La Raeda (vedi l'immagine: rilievo del II sec. d.C., Roma, "Musei Vaticani") era la tipica carrozza da viaggio romana.
Questo tipo di vettura leggera scoperta, a quattro ruote, con un
solo cavallo, serviva per brevi viaggi; altre carrozze da viaggio erano il carpentum (termine gallico), a due ruote, fornito di copertura elegante, usato
specialmente nelle solennità dalle donne e dai sacerdoti, il piletum, adoperato dalle matrone per recarsi a cerimonie, e il petorritum (termine gallico), carrozza scoperta a quattro ruote, mentre era coperta la carrozza per
ammalati, chiamata arcera. Non mancavano carrozzini leggeri da viaggio,
adatti per una sola persona, detti cisium e covinnus (termini celtici).
Per il servizio di posta veniva usato un carro leggero,
il vectriculum: per le merci si usavano il carrus, rozzo carro da trasporto a quattro ruote fornito da vere e proprie ditte organizzate, e il plaustrum , carro più piccolo, una specie di carretta.
I contadini romani usavano per trasportare pesi o per viaggiare colla
loro famiglia il serracum (sarracum) importato in Italia dal difuori,
con due ruote massicce e una cassa con due pareti laterali chiuse dietro.
Di altro tipo e adatto per altri usi l'essedum (termine celtico), carro da
guerra a due ruote dei Galli, Belgi e Britanni, ma dai Romani usato anche
come carrozza e piu tardi come carro da trasporto.
Grande importanza ebbe
poi il currus , il tipico carro trionfale.
Ben altra forma ed uso, rispetto ai carri da viaggio e da trasporto, avevano la biga , la triga e la quadriga .
La biga era un carro leggero o cocchio
usato nelle corse e in guerra: la cassa del carro era collocata su due ruote
piccole, chiuse da un parapetto e da una spranga ricurva nella parte anteriore, aperta in quella posteriore, ove stavano in piedi il guerriero e l'auriga che guidava i due cavalli. Poco usata la triga tirata da tre cavalli affiancati, mentre la quadriga tirata da quattro cavalli affiancati veniva usata precipuamente nelle corse delle gare pubbliche, nei "ludi circenses", nei trionfi
e nelle processioni solenni.
La Carruca dormitoria , carrozza da viaggio romana, è ben effigiata
in un Rilievo (sec. II) di Virunum , colonia romana nei pressi di Klagenfurt,
citta austriaca cap. della Carinzia: Chiesa di Santa Maria Saal.
Questo tipo
di vettura a quattro ruote con resistente copertura, trainata da due cavalli,
usata dai nobili era destinata a lunghi viaggi con la famiglia e coi bagagli:
l'interno elegante era dotato di uno o due materassi su strisce di pelle o di
tela per il riposo notturno.
Nulla vietava però dal fermarsi alle stationes o
mansiones , che avevano strutture pubbliche e dove si potevano trovare buoni
alberghi per le tappe notturne.
Le mansiones distavano fra loro XV milia passuum , ossia circa 23 km.:
tale era la distanza fra Albintimilium e la mansio di Costa Balenae (Arma
di Taggia), da qui a quella di Luco Bormani (Diano Marina) e alla successiva di Albingaunum .
Con questa carrozza si poteva fare un comodo viaggio di circa 70 km.
giornalieri, corrispondenti a tre tappe, ossia da Albintimilium ad Albingaunum , se buono era il fondo stradale, cioe lastricato (silice stratum), e non
inghiaiato ( glarea stratum ).
Soltanto Giulio Cesare fu in grado di sopportare
viaggi giornalieri lunghi il doppio, cioè circa 150 km.: così almeno correva
voce!
Nel suburbio di Albintimilium , la maggior parte
di locande e alberghi, costruiti per ospitare i molti viaggiatori ed i numerosi mercanti che
passavano per questi luoghi, sorgevano fuori della città principale, perchè
dagli uomini per bene erano considerati luoghi disonorevoli, dove si rifocillavano avventurieri di ogni sorta e si giocava d'azzardo, col pericolo di
essere sorpresi dagli edili e dalla polizia locale, specie quando il fallimentare
"colpo del cane" (i pezzi degli astragali o dei dadi uscivano tutti con lo
stesso numero) scatenava zuffe, che la sola forza pubblica ( vigili ) poteva
sedare (MARZIALE, V, 84).
Quando Albintimilium fu nel suo periodo migliore (I-II sec. d.C.) e il
teatro e le terme erano in piena attività, è indubitabile che nella citta nervina operasse una folla variegata di personaggi.
La presenza di negozi e servizi commerciali è certa, oltre che provata,
ed è sicuramente fuori discussione quella di una serie di operatori, impiegati nelle tabernae , che vendevano salsicce fumanti, bibite e pasticcini (SENECA, Ad Luc. , 56, 2).
Alberghi e taverne si moltiplicarono sempre in rapporto alle ragioni del
maggior benessere e, pur tenuti ai margini dei quartieri piu equivoci, finirono talora per crescere vicini alla citta: specie se vi erano luoghi di divertimento e se si trattava di città di traffico commerciale, quale appunto Ventimiglia romana.
A volte erano locali dignitosi che riqualificavano la categoria degli albergatori: ad Antibes, per esempio, si sono rinvenute tracce di un albergo rispettabile, il cui proprietario, su un'apposita iscrizione, si fece unica cura di elencare la qualità e le varietà del servizio e dei cibi proposti al pubblico (T.
KLEBERG, Alberghi, ristoranti e taverne nell'antica Roma , Uppsala, 1957: si veda a guisa d'ulteriore esemplificazione questo MENU' in merito al servizio offerto da un ristorante pompeiano del I secolo d.C.: e siccome -come tuttora accade- il ritardo nei servizi non è poi una rarità, furbescamente qualche ristoratore sul retro di queste "Carte dei Servizi della Casa" o "Menù" faceva disporre il disegno di qualche gioco da tavola, così, con pedine messe a disposizione o inventate lì per lì, i clienti potevano riempire l'attesa...come dire dilettarsi nell'aspettare con un po' di sana psicologia del proprietario)
In altri casi le taverne, in particolare, mascheravano attività illegali sulle
quali gli edili e la polizia avevano difficoltà ad indagare, anche per la moltitudine di sbandati, fuggiaschi ed avventurieri che vi si soffermavano per
breve tempo, onde poi affrontare le imprevedibili strade del loro perpetuo
vagabondaggio.
Al fine di attirare questa clientela osti truffaldini chiamavano saltimbanchi, giocolieri, nani buffoni e qualche imitazione delle audaci danzatrici
di Gades (Cadice).
Tra il suono delle nacchere, il fumo, il chiacchierare insistente dei venditori ambulanti, i carrettieri che per Ventimiglia dovevano passare o i marinai che vi sostavano, non potevano fare a meno di approfittare di qualche
occasione di divertimento.
La presenza del teatro, che possedeva strutturazione idonea solo per rappresentazioni frivole, induce a credere che vi operassero
compagnie che oggi diremmo di avanspettacolo, di mimi e di danzatrici: e
quelle di Cadice, quelle autenticamente spagnole, costituivano per gli antichi un'attrattiva straordinaria (GIOVENALE, XI, 162-175).
Musiciste e danzatrici erano donne disposte a tutto, le musiciste che
suonavano il flauto o la sambuca potevano suonare a un ricco banchetto
ma nessun serio committente le avrebbe ospitate in casa propria; nè il teatro, se avessero lavorato per esso, possedeva locali ove ospitarle.
Esse trovavano così rifugio nelle locande, non disdegnando di offrire a
pagamento le loro grazie: Ventimiglia era un centro commerciale, un luogo
di traffico, una città che si arricchiva in proporzione al volume degli affari
che vi si trattavano.
Gli operatori economici avevano bisogno anche di svaghi e probabilmente bagni e teatro non bastavano!
Molti di loro erano rozzi avventurieri e, per il tempo che dovevano fermarsi, preferivano forse lo svago di qualche bettola dove potevano bere,
giocare a dadi e fare all'amore.
Le locande (in Ventimiglia romana come in ogni parte dell'Impero) servivano spesso, anche illecitamente, come "bordello" o "luogo d'incontro per rapporti sessuali a pagamento": a pian terreno si mangiava e si beveva; al primo piano una o più camere consentivano al cliente di
raggiungere l'ostessa o la cameriera per un breve momento di piacere.
La prostituzione e tutti i suoi favoreggiamenti erano però intese come attività disonorevoli e da riprovare sempre sia per quanto concerneva la morale comune sia per tutte le norme legislative e gli ordinamenti di polizia.
Per esempio il Digesto , III, 2, 4 e XXIII, 2, 43 espressamente sancisce: "Esercita il
mestiere di prosseneta colui che, facendo l'oste o il gestore di una locanda, ha
schiave che, oltre alla loro attività di serventi, si prostituiscono... " ed ancora:
"... noi affermiamo che si prostituiscono non soltanto quelle che sono
pensionanti di un lupanare, ma anche le donne che traggono profitto dal proprio
corpo in un'osteria... Ed esercita il mestiere di mezzana anche la locandiera che
fa favori, oflrendo le sue serve. Infatti molte di queste donne, con il pretesto del
servizio d'albergo, impiegano prostitute".
Il Digesto pone poi alla stessa stregua i gestori dei bagni pubblici che si
servivano spesso di schiave, ufficialmente quali guardarobiere ma libere di
esercitare la prostituzione.
poteva anche accadere che le taverne in cui si praticava la
prostituzione fossero indicate da un'insegna raffigurante un "fallo" ma il suo significato di base era quello di
proteggere dal malocchio e garantire la fortuna (cosa che si evince dalla semplice analisi visiva della taberna lusoria o casa da gioco scoperta a Pompei): la rappresentazione di un membro virile si coniugava prioritariamente a quelle funzioni scaramantiche tanto care ai romani, anche se, par fuor di discussione, che nel contesto dei frequentatori rappresentasse contestualmente un "segnale occulto" soprattutto indicasse l'attività "supplementare" sull'esercizio ufficialmente penalizzato del meretricio,
in tal locale.
La tradizione fescennina, mordace e satirica ereditata dai Romani dal mondo degli etruschi aveva sviluppato un rapporto con la sessualità esibita nelle sue varie provocazioni iconografiche infinitamente superiore a quella maturata in epoca posteriore, dal medioevo in poi: la moralizzazione cristiana finì quindi con l'abbattersi indiscrimanatamente su tutto un contesto di aspetti della romanità in cui il sesso (e più estesamente la fisicità: in Roma e nella grecità la deformazione fisica era peraltro vista come un limite, semmai causa di riso più che di compassione) non era inteso come fornicazione o devianza da qualche canone divino (non a caso gli dei pagani erano sempre stati effigiati in una sorta di suprema fisicità che semmai potenziava ed esaltava gli attributi sessuali).
L'esibizione di attributi sessuali, di congiungimenti sessuali, di libertà sessuale o addirittura di esasperazioni tragicomiche della sessualità non corrispondeva in Roma antica nè alle speculazioni quasi eidetiche di una sorta di elementare Kamasutra e tantomeno alla proposizione continua di un'inesausta passione per gli approcci sessuali (tanto che per esempio lo stupro era pesantemente condannato e neppure proposto a livello artistico essendo inteso come espressione di violenta rozzezza e di sopraffazione ingiustificabile).
Nel contesto di un rapporto a volte panico a volte ilare con il corpo e la sessualità ecco che per gli antichi Romani l'ostentazione di affreschi erotici e di un'oggettistica di forte richiamo alla sessualità non comportava rivolta contro una morale ma era semmai espressione di un'altra diversa morale che, proprio perché non cristiana, poggiava su valori, anche estetici, più antichi e comunque diversi (per esempio non mirava a celare la bellezza o la fisicità: e lo attestano tanto il classico successo delle terme quanto la lotta incessante molto tempo dopo portata avanti dai controversisti cristiano-cattolici avverso l'uso che gli arabi facevano dei bagni termali, riprendendo e continuando una tradizione igienica romana apprezzata e studiata dai loro medici).
Forse l'islamista Malvezzi ci può indirettamente soccorrere in questi ragionamenti quando propone come insito nel rovesciamento del rapporto con il proprio corpo uno scontro fra culture e religioni che diviene incomprensione e scontro di popoli, e non solo sotto il profilo religioso: più volgarmente si potrebbe dire che un Michelangelo Buonarroti, vivendo a Roma antica, giammai si sarebbe sentito rimbrottare dai sacerdoti coevi quella nudità conferita ai personaggi affrescati (magari avrebbe potuto conoscere altre reprimende!) che gli fu invece contestata dai cardinali di Roma al segno che poi, salvo tardivamente rimediare, un mediocre pittore fu incaricato di rivestire certe ostentazioni fisiche che, secondo la morale del tempo, potevano parere blasfeme!
Tutto ciò per segnalare che la presunta disinibizione sessuale romana (che forse avrebbe salvaguardato la donna cristiana da secoli relegazione fisica e intellettuale!) era una costumanza che rientrava in una morale ben precisa, che ostentava nei monumenti come negli affreschi e nell'oggettistica gli attributi sessuali ma senza farne un sistema mentale di perdizione, proprio perché era estraneo a tale morale l'idea di sessualità vissuta quale offesa verso un qualche Dio e semmai, cosa discutibile quasi in assoluto, la sessualità esagerata, esasperata, abnorme come anche più estesamente la fisicità sgraziata e soprattutto deforme erano oggetto non tanto di sconforto morale ma semmai di riso, anche turpe, certo grossolano ma in qualche modo catartico verso chi poteva esaltarsi dall'alto di una potente posizione sociale (e si ricordino i lazzi anche osceni pronunciati dai soldati avverso il generale trionfante al fine di non esaltarsi ed eleggersi più o meno consapevolmente ad una sorta superuomo o di reggitore dell'ecumene di Roma).
Certo vi erano, come sempre fu e sarà, pervertiti, dissoluti e dissolute, meretrici e prosseneti ma erano guardati con sospetto dalla gente normale: e la morale ordinaria badava a conservare sempre vivo il senso della famiglia, l'onorabilità, condannava gli eccessi, la prostituzione maschile e femminile, l'omosessualità, addirittura era più severa (di quanto almeno lo sia stata in epoca cristiana moderna) verso certe pratiche erotiche particolari (come poi si vedrà): ma la critica, avverso tutto ciò, non si sublimava in inquisizioni od in roghi, si limitava molto spesso (fatti salvi i casi di rilevanza penale) in un ridimensionamento delle persone e del giudizio che ad esse doveva pubblicamente conferirsi.
Il rinvenimento nell'angolo sud-est della taberna orientale della Domus
del Cavalcavia, a Ventimiglia, di un rilievo fallico in pietra della Turbia, potrebbe
essere prova che il locale servisse anche quale lupanare ( V.R. , pp. 96-101 e
Fig. 88): ma è da ritenerlo senza dubbio una sorta di segnale subliminale, forse abbastanza bene interpretabile ma sempre e comunque, anche per comodità avverso polizieschi interventi, mascherato dietro quella simbologia propiziatoria del "fallo" (che si ritrova anche in divinità celto liguri come Beleno) la quale è a sua volta da innestarsi in quella più estesa cultura scaramantica romana che, variamente ed a livello soprattutto popolare, ha attraversato tutti i secoli della cristianità.
A Ventimiglia romana come a Roma ed a Pompei, ed ovunque nell'Impero, questo connubio di strutture di
intrattenimento (V. C. SALLES, I bassifondi dell'antichita , Milano, 1983,
p. 260) erano consuete, per quanto non sempre lecite: è comunque pressoché certo che la distruzione dell'insegna sia attribuibile all'opera moralizzatrice del trionfante Cristianesimo.
Come detto prima però la gente del posto, gli uomini comuni,
coloro che avevano altre occupazioni, mal vedevano queste cose.
Infatti, contrariamente a false credenze, il buon romano, il padre di famiglia,
la morale generale condannavano con ribrezzo ogni forma di licenza.
Si legga, tradotto, questo senatoconsulto del 19 d.C. scoperto nel 1978 in
Apulia: "(per decisione del Senato) ai figli, alle figlie, ai nipoti, alle nipoti, ai
bisnipoti, alle bisnipoti di senatore, a coloro il cui padre, il nonno paterno e
materno o il fratello siano di rango equestre, è vietato di comparire su un
palcoscenico teatrale, e vietato di firmare un contratto per lottare
contro le belve, per partecipare a un combattimento di gladiatori, o a un'attività dello stesso tipo.
Che nessuno ingaggi questi uomini o queste donne, anche se si offrono...
Nella stessa maniera, ci si attenga al senatoconsulto emesso sotto il consolato di Manio Lepido e Tito Statilio Tauro, in cui si stipula che: nessuna
libera, in età minore di vent'anni, e nessun ragazzo libero, in età minore di
venticinque anni, ha il diritto di impegnarsi come gladiatore, di comparire
sull'arena ne su una scena di teatro, o di prostituirsi per denaro" (cfr. V.
GIUFFRE, Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli, XCI,
1980).
I Romani avevano un senso profondo della moralità e lo Stato si impegnò più volte nel tentativo di proteggere la buona gente e i giovani, in
particolare, dai pericoli dell'adescamento e della corruzione.
L'aumento del benessere poteva tentare i più fragili, gli abbandonati, ma
la famiglia, l'istituzione, l'Imperatore stesso [anche precindendo da un voluto programma di moralizzazione come quello di Augusto] lottavano contro gli eccessi, pur
nella consapevolezza di inevitabili allontanamenti sociali dai sani antichi
costumi.
Questi contrasti tra pudicizia e licenze, tra pensieri onesti di gente comune e iniziative lucrose ma discutibili dal lato morale, non debbono stupire.
La stessa onomastica di Ventimiglia romana è un documento di varietà di
genti, e quindi di tradizioni e di costumi.
Abbastanza alto è il numero dei nomi greci o di genti di terre lontane: e noi sappiamo che soprattutto greche e frigie erano le prostitute, come molti dei
loro protettori, sempre sospettati dalla polizia e malvisti dall'opinione pubblica.
Ventimiglia romana era punto d'incontro, sistema dove
interagivano vari meccanismi commerciali.
L'incremento demografico e l'aumento di benessere sono da connettere,
tra I e III secolo d.C., al suo ruolo di nodo viario commerciale.
E' quindi evidente che, pur contro il giudizio dei benpensanti, vi si
radunassero persone di dubbia reputazione, affaristi e cambiavalute, che
vi soggiornassero mulattieri e sgualdrine.
L'economia della città ruotò su questo sistema di scambi e, viceversa, la città entrò in crisi nel IV secolo d.C., perchè, a parte i saccheggi
veri o presunti, nell'economia generale dell'Impero, coll'arresto di molte
iniziative commerciali, essa perse parecchi dei suoi ruoli antichi e non le
giungeva più la linfa vitale di un discutibile brulicare di umanità impiegata
nel settore economico o comunque legata, anche in modo parassitario, a tale
organismo, portatore di un benessere che le era negato dalla terra, da un
mare non ricchissimo, dall'assenza di grosse imprese locali: il porto e la via
Julia Augusta segnarono i destini di Ventimiglia, nel bene quanto
nel male (V.R.2, intr., passim e pp. 90-101).
In epoca romana i traffici erano assai più intensi, sia per l'economia aperta
sia per la peculiare posizione frontaliera, sotto la veste portuale e viaria, del
municipio di Albintimilium.
Il nodo principale del traffico era verisimilmente alla
Mansio di Lumo o Lumone, segnata dall'Itinerario
Antonino a X miglia dalla città nervina ed identificata dal Lamboglia in
resti murari d'epoca romana ritrovati nella zona di Cap Martin, su una linea
longitudinale dove si ebbero reiterate scoperte di monete di via d'epoca
imperiale ma di tempi diversi: segni non vaghi di un lungo traffico stradale.
Era forse questo il luogo dove si pagava la dogana di passaggio dall'Italia
alla Gallia, ma, a prescindere dal dettaglio, e certo che tutti questi siti furono
coinvolti da un cospicuo passaggio di trasportatori ed operatori commerciali.
Nel centro urbano di Nervia il porto convogliava un ulteriore movimento di prodotti, i quali solo parzialmente si vendevano in area municipale, ma venivano variamente smistati, secondo la provenienza, verso le
Gallie, l'Italia centrale o subpadana.
Un'autentica marea di commercianti, di esportatori ed importatori,
soprattutto di conduttori di veicoli e di marinai, doveva necessariamente
usufruire di ospizi ove fermarsi, di uffici dove contrattare e di spacci
ove rifornirsi.
Secondo la Lex Iulia Municipalis (C.I.L., I, 206 = DESSAU,
6085) era vietato di giorno il traffico dei cocchi ma non quello dei carri pesanti che portassero materiale per la costruzione dei templi o di opere pubbliche; così mentre i plaustra da trasporto, carichi di sale e varia
merce, si spostavano di notte, i muli carichi e i facchini, con le loro gerle
pesanti, si muovevano in una frenetica attiviàa quasi diuturna.
Come scrive U. E. Paoli, nella romanità si ebbe un notevole rispetto legale del traffico pedonale ma, concentrando il grande movimento
commerciale nelle ore notturne, si ottenne il risultato che i carri pesanti
ingombravano di giorno le strade, mentre i conduttori trovavano precari
tipi di ospitalità.
Poi, di notte, una variegata umanità, composta anche di avventurieri, si rimetteva in viaggio, con gran fretta, per
arrivare presto ai porti o ai centri di smistamento delle merci, magari con
una pausa brevissima in qualche pubblico locale, come quelle taverne, le
popinae, che restavano aperte pure di notte.
Nella città nervina di Albintimilium si riconosce tuttora qualche
traccia di tale pubblica attività, di una civiltà come quella romana che, a
differenza della medievale, non conosceva le grosse pause della notte.
Verso il I secolo d.C. un Publio Nonio Primo, su un marmo cinerognolo
di forma poligonale, fece incidere dal lapicida una frase emblematica: "
Passaggio e proibito, se non con il consenso del proprietario Publio Nonio
Primo".
Quella lapide, più tardi destinata ad essere riutilizzata, sul retro,
per la citazione funebre della piccola Maia Paterna, era verisimilmente posta
all'ingresso di qualche via privata, forse su una casa o su qualche struttura
portante. Fu collocata quale espressione di proprietà e divieto, ma le sue
caratteristiche sono importanti: si comunica per iscritto in un ambiente ad
alto tasso di alfabetizzazione e si collocano divieti d'accesso, a proprietà private, quando esiste un traffico abbastanza elevato, che può non rispettare le
pubbliche normative.
Tra gli amministratori del municipio di Albintimilium esistevano gli
"edili" che, come forza di controllo sul traffico, sui mercati, sul pronto
intervento per pubbliche calamità e incendi in particolare, si valevano, anche a proprie spese, dei "vigili": questi erano probabilmente sempre insufficienti e così le famiglie piu agiate provvedevano a proprie spese e con
propri servi alla tutela delle loro proprietà.
Il tempo ha cancellato ogni ricordo di Publio Nonio Primo, ma il personaggio doveva essere stato di rilievo sociale.
Per vaghe consonanze, può
essere avvicinato a nomi celebri, di uomini che vissero in una città immensa
quale Roma e che, se non lasciarono lapidi marmoree di divieto, per le loro
doti artistiche seppero comunicare, poeticamente, il "dramma", vissuto da
tutti, di un traffico notturno fastidioso, di opprimenti e illeciti parcheggi
diurni dei grossi veicoli, di agitati e prepotenti conduttori di carri: si tratta
di Marziale (XII, 57), del più antico Orazio (Epist., II, 2, 79), di Giovenale (8, 158 sgg.).
Questi e altri poeti, a differenza di Nonio Primo e delle
numerose vittime dell'incultura cittadina, ebbero pure l'arguzia di ricordare ai posteri il lato oscuro della societa del benessere: dal codazzo di accattoni, al seguito dei traffici commerciali, senza mezzi per pagarsi un moderno ricovero e capaci di ripararsi in ogni luogo, senza rispetto degli altrui
diritti (GIOVENALE, 5, 8), agli angiporti che comportavano, come ora, un
insieme di illegali bische e precarie taverne, le quali incentivavano al libertinaggio (CATULLO, 58, 4-5; PROPERZIO, IV, 7, 19-20), ai giovinastri che
approfittavano dei fermenti notturni per concedersi ad eccessi, imperdonabili di giorno (ORAZIO, Od., I, 17, 25-28), fino all'attuale deprecabile abitudine di abbandonare sulla pubblica strada cani latranti (ORAZIO, Epist., II, 2, 75).
La città nervina aveva un porto di rilievo e un angiporto di cui si sono
purtroppo perse le tracce: l'attività commerciale collegata allo scalo comportava la presenza di un sistema di magazzini, di aziende, sedi di corporazioni, che non poteva prescindere da tre apparati integrativi, quali la redazione di contratti, la contabilita ed un sistema postale.
Nella città nervina, a testimonianza di un elevato tenore esistenziale dei ceti abbienti,
che nei momenti migliori ricalcarono i costumi stessi della nobiltà di Roma,
tra il corredo funerario, che Lucius Afranius Maritimus volle per il figlio
Severo, si rinvenne "un calamaio, composto di tre cilindri metallici, i quali
come appare dalle saldature, erano riuniti; i due più ampi, eguali fra loro e
interamente aperti, pare fossero destinati a dare ricetto ai calamai, il terzo
cilindro, alquanto più piccolo ma munito di coperchio a forma di cono, serba
ancora i resti dell'"atramentum" (inchiostro nero) ed e perfettamente simile
a quel disegno, che ne dà il Rich al vocabolo arundo o penna da scrivere.
Afranio Severo, che morì a 14 anni, pote servirsi poco di questo oggetto
prezioso, ricco anche per l'inchiostro di ottima qualità, "di fuliggine di resina o pece, feccia di vino o nero di seppia": gli appunti e le quietanze dei
funzionari commerciali e portuali erano però scritte su tavolette cerate (cerae) legate, in una sorta di archiviazione, con un cordoncino passante tra i
fori praticati nell'orlo, prendendo il nome di duplices, triplices o quinquiplices, a seconda delle diverse tavole di legno utilizzate.
La costruzione delle CASE ROMANE esigeva la fabbricazione
di travi, cui attendevano i fabri tignarii.
Nei negozi (tabernae) scoperti nella
domus del Cavalcavia a Nervia si sono individuate tracce di un
soppalco ligneo e restano visibili nella casa i segni dei cardini di una porta,
dello stesso materiale, a tre ante.
In tale edificio un vano conteneva una
scala, che portava ai piani superiori e al tetto: le intelaiature di questo erano
legnee, con la falda delle tabernae e del vestibolo inclinata verso l'esterno
(V.R.2, pp 94-95).
Di LEGNO erano naturalmente i mobili e i letti; i residenti del municipio
di Albintimilium per il rifornimento di materiale potevano accedere, come
detto, a un vasto patrimonio boschivo: in particolare di abeti, castagni,
faggi, pini e di buon larice.
Tale albero era così fiiorente in queste regioni
che, secondo l'Alessio, dette il nome alle isole Lerine di fronte a Cannes
(oggi Ile de Saint Marguerete e de Saint Honorat) cioe Lero (STRAB., IV,
185) e Lerina (PLIN., N.h., III, 79): fenomeno ricordato anche da DIOSCORIDE (I, 71) e in senso più lato da VITRUVIO (II, 9, 14-16).
Le aree migliori di approvvigionamento erano probabilmente nell'alta e
media val Nervia, al Giunco di Perinaldo, forse ad Cagalupum
(dove il 15 gennaio 1260 il notaio di Amandolesio indicò una via antiqua,
alla Pineta di Vallebona e ai boschi di abeti di Passalovo
(o Passalupo) e del "Montenero" di Bordighera.
Come scrive il Paoli, nella mensa signorile la tavola (orbis) risultava di
pregiato legno di importazione (il più prezioso era la thuia = citrus,
un albero della famiglia del cipresso proprio del Marocco) ma il sostegno
centrale (trapezophorus) era in genere di metallo od avorio: la tavola
circondata dai letti dei triclini, in muratura e coperti di cuscini, veniva fatta
invece, perlopiù, con marmo o pietra e di rado si sono trovati reperti lignei
di questa.
Panche, cassettoni ed armadi, simili ai nostri, erano in legno e
così pure le casseforti o arcae, adeguatamente rinforzate con borchie, barre
di bronzo e vari congegni a chiave.
La casa romana non era provvista di arredamento come quella moderna
(per esempio la biblioteca si ricavava entro scomparti murari di un apposito
locale = bibliotheca) ma quella signorile aveva i letti: triclinari, letti bassi
a divano (lectus locubratorius) e il letto per dormire ( lectus cubicularis).
Questo era fatto di un telaio di legno rettangolare ( sponda), sostenuto
da 4 o 6 piedi, con una spalliera (pluteus), volta alla parete, e un
sostegno nel lato anteriore (fulerum).
Nelle varianti sontuose, il legno a
volte era incrostato di avorio, tartaruga od oro: la sponda veniva coperta
da fasce tese che davano elasticita (instintae, fasciae, lora) ai materassi sovrapposti (torus, culcita).
Su questi si stendevano le coperte (stramenta,
stragula, peristomata) e poi la toral o plagula, fine copertura di
lino.
Nelle INSULAE (in pratica "case condominiali o da affitto a più piani) i ceti meno abbienti usufruivano di un
parco arredo nel quale il legno, di qualità comune, preponderava in modo
assoluto, come un'anticipazione storica della civiltà medievale del legname.
Il letto ligneo (grabatus, scimpodium) era semplice e la mensa
tripes era una modesta tavola di legno locale, citata con ironia da Orazio
(Sat., I, 3, 13) e da Marziale (XII, 32, 11).
Negli appartamenti la sedia
usuale (ben diversa dalla raffinata sella , con bracciuoli ma senza spalliera, o
dalla cathedra , con spalliera lunga ed arcuata) era uno sgabello ( scamnum,
subsellium ) privo, come tutti i sedili romani, di imbottitura fissa e talora
provvisto di semplici cuscini.
L'arredamento nelle case popolari della città nervina di Albintimilium si ispirava
a questi criteri.
Le VILLE RUSTICHE cioè le FATTORIE (anche se poi destinate ad una evoluzione significativa verso un'abitabilità sempre migliore in origine erano assai diverse
dalle urbane e dalle case condominiali: CATONE IL CENSORE nel suo DE AGRI COLTURA (qui leggibile integralmente) descrisse con minuzia la tipologia strutturale di una FATTORIA, soffermandosi su molteplici aspetti della sua vita, senza nemmeno trascurare i momenti religiosi e spirituali della LUSTRATIO o sacrale purificazione dei campi.
Tuttavia, tenendo conto che il vero e proprio sviluppo di ALBINTIMILIUM, data dalla morente repubblica all'Impero, fissandosi principalmente tra il I ed il III secolo d. C., a darci un'idea di come potevano essere le FATTORIE e le VILLE RUSTICHE nel circondario di VENTIMIGLIA ROMANA è semmai l'agronomo spagnolo COLUMELLA, vissuto nel I secolo d. C., che scrisse due opere (il DE ARBORIBUS e il DE RE RUSTICA) irrinunciabili per chi intenda approfondire lo studio dell'agronomia romana e dell'attività lavorativa propria di un'AZIENDA RIRALE, soffermandosi sui più svariati dettagli, compresi ad esempio i DOVERI DELLA FATTORESSA, o VILICA cioè la moglie del VILLICUS o preposto alla conduzione dell'impresa agricola.
Nella FATTORIE e nelle VILLE RUSTICHE, per quanto apprendiamo da queste fonti e da altri spaesi dati, l'uso del legno per tavole, sgabelli e altre suppellettili era comune, anche nelle strutture portanti, della VILLA RUSTICA:
specie nell'ampia cucina o culina .
Risultavano in genere lignee le stalle dei
buoi ( bubilia ) e dei cavalli ( equilia ): a volte i magazzini, esposti a pericolosi incendi, venivano costruiti per precauzione in muratura (villa fructuaria).
Sempre e soltanto in capannoni lignei era la modesta rimessa dei carri
agricoli ( plaustra ) e il nubilarium , ove si riponevano grano e cereali per proteggerli da eventuali acquazzoni, era fatto con legname di poco valore.
La
villa aveva due corti ( cortes ) con piscine o vasche in muratura: quella
della corte interna serviva per abbeverare gli animali mentre quella della
corte esterna veniva usata per macerare cuoio, lupini o altri prodotti. Solo
intorno alla prima corte sorgevano edifici in muratura, dove abitavano i
servi e ove forse esistevano stanze per le visite dei padroni: nelle cellae
familiares dei servi le suppellettili e i mobili erano sempre di rozzo legno
locale.
Le ville rustiche di Albintimilium non hanno lasciato rilevanti tracce,
ma forse, se si guarda a quanto scritto per la val Nervia e se si leggera di
seguito per Sanremo e Taggia, tale lacuna e da addebitare ai ripascimenti del
suolo e all'assenza di veri studi sull'argomento, più che alla supposta povertà di tali fattorie.
La strumentazione tecnica in loro dotazione era fuor
di dubbio misera o funzionale e cio ha contribuito alla sua dispersione: le
cose belle, come i raffinati materassi, le argenterie o le celebri carrozze della
vicina Gallia potevano essere bene esclusivo dei commercianti e dei possidenti delle domus o delle ville urbane!
Nel degrado della città romana di Ventimiglia la civiltà del
legno prese sopravvento: i numerosi casolari sparsi per il territorio intemelio, la manutenzione di ponti e argini determinarono un progressivo aumento di fornitura di legname.
L'ALLEVAMENTO DEGLI ANIMALI DOMESTICI (galline, faraone, pavoni, anatre e oche) e
dei tordi catturati e ingrassati nelle voliere e una costante dell'attività nella bassa corte
della villa rustica romana. Scrive Columella (De re rustica, VIII, 3): "I pollai debbono essere
costruiti in quella parte della fattoria che e rivolta al sorgere del sole in inverno... Tutta
la costruzione destinata all'allevamento degli uccelli sia divisa in tre locali contigui...
l'addetto al pollaio deve poi prestare la sua cura tanto alle uova dei volatili che a quella
delle galline in deposizione: in questi locali si devono infatti costruire pareti tanto
spesse che vi si possano realizzare entro incavi ordinati in file i nidi delle galline... questo sistema è insieme più sano e più elegante di quello che seguono alcuni infiggendo
saldamente dei pali nelle pareti e collocandovi di sopra dei canestri di vimini.
Ma anche
tali cesti dovranno essere preceduti da vestiboli, attraverso i quali le fattrici si introdurranno nei nidi e per la deposizione e per la cova: esse non devono mai volare nel nido
onde non rompere le uova con le zampe mentre si posano".
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