informatizz. a cura di B. Durante Vedi la DOGANA NUOVA nel 1875

NELL'IMMAGINE SOPRA PROPOSTA SI PUO' VEDERE L'ALBERGO DEGLI IMMIGRANTI DI BUENOS AIRES (CHE CON RIO DE JANEIRO E LA CAPITALE URUGUAGIA DI MONTEVIDEO COSTITUI' UNA META ISTITUZIONALE DELL'EMIGRAZIONE LIGURE ED ITALIANA) NEL 1882


























La storia dell'emigrazione italiana in ARGENTINA dal 1810 al 1870 può essere distinta...in quattro periodi.
Il primo è quello propriamente detto del RIVADAVIA e si svolge in un decennio -dal 1820 al 1830- attraverso l'immigrazione individuale di alcuni esuli intellettuali che cercano rifugio in terra straniera per sottrarsi alla persecuzione della polizia italiana.
Questa specie d'emigrazione non è in grado, pur lasciando notevole traccia di sè, di influire sulla vita culturale argentina, sia perché componendosi di uomini di pura scienza positiva, quali il Carta, il Ferraris, il Mossotti il Pellegrini, ebbe difficoltà a trovare seguito in un ambiente provinciale non ancora preparato ad assorbire i risultati dell'indagine speculativa; sia perché il contegno del De Angelis, che è la figura predominante nel periodo, non fu dignitoso, anzi fu corrotto; sia, sopra tutto, perché l'improvviso mutamento politico interno, sopraggiunto al Plata con la caduta del Rivadavia e la contemporanea ascesa al Governo del tiranno Rosas, interruppe il compito affidato ad alcuni nostri esiliati del 1821 che erano stati invitati a educare liberamente la gioventù del Plata.
Questo nucleo di profughi nostri, per quanto esiguo sia e per quanto posto, dalle circostanze d'ambiente, nell'impossibilità di giovare e, talvolta, d'agire, e, tuttavia, sensibilmente distinto per la spiccata fisionomia delle personalità che lo compongono, per il comportamento caratteristico di coloro che lo mettono in evidenza.
Il Carta costituirà una specie di simbolo della rigidezza del carattere e sarà, anche in tempi recenti, commemorato dalla stampa come esempio 1uminoso dell'intransigenza liberale argentina.
Il Mossotti riscuoterà l'ammirazione dovuta al sapiente che s'è posto al di sopra del caos politico contingente.
Il Ferraris, e qualche volta il Vanni, godranno della stima di tutte le fazioni per il buon senso col quale hanno giudicato e superato la vanita e la tentazione delle passioni partigiane.
Il Pellegrini godrà del massimo prestigio per la disinvoltura con cui s'è reso contemporaneamente estraneo alla vita politica ed indispensabile al progresso del Plata e perverrà, un giorno, ad un rango così alto nella pubblica estimazione che il suo nome d'uomo industre e geniale servirà d'ottimo trampolino al figlio Carlo per ascendere alla suprema magistratura della Repubblica.
Lo stesso De Angelis, per la vivacità dell'ingegno, per la vasta erudizione, e oggi ricordato, nonostante la sua condotta leggera, dalla storia della letteratura argentina.
Chi voglia felicemente rappresentarsi la figura del napoletano De Angelis pensi a Edoardo Scarfoglio ed avrà l'immagine più esatta di una certa, specifica fosforescenza meridionale.
Nessuno di questi esuli, in qualunque modo abbia agito, per poco che abbia lavorato, pensato e fatto parlare di sè, e vissuto in Argentina senza lasciare un nome, una fama duratura.
Il SECONDO PERIODO è quello detto del Rosas, conchiuso tutto nel ventennio della sua dittatura, dal 1830 al 1852 e nel quale, prevalendo il timore dell'invadenza inglese e la xenofobia, l'immigrazione europea è ufficialmente vietata mentre quella ligure è clandestinamente favorita.
E' una specie di privilegio singolare e strano. Singolare, poiché abbandona agli armatori genovesi tutta la marina mercantile del Plata, sventolante bandiera argentina. Strano, direi quasi grottesco, poiché pone i marinai liguri nella giuridica, inverosimile situazione d'essere disertori rispetto al legittimo sovrano, mentre in realtà essi troncano bruscamente un contratto di prestazione d'opera conchiuso col capitano genovese d'Un veliero che inalbera stendardo sabaudo, per rinnovarlo più vantaggioso con un altro capitano genovese che, con equipaggio genovese e nave genovese, solca i rii sudamericani all'ombra del vessillo argentino.
Non c'è tradimento ma vi è l'apparenza del reato.
Il TERZO PERIODO è compreso tra il 1852, anno della caduta del Rosas, ed il 1861, anno dell'unificazione della Repubblica Argentina.
E' pervaso dall'ideale di libertà che consente agli uomini di tutto il mondo d'imbarcarsi in Europa e di scendere in Argentina -sopra tutto di scendere- invitati dalle autorità, acclamati dai giornali e talvolta dalla popolazione argentina.
L' emigrazione italiana di questo periodo è costituita, in primo luogo, da esuli politici del 1848 e del 1849, e questi in parte provengono dall'Uruguay donde hanno seguito il Mitre che fu commilitone loro sugli spalti delle barricate; in parte giungono dall'Italia con biglietto pagato da parenti ed amici che hanno talvolta costituite e consolidate in precedenza cospicue fortune.
I primi, garibaldini romantici, sono in prevalenza lombardi; i secondi, lavoratori parsimoniosi, sono quasi tutti genovesi.
Gli uni accomandano il loro nome alle vicende della guerra civile argentina combattuta fra le città e le province; gli altri impiegano le proprie energie nell'attività dell'industria e del commercio.
L'episodio più saliente, riguardante i primi fra essi, è quello dell'Olivieri che si lancia a spron battuto nel deserto per colonizzarlo e battezzarlo, nel nome di Roma; l'impresa più audace dei secondi e quella dei mercanti che avventurano, per primi, in Argentina i capitali accumulati a Genova in grazia del commercio coi porti del Plata.
E' questo un momento fondamentale, poiché segna gli inizi di un mutamento che sarà citato negli annali della storia economica d'Italia: questo paese si muta, cioè, da paese debitore in paese creditore, da paese esportatore unicamente di uomini a paese esportatore anche di capitali che vanno e vengono.
Questo decennio e d'assestamento nella politica internazionale argentina e nella storia dell' emigrazione italiana al Plata.
L' Argentina collega tutte le forze in federazione e le disciplina mediante una Costituzione che modifica radicalmente l'antica colonia spagnola in potenza civile; la comunità italiana raccoglie i propri elementi in una società di Mutuo Soccorso che si propone la costruzione d'un edificio dedicato alla salute dei connazionali, a qualunque regione d'Italia appartengano, qualunque ideale politico coltivino.
Il buon esito di questa iniziativa e affidato al cuore di tutti gli immigrati: essa mira ad elevare una specie di tempio votivo a commemorazione della sofferenza della patria divisa, aperto a conforto dei suoi figli più umili e randagi.
Quando il nostro nucleo sociale avoca a sè la pretesa di fondare un ospedale italiano in Buenos Aires, si confronta, anticipando la nostra Indipendenza, con quello di Francia e d'Inghilterra che da vari decenni v'hanno il loro; si eleva al loro rango e si presenta al pubblico argentino, quando l'unità della Penisola e ancora un progetto, come colonia e non come collettività italiana.
Il QUARTO PERIODO che va dal 1861 al 1870, dalla battaglia di Pavon laggiù, alla presa di Roma qui è quello vero e proprio dell'immigrazione arruolata che se supera, come fenomeno numerico, il emigrazione volontaria e spontanea, dà risultati di fortune indindividuali meno rapide e meno considerevoli che non siano quelle costituite dagl'immigranti volontari che, contemporaneamente agli arruolati, continUano a sbarcare in Argentina.
L'immigrazione arruolata (composta in massima parte da contadini piemontesi, lombardi, liguri della Riviera di Ponente, ed in minima parte anche da veneti, ingaggiati o dagli agenti degli armatori genovesi che hanno creato, a tale scopo, compagnie di navigazione, o dagli emissari degli impresari svizzeri sparsi un po' dappertutto in Europa) si diffonde nella provincia di Buenos Aires ed in altre della Federazione.
L'immigrazione volontaria continua a stabilirsi nelle città (a Buenos Aires ed a Rosario sopratutto ed è specialmente composta da Liguri e da Lombardi.
Gli immigrati arruolati si dedicano particolarmente all'agricoltura; quelli volontari non più soltanto al commercio ma pure all'industria ed alla grande impresa da quando sono giunti al Plata anche i Lombardi, sbarcati tutti in Argentina con molta buona volontà ma con ben pochi fondi disponibili, come si può giudicare dagli esempi addotti.
Queste sono le diverse fasi che si possono distinguere nell'emigrazione italiana in Argentina dal principio del secolo al 1870.
Qual è la situazione della nostra emigrazione e qUali novità si profilano intorno a quest'anno veramente storico?
Il censimento del 1869 registra in tutta la Repubblica 158.133 stranieri così suddivisi: 71.442 Italiani; 24.080 Spagnoli; 32.383 Francesi; 10.709 Inglesi; 5.860 Svizzeri; 4.997 Tedeschi; 1.966 Portoghesi; 836 Austriaci e 5860 appartenenti a diverse nazionalità.
Il sessanta per cento degli immigrati era quindi composto da Italiani quivi attratti dall'analogia dei costumi, della lingua, del clima.
Una metà, quarantamila circa, risiedeva a Buenos Aires; mentre l' altra metà in provincia. Occupati, in special modo, nella navigazione dei fiumi, nell' orticoltura, nella vendita dei legumi, nel .`mestiere del muratore, erano, per natura, sobri facevano grandi economie che spedivano in gran parte al paese.
Le somme trasmesse in Italia a mezzo del Consolato o delle Banche ascendevano annualmente a cinque o sei milioni di franchi oro.
I nostri emigranti -ben disse alcuni anni dopo Enrico Barone- sono giunti al Plata come dominati in mezzo ad un popolo dominatore e sono diventati dominatori alla loro volta.
Nel mondo economico il dominatore e quello che nel meccanismo della produzione compie le funzioni direttive e fornisce gli artigiani abili, i mercanti ardimentosi, i piantatori, i capitani dell'industria.
Il dominato e colui che fornisce i gregari dell'esercito industriale: i contadini, i manovali, gl'impiegati d'ordine, gli sterratori, i braccianti.
Frequente sarà, d'ora innanzi, fra i nostri emigrati al Plata, il tipo del colono, che diventa signore di migliaia e migliaia di ettari da lui conquistati nel deserto attraverso lunghe e terribili lotte.
La parabola compiuta da qualcuno di questi uomini cl appare miracolosa quando cl soffermiamo ad osservare la vita di un dato emigrante che parte, nel 1875, da Lotti (prov. di Alessandria) con undici lire, s'occupa a Buenos Aires come mugnaio appena arriva, per non morir di fame, e diventa vent'anni dopo signore d'Oiavarria: Giuseppe Guazzone Rey del trigo per acclamazione del popolo argentino, conte di Passalacqua per volere del Re d'Italia.
Gli Americani più competenti in materia d'agricoltura constatavano che ottimi risultati, al Plata, erano dati soltanto da emigranti Italiani.
Il Wilken, dichiarava nel 1872 che nessun colono superava ed eguagliava il Lombardo ed il Piemontese: L'immigrazione italiana che s'incontra nelle colonie appartiene quasi esclusivamente alla Lombardia.
Questa sola circostanza basterebbe a raccomandarla, se oltracciò non avessimo l'esempio della sua attitudine speciale per l'agricoltura nelle colonie.
Il Lombardo, come il Piemontese, e instancabile al lavoro, e di eccellenti costumi e di una sobrietà proverbiale.
Dal primo giorno in cui s'impiantano, gli Italiani vanno al positivo e tendono ad allargare la loro proprietà territoriale.
Nessun altro colono supera od uguaglia l'Italiano per la sua attività nel trarre i risultati più positivi dall'agricoltura ~.
L'Escalera, direttore dell'Ufficio argentino dell'Immigrazione, giudicando l'agricoltura come ramo principale della produzione, affermava che in esso "si distinguevano, anzitutto, gli Italiani del Nord per intelligenza e per attività. Può quindi ritenersi per cosa certa che i Piemontesi sono, fra tutti gli immigranti, i lavoratori più esperti ed infaticabili,. Il console inglese Mac Donald, dimostrando nel 1873 che le regioni del Plata non offrivano campo adatto all'emigrazione: "Questi paesi posseggono certamente, per gli emigrati Italiani, attrazioni che pochi Inglesi o Tedeschi della stessa classe potrebbero apprezzare: clima, modo di vivere, costumi, religione ed altre affinità ed analogie combinano e dirigono la corrente di quest'emigrazione verso tali contrade, e nessun opposto ideale sembra divergerla; il loro interesse, inoltre, non può che attrarre altri che essi sono sobri, frugali forti lavoratori (hard labourers), economi, parsimoniosi e in conseguenza dediti al risparmio. In un numero d' anni relativamente limitato hanno acquistato il monopolio delle costruzioni e del cabotaggio fluviale, che in grandi proporzioni erano un giorno in mano degli Inglesi, e sono i primi nell'approvvigionamento dei vegetali e dei frutti sui mercati".
La gloria d'avere esplorato i lunghi rii della regione platense e d averne, in parte, popolate le sponde, spetta quasi esclusivamente agli Italiani.
L' americano Mulhall, redattore dello Standard, onestamente lo riconosceva prima del 1870: "I taglialegna, lungo i rii fanno il commercio con Buenos Aires in modo che si può dire essere tutto il traffico dei rii un monopolio italiano! Sono ben mutati i tempi da vent'anni a questa parte, quando nel viaggio da Buenos Aires al Paraguay s'impiegavano sei mesi: furono gli Italiani che, per primi, introdussero un progresso con un ciclo di due o tre viaggi all'anno, al quali tennero dietro i vapori che ridussero il viaggio ad alcuni giorni :~. In una conferenza tenuta, nel 1873, alla Società di Sanct Patrick in Buenos Aires, per la protezione della emigrazione irlandese, il Wilken così giudicava i nostri connazionali in America: "Nel 1856 l' emigrazione totale nella Repubblica fu di quattromila individui, e nel 1873 oltrepasso i quarantamila. Fra tutte le razze predomina la latina. Esaminando infatti il quinquennio 1868?73, troviamo che il 56 % è dato da Italiani; il 17 °/O da Francesi; pure ?il 17 °/O da Spagnoli; il 3 3/4 % da Inglesi; il 2 % da Svizzeri; l'1 % da Tedeschi e il 3 % da altre nazionalità In tot al e, quindi, vi e il novanta per cento di Latini e il dieci per cento di Anglo?sassoni. E vi ha questo di notevole, che le Società inglesi per l'emigrazione, con capitali inglesi, con direttori cd azionisti londinesi, prendono coloni Italiani ~ 7. L'emigrazione meridionale s'accentua intorno al 1870, dieci anni dopo che quella dell'Italia del Nord ha assunto ormai forma di fenomeno di massa temporaneo e transatlantico ~ difficile stabilire con esattezza quando questa abbia inizio, ma lo studio di quest'esodo ha scarsa importanza nell'esame critico dell'emigrazione italiana al Plata, massimamente nel nostro sessantennio, poiché è noto che i primi nuclei d'emigranti del Mezzogiorno hanno preferito sempre il Brasile e gli Stati Uniti all'Argentina che, d'altronde, desiderava soltanto contadini del Settentrione.
Il Brasile era più conoSCiUto nell'Italia Meridionale da quando la zia del decaduto sovrano borbonico n'era diventata imperatrice e gli Stati Uniti vi godevano maggior credito per le mirabolanti promesse, e gli scarsi scrupoli degli agenti zelanti che la Repubblica stellata aveva dispersi nelle regioni meridionali italiane a raccogliere "vittime senza fine".
Ben avrà ragione il Volpe di scrivere, un giorno, alludendo a costoro, che l'emigrazione "significa selezione feroce. La storia non conosce esodo così atto. Il loro trasporto sostituisce per le compagnie di navigazione il trasporto degli schiavi negri".
Ad eccezione del Veneto, dove il fenomeno emigratorio assume qualche analogia con l'emigrazione meridionale-scrive il Franceschini- il paese preferito dall'Alta Italia fu la Repubblica Argentina mentre gli Italiani del Mezzogiorno e dell'Italia centrale preferivano il Brasile.
Qual è l'indice dell'emigrazione italiana dopo il 1866?
L'emigrazione propria o transatlantica s'accresce in Liguria e nell'alto Piemonte, s'estende alle zone montagnose della Lombardia, e poco dopo alle pianure padane mentre s'accinge ad affermarsi nel Veneto.
L'emigrazione temporanea s'eleva straordinariamente in parecchie province dell'Alta Italia e giù giù sino alla Sicilia, con importanza decrescente ma con differenze ed intervalli difficili a precisarsi.
I dati del Carpi non separano gli emigranti temporanei dai permanenti e se ci si limita a riferire -sull'esempio del Coletti- le cifre del 1869 per conoscere la distribuzione territoriale nelle colonie, si constata che mentre l'emigrazione dell'Italia Settentrionale corrisponde in cifre effettive a 96.735 unità, e cioè all' 11,1 per mille, quella dell'Italia Centrale corrisponde a 25.527 abitanti e cioè al 4,8 per mille; quella dell'Italia Meridionale a 20.609 unità e cioè al 2,2 per mille; quella della Sardegna a 230 e cioè al 0,4 per mille.
Il maggior numero d'emigranti è dato, intorno a quest'anno, dai campagnoli.
Seguono gli operai urbani, i piccoli commercianti, gl'industriali.
Caratteristica dell'emigrazione di masse, nella prima fase di sviluppo, è la grandissima prevalenza dei maschi e degli adulti di fronte alle donne che rappresentano il dodici per cento nel complesso dell'emigrazione regolare.
Ma se si scevera l'emigrazione transatlantica dalla temporanea, si ricava che dei 25.572 emigranti dell'Italia media, non più di millecinquecento circa possono ritenersi propri o transatlantici.
Essi appartengono, in massima, alle province di Massa Carrara e di Lucca, la cui emigrazione fu sempre conosciuta per il suo carattere locale.
Altrettanto può dirsi dei Meridionali.
Perché essi si muovono soltanto nel quinquennio 1865?1870?
Cause endemiche trattengono il Meridionale alla propria terra.
Se la vita sociale, difatti, versava in una condizione che, sotto molti aspetti, poteva chiamarsi medievale; se il Governo creava l'ambiente e n'era un fattore volontario se, per istinto di conservazione, esso temeva e cercava di soffocare ogni germe di vita nuova, correva tuttavia la leggenda, in quei tempi, da tutti ripetuta come vangelo, che quelle terre fossero, per doni naturali, un paradiso terrestre.
I Borboni, che temevano la statistica e le notizie precise, contribuivano indirettamente alla formazione della leggenda.
L'agricoltura era primitiva, sfruttata, e sottratta ad ogni attività di coltura per la ristrettezza dei mercati locali; ma la malaria infieriva nelle valli e nelle pianure costringendo i contadini a vivere accentrati e ostacolando in più modi il lavoro dei campi.
Le industrie erano rudimentali e povere.
Solo la capitale poteva considerarsi come un centro industriale e commerciale importante.
Il Governo, concentrandovi ogni sforzo, l'aveva favorito sia col protezionismo doganale che giungeva sino al punto d'essere proibitivo per certi prodotti sia con altre larghezze.
Parecchie delle industrie erano, per ciò, poco progredite e quasi inesistenti.
Molti degli imprenditori erano forestieri, come importati dall'estero erano i capitali.
Quelli indigeni erano timidi e si nascondevano.
Che, del resto, il centro di Napoli non avesse vita lità propria, è dimostrato da quanto accadde, dopo il 1860.
E cioè, tutte le sue fabbriche, poche eccettuate, l'una dopo l'altra, fallirono.
Quantunque esistessero, in Argentina e nel Mezzogiorno, due mercati nei quali il lavoro era diversamente compensato; quantunque l'appagamento dei bisogni e delle aspirazioni dei lavoratori fosse ben diversamente che in Italia favorito, la popolazione, tuttavia, viveva in uno stato così primitivo da non poter avere la coscienza dei vantaggi che avrebbe potuto procurarsi salendo dal mercato inferiore a quello superiore.
L'isolamento nel quale essa viveva, le impediva di comunicare col porto principale dal quale, inoltre, era impossibile prendere contatto col mercato superiore, per l'assoluta mancanza di mezzi di trasporto economicamente, tecnicamente adeguati allo scopo.
Di architetti ve n'era qualcuno; d'ingegneri pochissimi, e quasi nessuno di questi cercava di applicare i precetti della scienza ai bisogni della vita moderna.
In quest'isolamento le industrie, l'agricoltura, gli usi e le abitudini rimanevano immutati per lunghi decenni, ed anche il prezzo delle merci restava invariato; cambiava solo, in anni di carestie e di grande abbondanza, quello del grano e del vino.
Ma quando il vino era caro non si beveva, quando il grano mancava, il Governo ed i proprietari locali cercavano di provvedere come potevano o facendone importare od aumentando la beneficenza ed i lavori.
Di banche nessuna idea, eccettuati i Banchi di Napoli e di Sicilia che erano banchi allora di soli depositi infruttiferi.
Sicché nessuno, specialmente nelle province, era incitato a depositarvi il proprio denaro accumulato con economie mentre in ogni famiglia anche di contadini v'era il piccolo nascondiglio ove quel denaro si conservava.
Esso ne usciva solo in caso di straordinarie sventure o di acquisto di terre, raramente di case.
La nobiltà era assenteista ed oziosa.
La vita della metropoli e della Corte era il suo sogno.
Un ceto medio lavoratore ed agiato sul tipo di quello che costituiva la solidità dell'organismo settentrionale non esisteva.
Fra chi lavorava e chi godeva s'apriva un abisso.
Quale fosse la condizione dei contadini è facile immaginare.
Sottomessi con rispetto feudale al padrone ed ai galantuomini, vivevano in miseria, con un tenore di vita bassissimo.
Fatalisti per tra dizione, non allietati dalla probabilità di mutare sorte, essi accumulavano in silenzio la loro sofferenza.
Moti selvaggi di rivolta, in momenti di carestia, non mancavano, ma presto s'estinguevano e la gente tornava ad essere più scoraggiata e più depressa di prima.
Il contrasto dunque fra la collettività meridionale e la settentrionale, era singolare e caratteristica.
La collettività settentrionale pur avendo nel proprio seno, sotto forma di capitali e di preparazione personale, le forze atte al suo sviluppo, soffriva per la compressione di esso, nella collettività settentrionale le classi abbienti impersonavano più acutamente e coscientemente il dolore di tutto l'organismo.
In quella meridionale è la popolazione lavoratrice che si trova in contrasto con i mezzi di sussistenza e non scopre le vie per cui espandere la forza di lavoro.
La popolazione tende ad accrescersi mentre l'economia resta stagnante per povertà di capitali di capacità, di energia, per colpa del Governo e delle classi che più gli erano apparentemente affezionate.
E' il popolo delle larghe campagne quello che più risente e personifica il tragico contrasto.
Ed è sofferenza che si addensa cd inacerbisce da lunghissimi anni.
Ma tra le sofferenze del Nord e quelle del Sud c'era un'altra differenza.
Poiché la classe più colpita, nel Settentrione, era quella benestante, essa ne era anche più consapevole e ne ravvisava i rimedi.
Invece, per lo stato mentale delle classi che erano più vivamente colpite nel Mezzogiorno, il dolore s'esauriva in se stesso mentre i mezzi di sollievo non potevano essere che vaghi ed oscillanti.
Gl'intellettuali politici del Mezzogiorno non dissociavano l'ideale del Risorgimento politico meridionale da quello economico e non pensavano in modo particolare all' emigrazione.
Data l'illusione della grande feracità di quelle nostre terre, si credeva che queste, quando fossero state migliorate le culture, avrebbero potuto bastare ai loro figli.
Parlando a Napoli, nel R. Istituto d'Incoraggiamento, il 30 maggio 1862, il ravennate Gioacchino Pepli così s'esprimeva riferendosi, con enfasi, alle disgraziate condizioni del Mezzogiorno: Vi mancava quel benefico alito che sviluppando e rafforzando il principio di associazione, crea il capitale, anima la concorrenza, raddoppia l'agricoltura, spiana l'industria, apre i mercati al commercio e, quasi scintilla elettrica, scuote la sovrana intelligenza del popolo.
Avvenuta l'unificazione italiana intesa nella storia come mezzo come istrumento col quale si sarebbero potute conseguire le soddisfazioni da tanto tempo attese, nella forma che il nuovo ordine di cose avrebbe dimostrato possibile e più conveniente, il popolo veniva ad essere, col nuovo Regno, padrone di se stesso e non era più concepibile un Governo il quale si fosse opposto sistematica mente allo sviluppo delle energie produttive ed ai bisogni di cui tura.
Le economie dei vecchi Stati nei quali era divisa l'Italia formavano equilibri instabili, determinati sia dalla mancanza di concorrenza esteriore alle produzioni locali, sia dalla scarsa e persino nessuna mobilità dei capitali e del lavoro.
L'abolizione improvvisa delle dogane fra Stato e Stato, e la libertà di movimento acquistata dagli uomini e dai capitali determinarono necessariamente una perturbazione vivissima in ogni funzione economica, tanto che, qua e là, s'intiepidì per un poco la fede nei benefici promessi.
Le economie maggiormente protette e meno solide accusarono il colpo più improvviso e violento.
Fra queste, in prima linea, quelle dell'antico Regno delle Due Sicilie.
A mala pena la scarsità estrema della viabilità, che rendeva ogni penetrazione lenta e difficile, e la tenacità di certi costumi, poterono attutire tale scossa economicamente rivoluzionaria.
Nel Mezzogiorno le vecchie industrie locali, ed anche la maggior parte delle altre che avevano forme più moderne e grandiose, non poterono resistere alla concorrenza, insieme combinata, dei prodotti settentrionali d'Italia e di quelli esteri.
La scomparsa di tante piccole imprese anche familiari, intorno a cui si erano formate strette ramificazioni d'interessi, si ripercosse in tante piccole crisi dolorose, l'effetto delle quali fu un senso di malessere per tutta la compagine della popolazione ma specialmente per quella più minuta e, al solito, più aspramente colpita.
Altro colpo non meno rude ed improvviso, come è noto, fu l'estensione alle nuove province, fatta, senza tatto alcuno, del gravoso e rigido sistema fiscale piemontese.
Esso non solo contrastava con i blandi criteri tributari del Governo borbonico che, per non creare malcontento, stuzzicava il meno possibile i contribuenti, ma neppure si adattava alla struttura ed alle forme economiche del Mezzogiorno, producendo perciò sperequazioni ed ingiustizie sostanziali nonostante la legalità formale.
La decadenza industriale fu, così, per due cause, accelerata.
Quanto all'agricoltura, essendo essa divenuta sempre più bisognosa di vendere una parte dei propri prodotti fuori della zona per comperare manufatti, si trovò vivamente esposta alle vicende del mercato interno ed esterno e quindi colpita da frequenti crisi e messa nella necessita di trasformare le proprie culture con ingenti perdite e spese per una agricoltura nella quale avevano così alta e naturale importanza le colture arboree.
A scambiare le merci che venivano di fuori ed a pagare nuovi e svariati tributi, i prodotti agrari si resero presto insufficienti.
I Meridionali dovettero porre mano ai risparmi che erano andati accumulando nella forma non fruttifera della moneta.
messa nella necessità di trasformare le proprie culture con ingenti perdite e spese per una agricoltura nella quale avevano così alta e naturale importanza le colture arboree. A scambiare le merci che venivano di fuori ed a pagare nuovi e svariati tributi, i prodotti agrari si resero presto insufficienti.
I Meridionali dovettero porre mano ai risparmi che erano andati accumulando nella forma non fruttifera della moneta. A quest'esaurimento contribuì non meno fortemente un altro fatto ben noto, e cioè la vendita all'asta affrettata e tumultuaria dei beni incamerati della Chiesa e degli antichi demani.
I Meridionali che diffidavano della rendita pubblica, alla quale non erano abituati e che perciò non comperavano, si dettero con foga all'acquisto ed alla speculazione dei beni fondiari messi all'incanto, investendovi i loro magri capitali.
Si è calcolato che oltre seicento milioni di lire passassero allo Stato come saldo degli acquisti fondiari del Mezzogiorno.
Dall'insieme di queste condizioni di cose derivarono, nella vita meridionale, alcune gravissime conseguenze.
E cioè : squilibrio del sistema economico meridionale; turbamento ed agitazione morale; depauperamento della scorta monetaria e di gran parte del capitale posseduto; svilimento della proprietà fondiaria e dell'agricoltura per la quantità di terre poste ad un tratto su1 mercato e per essere capitali molto più attratti verso la speculazione sulla compera delle terre che non dai lenti e diflicili investimenti nelle migliorie rurali.
Questi fenomeni immettevano direttamente, alla lor volta nel complessivo peggioramento oggettivo e soggettivo delle condizioni del popolo lavoratore tanto fra gli artigiani che fra i campagnoli.
Ma come e dove si distribuivano, frattanto, i capitali che lo Stato assorbiva ed in particolare quelli di provenienza meridionale?
Un primo fatto che tornò tutto a vantaggio del Settentrione fa la sua vittoriosa concorrenza alle industrie meridionali.
Il Mezzogiorno, per l'allargamento del mercato, divenne quasi subito la grande colonia di sfruttamento del Nord; le ditte assuntrici di pubbliche imprese erano in grande maggioranza settentrionali, data la deficienza di capitali e di spirito d'intrapresa della borghesia meridionale.
Erano settentrionali, inoltre, le Società liquidatrici dei beni ecclesiastici, le Società che ottennero la regia dei tabacchi, quelle che esercitavano il credito in condizioni di privilegio, e le fabbriche sovvenzionate.
L'Italia meridionale, inoltre, aveva un solo piccolo contingente di debito pubblico. Le finanze borboniche erano parsimoniose ed amministrate meno peggio di quanto l'odio per quel Governo non abbia fatto credere.
Il Mezzogiorno, nella serie decrescente delle quote di debito pubblico dei vecchi Stati, veniva per ultimo a distanza non piccola dagli altri.
Quando lo Stato Italiano si propose di unificare anche il debito pubblico, i Meridionali furono caricati di un peso nuovo, e che a molti sembrò non solo molto grosso ma anche ingiusto.
Essi, per di più, come ho già notato, non compravano rendita pubblica.
I frutti di questa, che erano molto elevati in proporzione del prezzo di acquisto dei titoli, venivano sborsati nelle regioni ove la rendita era largamente posseduta (Liguria, Lombardia, Piemonte e Veneto) e contribuivano allo spostamento territoriale di ricchezza.
Per questo, all'impoverimento ed alla depressione osservati nelle province Meridionali, fanno vivace e concorde riscontro nel Settentrione fenomeni di opposto significato e valore: drenaggio di capitali verso il Nord per opera dello Stato o per il meccanismo automatico di quella situazione economica; esecuzione di lavori che arricchiscono le classi più operose e che nel tempo stesso favoriscono lo sviluppo industriale; accrescimento effettivo di questo per l'aumentata domanda dei suoi prodotti; preparazione intellettuale e psicologica ad una vita sempre più intensa e moderna.
"Tutto s'è modificato, se non mutato -scriveva Giustino Fortunato- tutto si è composto e ricomposto davanti a noi; ma l'antinomia persiste e la grande geniale opera d'arte pecca di fragilità. Vi sono ancora due Italie, per quanto suoni male la parola, che risuscita all'orecchio l'eco delle canzoni francesi alla calata di Carlo VIII: nos conquérons les Italies, due Italie. non solo economicamente disuguali, ma moralmente diverse: questo il vero ostacolo alla formazione di una sicura compagine; di ciò dovremmo tutti finalmente convincerci, e dal convincimento trarre animosa volontà a comporre in armonia le due parti disgiunte, rafforzando su le ripe del baratro, che Roma pontificia fece più profondo, il ponte fra l'una e l'altra che nulla possa più nè sovvertire nè scuotere".
Ma nella distribuzione delle spese fra le due zone, un'eccezione fn stabilita a favore del Mezzogiorno, e cioè le gran di somme che, senza indugio, vi si spesero per sviluppare la viabilità che era quasi inesistente.
Se mi sono così a lungo intrattenuto sulle condizioni dell'Italia d'allora gli è che se non si torna col pensiero ad esse, non si può farsi la più lontana idea del modo con cui avvenne la evoluzione da un paese non migratrio ad un paese emigrante.
Se ci si fissa bene su questi fenomeni, si comprende come crescendo nel campo industriale ed anche nel campo agricolo l'attività produttrice del Nord, la classe lavoratrice trovasse impiego di braccia e, conseguentemente, rimunerazioni più elevate; come sviluppandosi e trasformandosi la marina mercantile italiana, questa e le flotte di commercio estere si volgessero al trasporto degli emigranti transoceanici. I noli si riducono mentre le Compagnie intensificano le arti degli allettamenti e della propaganda. Questo fatto deve essere collegato con la viabilità di terra che lo Stato sviluppa anche nel Mezzogiorno. Se si coordinano questi fenomeni, si comprende come, intorno al 1870, la vita italiana, collegata con quella internazionale in genere, e con quella argentina in ispecie, abbia preparato la sostituzione dell'emigrazione delle masse a quella dell'emigrazione sporadica che è propria e caratteristica del sessantennio che precede l'altra.
La novità che si profila intorno al 1870 e dunque l'emigrazione della massa.
Intorno a quest'anno le correnti migratorie dell'Italia settentrionale lasciano già facilmente presagire quello che dovrà avvenire dopo la costituzione del nuovo Regno: esse furono le prime ad avere incremento ed a prendere il rilievo e le forme di un fenomeno sociale considerevole. In generale l' ambiente settentrionale era più preparato; quello industriale reagiva psicologicamente anche sulle campagne; la popolazione era meno analfabeta più socievole, meno restia, meno timorosa delle novità.
Gli avvenimenti della rivoluzione nazionale e l'assetto che si stava preparando in tanti rami non potevano non scuotere e gettare un fermento negli spiriti, specialmente presso quei ceti che più dovevano sentire il bisogno di migliorare la propria sorte. L'emigrazione dalle montagne e dalle valli dei confini era, in più luoghi, tradizionale. Alle consuetudinarie offerte di lavoro ben presto se n'aggiangevano altre.
Grandi lavori pubblici si compivano nei principali Stati esteri vicini: ferrovie, strade, ponti, rinnovazioni edilizie delle grandi città.
L'operaio italiano era già conosciuto e molto apprezzato dagli stranieri; la chiamata era accolta dai nostri con fervore; le partenze si moltiplicavano in tutti i luoghi delle Alpi e da altre zone del Settentrione. Ma le occasioni non mancavano neppure per gli esodi verso le lontane regioni americane. V'erano campagne in cui la classe lavoratrice versava in condizioni molto misere, per bassezza di salari e per durezza di contratti agricoli. La pellagra vi teneva un posto non molto più basso di quello che nell'altro estremo d'Italia teneva la malaria. La questione sociale di certe terre del basso Veneto così era esplicitamente chiamata faceva riscontro a quella della bassa Lombardia; entrambe dolorose e preoccupanti. Ciò che più le inacerbiva, nell'opinione pubblica, era l' antitesi non infrequente fra la tristezza squallida del lavoratore e l'alto rendimento di gran parte dei fondi a cui esso dava le forze e la vita. Esempio: la plaga delle marcite lombarde, modello al mondo per l'intensità colturale, vantata da illustri agronomi ed economisti d'ogni paese era nel tempo stesso, ricetto di una massa di contadini tenuti al salario della fame. La deplorazione del triste fenomeno è comune agli scrittori conservatori ed ai democratici, a Gino Capponi e Stefano Jacini come a Carlo Cattaneo. A1 sole della libertà, queste masse di contadini più non indugiarono. L'idea di andare in America non era nuova. Essa ormai si riaffermava come più facile e pratica e, dato l'ambiente, non incuteva tanto spavento come nel Mezzogiorno. Le Compagnie di navigazione, specialmente quelle estere, sguinzagliavano già i loro agenti. Genova aveva reso regolari ed accresciute le sue linee di navigazione transatlantiche. Ma oltre che quello di Genova non erano lontani i porti francesi.
"Quando il Mezzogiorno fu libero -scrisse il Coletti- aveva le membra intorpidite. Si levò, tese gli occhi e gli orecchi attorno, cercando, ma non trovò subito, e non poteva, la via che più tardi si mise a percorrere e a ripercorrere con tanta foga".
Il crolio dei regime passato ed il sorgere del nuovo doveva pur produrre una reazione immediata. I primi effetti della riunione alle altre province non apparvero quali erano stati pronosticati. Il beneficio della libertà e dell'unificazione non era tale da potere essere apprezzato per se stesso dalla grande maggioranza di quegli abitanti ed in particolare dai contadini più rozzi per i quali questo bene ideale appariva improvviso e poco comprensibile. Anzi, gli effetti più tangibili erano sfavorevoli e si traducevano nella rovina di una quantità di piccoli equilibri statici stagnanti sull'accidentata superficie del paese, rovina che colpiva proprio nell'interesse individuale, che, data la condizione del popolo, era quanto mai sensibile.
E la reazione fu una rivolta.
L'irrequietudine e l'ansia della rivoluzione politica e l'istigazione dei partigiani numerosi dei poteri spodestati dettero a questa rivolta un tono bellicoso ed aspro: il brigantaggio. Il brigantaggio era nelle tradizioni meridionali ed annoverava eroi leggendari che ispiravano nelle folle più che orrore ammirazione.
Ma se fu praticamente possibile e se potè allargarsi e resistere, ciò si deve particolarmente all'esistenza di monti e di vallate prive di comunicazioni stradali, e deserte di abitanti, che, per la difesa contro i propri simili e la malaria, s'erano da secoli, raccolti in grossi centri arbani ed in borgate.
Quando la nota Commissione d'Inchiesta del 1863 si recò sui luoghi ad osservare ed interrogare, vide subito il nesso fra la mancanza di strade ed il brigantaggio, e le fu facile suggerire di togliere radicalmente al nemico quella che era la sua base indispensabile.
Se il Governo non lesinò somme per aprire strade nel Mezzogiorno, ciò non si deve dunque solo alla fretta di riparare ad un secolare isolamento che ostacolava il passaggio e la diffusione dell'idea nazionale di ogni forma di civiltà, ma anche al bisogno, più vivamente concreto ed urgente, di sopprimere una delle più dolorose vergogne dell'era nuova e che tanto screditava all'estero la rivoluzione ed il nome italiano.
Se molte circostanze che alimentavano il brigantaggio erano quelle che impedivano il sorgere dell'emigrazione, la più o meno rapida scomparsa di esse doveva naturalmente preparare l'ambiente e le altre condizioni necessarie all'affermarsi del fenomeno.
E così di fatto avvenne.
La viabilità si venne estendendo.
Anche nelle ferrovie si abbondò: quantunque si prevedessero improduttive.
Il servizio militare, per quanto fosse accolto con riluttanza e seguito da numerose renitenze, funzionava come un'ampia scuola di idee e di sistemi nuovi per tante anime ignare o timide. La prontezza dell'ingegno meridionale ne trasse subito grande profitto.
Ogni soldato, tornato fra i suoi, diveniva un propagandista di quello che il mondo da lui visto gli aveva appreso.
I contatti fra le due civiltà, nominalmente fuse in un solo tutto, non erano facili per le lontananze, le mancanze di comunicazioni sicure e rapide, per la resistenza pugnace e fattiva di uomini e d'istituti, ma un po' per volta gli effetti del contatto attraverso le mille vie capillari della vita si fecero sentire. La gente più arretrata cominciava a compenetrarsi della civiltà superiore e ad assimilarne i più semplici elementi psicologici; fra questi il primo era quello che confinava coll' istinto, col desiderio ben risoluto di stare meglio, e di di uscire dallo stato in cui queste popolazioni erano giaciute sino ad allora.
Ma che poteva fare, che poteva ottenere di concreto in patria tutta questa massa, tutto questo contadiname che si stava scuotendo? Nulla. L'impotenza umana dinanzi a certe situazioni storiche, formate e consolidate nei secoli si palesa qui in tutta la sua evidenza. I contadini erano poveri. La miseria, la denutrizione, la malaria, avevano lasciato loro ben poca forza per il lavoro. Rozzi ed analfabeti, erano abituati a servire, non a dirigere nè a prendere iniziative economiche. Solamente le classi dirigenti avrebbero potuto trascinarli in un risorgimento economico e sociale. Ma esse non comprendevano quegli alti ceti borghesi così benemeriti del Settentrione. Erano state sempre relativamente povere di capitali, ma erano anche più povere di spirito d'intrapresa. Tolta, dunque, la speranza, che nel Settentrione stava diventando, invece, felice realtà, di trovare progressivo adattamento in patria, che cosa restava ai contadini meridionali? Ecco quanto, con schietta semplicita, ci risponde il senatore Eugenio Faina nella Relazione finale dell'Inchiesta sui contadini meridionali: "Nel moto generale di tutte le classi sociali (egli allude appunto ai primi tempi) per la conquista di un miglioramento economico, al contadino non si presentavano che tre vie: o rassegnarsi alla sua miseria, o ribellarsi, o emigrare ".
Rassegnarsi ormai non era più possibile. L'insofferenza del proprio stato si traduceva in un impulso che era diametralmente l'antitesi dell'inerte rassegnazione di prima.
A ribellarsi, i più facinorosi s'erano provati, ma con risultati disastrosi per sè, per i loro, per le loro terre. Calmatisi gli animi e mutandosi, un po' alla volta, l'ambiente, la lotta si rendeva inutile od impossibile. Neppure i tentativi posteriori di organizzazione proletaria e di lotta sociale potevano dare esito felice. Anzi, le repressioni sanguinose, a cui i Fasci dei contadini siciliani un giorno daranno occasione, svilupparono psicologicamente la grande emigrazione nell'isola, che sino ad allora aveva saputo resistere.
Non rimaneva dunque che la terza via: l'emigrazione.
E l'emigrazione, intornc, al 1870, si iniziò.
Oltre al mutamento degli animi e dell'ambiente, s'erano preparati i mezzi esteriori, cioè le facili, frequenti, poco costose linee transatlantiche, anche dai porti meridionali. L'emigrazione che così si manifesta e che in un primo e breve periodo di avviamento si mantiene entro limiti relativamente modesti, ben presto diviene rapida, tumultuosa, incalzante.
L'esodo meridionale transoceanico si afferma, in breve, per il più grande fatto della vita nazionale.
Esso scaccia quasi di primo acchito il brigantaggio che, anzi, per il turbamento prodotto fra le popolazioni campagnole, ne diviene un coefficiente.
Alla forma patologica di dare sfogo alla sofferenza in patria si sostituisce la forma fisiologica. Avviatesi le correnti, esse mettono in valore, per così dire, tutti gli elementi idonei che esistevano nel paese e che prima erano rimasti latenti e quindi inutili perché mancavano gli altri coefficienti necessari a dar vita al fenomeno.
"L'emigrazione legale (cioè di persone munite di passaporto) da sessantotto province italiane, esclusa la sola Roma, fu nell'anno 1870 di 101.815 individui, cifra corrispondente al quattro per mille della popolazione accertata dal censimento del 1861 ed equivalente all'eccesso medio annuale dei nati sui morti -scriveva il Boccardo nel novembre 1874- è la tavola piena di Macbeth; non vi sono più posti: via i nuovi venuti. Fuvvi, inoltre, in quell'anno, una emigrazione clandestina di 8643 individui, e quindi gli emigranti si noverarono, in totale, a 110.458. La media decennale dell'emigrazigne germanica, che è la più rilevante sul continente europeo, non eccede il quattro per mille abitanti".
La nostra emigrazione non era quindi in ragione diretta della ricchezza, dell 'istruzione e dell 'incivilimento.
E se, dalla Liguria, accadeva, come s'è visto, che uomini di forte tempra andassero a soggiornare per dieci o dodici anni in America, per riportare poi in patria le ricchezze nobilmente acquistate (e in questo caso più che d'emigrazione si tratta di vera speculazione commerciale) in genere, però, l'insufficienza dei mezzi del vivere, se non l'assoluta indigenza, era solo il più energico eccitamento dell'emigrazione.
Il difetto principale, il vizio cardinale dell'emigrazione italiana fu la quasi assoluta deficienza di capitale. Erano braccia di uomini che partivano mancanti di ogni fondo di riserva, e che, così abbandonati a se stessi, andavano a cimentarsi con tutti i pericoli, con tutte le difficoltà, con tutte le concorrenze!
Nel primo semestre del 1870 sbarcarono a Buenos Aires 8507 emigranti italiani, un terzo di questi (2664) entrarono subito all'Asilo dei Poveri nel quale si provvide per otto giorni al loro mantenimento mentre una Commissione centrale li andava collocando via via, nelle province di Corrientes, di Santa Fé ove trovavano concessioni di terre a mitissimi prezzi ed anche talvolta gratuite.
Un indizio sommamente importante dello stato economico delle nostre colonie è quello che si rileva dal movimento dei vaglia postali poiché il peculio che l'esule povero volontario trasmette per questo mezzo alla famiglia lasciata in Europa, mentre attesta la persistenza dei più nobili sentimenti morali nel cuore dell'emigrante, rappresenta pure i lenti ma sicuri passi che egli compie nell'arduo sentiero della colonizzazione.
Qual è il bilancio complessivo dell'emigrazione italiana in Argentina per tutto il periodo da me studiato?
Quale apporto economico e morale ha essa dato alla vita americana sino al 1870?
E' stato detto giustamente che due nazioni uscite dallo stesso ceppo sono cresciute nel secolo scorso come sorelle: l'Italia e l'Argentina.
Esse hanno visto, difatti, la loro esistenza iniziarsi e prendere vigore quasi nello stesso tempo ed hanno vissuto e lottato insieme in un rapporto intimo d'intercambi economici e sentimentali. La più breve gioia come il minimo pericolo hanno trovato in entrambe una ripercussione immediata, piena, sincera, profonda.
Entrambi i popoli ebbero il loro tornaconto in questa cooperazione amichevole.
Per una felice combinazione, su uno stesso mercato si presentarono un possessore di beni strumentali, fecondissimi -i terreni della Pampa- ed un possessore di abili forze lavoratrici -i nostri emigranti-.
Nessuno dei due popoli pensò di dover sfruttare l'altro né di dover fondare l'aumento della propria ricchezza sull'altrui danno.
Entrambi compresero che avevano un terzo elemento su cui operare di comune accordo e largamente, cioè la terra ferace ed infinita.
L'emigrante italiano in Argentina fu elemento prezioso per lo sviluppo economico e sociale di quella Repubblica non solo per quello che riguarda i trasporti fluviali, ma ben più in ciò che concerne il commercio e la produzione agraria.
"Queste legioni -scrive il Franceschini- emigrate dal nostro paese dove la loro presenza significava consumo; queste migliaia d'emigranti che in patria significavano migliaia di non valori e la cui permanenza sulla terra italiana avrebbe fatto rincarare i generi di prima necessità, abbassare i salari e seminare il malcontento, questi non valori furono invece calcolati ben diversamente dagli statisti e dai governi sudamericani".
Nella seconda metà del secolo scorso centomila immigranti italiani rappresentavano per l'Argentina un capitale accumulato di lire oro cinquecento milioni; un capitale introdotto di quarantaquattro milioni e quaranta mila lire; un capitale in rendita annua all'erario di sei milioni; un capitale salario guadagnato di cento milioni.
E cioè: un totale di lire oro seicentocinquanta milioni.
Questo risultato dimostra che quando l'emigrante abbandona -come accade nel periodo da me studiato- le angustie di un mercato saturo di lavoro in potenza, per recarlo ad un mercato dove potrà agevolmente tradurlo in atto; quando con coraggio, con intelligenza, con volontà pertinace di combattere onestamente lo struggle for life, egli porta con sè la prima particella di un fondo di capitalizzazione, intorno al quale verranno a raccogliersi con progressione geometrica le altre particelle create dal risparmio; quando l'emigrazione si svolge in queste condizioni, benefiche egualmente al paese da cui muove ed al paese verso il quale si muove, determinando in entrambi il dinamismo equilibratore del capitale e del lavoro, non si può non considerarla con ottimismo tanto per l'Italia che l'ha offerta quanto per l'Argentina che l'ha domandata. Questo, naturalmente, nelle condizioni reciproche dei due mondi di allora.
Nella discussione sollevata al Senato argentino sul problema dell' emigrazione (seduta del 24 settembre 1870) Bartolomé Mitre così definiva, succintamente, l'opera svolta dagli Italiani al Plata: "Chi sono coloro che hanno fecondato queste dieci leghe di terreni coltivati e che circondano Buenos Aires? A chi siamo debitori di queste verdi cinture che attorniano tutte le nostre città al largo del littorale e di queste stesse oasi di grano, di granoturco, di patate e di alberi che rompono la monotonia dell'incolta pampa? Ai coltivatori italiani della Lombardia e del Piemonte.. ed anche di Napoli, che sono i più abili e laboriosi agricoltori d'Europa. Senza di loro non avremmo legumi... come il contadino di Virgilio, perché in fatto d'orticoltura staremmo nelle stesse condizioni dei popoli più arretrati della Terra. A chi si deve il fenomeno della nostra marina di cabotaggio ed il buon mercato dei trasporti fluviali? Quali sono i marinai che equipaggiano i mille bastimenti che issano sui loro alberi la bandiera argentina; a chi dobbiamo gli equipaggi delle nostre navi da guerra? Sono gl'Italiani discendenti dagli antichi Liguri, i compatriotti dello scopritore del Nuovo Mondo... Degli ottantamila Italiani che popolano il nostro suolo, una meta soltanto si è stabilita a Buenos Aires, il resto trovandosi disseminato nelle diverse città del littorale ed in vari punti della campagna, dove hanno formato la loro famiglia unendosi con le famiglie del paese per la somiglianza della religione, della lingua ed anche del clima.
Gualeguaychu, l'Uruguay, Corrientes, Parana debbono il loro aumento all'immigrazionc spontanea d'Italia, e la popolazione di Rosario e di Santa Fé si compone per metà di barcaiuoli italiani arricchiti, che hanno fabbricato rioni interi ai margini del fiume solitario e che avvivano con le loro piccole imbarcazioni il commercio. Non è solo questo che posso dire rispetto all' influenza benefica dell'immigrazione spontanea di questa parte del Mezzogiorno d'Europa. II venti per cento dei depositi del Banco di Buenos Aires, e cioè una quinta parte, appartiene agl'immigranti italiani che a noi offrono quest'esempio del capitale accumulato col risparmio che circola nella misura di mezzo milione di pesos d'oro per aiutare i parenti lontani o per farli venire alla loro nuova patria".
Ridotto ai suoi termini più semplici il tema può dunque essere definito così: L'Argentina sino al 1813 visse in quello stadio di spoliazione brutale che fu la colonizzazione spagnola.
Approfittando della debolezza della Spagna, fiaccata da Napoleone, essa proclamò la propria indipendenza seguendo, senza restrizioni, la formula del liberismo economico più illimitato.
Così quei sessantamila uomini che, come ci dice Sir Home Pophan, reggevano dalla capitale (di very miserable and filthy appearence, aggiunge il Wilcock) le sorti della Repubblica, proclamarono ai cittadini del mondo il biblico sinite venire ad me.
Due grandi correnti migratorie si formarono e si svolsero nei lustri seguenti: quella dei capitali personali, l'italiana, e quella dei capitali istrumentali, l'inglese.
Che cosa chiedevano queste due grandi fiumane economiche? Di tro vare nel loro impiego una pingue rimunerazione ai loro sacrifici secondo la svariatissima psicologia dei vari popoli. Il lavoro italiano sperava in un'alta mercede; il capitale inglese in un alto interesse; il possessore argentino di terre in un 'alta rendita e gli intraprenditori di ogni paese in un alto profitto.
E tutti raggiunsero il loro scopo, poiché i nostri emigranti vi fecero i milioni; gl' Inglesi vi conseguirono un così buon interesse che non chiusero più all'Argentina le loro casse; gli imprenditori s'arricchirono pure e talvolta favolosamente, mentre il figlio del paese vide aumentare, di fronte all'accresciuta domanda, il valore del proprio possesso: di quello strumento -come l'ha chiamato l'Alberdi- che fino ad allora era rimasto senza suonatori.
Questa è la conclusione, gloriosa per noi, e logica, che si può trarre dall'esame critico dell'emigrazione italiana in Argentina durante il sessantennio che va dal 1810 al 1870.