COSTANTE (FLAVIO GIULIO COSTANTE)

COSTANTE nacque da Costantino il Grande e Fausta nel 320. Verso il 333 fu nominato Cesare dal padre che gli affidò l'Italia, l'Illiria e l'Africa. Alla morte del padre, nel 337, Costante fu proclamato Augusto e quindi, morto il fratello Costantino II nel 340, divenne unico imperatore romano d'Occidente. Combattè vittoriosamente i Franchi nel 341 e governò con saldezza e valore il suo immenso dominio anche se fu accusato d'essere violento ed avaro. Il 27-II-350 venne uciso a Illiberis da un sicario di Magnenzio che era stato proclamato imperatore ad Augustodunum.











Gli acquedotti raccoglievano l'acqua da diverse sorgenti naturali situate anche molto lontano dalle città (non è il caso di Ventimiglia romana ma a Roma la più lontana sorgente era quella dell'Anio Novus, 59 miglia o 87 km ad est della capitale).
L'"acqua" veniva scelta in conseguenza di molti fattori: la posizione delle sue sorgenti, la sua purezza, il suo sapore, la sua temperatura, e talvolta persino le sue supposte proprietà medicamentose attribuite ai sali minerali contenuti.
L'acqua si muoveva in direzione dei centri abitati grazie alla sola forza di gravità: l'acquedotto era concepito in pratica quale un continuo scivolo per a distanza che separava le sorgenti dal punto del suo sbocco.
Per ottenere tale risultato ciascuno di essi veniva progettato in modo tale che ogni singola parte del lungo tracciato corresse leggermente più in basso di quello precedente, e leggermente più in alto di quello successivo.
Quindi l'acqua doveva essere presa da sorgenti situate in collina, più in alto rispetto alla posizione del complesso demico (nel caso di Ventimiglia romana ecco il perchè di un approvvigionamento non dalle basse polle potabili del Nervia ma dall'altura dove stava la fonte del rio Seborrino).
Gli architetti romani erano abili in questa attività, per cui disponevano di arnesi sofisticati: a parte la comune livella, simile a quella usata oggi dai falegnami, utilizzavano strumenti come il chorobates, una sorta di panca con fili a piombo sui lati per misurare l'inclinazione del terreno su un sistema di tacche graduate, e un breve canale al centro, che serviva verosimilmente per testare la direzione del flusso.
Il dioptra era un diverso tipo di livella: poggiato in terra, e finemente regolato mediante angolatura e rotazione della sua parte superiore a mezzo di viti di precisione, poteva calcolare l'inclinazione di un segmento di acquedotto puntandolo con un sistema di mirini girevoli.
Prima di essere incanalata, l'acqua passava attraverso una o più vasche dette piscinae limariae, dove la velocità di flusso rallentava, consentendo al fango e alle altre particelle di depositarsi.
Simili vasche si trovavano anche lungo il corso di molti acquedotti, per rimuovere qualsiasi impurità.
Lontano dall'area urbana gran parte del percorso degli acquedotti era sotterraneo: scavando pozzi verticali veniva raggiunta l'altezza richiesta per mantenere un percorso in discesa, e quindi il canale, o specus, veniva scavato attraverso la roccia.
In molti casi le pareti dello specus erano rivestite di uno strato impermeabile consistente in una sorta di cemento, il cocciopisto (malta mescolata con minuti frammenti di anfore e mattoni sbriciolati).
I pozzi verticali venivano lasciati aperti, riutilizzati come passaggi di servizio per la manutenzione dell'acquedotto: l'acqua di Roma per esempio è molto ricca di sali di calcio, specialmente quella raccolta presso le sorgenti ad est della città, ed enormi quantitativi di sedimenti dovevano essere frequentemente rimossi per impedire ai dotti di ostruirsi.
Lungo lo specus erano anche presenti degli sfoghi, cosicché nel caso di una piena le pareti non sarebbero rimaste danneggiate.
Lungo il percorso esterno dell'acquedotto ogni 240 piedi (70 m) una grossa pietra segnalava la presenza del canale sotterraneo, e per evitare danni e inquinamento doveva essere rispettata una distanza di sicurezza di 5 piedi (1.45 m) dal suo passaggio.
Infatti tutti gli acquedotti erano pubblici, di proprietà del governo a beneficio dei cittadini.
Il loro danneggiamento o inquinamento veniva severamente punito, così come anche usare l'acqua per ville o terreni privati collegandosi illegalmente alle condutture pubbliche.
Rami privati in effetti esistevano, ma potevano utilizzare solo il surplus dell'acqua disponibile, e per fare ciò si pagava un tributo.
Lo specus era ricoperto con lastre di pietra, proteggendo l'acqua dall'esposizione diretta alla luce del sole, dal terriccio, dalle foglie: la copertura poteva essere piatta o di forma arrotondata se non ad angolo.
Di solito le parti esposte dell'acquedotto venivano delimitate da un basso muro coperto in qualche modo, con una distanza di sicurezza dal canale aumentata a 15 piedi (4.40 m).
Quando il dotto raggiungeva una parete scoscesa o una gola, una possibile soluzione era di costruire un ponte, o viadotto, per attraversare il salto e raggiungere il lato opposto ad un'altezza leggermente inferiore: qui il percorso del canale ritornava sotterraneo.
Un altro modo di superare tali formazioni naturali era di attraversarle con il "sifone invertito", una tecnica basata su un semplice principio fisico.
Appena prima del salto l'acqua veniva raccolta in una cisterna, dalla quale una tubatura la conduceva in fondo al dirupo per forza di gravità, e quindi la faceva risalire fino ad una seconda cisterna grazie alla pressione generata lungo la discesa.
Un piccolo viadotto era spesso costruito a valle per ridurre l'altezza massima del salto, e quindi minimizzare la pressione richiesta per risalire la parete opposta.
Il sifone non veniva usato spesso per gli acquedotti romani perché le condutture disponibili a quei tempi, di piombo o terracotta, non potevano essere saldate in modo sufficiente a tenere la grande pressione generata lungo la discesa, provocando grosse perdite d'acqua e necessitando di frequenti riparazioni.
Invece gli architetti in molti casi preferivano allungare il percorso dell'acquedotto, a volte di parecchio (come nel caso a Roma dell' Aqua Virgo), per seguire le caratteristiche naturali del terreno e incontrare costantemente una pendenza regolare.
Ciò spiega perché molti acquedotti erano notevolmente più lunghi della distanza in linea d'aria fra le loro sorgenti e il punto di arrivo.
Presso Roma od altre grandi città dell'ecumene romano quando il terreno si faceva piano, in vicinanza della città, il flusso veniva reso possibile costruendo serie di arcate, alcune delle quali raggiungevano quasi 30 m di altezza.
Attraversavano la campagna per delle miglia, mantenendo il livello dell'acqua sufficientemente alto da poter raggiungere l'area urbana.
Infatti era lungo queste grandiose strutture che la maggior parte degli acquedotti entrava per esempio a Roma.
Più l'acqua viaggiava alta, più grande era il numero di quartieri che avrebbe potuto raggiungere.
Nella parte sommitale di questi viadotti, dove scorreva il canale, si trovavano delle aperture che consentivano la stessa opera di manutenzione richiesta dai dotti sotterranei.
Dovendo sfruttare quanto più possibile l'altezza naturale del territorio attraversato, diversi acquedotti arrivavano a Roma seguendo un percorso quasi identico; quindi due o persino tre "acque" potevano condividere lo stesso viadotto, scorrendo in canali separati a livelli differenti , secondo la rispettiva altezza che ciascuna di esse aveva sin lì raggiunto.
I principali sbocchi cittadini erano situati nei punti urbani più elevati.
In particolare, molti acquedotti raggiungevano i confini di Roma da sud-est, in un sito chiamato Spes Vetus da un antico Tempio della Speranza che una volta vi sorgeva.
L'acqua quindi entrava in città dal vicino colle Esquilino, da dove poteva essere distribuita a gran parte degli altri quartieri.
In alcuni casi acquedotti più "ricchi" ne aiutavano altri a mantenere un volume d'acqua sufficiente al rifornimento delle rispettive aree: per esempio, l'Aqua Claudia versava circa 1/8 della sua portata nelle A.Iulia e A.Tepula.
Non tutti gli acquedotti entravano a Roma passando su un viadotto: quello più antico, l'Aqua Appia, correva quasi completamente in sotterranea, così come pure quelli provenienti da nord-ovest, Aqua Alsietina e Aqua Traiana, che rifornivano l'VIII regio, Trans Tiberim (cioè Trastevere) dalla cima del colle Gianicolo.
In tali casi, entro l'area urbana venivano usati i lapides perterebrati cioè mattoni cavi che si incastravano l'uno nell'altro formando un condotto impermeabile.
Molti di questi sono stati rinvenuti negli scavi archeologici, consentendo l'identificazione di vari canali sotterranei menzionati dalle fonti letterarie.
Il principale sbocco di qualsiasi acquedotto dell'ecumene di Roma rispondeva ad una tipologia consueta quanto rispondente in maniera quasi speculare (prescindendo solo dalle dimensioni in rapporto alle necessità idriche locali) alle esigenze tecnologiche della situazione: si trattava di un edificio di distribuzione dell'acqua detto CASTELLUM AQUAE, una struttura di dimensioni variabili che conteneva una o più vasche simili alle piscinae limariae, dove il flusso idrico rallentava e le ultime impurità sedimentavano.
L'acqua veniva quindi versata all'esterno da un certo numero di bocchettoni a forma di calice.
Molti castelli apparivano come semplici prismi, ma alcuni avevano l'aspetto di fontane, o ninfei, decorati con statue, rilievi o mosaici.
Erano sorvegliati da guardie per evitare qualsiasi manomissione dei dotti o inquinamento dell'acqua.
Dal CASTELLUM principale altre parti della città venivano raggiunte grazie a rami minori dell'acquedotto, tanto su viadotti sopraelevati che lungo canali sotterranei, sempre seguendo una continua pendenza come quello principale.
Anche questi a volte avevano rami successivi, e terminavano con castelli più piccoli, oppure rifornivano direttamente terme, fontane, ecc.: in effetti, l'antica Roma era attraversata da una rete di condotte idriche piuttosto complessa che certamente non doveva avere relazioni con la molto più semplice rete di approvvigionamento idrico di Ventimiglia romana.