi, in piena notte, quando il tempo era bello! Che delizioso conversatore! E che cultura! Modi aveva, allora, 32 anni. Parlava con entusiasmo dei suoi amici e con tenerezza tutta latina e meridionale ma guai se non amava qualcuno: per esempio, Jean Cocteau; allora lo stroncava, con acume e ferocia.
Ecco la riproduzione a colori dell'ultimo ritratto di Lunia dal collo di cigno, che si trova a Milano, nella collezione De Angeli Frua.
la nobildonna lo contempla, non senza emozione.
Quindi riprende a rievocare l'atmosfera di Montparnasse; vuole sfatare la leggenda di un Modigliani che tutte le sere viene raccolto, alla soglia della Rotonde, ubriaco fradicio.
- Non è vero, - afferma Lunia - si drogava e beveva come tanti e tanti alltri artisti, ma non smoderatamente. Molte sere ho trascorso con lui, e posso assicurarvi che non l'ho mai visto ebbro.
Diversa fortuna hanno avuto i ritratti di Lunia.
Uno di essi fu venduto per venti franchi allor che Modi ne voleva soltanto dieci; e poco dopo, che già la gloria spezzava le tenebre, Zborowsky ne vendette uno per l'astronomica somma di mille franchi.
Immaginate la gioia del pittore.
L'amico e impresario non gli diede subito il denaro, ma lo condusse ai grandi magazzini "Lafayette" e lo costrinse a buttar via il logoro vestito per un paio di pantaloni e una giacca fiammanti.
Alcuni mesi più tardi, il 25 gennaio del 1920, Modigliani moriva.
La sua compagna, che lo adorava, lo seguì, gettandosi nel vuoto dalla finestra dell'albergo.
Modigliani, che già una prima volta aveva ritrovato la salute sulla Costa Azzurra, il cui clima caldo aveva cicatrizzato i suoi polmoni, stava per ritornare a Nizza.
Se si fosse strappato in tempo dai tentacoli della malsana Parigi probabilmente non sarbbe morto tanto giovane.
Zborowsky aveva finanziato il precedente viaggio e soggiorno sulla Baja degli Angioli e voleva, a qualsiasi costo, allontanarlo da Montparnasse e le brume nordiche.
Il successo e la fortuna, l'uno e l'altra arrivati all'improvviso, dovettero, senza alcun dubbio, ubriacarlo, e stordirlo ancor più degli stupefacenti e dell'alcole.
L'intervista, concessa da Lunia su Modigliani, è degna di segnalazione per tre motivi che a me sembrano importanti al riguardo di una "Vita" del pittore livornese da rivedere e correggere.
Per Lunia, Modi non era un alcolizzato.
Non era bello come tanti biografi scrivono.
Non era un sedeuttore, ma soltanto un poeta dall'estasi facile, che, al caffè, cercava di farsi, in un modo o nell'altro, notare, assetato come era di celebrità.
le donne lo interessavano, molto più come modello gratuito che per amore.
Anche la sua bellezza è nella fantasia dei gazzettieri e scrittori, avidi dell'eccezionale; non gli si poteva negare, sì, un fascino singolare, per la brillantssima conversazione, per i modi signorili.

Per molti amici egli era ritornato, vinto dalla nostalgia, a Livorno.
E fu così che Lunia, ignorando, anche lei, la sua morte, attese, invano, in un "palace" di Nizza, il suo ritorno, preparandosi a posare ancora una volta per lui in una toletta dagli sgargianti colori, che il giovane pittore tanto amava.
Lunia dal collo di cigno, chiedendo il piccolo libro dei ricordi, confonde e nasconde un sospiro nel denso fumo di un'ultima sigaretta.

2
AL CAPEZZALE DI MATISSE NEL SUO EREMO DI CIMIEZ
Nizza prepara una serie di manifestazioni per celebrare il primo centenario della nascita dell'illustre suo ospite
Henri Matisse, prediletto illustratore della baja degli Angioli.
Non aveva ancora ottanta anni quando lo conobbi nella sua casa di Cimiez, incantevole collina alle porte della città. Egli amava l'Italia ed era molto sensibile agli elogi dei nostri critici d'arte; ricordo che leggeva con attenzione i ritagli dei giornali italiani che lo riguardavano, e che per lui mi pervenivano da parte del mio amico Umberto Frugiuele nelle bustine grigioverdi dell'"Eco della Stampa".
Più di una volta ricorsi alla generosità di Matisse in favore dei nostri connazionali; mai si rifiutò di venirmi incontro: per un giovane pittore cremonese, divenuto cieco e caduto in miseria, mi diede un suo disegno inedito; per il padiglione europeo della ceramica moderna del Museo di faenza mi affidò vari suoi pezzi originali; per gli alluvionati del Polesine mi donò un suo quadro; mi fece pagare centomila franchi appena un suo disegno della "Via Crucis" della cappella di Vence, che acquistai per conto di una personalità italiana. Ai prezzi d'oggi, posso dire che Matisse mise nelle mie mani sue opere che valevano cento e più milioni di franchi.
Come sempre, in mio possesso non è rimasto assolutamente nulla, e se la mia dimora è ricca di qualche dipinto, son tutti omaggi di bravi e modesti artisti. Ma ancor più che i capolavori e la fortuna, conservo preziosamente, attribuendo ad essi maggior valore, gli insegnamenti che seppi trarre dalle mie conversazioni con Matisse. Quanti scrittori sanno che fu non soltanto un grande pittore ma anche un grande saggio? Colpito da un male inesorabile, era, da diversi anni, immobile nel suo letto.
Una sera mentre Lydia gli cambiava le lenzuola, mi accorsi che portava addosso un complicato, sinistro e fastidioso apparecchio (organo artificiale impostogli in seguito ad una grave operazione chirurgica dell'apparato digerente). Non solo aveva vinto il male, ma nella sua dorata prigione aveva raggiunto la felicità e la saggezza, riuscendo, inoltre, a creare opere mirabili. Nell'impossibilità di muoversi, aveva trasformato il suo letto in tavolozza, leggio, scrivania: tutto gli era a portata di mano, compresa la sua biblioteca; se altro gli occorreva, c'era Lydia, in camice bianco, sempre pronta ad assecondarlo. In luogo dei pennelli e dei colori adoperava lunghe canne e pezzettini di carta colorata che fissava su immensi pannelli spiegati sulle pareti che gli stavano di fronte e ai lati; così dava vita a seducenti affreschi.
Più di una volta mi confidò: - Quando sono stanco, quando ho il "trac", smetto di lavorare, mi riposo e medito, fin che non mi sento ripreso dalla linfa e dalla gioia di vivere e3 di dipingere.
- "Je connais le bonheur", - mi disse ancora - sono felice e colmo d'ogni bene -; e accarezzava con le sue finissime dita un libro che gli era stato consacrato da un notissimo critico americano d'avanguardia e cyhe da poco era uscito a New York (dove un figlio di matisse aveva aperto una galleria d'arte intitolata al genitore).
Nei suoi ultimi anni si serviva della pittura come di una medicina per lo spirito: i suoi colori contenevano un raro rimedio, un balsamo per la psiche tromentata. benefico effetto provavo ogni volta che salivo a Cimiez a contemplare le sue tele: inquieto, nervoso giungevo a lui e, dopo un'ora trascorsa nel suo atelier, ridiscendevo nella città convulsa, ritemprato, fiducioso, calmo: senza alcun dubbio, ai suoi colori, alle sue parole io dovevo quello stato di grazia che permaneva in me per un certo tempo.
nesso stesso alone magico viveva e operava Lydia Deloctorskaja, sua musa, suo modello preferito, sua infermiera. Lydia era una giovanetta russa, entrata ancora adolescente nell'arte e nella vita di Matisse, a parigi. Più tardi, la bionda Lydia, da Montparnasse si trasferirà con il Maestro, al sole di Nizza. Senza Lydia avremmo Matisse? Chi ha avuto la fortuna di conoscerla e di frequentarla mi comprende. era la bellissima ed angelica samaritana dall'intelligenza precoce e rara. Se mi fosse dato di scrivere la biografia di Matisse, largo posto darei a Lydia, certo, così, di mettere in rilievo quei tratti essenziali senza i quali la figura del celebre pittore non risulterebbe né fedele, né corretta, né perfetta, né completa.
Fu come un incantesimo che si ruppe, una notte, in meno di un'ora. Lydia, che aveva il sonno leggero, fu svegliata da un insolito rumore che veniva dalla camera accanto, come un tonfo. Matisse giaceva a terra, colpito da infarto, e spirava di lì a poco nelle braccia dell'amata. Soltanto allora i nervi dell'eroica fanciulla cedettero; inanimata, fu portata via.
Ai funeralib erano presenti, oltre alla moglie (che da anni non era più salita a Cimiez), i figli, i parenti, gli ammiratori, gli amici eccetto Lydia, che giaceva su un bianco lettino d'ospedale.
Alcuni mesi più tardi venne a trovarmi nel mio ufficio. Mi colpì il pallore del suo serafico viso; i suoi occhi meravigliosi erano velati di tristezza. Compresi che andava in cerca di lavoro: direi meglio, di una missione da compiere: il suo ideale era di poetr servire un apostolo dell'arte o della scienza, con la stessa devozione, con la stessa bravura, con lo stesso impegno con cui si era dedicata a matisse. Soltanto così avrebbe potuto dimenticarlo, per cui si proponeva di partire per Lambarné, verso il dottor Schwitzer.
Lydia, mi ascolti? Ora ti confesso, dopo tanti anni, che in quell'istante, quando per l'ultima volta le mie mani strinsero fortemente le tue, nel lancinante addio, ti avrei supplicata in ginocchio, di non lasciarmi solo alla mercè del mio destino.
- Rimani con me, Lydia - ti avrei detto.
Andata via lei, andò via anche il sole, e la triste notte discese nella mia povera anima inferma.
Alcuni mesi più tardi ricevetti un suo rigo da Parigi; era andata ad abitare insieme con una sua sorella all'ultimo piano di un immenso alveare, in uno squallido quartiere popolare. Era una fanciulla povera quando conobbe Matisse; povera ritronerà nel mondo dei mortali, senza di lui.

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PICASSO TRA FERRO E FUOCO NELLA FUCINA DI VALLAURIS
In un ritaglio della stampa francese (che molto gentilmente mi ha fatto avere un grande amico degli scrittori e giornalisti quale è Umberto Frugiuele), trovo notizie poco liete sulla salute di Picasso.
Dopo di aver subito la delicata operazione della cistifellea, non gode più della sua leggendaria salute di ferro. Sono i polmoni e i bronchi che gli dan serio fastidio.
- Ha, probabilmente, fumate troppe sigarette "Gauloises", - mi fa un collega della Costa Azzurra, che lo ha avvicinato spesso. Non sono interamente del suo parere; io penso che non è tanto il fumo, quanto il fuoco del suo forno di vallauris [comune francese situato nel dipartimento delle Alpi marittime della regione della
Provenza-Alpi-Costa Azzurra non lontano da Antibes] che, in venti anni di quotidiana presenza, gli è stato nocivo.
Subito dopo la guerra, Picasso, sessantacinquenne, lasciava la brumosa Parigi per l'assolata Provenza; e si stabiliva sull'amena collina di Vallauris, fra Nizza e Cannes. Qui entrava in rapporti d'affari con la giovane coppia Ramiez, proprietaria della fabbrica di ceramiche "Madoura".
Picasso si consacrava alla terracotta. La mattina presto, eccolo al forno, al suo forno, in compagnia di alcuni operai italiani, fino a tardi la sera, la notte, non smettendo di lavorare. Il risultato del suo sforzo non tarda a ottenerlo. Vallauris, che deperiva a vista d'occhio, che si spopolava e impoveriva, ora, grazie alle originali ceramiche di Picasso ritrovava gloria e prosperità; conquistava un primato mondiale nell'arte e nell'industria della terracotta.
Un uomo solo, un solo uomo ha compiuto il prodigio: la popolazione è aumentata; il paese si è fatto più grande e più bello; le fabbriche di ceramiche si sono moltiplicate.
Fenomeno identico [scrive ancora Aniante nelle sue "Memorie di Francia..."] si registra in alcuni altri paesetti della Costa Azzurra, adagiati su balsamiche colline: Renoir dà gloria e prosperità a Cagnes-sur-Mer, ove ha fissato il suo "atelier"; Matisse e Chagall fan la fortuna di Vence-la-Jolie; Braque, di Villefranche; Léger, di Biot; l'uno non lontano dall'altro i cinque grandi Matisse, Picasso, Braque, Léger, Chagall [cui Aniante nelle sue "Memorie di Francia..." dedica pagine importanti che denotano il suo orrore per l'olocausto perpetrato contro gli Ebrei] han gareggiato a chi dà più universale splendore a piccoli borghi sperduti fra gli ulivi.
Il forno magico di Vallauris è spento.
Anche sotto la pioggia i turisti arrivano per visitare le sale, ove sono state esposte le belle ceramiche di Picasso. Madame Ramiez li accoglie con il suo sorriso e con i suoi occhi tristi. Che donna straordinaria! Fu lei che, quattro lustri or sono, convinse Picasso a lavorare nella sua fabbrica; è lei l'animatrice di sì nobilissima industria; a lei, Vallauris deve il suo benessere. Senza la sua forza di persuasione, Picasso quasi certamente, non avrebbe perseverato tra terra e fuoco.
I turisti si ritrovano sulla piazza del paese, dinnanzi al monumento dell' "Homme au mouton", l'uomo con il piccolo montone in braccio, firmato da Picasso; di là si recheranno ad ammirare l'immenso "Affresco della Pace", anch'esso di Picasso, cittadino onorario di Vallauris. Ignorano che l'idolo, il guerriero, il genio, l'artigiano, l'operaio ha deposto armi e strumenti del mestiere, forse per sempre.
Senza alcuna speranza di poterlo vedere, mi sono inoltrato fin sotto le mura del suo castello di Mougins. Non ho insistito presso il guardiano; e son ritronato sui miei passi, con l'anima oppressa da sinistri presentimenti.
Cammin facendo [scrive ancora, con malinconia in questo suo libro, A. Aniante], rivedo Picasso a torso nudo, in calzonicini da spiaggia, sudato e acceso in viso, dinnanzi al suo forno, che sta cuocendo la terra. Il ricordo non è di ieri ma di un passato che si può dire ormai remoto; e mi vien da pensare che la sua immane fatica di artigiano, di operaio, di manimpasta, è maggiormente ammirevole del fatto che egli, al pari di Matisse, alla fine della seconda guerra mondiale era pittore celeberrimo e miliardario; le sue mani non erano callose, oscure, sciupate.
Non è più, per lui, a Vallauris, sotto il sole, la vita sedentaria di Parigi, direi quasi la sua vita artificiale. Fra le vigne, gli ulivi e i fichi d'India, l'esule ritrova il vero se stesso, ritorna alle sue origini: si ritempra sotto lo stesso limpido cielo della nativa Malaga.
Se fosse rimasto a Parigi, la sua fibra di lottatore si sarebbe logorata anzi tempo, minata come era dalle insidie dell'avverso clima; allora, Picasso, obbedendo all'istinto di conservazione, fuggì dalla nebbia al sole; e pur di riconquistare la sua natura mediterranea, non esitò a liberarsi, a spogliarsi d'ogni ricchezza, d'ogni gloria e di ogni piacere; a ritornare a un'esistenza solare e primitiva: nel mare, a Golfe-Juan; dinnanzi al rustico forno, sulla collina patriarcale di vallauris.
Pur di poter dominare la nostalgia importa in Provenza un pezzo di Spagna; è lo spettacolo della corrida, che trova in lui un impresario modello.
Ho visto Picasso, sulla spiaggia, esibire al sole il suo corpo di gladiatore; ho visto Picasso dinanzi al suo forno ardente, fondersi nel sudore; fuoco del cielo, fuoco della terra; ho visto Picasso al riposo, dopo la fatica d'artigiano, seduto sulla soglia della fabbrica dividersi con i suoi operai il pane bigio, le olive, il vino, le sigarette.
L'umiltà, la semplicità del ceramista Picasso a vallauris sono proverbiali. Non è stato sempre umile e semplice; egli è, invero, di carattere fiero e scontroso; cosciente del suo genio, del suo "role" di caposcuola, della sua audacia, della sua temerità di avanguardista estremo, della sua potenza finanziaria, rifugge dai facili contatti; difficile è la sua scelta nelle frequentazioni e nelle amicizie; è un solitario per volontà.
Il pittore Picasso, a Montparnasse, fa dire dal suo maggiordomo all'illustre critico d'arte Lionello Venturi, che era andato a trovarlo:
- Il maestro dipinge e si scusa di non potervi ricevere -.
Venti anni dopo, l'artigiano Picasso, a Vallauris, lo attenderà, a sua volta, circa un'ora, e invano, scusandolo, nei primi trenta minuti, con indulgenza e pazienza, da certosino. Il Venturi, nel frattempo, era rimasto come invischiato nella vicina collinetta di Vence-la Jolie, nello studio del suo beniamino, del suo pittore preferito, Marc Chagall.
Picasso l'aspettava, non per mostrargli le sue più recenti opere di pittore, ma i suoi piatti, i suoi boccali, le sue anfore, i suoi vasi, le sue giare, il suo forno, che stava acceso; il suo forno che ora è spento.


















Dalle Memorie di Francia potrebbe sembrare questo il caso di Filippo De Pisis di cui Aniante tratta al capitolo Con De Pisis a Montparnasse ma, dopo un inizio che pare preludere a qualche rimbrotto all'antico ed ora fortunato compagno di avventure, la narrazione procede non senza espressioni d'affetto, entro un reticolo di notazioni, più giornalistiche anzi più intimistiche che propriamente biografiche, in cui una sgarbatezza palese od ancora le sfaccettature ambigue di De Pisis non alterano la sostanza di un rapporto amicale, pur se il catanese -evidentemente in relativa sintonia col maestro- qualche frecciata pungente -volontariamente od in linea subliminale- se la lascia sfuggire sulla sua vita irregolare e sulla sua condizione di omosessuale:
CON DE PISIS A MONTPARNASSE (pp.55 - 59)
I critici non hanno ricordato del mio caro, indimenticabile amico e scrittore Comisso, il patetico libro consacrato a De Pisis, edito da Livio Garzanti.
Più di una volta mi ero detto di raccontare a Comisso un episodio della vita parigina dell'illustre pittore ferrarese, con preghiera di innestarlo in una eventuale ristampa.
Nel 1932, a trentadue anni quando mi furono tagliati i ponti e quindi fui costretto a vivere d'espedienti, improvvisai in un umido sotterraneo di Montparnasse, una galleria d'arte, che chiamai: "Juene Europe".
Mi recai da de Pisis, che cominciava allora a godere di un po' di notorietà (non come poeta, quale era il suo sogno, da ragazzo, ma come pittore), e gli proposi una mostra, da me, dei suoi più recenti dipinti.
Fin dal 1914 ero un suo ammiratore, cioè dal tempo in cui avevo in cassetto il suo primo libro di versi: "La città dalle cento campane".
L'accordo fu presto concluso, ma non senza avergli giurato che i miei rapporti con il regime erano eccellenti. Se gli avessi detto la verità, l'affare sarbbe andato in fumo e svanita la speranza di appuntellare le vacillanti finanze con la vendita dei suoi quadri.
Non troppo sicuro delle mie affermazioni, Filippo, mi anticipò tuttavia, le spese; e pochi giorni dopo, radunò le sue tele nella mia galleria.
Mi affrettai a stampare i manifesti e gli inviti che, insieme, diramammo, con in testa ambasciatori e consoli del nostro e dei Paesi alleati.
Ma due ore prima della vernice, de Pisis arrivò in taxi, non certamente solo; staccò le tele dalle pareti e se le portò via.
Io mi ero assentato dalla "Jeune Europe" da un quarto d'ora appena! Senza dubbio, Filippo aveva posto ai due angoli della strada due sentinelle, che lo avrebbero avvertito in caso di mio arrivo.
Era avvenuto questo: comuni amici di Montparnasse, andati a trovarlo con pezze d'appoggio in mano, lo avevano persuaso del pericolo in cui incorreva frequentandomi.
Alla vista delle pareti nude mi sentii venir meno. Gli invitati e i critici affluivano. Raccolte le mie recondite energie, che son propio quelle della disperazione, mi precipitai nei tre più vicini caffè, il "Dome", la "Rotonde", e la "Coupole", e lì con poche parole, ma quanto mai efficaci, persuasi una dozzina di giovani pittori ebrei, freschi arrivati a Montparnasse dai lontani ghetti, a volare nei loro studi, a prendere le loro migliori tele ed a portarmele nella mia galleria subito. Come tanti daini si dispersero ai quattro venti e ritornarono a me immediatamente, senza il minimo ritardo per il semplice fatto che le loro tele le avevano depositate qua e là nello stsso tratto del nostro boulevard.
Il successo fu tale che tutte le opere esposte andarono a ruba, e parecchi clienti comprarono i quadri dei piccoli ebrei, pensando che fossero di de Pisis: non solo ma pure alcuni critici elogiarono de Pisis che aveva saputo così bene illustrare il ghetto di Varsavia.
La sera della vernice raccontai a un collega la mia disavventura, chiusasi, meno male, felicemente per le mie finanze.
- Io al vostro posto, - mi consigliò - mi recherei da un avvocato e chiederei il risarcimento dei danni materiali e morali.
- Sì, - gli risposi - ottima idea, la vostra.
E andai a coricarmi con l'intenzione ferma di intentare un processo al pittore. Ma dopo due ore di sonno agitato, mi svegliai di colpo, in un mare di sudore.
- Che pazzia sarebbe la mia - mormorai, voltandomi dall'altra parte - povero de Pisis, un processo a lui che mi ha tanto aiutato? Giammai!
Mi ero ricordato, improvvisamente, del bene che non mi aveva lesinato: e pranzi, e soldi, e quadri, e vestiti, e cravatte, e bastoncini, e di più: circa un mese dopo il mio arrivo a Parigi, avendo lasciato nei vari alberghi le mie valigie al posto del denaro, mi ero ridotto sul lastrico senza più speranza di salvezza. In una lunga lettera manifestai il mio profondo turbamento a de Pisis, e non mi rimaneva altro santo da supplicare- - Non si sa mai, - pensai - potrebbe compiere il miracolo, non si sa mai.
E infatti, e non senza mio stupore, arrivò di corsa e mi sollevò da terra e mi diede vita.
Una volta, entrò e uscì dal "Dome", con la testa fasciata nel cotone idrofilo e nella garza. Finse di non riconoscermi? O non si accorse della mia presenza? Che gli era capitato?
Come e quanto Jean Cocteau, egli prediligeva i giovani marinai delle navi da guerra dei porti di Tolone e di Brest, belli e volgari ragazzi, che, lautamente pagati, posavano per lui. Uno di essi, dopo avergli tolto il portafogli, gli spezzò una bottiglia in testa. Rimasto solo, in un lago di sangue, il pittore si trscinò fino al balcone e si mise a gridare con quel po' di voce che gli rimaneva:
- "Aìta, Aìta!"
Per sua fortuna passava di lì un suo conoscente; gli abitanti della viuzza erano tutti ciechi e sordi. Pagàno di sentimenti e di costumi, Filippo lavorava e viveva in pieno cuore di Saint-Sulpice, quartiere delle chiese, dei conventi, delle librerie cattoliche e dei negozi d'oggetti sacri, al servizio della gente pia; scendeva in pigiama e andava in giro al braccio di giovani marinai avvinazzati, per cui non era per nulla ben visto, per non dire che veniva additato come una autentica Non si era mai accorto dell'ostilità dei vicini; anzi era certo che dalla portinaia al parroco tutti lo stimavano e ammiravano. Nessuno mi leva dalla testa che i gravi disturbi cerebrali, che lo portarono alla tomba e dei quali parla lungamente ma vagamente Comisso nel suo libro, erano dovuti al tremendo colpo di bottiglia che aveva ricevuto sul cranio.