CAPRAIA (ISOLA DI)

Denominazione del comune costituito dall'Isola di Capraia, che ha un unico centro abitato dal quale si sale alla Fortezza di San Giorgio, eretta al principio del '400 dai Genovesi per difendere gli abitanti dalle incursioni barbaresche divenute tambureggianti ai tempi dell'alleanza militare di Francesco I di Francia coi Turchi, che gli misero a servizio la loro potentissima flotta occidentale o barbaresca, per opporsi alla strapotenza militare e soprattutto navale di Carlo V di Spagna.
Capraia è un'isola interamente vulcanica, tutta montuosa, culminante nel M. Castello (447 m), con costa quasi ovunque rocciosa ed inaccessibile.
Già nota ai Greci (Aigilon) ed ai Romani (Capraria, Caprasia in Varrone, De re rust. 2, 3, 33: "si quas alimus caprae a capris feris ortae, a quis propter Italiam Caprasia insula est nominata") nel sec. IV diviene asilo di cenobiti di tradizione orientale-bizantina.
Conquistata dai Saraceni nel 1005, appartiene poi ai Pisani e quindi ai Genovesi.
II suo nome deriva certamente da capra col suffisso -aria (> toscano -aia); già Repetti 1833-1846, II, 583 osserva: "Non è improbabile che cotestav isola traesse il nome di Capraja dalle molte capre che tuttora si trovano costà al pari che in altre isolette più deserte dell'arcipelago toscano".
Diversa interpretazione ha formulato l'Alessio (1936a, 179) ponendo all'origine del nome di luogo o toponimo una base linguistica mediterranea cioè Karpa ="roccia": prevale comunque l'interpretazione di un collegamento del nome al grande insediamento di capre selvatiche come si legge nel moderno Dizionario di Toponomastico edito dalla U.T.E.T. di Torino: peraltro anche la vicina ISOLA DI GORGONA è citata dai classici come URGO (Plinio, Nat. Hist., III, 81) ed URGO derivererebbe da una base *gorg- con il significato di capra: non si dimentichi il greco gorgoneion cioè lo scudo di Atena con la testa di Medusa in aspetto di capra.









STORIA DELLA CORSICA:
--DAI PRIMITIVI INSEDIAMENTI ALL'EPOCA BIZANTINA
--L'EGEMONIA DI PISA SULL'ISOLA
--L'ESPANSIONISMO DI GENOVA SULLA CORSICA
--L'ISOLA PASSA SOTTO L'AMMINISTRAZIONE DEL BANCO DI SAN GIORGIO
--L'ISOLA NEL XVI SECOLO: LE GESTA AUTONOMISTICHE DI SAMPIERO DI BASTELICA
--L'ISOLA NEL XVIII SECOLO: UNA NUOVA INSURREZIONE ANTIGENOVESE
--L'ISOLA NEL XVIII SECOLO: LE GESTA DEL SOVRANO TEODORO I
--L'ISOLA NEL XVIII SECOLO: PASQUALE PAOLI "IL PADRE DELLA PATRIA"
--L'ISOLA NEL XVIII SECOLO: PROVVEDIMENTI MILITARI E SOCIALI DI PASQUALE PAOLI (L'ISTITUZIONE DELL'UNIVERSITA' DI CORTE)











Gli antichissimi abitanti della Corsica, documentati solo per il neolitico, forse arrivarono nell'isola dalla Sardegna od in rapporto ad una successiva immigrazione proveniente dall'area iberica: ad essi sono da collegare quelle tribù che eressero i megaliti preistorici quali sono i dolmen, i menhir ed i cromlech.
Secondo buona parte degli studiosi nell'isola la civiltà del bronzo e del ferro dovette invece giungere nell'areale corso dalla penisola italiana (liguri).
I primi dati storici sono probabilmente da connette all'opera civilizzatrice dei coloni greci di Focea, che impiantarono sulla costa orientale dell'isola la città di Alalia, ove però non poterono soggiornare a lungo visto che etruschi e cartaginesi, fra loro stretta un'alleanza, sconfissero nel 540 a. C. la flotta greca.
Ai tempi della prima guerra punica prese poi corpo l'invasione romana con la conquista di Alalia per mano di L. Cornelio Scipione nel 259 a. C..
All'espansionismo romano si contrapposero le genti locali con varie rivolte e lotte per l'indipendenza, che raggiunsero l'apice, in età repubblicana romana, tra 181 e163 a. C., di modo che, onde agevolare il processo di inserimento dell'isola nell'ecumene romano, si provvedette all'erezione di due colonie romane: una venne istituita da Mario (colonia Mariana) e l'altra, ad Aleria, da Silla.
In epoca imperiale l'isola fu alternativamente provincia imperiale e senatoria , quindi, dopo Diocleziano, la Corsica divenne provincia a se stante rientrando nella prefettura d'Italia.
Il cristianesimo vi si diffuse almeno nel III secolo: intanto nel crepiscolo dell'impero romano l'isola venne investita dai barbari finendo sotto il dominio di Genserico re dei vandali: tuttavia, nel contesto della riconquista dell'Impero di Roma patrocinata da Giustiniano il Grande, il generale Belisario risucì a conquistare Corsica e Sardegna, ricomponendole nella forte struttura dell'ancora vitalissimo Impero romano d'Oriente (534): i funzionari imperiale tuttavia oppressero col loro fiscalismo le popolazioni insulari e l'isola ottenne benefici non dalle istituzioni laiche ma quasi solo dall'opera svolta dalla Chiesa che controllava in Corsica beni considerevoli.
Successivamente Carlo Magno confermando la donazione di Pipino il Breve vi inserì anche la Corsica(774): però sotto il dominato dei franchi l'isola prese a patire le scorrerie dei saraceni.
Soltanto nel sec. XI, per gli effetti della rivincita cristiana nel Mediterraneo, Pisa aggredì i saraceni di Corsica (1014 e 1050 circa) ed in forza del soccorso militare di Genova l'isola venne emancipata da qualsiasi dipendenza islamica.
Papa Gregorio VII, rivendicando sulla Corsica la sovranità pontificia, concesse a Landolfo vescovo di Pisa i poteri del legato apostolico con una bolla del1078: questa fu quindi riconfermata nel 1091 da Urbano II al punto di sanzionare la supremazia religiosa di Pisa sull'isola.
Il controllo dell'isola divenne quindi oggetto di forti contese, sia in ambito ecclesiastico che politico e territoriale, fra Genova e Pisa ormai trasformatesi in aperte rivali per il dominio dell'alto Tirreno.
Rilevante successo di Genova fu segnato dall'intervento nella contesa di Innocenzo II che nel 1133 dichiarò suffraganei dell'arcivescovo di Genova i vescovi di Mariana, di Accia e Nebbio concedendo all'arcivescovo pisano l'autorità su quelli di Aleria, Sagona ed Ajaccio.
Da tale data si computa in genere la crescente penetrazione di Genova in Corsica: con la scusa di sostenere i diritti del clero ligure giunsero presto nell'isola le armi di Genova di maniera che si ebbe l'occupazione di Bonifacio, nel 1195, dove presero stanza, con notevoli privilegi, alcune famiglie genovesi che surrogarono le famiglie pisane cacciate.
Valendosi di favorevoli contingenze, i genovesi staccarono da Pisa i feudatari e finalizzarono un'opera di profonda penetrazione, al punto che papa Onorio III, nel 1217, non solo ratificò il dominio genovese su Bonifacio ma ne concesse il castello all'arcivescovo di Genova.
Durante lo scontro fra Pisa e Genova alcuni feudatari e signori agitarono l'isola col favore dell'una o dell'altra repubblica ma in seguito alla disfatta inflitta ai pisani alla Meloria (1284) Genova riuscì a divntare unica padrona dell'isola.
Successivamente, nel 1296, papa Bonifacio VIII, onde punire sia Genova che Pisa per la politica contraria agli Angioini e alla fazione guelfa, investì del regno di Sardegna e Corsica Giacomo II d'Aragona.
Costui non fu in grado di assumere prontamente il controllo dei domini concessigli e solo più tardi i catalani, annessa la Sardegna, tentarono di affermare il loro dominio sulla Corsica, impegnandosi a sostenere ogni sorta di opposizioni e ribellioni contro i genovesi: notevole in particolare fu quella capeggiata dal feudatario locale Vincentello d'Istria.
Durante i secoli secc. XIV e XV l'esistenza socio-politica della Corsica fu tormentata da dure lotte intestine, in particolare con un'alternanza di rivolte e susseguentin repressioni.
Disordine e caos serpeggiarono per l'isola ingiungendo finalmente ai còrsi di cercare ordine nel soccorso di una qualche forza superiore già coinvolta nei problemi insulari: essi allora si appellarono al genovese Banco di San Giorgio cui la Repubblica finì per cedere i suoi diritti, legittimandone l'azione politica.
Dal Banco di san giorgio la Corsica ottenne quindi una serie di norme statutarie riassunte nella voce generale dei Capitula Cursorum, la cui stesura ultima cade all'anno 1453.
Poco dopo, nel 1463, però il Banco, per quanto cercasse di tutelare i propri diritti sulla Corsica, dovette cederla al duca milanese Francesco I Sforza: di poi l'isola pervenne nelle mani della casata dei Campofregoso e finalmente ritornò all'originaria gestione del Banco di San Giorgio le cui forze nel 1511 furono in grado di domare ogni rivolta e concedere un periodo di pace alla popolazione insulare.
La Corsica prese, dal XV secolo, a vivere con difficoltà sotto l'amministrazione repubblicana fin al tempo in cui un uomo, capace e spinto dall'amor patrio, dedicò le sue forze alla lìberazione dell'isola: il suo nome era quello di SAMPIERO DI BASTELICA.
Nato in Corsica da famiglia modesta, si era fatto soldato di ventura sin al punto di conseguire fama di coraggioso capitano.
Verso il 1536 aveva servito la Francia in guerra con la Spagna, rimpatriando nell'isola nel 1546 per sposare VANNINA d'ORNANO.
I Genovesi, fattolo arrestare a Bastia, lo avrebbero mandato a morte se fosse stato salvato perintervento di ENRICO II.
Tra le ragioni delle persecuzioni di Genova risedeva, oltre che l'esser stato al seguito della Francia nemica di Spagna e dell'alleta Repubblica, la palesata volontà di ottenere indipendenza per la patria: del resto questo progetto si era oggettivamente manifestato quando Sampiero aveva organizzato nel 1553 una spedizione che rese possibile la liberazione di Bastia e Bonifacio.
La guerra tra i franco-turchi e gli ispano-genovesi perdurò al 1554: prese quindi a scemare e con alterne vicende continuò fino al 1559, quando con il trattato di Cateau-Cambrésis 1' isola ritornò sotto la dominazione genovese.
La repubblica, recuperata la Corsica, non si curò di migliorare i rapporti con gli isolano usando al contrario verso di loro un rigore che sapeva di vendetta.
Vennero cassate le franchigie di cui usufruivano i corsi: vennero loro interdette navigazione e commercio, vennero totalmente solevati dai pubblici uffici, la pressione fiscale venne inasprita con la conseguenza di confische, bandi di proscrizione, persecuzioni, arresti, torture investigative, condanne di vario genere compreso il supplizio estremo.
Sampiero nel tentativo di soccorrere la patria tentò passare sotto la signoria medicea: per questo tenne delle trattative con Cosimo I.
Il granduca di Toscana si era infatti adoprato presso le corti di Madrid e di Vienna onde assimilare l'isola tramite acquisto ma le sue azioni diplomatiche non ottennero alcun frutto.
Sampiero preferì quindi appellarsi a CATERINA de' MEDICI, reggente di Francia, ma la sua supplica per la liberazione della Corsica rimase inascoltata visto che Caterina, data la difficile situazione del regno agitato da contrasti intestini e dalla Fronda, fu sconsigliata di tentare una impresa che avrebbe potuto comportare una guerra con l'Impero.
Il fallimento dei due tentativi non impedì a Sampiero di riporre nuove speranze nei soccorsi del duca di Parma.
Gli scrisse onde confermare una voce corrente: che cioè per i Corsi non risultava più sopportbile il dominio di Genova.
A chiosa della sua missiva Sampiero aggiunse, con un velo di minaccia, che per non aver trovato aiuto presso i Cristiani egli, senza il soccorso del duca, si sarebbe trovato nella condizione di inoltrrare le sue petizioni agli infedeli, cioè ai Turchi.
Visto il silenzio della Cristianità sul problema della Corsica, Sampiero si appellò poi al re d'Algeri e conseguentemente all'Impero turco.
Delle sue trattative fu però avvertitoCosimo de' Medici, che, temendo che l' isola cadesse nelle mani della Sublime Porta, ritenne opportuno ragguagliare il suo plenipotenziario in Genova, l'abate De NEGRO, onde allertasse il Senato repubblicano.
Quest'ultimo inviò quindi a Costantinopoli un'ambasceria che in pratica acquistò col denaro alla causa genovese i ministri del Sultano, comportando quindi il fallimento del tentativo finale di Sampiero onde guadagnare alla patria un forte aiuto antigenovese.
Tornato dall'Oriente, Sampiero apprese che le condizioni della Corsica erano divenute peggiori, che i suoi amici erano perseguitati dai Genovesi e che sua moglie, da lui lasciata a Marsiglia, lo tradiva con i nemici. Cieco dal furore a quest'ultima notizia, Sampiero si recò presso Vannina e la strangolò, quindi, ottenuto il perdono dalla corte di Francia per i preziosi servigi prestati, e deciso di liberare l'isola ad ogni costo, seguito da venti córsi e da quarantacinque soldati provenzali, salpò per la Corsica, approdò al golfo di Balinco e si impadronì del castello d'Istria.
All'annuncio dello sbarco di Sampiero, l'isola intera si sollevò contro i Genovesi al grido di Guerra e Patria.
L'esiguo drappello dell'eroe si ingrossò poi sin a contare cinquecento uomini e prese a marciare su Corte, che, impropriamente difesa dalla guarnigione repubblicana, si arrese dopo non molto tempo.
La guerra prese a crescere di intensità e Genova promise un premio di quattromila scudi d'oro a chi consegnasse vivo il ribelle, di duemila se morto ed altri premi minori per la cattura o l'uccisione dei principali seguaci di Sampiero tra cui spiccavano i nomi di Achille Campobasso, Antonio da S. Fiorenzo, Bartolomeo da Vivano e Battista della Pietra.
Nel frattempo la Repubblica si preoccupò di aumentare i suoi contingenti nell'isola e spedì nell'isola una forza nuova di milizie agli ordini di Niccolò Di Negro e Giovan Battista Fieschi.
La rivoluzione intanto si estendeva sempre di più, alimentata dall'arrivo di considerevole quantità di munizioni mandate da Livorno: grazie a tali forze Sampiero fu in grado di conquistare Vescovado dopo una dura lotta e duramente sconfiggere i Genovesi presso Caccia.
Nonostante il valore manifestato gli insorti si trovarono in difficoltà di fronte ad un nemico in grado di rifornire continuamente le sue truppe di provvigioni, materiale e forze fresche.
I ribelli alla fine si convinsero che senza l'aiuto di una potenza straniera la loro insurrezione sarebbe stata inevitabilmente domata: così nell'assemblea generale del 25/III/1565 essi decisero di appellarsi ancora una volta alla Francia.
Sampiero spedì quindi alla corte di Parigi Anton Padovano dal Pozzo in qualità di ambasciatore: costui però nulla ottenne da parte della monarchia francese e si trovò nell'obbligo di ritornare in patria.
Egli ottenne comunque il vantaggio di portare in soccorso diecimila talleri e oltre a ciò Alfonso, diciottenne figlio di Sampiero.
La guerra intanto procedeva accanita e le perdite delle forze repubblicane furono di rilievo: in particolare a Vescovado caddero millecinquecento uomini delle forze genovesi ed a Bastia tremila.
Il comandante generale per Genova Stefano Doria a Campiloro, il giorno stesso dello sbarco, aveva perduto duemilacinquecento soldati, ma in qualche modo si rifece dello scacco subito mettendo a ferro e a fuoco Bastilica.
Non minor ferocia ostentò Sampiero massacrando i militari dei presidi genovesi di Istria, Lerio e di altre fortezze da lui conquistate: avvisato poi che il nemico aveva intenzione di dar fuoco alle messi onde affamare gli insorti, egli assalì gli incendiari senza lasciare in vita alcuno fra quanti erano stati fatti prigionieri.
Giudicando il Doria incapace di vincere la guerra, la Signoria genovese lo surrogò prima col VIVALDI e successivamente con il FORNARI.
Tali comandanti generali non lesinarono mezzi, modo e sforzi per domare la rivolta: tra l'altro incendiarono campagne e villaggi, impiccarono molti abitanti, riaccesero gli odi tra le antiche fazioni indigene dei Neri e dei Rossi.
Tutto ciò comunque non valse a conseguire risultati di rilievo.
Fu a tal punto che Genova si appellò al sovrano spagnolo Filippo II ma nemmeno col sostegno di questi si riuscì a piegare la resistenza dei Còrsi: ed allora si prese la decisione, tipicamente rinascimentale, di sopprimere Sampiero valendosi dell'ausilio di alcuni traditori.
Francesco Fornari e Raffaello Giustiniani, comandanti della cavalleria genovese, furono quelli che intercettarono i traditori di cui valersi: si trattava di due cugini di Vannina, Giovali Antonio e Giovan Francesco d'Ornano, cui si collegarono un Ercole d'Istria ed un certo frate Ambrogio da Bastilica.
Costoro riuscirono a corrompere Vittolo, già fedele compagno di Sampiero, e col suo aiuto sorpresero l'odiato nemico nel momento in cui assieme a pochi soldati ed in compagnia del figlio Alfonso procedeva verso Cauro nel distretto di Aiaccio.
Dopo averlo assassinato, ne staccarono il capo dal busto ed invarono il "trofeo" mandarono la testa Fornari in data 17/I/1567.
I ribelli non furono però bloccati da tale grave perdita e, onde continuare la guerra, si diedero un nuovo condottiero in ALFONSO sopravvissuto alla tragedia paterna e dotato di giusta ambizione oltre che di provata intrepidezza.
Pure questo giovane capo aveva la convinzione che senza soccorsi esterni i ribelli corsi non sarebbero mai stati in grado di abbattere il giogo di Genova: di conseguenza egli rinnovò il tentativo del padre presso Cosimo de' Medici.
Il granduca però, timoroso di ritorsioni, non solo rifiutò, ma rese subito edotta la corte di Madrid delle proposte che i ribelli gli avevano fatto, compresa l'ipotesi di associare l'isola alla Toscana.
I Genovesi, modificando le loro azioni, da un canto incentivarono il loro programma di far crescere gli attriti fra i clan storicamente rivali dei Neri e dei Rossi: essi inoltre spedirono nell' isola Giorgio Doria, il quale con acuta qualità diplomatica seppe guadagnarsi la simpatia dei Córsi contestualmente riuscendo, per mezzo di Girolamo Leone d'Ancona vescovo di Sagona, a convincere Alfonso, per il pubblico bhene, a riparare in Francia.
La dipartita del comandante dei ribelli determinò la rapida cessazione del conflitto, sì che si potè addivenire alla ratifica di una pace, in virtù della quale venne concessa ad Alfonso e ai suoi seguaci l'amnistia, offrendo parimenti libertà ai Córsi, non intenzionati a rimanere nell'isola, di recarsi in Italia.
Inoltre la pace comportò la restituzione ad Alfonso del feudo d'Ornano che gli era stato confiscato mentre ai suoi partigiani venne assegnata, fino alla loro partenza, la Pieve di Vico: inoltre si liberarono molti prigionieri, furono condonati i debiti verso il fisco, vennero pure concessi cinque anni di proroga nel pagamento degli altri debiti ed ancora si diede facoltà ai Còrsi di vendere o fare amministrare i loro beni.
Il trattato cdi pace venne stipulato il I aprile del 1569 e grazie ad esso la Corsica parve finalmente destinata a godere dei vantaggi della pace.
In realtà la Signoria genovese mirava ad un graduale ripristino dell'antico stato di cose: così, con malcelata diplomazia, i patti vennero gradatamente elusi, le tasse ripresero a gravare sulla popolazione e nuovamente i Còrsi furono esclusi dagli uffici civili, militari ed ecclesiastici.
Anche la pratica della navigazione ritornò monopolio dei Genovesi mentre la sicurezza delle coste scomparve per le frequenti incursioni dei barbareschi.
Di conseguenza l'isola tutta, peraltro afflitta dalla peste, piombò nella più squallida miseria.
Col tempo riprese vigore tra i Còrsi l'aspirazione d'emanciparsi dalla dominazione genovese: essi si rivolsero ancora al granducato di Toscana ma Francesco de' Medici, sollecitato da Anton Francesco Cirni da Olmeta prima e da Anton Guglielmo da Bozzi poi, non era cero personaggio così valente da mettersi in urto con la Spagna pur di intervenire negli affari dell' isola.
E di conseguenza la Corsica, per duecento anni ancora, non rappresentò per Genova più di un dominio coloniale da sfruttare in ogni modo: furono molti gli avidi governatori genovesi che impoverirono la Corsica, violando le leggi, tutelando i criminali, accendendo di odio reciproco le avverse fazioni.
Tutto questo continuò, con immutabile sistematicità, fino allo scoppio di quelle tragiche insurrezioni che avrebbero, per via di azioni guerresche e diplomatiche, condotto l'isola sotto il controllo della Francia.
Il 25 gennaio del 1560, cioè nove anni prima che fosse ratificata la pace tra Còrsi e Genovesi, moriva a novantaquattro anni Andrea Doria.
Con lui Genova era privata di un grande condottiero, di un esperto politico e di un abile diplomatico: era stato infatti il Doria colui che aveva ottenuto libertà per la patria anche se a condizione di porla sotto l'invadente protezione della Spagna.
La morte del Doria però non fece cessare l' influenza che gli imperiali Spagnoli esercitavano sulla repubblica genovese, la quale, mentre si sforzava di domare la Corsica ribelle, era dilaniata dalle proprie lotte intestine.
I vecchi nobili detti del Portico di San Luca, partigiani dei Doria e quindi rispettosi verso la Spagna, e i nobili nuovi detti del Portico di San Pietro, spalleggiati dalla Francia, erano in continua discordia e gli odi arrivarono al segno che si rese inevitabile l' intervento militare spagnolo: don Giovanni d'Austria sperò addirittura di farsi padrone della città quando, nel 1577, vi passò con la flotta che più tardi avrebbe sconfitto i Turchi a Lepanto.
Si cercò intanto in Genova di arginare le lotte civili ricorrendo a Papa GREGORIO XII che ottenne che le fazioni rimettessero le loro contese nelle mani sue e in quelle dell' imperatore.
In forza dunque di un triplice arbitrato, il 17/III/1576, venne pubblicato un compromesso che comportava l'abolizione delle varie categorie di nobili che erano divise in due fazioni.
Tutti quanti venivano inclusi tutti in un solo ordine e venne sancito che solo essi fossero ammessi al governo con facoltà di aggregare ogni anno nuove famiglie.
In Genova iniziò dunque un periodo di concordia e di tranquillità, che resistette cinquant'anni: in seguito altre vicende, congiure, agitazioni, e guerre avrebbero ripreso a tormentare la pace che la vecchia repubblica per sì breve tempo e tanto raramente aveva goduto.
Ricaduta sotto Genova, dopo la guerra che aveva avuto per simbolo dell'indipendenza SAMPIERO di BASTELICA, la Corsica non aveva avuto che pochi momenti di benesse.
E' così nel 1729 esplose una nuova ed ancora più grave ribellione contro Genova.
Gli abitanti di Bustanica, offesi dalle angherie patite da un vecchio loro concitrtadino, presero le armi al grido di "Viva la libertà, viva il popolo: aggredirono i soldati della repubblica, e, tratti alla rivolta i paesi vicini, saccheggiarono l'arsenale.
Sotto il comando di un ufficiale corso, certo POMPILIANI, mossero quindi verso la popolosa Bastia.
Il governatore dell'isola, FILIPPO PINELLI, non controllava forze sufficienti per arginare gli insorti ed allora chiese soccorso alla repubblica: contestualmente propose al Pompiliani una tregua di ventiquattro giorni per potere trasmettere a Genova le richieste degli isolani, che, fra altro cose, aspiravano alla soppressione di alcune imposte, all'abolizione del monopolio del sale ed alla costituzione di certi pascoli comunali.
La repubblica respinse però tutte le richieste e nell'aprile del 1730, finita ogni tregua, l'isola fu di nuovo in guerra.
Un esercito di ventimila còrsi, guidati dal Pompiliani, marciò decisamente su Bastia: l'ufficiale poco dopo restò però vittima di un agguato fattogli tendere dal Pinelli.
In sua vece il comando dei ribelli pervenne ai comandanti LUIGI GIAFFERRI e ANDREA CECCALDI COLONNA, che, per quanto disponessero di gente male armata e non sempre esperta di arti militari, in vari scontri ebbero la meglio sui soldati genovesi.
Vista la mala parata Genova spedì in Corica il generale CAMILLO DORIA, che dapprima, diplomaticamente, cercò di accordarsi con gl'insorti ottenendo una tregua di quattro mesi e l'apertura di trattative per una soluzione pacifica.
L'iniziativa fallì e quindi, finito il tempo dell'armistizio, riprese vigore il conflitto.
La guerra raggiunse presto una condizione di stallo atteso che nessuno dei contendenti era in grado ci conseguire una vittoria decisiva.
Ai Còrsi era impossibile trionfare in quanto, sprovvisti di artiglieria, non avevano forza d'urto sufficiente ad espugnare le munite piazzeforti erette dalla Repubblica.
L'esercito genovese, poco numeroso, non aveva l'energia per iniziare una controffensiva dalle sicure piazzeforti: i suoi generali non osavano affrontare un nemico numeroso oltre e molto mobile su un terreno di cui aveva estrema contezza.
Come al solito gli insorti cercarono partigiani in forze straniere e si appellarono per aiuti a Papa CLEMENTE XII cui offrirono la corona della Corsica: il Pontefice tuttavia rifiutò.
Quasi nello stesso tempo i Genovesi chiesero soccorso all'imperatore CARLO VI ottennendo che questi fornisse loro ottomila uomini dietro versamento di sessantamila fiorini e cento scudi per ogni soldato morto.
Nell'agosto del 1731 sbarcò nell'isola un primo contingente di quattromila tedeschi comandati dal generale Wachtendonch che congiunse le sue forze ai diecimila soldati del Doria.
Contro un esercito regolare tanto numeroso e ben armato si sarebbe certamente infranto l'impeto dei Corsi se questi avessero scatenato una battaglia campale.
Allora gl'insorti suddivisero le loro forze, costringendo i nemici ad una guerriglia fatta di agguati e di sorprese che determinarono varie perdite a Genovesi ed alleati germanici.
Tale resistenza dei Corsi non sarebbe però stata in grado di funzionare a lungo con efficienza ed allora i rivoltosi accolsero di necessità la mediazione dell'imperatore.
L'11 maggio del 1732 fu quindi ratificata la pace tra la repubblica ed i ribelli.
In base ai deliberati di tale pace i Còrsi sarebbero stati esentati dal pagare alcune indennità di guerra mentre Genova si faceva carico di non ostacolare la nomina di vescovi di nazionalità corsa.
Inoltre sarebbe stato istituito nell'isola un ordine di nobiltà con le stesse prerogative di quella ligure e sarebbe stato ammesso presso il senato genovese un oratore al fine di patrocinare gli interessi degli isolani.
Tra le altre condizioni della pace fu inserita anche quelle per cui sarebbe stata data facoltà ai Corsi di essere ammessi agli uffici governativi e sarebbero stati eletti ogni tre anni dei magistrati idonei a promuovere le arti e il commercio: per ultima condizione Genova avrebbe concorso nel promuovere la pubblica istruzione nell'isola.
Un mese circa dopo, i soldati imperiali lasciavano l'isola.
Il governo genovese non osservò però tutti i patti e la condizione di pace durò talmente poco chee ai primi del 1735 la guerra esplose una volta ancora.
Nel contesto di un'assemblea tenuta nella località di Corte, si proclamò l'indipendenza della Corsica, la quale fu messa sotto l'alta protezione della Vergine Maria.
Provocatoriamente si bruciarono in pubblico le leggi e gli statuti genovesi onde non restasse testimonianza del passato governo: e fu sancito solennemente di condannare al supplizio estremo chiunque avesse proposto di cercare accordi con Genova.
Oltre a ciò si prese la durissima decisione di confiscare tutti i beni che i Genovesi detenevano nell'isola: in seguito furono proclamati primati del regno di Corsica, con il titolo d'Altezza Reale, LUIGI GIAFFERRI, GIACINTO PAOLI ed ANDREA CECCALDI, ed ai primi due venne assegnato il comando di tutte le forze armate della nazione.
Si ordinò quindi che si tenesse una dieta generale detta Serenissima di rappresentanti di ogni città e villaggio con facoltà di decidere su tutti gli affari, da convocarsi dietro ordine dei primati.
Allo scopo dir far eseguire le leggi e nominare i magistrati e gli ufficiali civili e militari si deliberò di creare una giunta di sei membri, di carica trimestrale, e si ordinò che un magistrato soprintendesse agli affari della guerra, uno all'abbondanza, uno ai comuni, uno alle monete, uno alla giustizia criminale con la facoltà di sottoporre a processo e di condannare i traditori della patria.
Si tentò da parte di molti simpatizzanti italiani della causa della Corsica di soccorrere i ribelli isolani con rifornimenti militari ma le navi deputate a tale soccorso difficilmente raggiunsero le coste corse vigilate dai vascelli genovesi: così gli insorti non tardarono a trovarsi in una situazione precaria, privi di agni sorta d'approvvigionamento.
Si tentò la stipula di un concordato con Genova, ma non si poterono accettare le condizioni imposte dalla repubblica: così la guerra continuò.
Una sorprendente svolta nelle vicende della Corsica si ebbe il 12 marzo del 1736 quando nell'isola giunse un avventuriero, un nobile alemanno, nato forse a Metz intorno al 1692, di nome TEODORO di NEUHOFF.
Dopo la morte del padre, costui era stato paggio della duchessa d'Orléans ed aveva quindi prestato servizio quale luogotenente nel reggimento d'Alzazia: aveva poi servito l'Elettore di Baviera e quindi combattuto sotto Eugenio di Savoia contro i Turchi.
Dopo un duello con un suo superiore si era rifugiato in Svezia, aveva lavorato con l'Alberoni e col Ministro Gortz per rimettere sul trono d'Inghilterra lo Stuart: in seguito aveva raggiunto la Spagna e dipoi la Francia.
Aveva di conseguenza maturato le sue esperienze quasi in ogni contrada d''Europa, cadendo anche prigioniero dei barbareschi: tra l'altro aveva sposato la figlia di un lord e, sottrattale la dote, se n'era fuggito in Olanda.
Finalmente a Livorno aveva conosciuto alcuni Còrsi fuorusciti e tramite questi aveva contattato i capi dell'isola promettendo di soccorrere la Corsica a condizione che lo proclamassero sovrano.
Fu questa l'ultima e più grande avventura del NEUHOFF.
Sbarcò sulla spiaggia d'Aleria con mezza dozzina di compagni, dieci cannoni, quattromila fucili, vettovaglie e denari.
Il 15 aprile 1736 un'assemblea riunita ad Alessani lo proclamò re col nome di TEODORO I.
Dalla medesima assemblea fu quindi ratificata la costituzione del nuovo regno.
La monarchia sarebbe stata ereditaria: il re avrebbe dovuto esser cattolico e risiedere nell'isola.
Una volta estintosi il casato i Corsi avrebbero avuto diritto scegliersi un altro sovrano o darsi la forma di governo preferita.
Nel regno si doveva istituire una dieta di ventiquattro membri, per tre dei quali sarebbe stato obbligatorio risiedere a corte con facoltà di concedere o negare al sovrano l'assenso nelle risoluzioni su guerra, pace, imposizioni e gabelle.
Ogni carica e dignità sarebbe stata di diritto dei Còrsi; parimenti di nazione còrsa avrebbero dovuto risultare i soldati, con la sola eccezione della guardia reale che poteva esser composta di forestieri purché non Genovesi, dei quali nessuno poteva risiedere nell'isola.
I diritti municipali non si sarebbero mai dovuti modificare ed infine avrebbe dovuto erigersi nell'isola sia un'università e che strutturarsi un ordine di nobiltà.
Alla carica di gran cancelliere fu assunto l'avvocato SEBASTIANO COSTA, a quella di gran tesoriere il generale GIACINTO PAOLI, a quella di maresciallo LUIGI GIAFFERRI.
Onde soddisfare le diverse ambizioni, Teodoro I investì conti, marchesi e baroni e istituì l'ordine cavalleresco della Liberazione, che in due mesi giunse a contare quasi quattrocento membri, ciascuno dei quali aveva sborsato mille scudi per esservi ascritto.
Lo stesso re provvide a riorganizzare le milizie e alla fine potè comandare un esercito di trentamila uomini, di cui quattromila e quattrocento costituivano ventiquattro compagnie di milizia regolare.
Nella sua frenetica attività questo curioso sovrano istituì anche fabbriche di armi e di stoffe, fece battere monete con il motto "pro bono et libertate" sulla faccia posteriore e uno scudo cinto d'alloro sormontato da una corona con le cifre T. R. sull'anteriore.
Inoltre sulla bandiera nazionale che era verde e gialla, fece imporre il motto in te Domine speravi, e quando Genova inviò truppe contro di lui, Teodoro alla testa dei suoi le affrontò e più volte le sconfisse.
Fin dal suo sbarco in Corsica, Teodoro di Neuhoff aveva detto agli isolani di avere avuto da Austria, Spagna, Inghilterra, Turchia e bey di Tunisi promesse di sostegni in uomini e denaro: in realtà erano sue fantasie, senza speranza di concretarsi di modo che presto presero a mancare i denari, né risultarono bastanti le armi per sostenere la guerra contro Genova.
Per alcuni mesi Teodoro riuscì ad ingannare agl'isolani alimentando l'illusione che i promessi aiuti fossero sul punto di arrivare: quando però si reso conto che i sudditi cominciavano a diffidare, certo che prima o poi gli si sarebbero rivoltati, riunì il parlamento e dichiarò che se nel giro di sessanta giorni non fossero pervenuti gli aiuti sperati o avrebbe abdicato o si sarebbe recato nel continente per sollecitarli.
Trascorso senza risultati il termine fissato, Teodoro I nominò una reggenza presieduta dal Giafferri, dal Paoli e da Luca Ornani, quindi, l'11 settembre del 1736, accompagnato dal Costa, partì da Aleria alla volta di Livorno.
I Còrsi, non avendo più fiducia nel successo del viaggio di Neuhoff, chiesero a Genova la pace, ma i tentativi di ottenerla senza gravami fallirono sì che la guerra per nulla venne meno.
Genova arruolò allora tre reggimenti svizzeri con cui rafforzò le guarnigioni delle fortezze che ancora custodiva e prelevò dal Banco di San Giorgio mezzo milione di scudi per le spese di guerra.
Finiti i preparativi le forze della Repubblica strinsero un blocco navale intorno alla Corsica: inoltre venne posta una taglia sul capo di Teodoro e dei principali suoi collaboratori.
Poco dopo la Repubblica (febbraio 1737) inviò a Bastia il senatore MARI con altre truppe.
I Còrsi non furono però piegati dal notevole sforzo bellico di Genova e del resto accolsero con entusiasmo gli inviti a resistere del re Teodoro I: costui, ad onor del vero, era anche riuscito a recuperare credito fra gli isolani, avendo fatto loro giungere quattro navi cariche di munizioni e di viveri, che erano riuscite a violare il blocco navale di Genova.
Ancora una volta dovettero ricorrere al soccorso altrui per dirimere la complessa questione della Corsica: si rivolsero questa volta alla Francia e il 12 luglio del 1737 stipularono con i francesi una convenzione per cui Luigi XV, dietro solenne promessa di rispettare la sovranità della repubblica sull'isola, assunse l'impegno di inviare in Corsica, dietro compenso di settecentomila genovine, tremila soldati ed altri cinquemila in caso di ulteriori difficoltà: per l'intervento di questi ultimi avrebbe ricevute altre duecentomila "genovine".
Il I febbraio del 1738 salparono da Antibo cinque reggimenti francesi con dodici cannoni da montagna e molte munizioni: ne era a capo il conte di BOISSIEUX, che, giunto nell'isola, fece subito sapere ai ribelli di essere animato dall'intenzione di conciliare la Corsica con Genova.
Il suo conciliante atteggiamento non convinse affatto i Còrsi che si palesarono risoluti a continuare la guerra, specie una volta che appresero come Teodoro I fosse sul punto di raggiungerli con rinforzi di uomini e mezzi.
Il re in effetti sbarcò presso Aleria il 14 settembre del 1738: portava ventiquattro cannoni, tre colubrine, seimila fucili, milletrecentottanta moschetti, quattromila pistole, duemila baionette, duemila granate, polvere, piombo, ferro, pietre focaie, uniformi, scarpe, tamburi, trombe, bandiere.
Il popolo acclamò entusiasta la venuta del sovrano ma i capi dell'isola si mostrarono freddi di modo che del loro atteggiamento seppe approfittare il Boissieug onde intimare ai Còrsi di consegnare il Neuhoff entro una settimana.
Teodoro I, scopertosi senza il sostegno delle autorità còrse e temendo di essere fatto prigioniero dai Francesi, si allontanò dall'isola: dal 1739 al 1743 peregrinò per gran parte d'Europa allo scopo di raccogliere soccorsi con cui ritornare in Corsica.
Intanto nell'isola i ribelli, vinti più volte dal Maillebois, successo al Boissieug, facevano atto di sottomissione, indotti, oltre che dagli insuccessi militari, anche dal contegno del generale francese che si era mostrato giusto e leale.
Scoppiata la guerra per la successione austriaca, la Francia richiamò le truppe dall'isola credendola finalmente in pace.
Ma i bellicosi Còrsi onde insorgere non aspettavano che la partenza dei Francesi e grande fu il loro entusiasmo quando Teodoro I fece ritorno.
Nuovamente il re promise che sarebbero giunte navi inglesi con truppe: queste infondate promesse gli concessero di tenere acceso per po' l'entusiasmo, ma dato che anche in siffatta nuova circostanza gli aiuti non giungevano, gli isolani si raffreddarono e il Neuhoff, abbandonata la Corsica, ritornò nel continente riducendosi a vivere di stenti sin a chiudere miseramente i suoi giorni a Londra l'11/XII/1756.
Perduta la speranza di una monarchia nazionale, i Corsi si rivolsero a CARLO EMANUELE III. Non era la prima volta che pensavano di offrire l'isola alla Casa Savoia: nel 1714 invano un certo un Paolo Domenico Pozzi e un Francesco Parato si erano rivolti a Vittorio Amedeo II; nel 1722 l'offerta era stata rinnovata al medesimo con il patto che giurasse di non cedere mai la Corsica, "… sotto il Dominio di Genova, né per aggiustamento di pace né per dono di denaro o sia per vendita neppure ad altri stati, fortezze o altre esibizioni, né in qualunque altra forma di negozio "; ma Vittorio Amedeo l'offerta l'aveva respinta.
Salito sul trono Carlo Emanuele III, i Corsi si rivolsero a lui, il quale prima non volle accettare le proposte fattegli, poi, saputo che Genova si era messa sotto la protezione della Francia ed essendogli stata rinnovata nel luglio del 1745 l'offerta, con il consenso dell'Austria e dell'Inghilterra, nell'ottobre dello stesso anno mandò nell'isola un corpo di truppe capitanato dal conte DOMENICO RIVAROLA.
La spedizione non fu coronata dal successo, ma non per la sconfitta Carlo Emanuele III abbandonò il proposito d'impadronirsi dell'isola. II 29 febbraio del 1748 stipulò una convenzione con l'Austria con la quale le corti di Torino e di Vienna si obbligavano ciascuna di destinare tremila zecchini, un battaglione di cinquecento soldati e parecchi cannoni per l'impresa, e tre mesi dopo, una nuova spedizione, comandata dal brigadiere cavalier di CUMIANA, salpava dal porto di Savona.
Ma neppure questa volta l'isola riuscì a rimuovere il giogo dei Genovesi. Si erano iniziate le trattative che dovevano portare alla pace di Aquisgrana e Carlo Emanuele III aveva promesso agli isolani di fare inserire nel trattato un articolo a loro favore; ma al momento di parlarne i Corsi furono dimenticati: Genova rientrò in possesso di tutti i suoi domini, e il 17 novembre il Cumiana abbandonava la Corsica, dove rimaneva il Coursay con un corpo di truppe francesi per consegnar l'isola ai Genovesi.
I Corsi non si rassegnarono alla loro sorte e ripresero le armi acclamando loro generale il patriota GIAMPIERO GAFFORI. Per merito di quest'uomo valoroso, le cose dei Genovesi e dei Francesi presero una brutta piega e la causa dei ribelli stava per trionfare, quando venne a mancare improvvisamente il Gaffori, che il 3 ottobre del 1753 fu assassinato.
L'isola era stremata dalla lunga guerra e dai partiti che dividevano in due campi i ribelli, tuttavia incrollabile era il proposito di acquistare la libertà e con gran tenacia e coraggio, i Corsi si batterono contro i loro oppressori. Ad accrescere quest'entusiasmo giunse, un anno e mezzo dopo l'assassinio del Gaffori, colui che nell'isola doveva essere l'eroe più grande dell'indipendenza corsa.
Si chiamava PASQUALE PAOLI ed era figlio di quel Giacinto accennato più sopra. Il 10 luglio del 1739, all'età di quattordici anni, in compagnia del padre, di Luigi Giafferri e di molti altri esuli, da Padulella era andato a Napoli e qui era rimasto per oltre quindici anni, pensando sempre alla liberazione della sua patria.
Il 29 aprile del 1755, invitato dagli isolani, Pasquale Paoli sbarcò a Porraggia, alla foce del Golo, e il 15 luglio del medesimo anno da un'assemblea di maggiorenti riunita nel convento di Casabianca fu nominato generale delle armi della nazione corsa. Anzitutto il Paoli dovette lottare contro il partito dei feudatari capitanato da Mario Emanuele Matra, poi, quando questa fazione fu debellata con la morte del suo capo, riuscì a dedicarsi interamente alla rigenerazione ed all'organizzazione del paese.
""…E veramente - scrive il Callegari - la sua opera di redenzione produceva i suoi frutti, perché le finanze e le amministrazioni erano ordinate; fiorivano l'agricoltura e le arti; l'isola purgata dagli odi domestici, era difesa da un buon esercito e da una sufficiente marina. Fu promulgata una costituzione, per la quale tutti i cittadini a venticinque anni potevano prender parte all'adunanza generale, che aveva il compito di fissare le imposte, decidere della pace e della guerra, nominare il Consiglio Supremo, rappresentante le nove province dell'isola, che compiva gli atti d'ordinaria autorità, convocava l'adunanza generale, vegliava alla sicurezza del paese e manteneva le relazioni estere… ".
" In quanto all'ordinamento giudiziario, era riservato ai podestà il diritto di giudicare fino al valore di dieci lire, e al tribunale della provincia per somme superiori, alle trenta; contro le loro sentenze si poteva ricorrere alla "rota civile", supremo tribunale composto di tre dottori di diritto nominati a vita".
" Tutti i Corsi erano dichiarati soggetti alle armi dai sedici ai vent'anni e si riunivano in compagnie; l'intera milizia si distingueva in tre bandi, ognuno dei quali durava quindici giorni; i soldati, che vegliavano sulle fortezze, ricevevano un soldo annuale, gli altri solo per quel tempo, che stavano in campo. Per sopperire a tutte le spese dello Stato s'era istituita l'imposta annua di due lire per famiglia, oltre ai diritti, che esso si riservava del sale, della pesca, dei coralli ed altre imposte indirette. Non trascurò il Paoli la cultura del suo popolo, e nel gennaio del 1761 fu aperta un'università in Corte, nella quale non potevano insegnare che professori corsi ".
" Alla fine di ogni corso di studi si teneva un esame solenne dinanzi ai membri della generale adunanza e delle reggenze; l'aspetto dei più nobili cittadini accresceva il biasimo come la lode; alla presenza loro la gioventù si vedeva considerata come la giovane cittadinanza, chiamata presto o tardi all'opera della liberazione del proprio paese ".
Nel febbraio del 1767 Pasquale Paoli ordinò la conquista dell'isola di Capraia, dando il comando dell'impresa ad ACHILLE MURATTI. Questi con duecento uomini e due cannoni sbarcò nell'isola, penetrò nel capoluogo e costrinse BERNARDO OTTONE, che comandava il presidio genovese, a chiudersi nel castello e quindi a capitolare prima che giungessero aiuti da Genova.
La perdita di Capraia e la difficoltà di sottomettere i ribelli indussero la repubblica genovese a concludere quel trattato che doveva strappare all'Italia la Corsica e darla per danaro alla Francia.
Nel 1764 (7 agosto) veniva stipulata a Compiègne una convenzione con la quale si era stabilito che le piazze di Bastia, San Fiorenzo, Calir, Algaiola, Ajaccio e Bonifacio dovessero esser presidiate, oltre che dai Genovesi, da tremila francesi comandati dal generale Marboeuf. Il termine della convenzione scadeva nel 1768, epoca in cui le truppe francesi avrebbero dovuto lasciar l'isola. Il 15 maggio di quest'anno tra il duca di Choiseul ed Agostino Paolo Domenico Sorba, plenipotenziario Genovese, si stipulò un trattato a Versailles con il quale la Corsica veniva venduta alla Francia.
La notizia di quel mercato fu accolta con grandissimo sdegno dai fieri abitanti della Corsica. Fu tenuta a Corte un'assemblea, nella quale venne deciso, di lottare con ogni sforzo per non cadere nelle mani della Francia; campi di osservazione furono messi davanti a San Fiorenzo, Calir, Bastia ed Ajaccio; venne armata la piccola flotta e tutti i cittadini abili furono chiamati sotto le bandiere della libertà.
La Francia impiegò tutti i mezzi per sottomettere l'isola: promise che il re per molti anni non avrebbe imposto ai nuovi sudditi alcun tributo, mandò nuove e numerose truppe al comando del marchese di Chauvelin, tentò di vincere la resistenza degli isolani con promesse di onori e d'impieghi e profondendo a piene mani il denaro; ma i suoi sforzi non riuscirono a domare i Corsi che si battevano come dei leoni e si sentivano animati verso i Francesi dallo stesso odio che prima avevano nutrito per i Genovesi.
Pur di fiaccare la resistenza, la Francia non disdegnò di ricorrere al tradimento. Un certo Matteo Maffesi, istigato dal Chauvelin, si impegnò di consegnar vivo o morto Pasquale Paoli nelle mani dei Francesi; e l'infame disegno sarebbe indubbiamente riuscito se un onesto ufficiale francese, rimasto prigioniero dei Corsi l'8 ottobre del 1768, il cavaliere di Ludre, colonnello della Legione Reale, non avesse avvertito il Paoli, il quale riuscì a sfuggire all'ignobile trama ordita contro di lui.
La Francia allora mandò altre truppe comandate dal generale de Vaux, ma i Corsi non si sgomentarono e in un'assemblea tenuta a Casinea decisero di lottare fino all'ultimo sangue, chiamarono alle armi, tutti gli uomini validi e stabilirono che le famiglie povere venissero mantenute a spese dello stato.
Purtroppo però le forze di cui i Corsi potevano disporre non erano pari alla loro fierezza, al loro valore ed alla loro tenacia. Il Paoli non aveva sotto di sé che otto o novemila uomini male armati, mentre i Francesi avevano cannoni, munizioni in abbondanza, viveri a profusione e circa cinquantamila soldati. In un combattimento avvenuto a S. Giacomo i Corsi ebbero la peggio, in un'altra battaglia combattuta il 9 maggio del 1769 a Pontenuovo fra trentamila Francesi e ottomila Corsi, questi ultimi, nonostante il grande valore spiegato, furono sconfitti.
Pontenuovo fu la tomba della libertà corsa. Ogni resistenza era oramai inutile; le terre, una dopo l'altra, caddero in potere degli oppressori e Pasquale Paoli, sciolte le poche milizie che ancora gli rimanevano, prese la via dell'esilio, imbarcandosi a Portovecchio il 13 giugno del 1769.
Per la stessa via dell'esilio, sopra una nave inglese, partivano anche settecento Corsi, fra cui degni d'essere ricordati sono CLEMENTE PAOLI, fratello del generale, GIANCARLO GIAFFERRI, GIULIO SERPENTINI, PIETRO COLLE, FRANCESCO PIETRI, GIACOMO FILIPPO GAFFORI, CARLO RAFFAELLI e FRANCESCO PORTIGIANI.
Il sogno indipendentista degli isolani era infranto. Era il giorno - ripetiamo- 9 maggio del 1769. Fra questi partigiani desiderosi di libertà che lottavano sulle montagne fra i boschi e i sassi, c'è anche un giovane irrequieto partigiano, CARLO BUONAPARTE, aiutante di Paoli, seguito da sua moglie LETIZIA RAMORINO (sposati nel 1764 - 18 anni lui, 14 anni lei); nessuno immagina lontanamente che questa donna porta in grembo da sei mesi il futuro imperatore che andrà a sconvolgere già a poco più di vent'anni, l'Europa.
Infatti tre mesi dopo, il 15 agosto, Letizia darà alla luce un bambino, che viene chiamato NAPOLIONE BUONAPARTE (questo il nome originario).
Uno dei più illustri esuli era PASQUALE PAOLI, il quale, abbandonata nel 1769 la Corsica, aveva trovato onorato e ospitale asilo in Inghilterra. Dopo le note vicende della Rivoluzione (e con Luigi XVI che ha concesso la Costituzione) i rappresentanti dell'isola lo richiamarono, inviandogli due deputazioni. Convinto, il Paoli si mise in viaggio per fare il suo gran rientro. Passando dalla Francia, si fermò a Parigi, dove fu accolto con grandi onori dal re e dai principali uomini della rivoluzione, e in pubblico si disse lieto della libertà acquistata dalla patria e giurò fedeltà alla costituzione francese.
Poi tornò in Corsica, dopo vent'anni d'esilio. Sbarcò a Macinaggio il 16 luglio del 1790 e, appena toccato terra, baciò piangendo il suolo natio, esclamando: "O, patria, ti ho lasciata schiava e ti ritrovo libera". Grandi feste furono fatte per il suo arrivo e un'infinità di manifestazioni d'affetto, di ammirazione e di stima.
Voleva ritirarsi a vita privata, ma fu creato il 3 settembre, presidente dell'assemblea di elettori convocata in Orezza per deliberare sull'ordinamento amministrativo della Corsica, generalissimo di tutte le guardie nazionali corse, capo del consiglio dei Trentasei, preposto all'amministrazione dell'isola, gli fu decretata una statua da innalzarsi a Bastia e gli fu dato un assegno di cinquantamila lire annue.
Con l'autorità che gli veniva dall'eroico passato e dalla venerazione dei suoi concittadini egli seppe mantener la tranquillità in Corsica e, quando vi fu costretto dalle intemperanze del popolo o dalle ardenti passioni degli agitatori, ricorse alle misure energiche senza spargimento di sangue, convinto che la violenza è nemica della vera libertà.
Perfino la violenza delle plebi francesi condannava, e non approvava quella "del terrore" che era diventata la politica della rivoluzione, o quella di portare le armi contro gli altri popoli con il pretesto di dare loro la libertà, che non dissimulava certo lo spirito di conquista.
PAOLI ricopriva la carica di luogotenente generale degli eserciti nell'isola, conferitagli nel luglio del 1792, quando l'ammiraglio TRUGUET partì da S. Fiorenzo con una squadra per invadere la Sardegna. Comandava le truppe da sbarco il maresciallo CASABIANCA, e commissario della repubblica presso il corpo di spedizione era BARTOLOMEO ARENA. Con la squadra del Truguet c'erano: una fanatica legione di Marsigliesi e un corpo di volontari. Erano questi Corsi comandati dal COLONNA CESARI ROCCA, nipote del Paoli, che però non vedeva di buon occhio quell'impresa, che fra l'altro non era stato neppure consultato.
Scrive il Fianchetti: "Non appena il Truguet ebbe fatto vela da S. Fiorenzo alla volta di Cagliari, il 21 dicembre 1793, una terribile tempesta investì e disperse il suo naviglio. Riparati i danni, ritentò l'impresa che fu più fortunata, impadronendosi dell'isoletta di S. Pietro e della penisola di S. Antioco e gettando l'ancora nella rada di Cagliari (8, 14 e 22 gennaio 1793). Un piccolo veliero da lui inviato per parlamentare, fu accolto a colpi di moschetto e di cannone; la vendetta del Truguet non si fece attendere: iniziò a bombardare la città (24-28 gennaio). Dopo due settimane, avuti dei rinforzi, tentò uno sbarco e un assalto al castello di Quarto e di notte al forte di Sant' Elia; ma gli assedianti male respinti furono costretti a rimbarcarsi in tanto disordine che nel buio della notte si ammazzarono tra loro. Pare che la spedizione sia stata condotta in un modo pessimo: indisciplina nelle ciurme e nei soldati; ruggine tra i capi; errori e avventatezze nel comando. Anche nel campo dei difensori c'era, a dire vero, tanta palese discordia, tra lo scarso esercito regio e i baroni e i miliziani di Sardegna; i secondi accusavano di tradimento la negligenza del Viceré e le tergiversazioni del generale di SAINT-AMOUR; e questi alla loro volta tacciavano i locali di codardia. Ma il vero è che se i miliziani, nei primi scontri, sostennero il fuoco male, per loro inusato, del cannone, fornirono poi molte prove di valore negli attendamenti: di Sulcis, nelle pianure di Gliuc e nella difesa della metropoli, dove gli artiglieri volontari, istruiti dal Visconte di FLUMINI, rimasero fermi al loro posto durante i ventiquattro giorni della guerra; e sopra tutti si segnalarono il Cavalier PITZOLO, membro persuasivo del contingente militare, e VINCENZO SULIS, audace popolano (questi due saranno più avanti i protagonisti di altre vicende). Fortuna volle che anche in questa seconda offensiva, si scatenò una nuova tempesta in mare, che più della prima investì le navi francesi (17 febbraio 1793) e che liberò finalmente l'isola dalla minacciata invasione ..".
Miglior successo non ebbe il tentativo di impadronirsi della Maddalena, fatto dal CESARI ROCCA. Questi sbarcò un drappello di truppe francesi e un gruppo dei suoi volontari da una corvetta sullo scoglio di Santo Stefano e, messe in posizioni le artiglierie, di cui aveva il comando il giovanissimo tenente NAPOLEONE BONAPARTE, cominciò a bombardare l'isola; ma, un manipolo di soldati e paesani sardi guidati da DOMENICO MILLELIRE, da un'altura della punta meridionale di Caprera presero a bersagliare i cannonieri nemici, che, abbandonate le artiglierie si diedero alla fuga precipitosa Prova di grande indisciplina offrirono in quell'occasione i marinai francesi, i quali messisi in salvo sulle navi, volevano prendere il largo; il Cesari-Rocca che si recò a bordo per pregarli di non lasciare a terra i volontari Corsi e centocinquanta soldati francesi regolari, corse perfino il rischio di essere impiccato. Alcuni giorni dopo il giovane Bonaparte scriveva al Paoli e al ministro della guerra denunziando i vili e i traditori che avevano fatto fallire l'impresa.
Quest'impresa fu causa di grand'amarezza al vecchio Pasquale Paoli. Parecchi di quelli che l'avevano voluta e non avevano saputo compierla erano suoi volgari nemici; altri nemici aveva in Corsica e in Francia fra l'elemento giacobino di cui disapprova le violenze; e dai suoi stessi fiancheggiatori, divisi in consorterie, e non pochi erano i malcontenti nel vedere favoriti i loro avversari. Delle calunnie erano state lanciate contro di lui prima ancora della spedizione di Sardegna: lo si accusava di slealtà verso il governo, e le accuse avevano trovato credito presso coloro che sapevano il Paoli nemico della demagogia e delle intemperanze.
Stanco di esser calunniato, il 28 gennaio del 1793 il Paoli scrisse al Ministro della guerra comunicandogli che si dimetteva dalla carica di luogotenente generale, ma il 19 febbraio il Consiglio del dipartimento della Corsica lo scongiurò dal proposito, e il 9 marzo i deputati dichiararono che le sue innegabili virtù avrebbero avuto ragione sia delle calunnie sia dei calunniatori.
La Convenzione mandò in Corsica tre Commissari per un'inchiesta, ma intanto i nemici del Paoli si accanivano maggiormente contro di lui: BARTOLOMEO ARENA lo denunciava alla Convenzione, al Consiglio esecutivo e alle associazioni popolari e Luciano Bonaparte, fratello minore di Napoleone, istigava il circolo democratico di Tolone ad accusarlo presso la Convenzione.
Questa, senza aspettar l'esito dell'inchiesta, il 2 aprile del 1793 decretò che il Paoli fosse arrestato. Sorse allora, in difesa del vecchio patriota, NAPOLEONE BONAPARTE, il quale fece sì che la "Società degli amici del popolo" di Aiaccio inviasse una petizione alla municipalità per esortare i cittadini alla concordia, ed una alla Convenzione esaltando il patriottismo del Paoli e invocando l'abrogazione del decreto. Pasquale Paoli scrisse il 26 aprile una dignitosa lettera alla Convenzione, difendendo la sua condotta con molta serenità, che rivelava la coscienza tranquilla, ma nello stesso tempo aggiungeva parole che suonavano come un'esplicita accusa ai fanatici rivoluzionari. Questa lettera, le manifestazioni d'affetto dei Corsi verso il loro gran concittadino e le pratiche di due deputati straordinari del dipartimento fecero sì che la Convenzione sospendesse il decreto e inviasse (5 giugno 1793) due altri Commissari.
Questi però non giunsero in Corsica, perchè ad Aix furono arrestati dai realisti che si erano sollevati ed allora i due primi Commissari destituirono i capi del dipartimento accusandoli di fomentare la ribellione e ne nominarono altri. Il provvedimento riuscì dannoso perché gli odi aumentarono e invece di uno si ebbero due governi. Le lotte civili, inasprite dall'intervento dei Marsigliesi, raggiunsero una grande intensità e parecchie case furono saccheggiate e danneggiate, fra cui quelle degli ARENA, dei MALTEDO e dei BONAPARTE. Lo stesso Napoleone con i familiari, rifugiatosi prima a Bastia, dovette poi (11 giugno) emigrare con la famiglia in Francia.
Il 27 maggio, a Corte, una consulta di mille e nove deputati dichiarò benemeriti della Corsica gli antichi membri del Consiglio generale e del Direttorio e li riconfermò in carica, acclamò Pasquale Paoli padre della patria, revocò il mandato di deputato ai suoi avversari e additò al pubblico disprezzo le famiglie degli Arena e dei Bonaparte. La consulta inoltre dichiarò di non volere ubbidire ai Commissari, ma di voler dipendere direttamente dalla Convenzione alla quale sottoponeva per l'approvazione tutti i suoi atti.
I Commissari a loro volta dichiararono nulli i decreti della consulta e ribelle chiunque aderiva alla stessa, quindi, lasciato in Corsica come loro rappresentante il deputato LACOMBE S. MICHEL, partirono per Parigi per informare dei fatti la Convenzione la quale il 17 luglio del 1793, pose il Paoli fuori legge come traditore della patria e in stato di accusa più di venti isolani tra cui il Galeazzi, il Ferrandi, il Colonna e il procuratore generale sindaco Pozzo di Borgo.
La rottura tra la Corsica e la Francia fu completa. Tutti gli isolani si dichiararono sostenitori del Paoli e ai Francesi non rimasero che le piazzeforti di Bastia, di Calvi e di S. Fiorenzo. Il Paoli, ritrovata l'antica energia, sebbene carico di anni, con gran dinamismo si diede da fare per organizzare la milizia e per governare il paese con fermezza e saggezza, facendo anche tentativi per cacciare gli stranieri.
Questi però resistevano straordinariamente bene nelle loro fortezze, mentre ai corsi iniziava a scarseggiare il denaro, le armi e gli uomini. In queste condizioni, Pasquale Paoli capì che da solo non avrebbe mai potuto scacciare dall'isola i Francesi, ma che neppure avrebbe potuto opporre efficace e lunga resistenza ai rinforzi dei suoi nemici che dalla Francia sarebbero senza dubbio venuti prima o poi.
Non c'era che solo un partito cui appigliarsi: mettersi sotto la protezione dell'Inghilterra.
E all'Inghilterra il Paoli si rivolse.
Nel giugno del 1793 Pasquale Paoli inviò l'abate LECCA a chieder soccorso al DRAKE, ministro britannico a Genova; nell'ottobre, con lo stesso incarico mandò il MASSERIA. Gli aiuti non giunsero che il 7 febbraio del 1794: erano quattromila uomini comandati dal generale DUNDAS che, sbarcati ad Agriate, si unirono alle milizie isolane e subito attaccarono violentemente S. Fiorenzo. I Francesi opposero viva resistenza, ma sgominati dall'artiglieria inglese, dovettero abbandonare in fretta e furia la città e la fortezza.
Più a lungo resistettero Bastia e Calvi, ma alla fine entrambe furono costrette a capitolare dalla fame. La prima il 21 maggio all'ammiraglio britannico HOOD, che concesse alla guarnigione comandata dal generale GENTILI gli onori militari; la seconda, comandata dal maresciallo CASABIANCA, capitolò il 10 agosto del 1794; ed anche questo presidio ebbe gli onori di guerra. Un mese prima, mentre contro Calvi dirigeva le artiglierie, Orazio Nelson, allora capitano dell' Agamennone, aveva perduto l'occhio destro.
Mentre duravano le operazioni di guerra, Pasquale Paoli attendeva infaticabilmente al governo civile e militare dell'isola, per la quale aveva adottato la bandiera bianca con la testa di moro, e conduceva colloqui con l'ammiraglio Hood e col cavaliere Elliot per l'unione della Corsica all'Inghilterra. Re GIORGIO III si mostrò favorevole all'unione ma desiderava un voto del popolo. Allora il Paoli indisse le elezioni per una Consulta. Questa riunitasi il 10 giugno, acclamò il vecchio patriota presidente e, approvata la sua opera, dichiarò ufficialmente sciolta la Corsica dalla Francia e nominò una giunta affinché mettesse a punto una costituzione, che fu poi approvata nove giorni dopo.
Secondo il modello approvato, il regno era monarchico parlamentare; il parlamento votava i tributi e le leggi; il sovrano le sanciva e le promulgava; un viceré doveva rappresentare il re e risiedere in Corsica; gli uffici dell'amministrazione e della magistratura dovevano essere tenuti da Corsi e nell'isola dovevano giudicarsi tutte le cause; garantite erano la libertà e la proprietà personale; sancita l'onesta, libertà di stampa e il diritto di petizione rispetto al viceré e alla camera, la quale poteva chiedere al sovrano la rimozione del rappresentante regio; la religione dello Stato era la cattolica, ma tollerati erano tutti gli altri culti; sovrano dell'isola era GIORGIO III, che, per bocca del viceré, doveva, giurare di mantenere la libertà del popolo corso secondo la costituzione e le leggi.
Quattrocento deputati firmarono il documento e sir GILBERTO ELLIOT, che fu il viceré, lo ricevette e giurò lo statuto. Non tenendo conto delle proteste di Genova che vantava diritti di alta sovranità sull'isola, l'Elliot iniziò il suo governo formando un Consiglio di Stato, di cui diede la presidenza al POZZO di Borgo, riordinò l'esercito e nel febbraio del 1795 aprì a Bastia il parlamento, il quale cominciò i suoi atti eleggendo presidente proprio il PAOLI, inaugurandogli perfino un busto marmoreo, che, dall'epigrafe, era, chiamato "il fondatore della patria libertà, il genio tutelare della Corsica".
Pasquale Paoli, che si era ritirato nella sua casa di Monticello di Balagna, rifiutò la carica di presidente a causa dell'età e della sua salute; ma questo rifiuto fece dire ai suoi maligni avversari che con esso tradiva il suo malcontento per non essere stato, come sperava, eletto viceré.
Pareva che la Corsica avesse alla fine ricevuto la sua pace e invece ricominciavano le discordie mentre occorreva l'unione degli spiriti per risollevare l'isola e prepararla a difendersi da un'immancabile assalto dei Francesi, contro cui sarebbero state insufficienti le sedici vecchie navi inglesi dell'Hotham e i tremilacinquecento soldati che formavano l'esercito.
Il Pozzo di Borgo, ambizioso ed interessato, riusciva a far sì che il Parlamento confiscasse i beni ai fuorusciti corsi dichiarandoli traditori della patria; i sostenitori del partito realista, tra cui erano i Buttafuoco, i Baciocchi e i Gaffori, calunniavano il Paoli presso il Viceré e, non osando offenderlo personalmente, sfregiarono (agosto del 1795) la statua. L'Elliot prestava volentieri orecchio alle calunnie e, credendo che il Paoli volesse mettersi alla testa dei malcontenti per accrescere la propria autorità e diminuire quella del governo, scriveva a Londra chiedendo o il proprio richiamo o quello del Paoli.
Il NORTH, segretario di Stato di re Giorgio, non tenendo conto delle numerose lettere che gli arrivavano dalla Corsica, con le quali si venerava la lealtà del Paoli, nell'ottobre del 1795 gli consegnò una lettera del sovrano in cui era scritto: "La vostra presenza in Corsica rende arditi i vostri amici e inquieti i vostri nemici: venite a Londra e noi vi ricompenseremo la vostra fedeltà, mettendovi a parte della nostra famiglia".
Pasquale Paoli accolse serenamente l'ordine di abbandonare l'isola. Verso il 10 ottobre scriveva così all'Arrighi: "Fra due giorni lascerò la Corsica. Continuate a servire l'Inghilterra con la lealtà che vi distingue. Pochi meritano da parte mia questa onorevole testimonianza. Io mi sono accorto che parecchi di quelli che dicono esagerata la mia influenza per all'allontanarmi dall'isola tengono più aux guinées qu'aux franchises della costituzione. Realisti e sedicenti patrioti, entrambi si contendono con la stessa avidità questa curée. Che si affrettino ad approfittarne, perché la Tesoreria non tarderà ad aprire gli occhi. Conviene, nell'interesse dell'isola, non lasciare il governo nell'errore sugli uomini e sui sistemi. Il re di tre regni è buono e giusto, ma è ingannato. Io sono vecchio e comincio a sentire il peso dei miei settant'anni. Tuttavia non preoccupatevi della mia salute. Sapete che sono abituato al rude clima di Londra. Quel che mi affligge è la vista di queste montagne e gli amici che vi lascio".
PASQUALE PAOLI partì per l'ultimo esilio il 13 ottobre del 1795, all'arrivo riverito dalle autorità inglesi ma sconsolatamente salutato alla partenza da tutti coloro che con lui avevano lottato per l'indipendenza della Corsica .
Partiva chi avrebbe saputo con la sola presenza mantenere la pace nell'isola, colui che più di ogni altro voleva una salda unione della Corsica alla Gran Bretagna e sarebbe forse stato capace di rafforzare l'autorità inglese, la quale quell'anno stesso dovette lottare non poco per soffocare vari tumulti scoppiati qua e là nell'isola.
La Corsica rimase unita all'Inghilterra, un solo anno, fino all'estate del 1796. Napoleone Buonaparte, che non aveva mai cessato di pensare alla sua isola natia, impadronitosi - come altrove diremo - nel giugno di quell'anno, a Livorno, chiamò tutti i fuorusciti corsi ponendoli sotto il comando del GENTILI GRANA e ordinando loro di tenersi pronti per una spedizione in Corsica.
Sull'Isola, dopo la partenza del Paoli, erano continuati i tumulti e, nel sopprimerli l'ELLIOT aveva sempre dimostrato grande debolezza; ma anche se fosse stato più energico e i repubblicani fossero stati in minor numero, non avrebbe potuto tenere più a lungo l'isola; la Francia era vittoriosa e l'Inghilterra rimasta sola a lottare nel Mediterraneo, non avrebbe avuto modo né di vettovagliare la sua flotta né di soccorrere la Corsica.
Avuto ordine dal suo governo di abbandonare l'isola, l'Elliot concentrava i suoi uomini a Bastia e a S. Fiorenzo, quindi, nell'ottobre del 1796, saputo che il generale CASALTA era sbarcato con truppe francesi a Macinaggio e che i fuorusciti del GENTILI GRANA erano già entrati in Corsica, si imbarcava frettolosamente coi suoi e prendeva il largo alla volta di Portoferraio.
Così la Corsica tornava ancora una volta sotto la Francia e Pasquale Paoli - che doveva morire a Londra nel l807, e solo da morto poteva tornare nella sua patria, dove fu sepolto (a Merusaglia di Rostino) il 9 settembre del 1889 - non se ne lagnava. Egli, infatti, scriveva nel l802: "La libertà fu l'oggetto delle nostre rivoluzioni; questa ora in realtà si gode nell'isola: che importa da quali mani ci sia data? Ma noi abbiamo la fortuna di averla ottenuta da un nostro compatriota, che con tanto amore e gloria ha vendicato la patria dalle ingiurie che quasi tutte le nazioni le avevano fatte".
Ma gli isolani, eccettuati quelli che vivevano con gli stipendi francesi, i veri Corsi non amavano la Francia e sognavano la loro indipendenza. Due anni dopo la caduta del governo britannico, nel 1798, si ribellarono ai loro odiati padroni e impugnarono le armi per combattere quella che fu detta la "guerra della Crocetta". Loro capo fu il vecchio AGOSTINO GIAFFERRI di Talasani, che, caduto in mano dei francesi, fu condotto a Bastia e ai soldati che stavano per fucilarlo, il 21 febbraio del 1799 gridò: "Evviva la Corsica ! Evviva Paoli ! Sarò vendicato !".
Si ribellarono ancora per l'ultima volta, nel 1816 a Fiumorbo; soffrirono persecuzioni nel 1870, ma non si diedero per vinti. Il 29 aprile del 1871 l'avvocato SANTELLI di Corte, inviò a Bordeaux una petizione all'Assemblea Nazionale, domandando a nome di numerosissimi isolani, la separazione della Corsica dalla Francia; più tardi fu fondato il partito autonomista e si deve ad esso se il 3 agosto del 1925 l'isola, memore dei suoi martiri e con l'anima ancora protesa verso l'indipendenza nazionale, inaugurò a Pontenuovo la "Croce del Ricordo" (vedi per una bibliografia: AA.VV., Histoire del la Corse, Tolosa, 1971 e X. Versini, Histoire del la Corse, Parigi, 1973)










IN NOME DI PASQUALE PAOLI
(di Giuseppe Parini)
“Vidi adunque, che, per voler mantenere alla Corsica la sua naturale libertà, era necessario d'illuminar la nazione oggimai inselvatichita; acciocché, conoscendo essa i detti suoi interessi, fosse atto ciascun individuo a comprendere non poter lui conservar la libertà né la vita né le fortune contro alla forza riunita di mo1ti e per conseguenza dover lui sagrificare quel quasi proprio istinto alla ragione, o dirigerlo a seconda di essa.
Ma in qual modo si sarebbe meglio potuto ammaestrare la nazione corsa sopra le cose che debbono concorrere a formar la felicità e la perpetua tranquillità d'un governo; in qual modo instruir gli Individui componenti la nazione ne' loro doveri verso la società e verso di se medesimi, in quanto uomini e in quanto membri di essa, se non formando un Corpo legittimo di studi, che, come parte massima del governo politico, fosse la mente della nazione fissasse 1’unità dell'opinione circa l'essere e il benessere fisico e mo­rale d’ ogni individuo e della società tutta, e da cui i minori Corpi e i particolari rilevassero perpetuamente la facoltà, la direzione ed il metodo ammaestrativo, tolta ogni violenza per l'una parte ed ogni licenza per l'altra ?
Questo è che mifece risolvere di proporre nella Consulta della nazione tenutasi in Corti il di ecc., lo stabilimento d'una Univer­sità: la quale mia proposizione fu unanimemente accettata, non solo per l'aspetto sensibile di vantaggio ch'essa porta, ma eziandio per l’assistenza e per l'appoggio che le dettero nella Consulta parecchi nazionali, o er commercio avuto con persone estere, o per viaggi e studi fatti fuori della patria o per private letture, o per naturale buon senso, hanno immediatamente sentita l'utilità della cosa proposta, si sono uniti meco a consigliarne ed a persuaderne il restante della nazione.
Fu adunque immediatamente ordinato nella stessa assemblea che si scegliessero persone, prima nazionali, quando fosse possibile, op­pure forcstiere, alle quali si desse incombenza di stendere un piano d’Università ed una forma di pubblico Studio a beneficio di questo regno: ed io medesimo fui incaricato d'osservare e di por l'occhio sopra quelle persone che avessi giudicate più abili a ciò, onde man­dare ad esecuzione, il più presto che si fosse potuto, quanto s'era deliberato di fare.
Pensai adunque, prima d’ ogni altra cosa, a vedere se ci era nessuno ­nel regno a cui per la sua dottrina, per la sua prudenza e per lo zelo potesse senza scrupolo confidarsi un affare di simile importanza, riflettendo che, fra le persone dabbene, niuna può avere premura per il vantaggio della sua patria che il patrioto mede­simo; e in ogni patria, per quanto corrotta esser si voglia, ci è sempre ­alcuna di queste persone che accoppiano alla probità del cuore anche delle utili e non volgari cognizioni. Parvemi ancora giusto che, se da nuove emergenze risultano nuove mercedi da distribuirsi nello Stato per nuovi servigi, queste, in parità di merito, si debbano per preferenza distribuire a' nazionali. Con tutto ciò io era risoluto di cercare anche fuori dell'isola soggetti abili a ben secondare le premure della nazione, qualora in essa non ne avessi trovato di tali. Avrei potuto, è vero, per un verso scegliere dai Corpi de' Regolari [ordini di religiosi] qualcheduno de' piu accreditati Lettori, i quali, per la professione che fanno di scienza e per la pratica che hanno d'insegnare, si potrebbono giudicar capaci di formare un piano di studi nazionali; ma, per l'altro verso, dubitai che fosse difficile di spogliarli di quello spirito corrotto, falso e fazionario, che ordinariamente si vede nelle loro instituzioni domestiche, ne' loro collegi e nelle scuole in qualsivoglia modo pervenute sotto alla loro cura.
Alcuno crederebbe che fra i preti si potessero agevolmente trovare soggetti opportuni ad una tale intrapresa, in grazia dell’essere essi sciolti da ogni peso di famiglia, e perciò liberi, nel sacro loro ozio, di vacare alla filosofia ed alle lettere; ma, per qUanto io ho letto, veduto e provato colla sperienza, mi sono convinto che, dove il popolo è ignorante, il ceto degli ecclesiastici lo è egualmente e tanto più quanto che questo ceto, essendo ignorante, ha delle opinioni che direttamente s'oppongono allo avanzamento delle umane cognizioni, ed ha delle superstizioni che contribuiscono a far crescere ed a promulgare l'ignoranza medesima; e s'immagina d'avere un particolare interesse a coltivarla, ne s'avvede che il maggiore interesse d'un cittadino si è l'interesse di tutti. Finalmente io ho veduto che, qualora si cominciano a spargere qualche lumi di verità in una nazione, non so se per le anzidette o per altre ragioni, gli ecclesiastici son sempre gli ultimi a profittarne e i primi ad impedirne il progresso, e sembra ch'essi temano che le verità filosofiche debbano recar pregindizio alle verità della fede, quasi che la verità possa giammai condurre all'errore. Questo nondimeno che io dico, lo dico parlando generalmente, perché altronde né ho conoscinto e né conosco alcuno che merita d'essere eccettuato.


Si tratta dell'ultima parte di un Rapporto pubblico ossia proclama in nome di Pasquale de Paoli generale de' Corsi, rimasto inedito sino al tempi nostri. II P. scrisse queste sue pagine nel 1769 anno in cui assunse 1a redazione della Gazzetta di Milano, nella quale apparvero varie sue note relative alla lotta che i Corsi, guidati dal Paoli, stavano conducendo contro i Francesi (cfr. Parini, Prose, a cura di E. Bellorini, Bari, 1915, vol. II pp. 283-285): si evidenzia come il coltissimo e progressista Parini fosse rimasto colpito, oltre che dalla figura eroica del patriota, dalle iniziative educative e sociali del Paoli, atte a risollevare le misere sorti intellettuali della Corsica.