Insulae (ISOLE) di materiale alluvionale costituivano ripari per imbarcazioni e attracchi per commercializzare i prodotti vallivi (per questo esse furono spesso al centro di controversie: avevano peraltro rilievo per le colture che vi si praticavano e i mulini costruitivi: ISOLABONA nel Nervia, l'Isola dei Gorreti nel Roia sopravvissute ad oggi son prova dei depositi stabili, destinati a grande evoluzioni).
Il 3-I-1287, nell'atto di annessione amministrativa di ISOLABONA ad Apricale, il toponimo oscillava tra "Insula" e "Insula Bona" (= "Isola Buona" come "Salda, robusta, fidabile, perenne").
Nei Diritti dei Doria (1523) il paese, alla confluenza fra Nervia e rio Merdanzo, aveva il toponimo "Insula" mentre a livello popolare il nome "Insula Bona" aveva preso il sopravvento (le isole delle foci, per quanto più esposte a cambiamenti geomorfologici, erano comunque di volta in volta punti di riferimento viario o strategico).
I "Diritti della Signoria dei Doria di Dolceacqua del 1523" sancirono i privilegi nobiliari, tasse, gabelle, proprietà varie e lo jus di pedaggio.
Secondo gli "Jura" i Doria ad Isolabona (oltre che bandite, mulini, frantoi, giurisdizione degli acquedotti e delle fonti) tenevano un CASTELLO, una CARTIERA, una "casa" nel "piano ovvero piazza dell'isola, con un'altra stalla presso detta casa".
I Doria possedevano poi un "campo", in località "lo chian de la noxa" affittato a tal Giacomo Cane con un contratto che prevedeva l'esborso annuo in natura di 5 mine e 6 quartari di prodotto agricolo.
La Signoria possedeva "un prato in località S. Giovanni", un altro in luogo "la morinella" ed "un altro ancora in località Gonteri".
Erano altri beni dei Doria un bosco di castagni "in luogo detto Ortomoro" (il toponimo par rimandare ai tempi dei Mauri, Mori e Saraceni) sulle alture di Isolabona, condotto da Giovanni Roberto e Giovanni Boero, che pei Signori gestivano anche la "fascia curla" (che prendeva nome da un antico possesso della nobile famiglia intemelia dei Curlo) nel territorio di Apricale.
La Signoria, secondo i dettami dei suoi DIRITTI, teneva, sempre nelle vicinanze di Isolabona, un "mulino grande" con la potenzialità di "centoventi mine buon grano ed 80 di grano di mistura".
Essa aveva anche il possesso di tutti i frantoi, gli "aedifica oleorum", e gli abitanti del luogo (non solo gli addetti alla olivicoltura) eran tenuti a portar solo lì "a frangere" le olive ed a non valersi di mulini fuori giurisdizione.
La tassa da pagare era della dodicesima porzione del prodotto e della totalità delle "sanse": l'atto rimanda ad un'antica consuetudine ed è quindi giusto pensare che l'industria olearia, colla sua peculiare giurisdizione, si perdesse nel monopolio dei primi Benedettini.
Questa convinzione trova conforto dal capo successivo dei Diritti laddove viene precisato che i "Signori" avevano "da sempre" la totale "giurisdizione delle acque": in modo tale che nessuno , tranne naturalmente il Signore, potesse edificare o costruire "molendina" (mulini per granaglie) o qualche altro "aedificium" (frantoio)".