Il Santuario in questione è quello di
NOSTRA SIGNORA DI LAMPEDUSA e GIOVANNI RUFFINI (Genova 1807-Taggia 1881), mazziniano e patriota, ne parla in un suo
romanzo, II dottor Antonio, scritto in
inglese sotto la guida, più o meno
determinante, di due letterate anglosassoni, Cornelia Turner e Henrietta Jenkin. Nell'esile opera, pubblicata nel 1855, gli spunti apologetici e patriottici si intersecano con il
patetico idillio sbocciato tra l'esule
siciliano Antonio, medico condotto
a Bordighera, e l'inglesina Lucy Davenne, costretta ad una lunga convalescenza nella citta rivierasca in
seguito alla frattura di una gamba.
[Cfr. S. ROMAGNOLI, Narratori e prosatori del Romanticismo nella Storia della letteratura italiana (diretta
da E. Cecchi - N. Sapegno), Milano,
1968, VIII, pp. 169-172. Nonostante
le numerose traduzioni, anche recenti, ho preferito utilizzare quella
dell'Aquarone (o meglio quella rivista della II edizione Milano, Sonzogno, 1875) perchè estremamente
aderente all'originale anche nei minimi particolari; non è poi da trascurare che è coeva al testo inglese e
compiuta da un intellettuale che ha
vissuto nella stessa temperie spirituale del Ruffini. La volenterosa traduzione di Marina Carcano (1875)
non mi ha convinto come neppure
convinse Ruffini. L'indicazione dei
capitoli è stata da me fatta sulla base di G. RUFFINI, Il Dottor Antonio,
a.c. di U. Varnai].
Per favorirne la lenta guarigione Antonio conduce la fanciulla a Castellaro, paese del retroterra di Taggia
noto per la salubrita dell'aria e nei
cui pressi sorge il celebre Santuario.
Nonostante la gestazione abbastanza originale, il romanzo si colloca ai
limiti di quella tipica esperienza del
romanticismo italiano che, dalla
coimplicazione del generico storicismo e della passione nazionalistica, inclina verso una soluzione propagandistica del fenomeno letterario.
A tale serie sono da ascrivere le
opere di Berchet, D'Azeglio, Grossi
e Pellico; in queste l'evento storico
e infatti rivisitato con lo scopo predominante di suscitare nel lettore la
passione patriottica.
La coscienza
poetica del Ruffini matura nello
stesso contesto storico-culturale e
si concretizza in prodotti espressivi
che, in linea di massima, presuppongono la mediazione dell'istituto
letterario organizzato dagli intellettuali romantici di cui si è detto.
L'analisi strutturale de il "Dottor Antonio" (oltreché del più valido "Lorenzo Benoni") permette però di decifrare un effettivo scarto tematico-espressivo fra l'opera del Ruffini e i
prodotti del sistema letterario cui
questa, in teoria, appartiene.
La manipolazione del materiale tematico
de il "Dottor Antonio", come quella
del "Marco Visconti" e dell'"Ettore Fieramosca", sottende di certo l'esperienza carismatica del Manzoni ma
al romanzo del Ruffini non sono
estranee, forse per influenza della
Turner o della Jenkin, convenzioni
stilematiche e narrative tipiche degli scrittori inglesi, specie di Dickens e Thackeray (modulazioni in
verita abbastanza inusuali per i romanzieri italiani della meta dell'800).
Lo scarto più evidente si manifesta tuttavia a livello funzionale.
Mentre gli scritti di Berchet, D'Aze
glio, Grossi e Pellico presuppongono un meccanismo il cui risultato
equivale ad un'attività apologetica
e di parenesi nei confronti dei lettore italiano, l'operazione letteraria
del Ruffini organizza invece un messaggio cui è demandata un'attività
propagandistica ad uso esterno,
che presuppone cioè un fruitore non
italiano.
Il romanzo, in origine indirizzato ad un pubblico anglosassone, soddisfa, oitre quella descrittiva, due ulteriori esigenze: di qualificare l'ltalia vanificando alcuni vieti
pregiudizi stranieri e, contestualmente, di presentare in maniera favorevole l'esperienza liberale e patriottica.
Questo motivo di fondo
giustifica il taglio idilliaco della narrazione oltre che le abbondanti digressioni documentarie; la stessa
descrizione della "Gita al Santuario" non prescinde da questo parametro operativo, anzi, per molti
aspetti, può essere considerata emblematica.
Il racconto della "Gita" è scandito
in 6 tempi base: "osservazione di
Castellaro dai ponte di Taggia, avvicinamento, attraversamento del
paese, avvicinamento al Santuario,
visita, osservazione di Taggia e del
paesaggio circostante dall'area del
Santuario.
Due momenti descrittivi
e statici iniziano e concludono un
racconto eminentemente strutturato su un parametro dinamico.
Il
meccanismo dell'episodio entra in
funzione dal momento statico dell'osservazione di Castellaro e, attraverso quelli dinamici intermedi, si
conclude nel momento statico del
l'osservazione di Taggia.
L'effetto è
ottico ed equivale all'ingrandimento
progressivo di sezioni sempre più
particolari dell'inquadratura di partenza.
Appena l'osservazione è focalizzata sul particolare minimo (il
Santuario) essa viene bruscamente
spostata su una nuova inquadratura, ancora più ampia della precedente.
Sul piano di prima denotazione, cioè a livello dei significati elementari, il messaggio estetico in
questione equivale ad una descrizione esauriente dell'area geografica, grossomodo circolare, al cui
centro è localizzato Castellaro e i
cui estremi sono le Alpi a Nord, il
Mediterraneo a Sud, i sistemi collinosi ad Est ed Ovest.
Se l'analisi critica tiene però anche conto dell'ideologia dell'autore, delle sue interazioni coll'ambiente storico-culturale e colla produzione letteraria del tempo, è allora possibile decifrare il testo a livello connotativo
ed evidenziarne i valori allusivi, parassitari e complementari.
Sotto questa prospettiva di lavoro la descrizione della visita al Santuario
assume i connotati di un programma di geografia morale.
Nei diversi tempi del racconto il
Ruffini manipola in modo settoriale
il codice linguistico ed utilizza la lin
gua secondo connotazioni specifiche che sostengono le parole in previsione degli scopi da ottenere
all'interno delle singole sezioni.
Ne
deriva un ragionamento quasi retorico che, sulla base di argomentazioni eminentemente psicologiche
ed emotive, scandaglia il campo
dell'opinabile e soddisfa lo scopo di
demolire, grossomodo secondo il
parametro logico-temporale di uno
per sezione, diversi giudizi negativi
abitualmente formulati dagli Inglesi
nei confronti dell'ltalia e degli Italiani (di cui Castellaro e i suoi abitanti
sono in fondo un emblema abbastanza scoperto).
Il primo tempo (osservazione di Castellaro dal ponte di Taggia) funge
da proemio; il paese viene inquadrato, valutato e contemporaneamente
giudicato in modo entusiastico: "In
faccia, sopra una cresta elevata,
sorgeva Castellaro inondato di raggi solari.
"Quanto è splendido e bello! —disse Lucy — è il più gaio
paesetto dei mondo; si potrebbe immaginare che Castellaro senta la felicità dell'esistenza".
Il secondo tempo (avvicinamento al
paese) comporta una depressione
dello strumento dialogico ed una totale prevalenza del narratore onnisciente (il Ruffini) che interpreta gli
stati d'animo, gratificanti, che
emergono nei protagonisti in dipendenza delle interazioni con una natura benigna ed un clima salubre
(ben diverso da quello torrido, quasi
coloniale che non pochi Inglesi,
nell'800, attribuiscono all'ltalia):
"L'aria elastica della montagna, fortemente impregnata del piccante
profumo del rosmarino e del timo
crescenti in abbondanza all'intorno,
cominciavano ad operare quasi gentili stimolanti sui nostri viaggiatori,
gli spiriti de' quali divenivano ad
ogni passo piu vivaci".
Questo ambiente sereno, dai connotati del locus amoenus, costituisce per Lucy
una piacevole sorpresa; lo stesso
serioso o scettico padre della fanciulla, Sir John Davenne, che accompagna i due giovani, si lascia
coinvolgere dall'allegria generale
sino al punto, "horribili visu", di lasciarsi ornare il cappello con fiori di
cappero.
Anche nel terzo tempo (attraversameno del paese) il racconto conserva la stessa strutturazione stilistica ed è prodotto dall'identica
istanza enunciativa: "[I visitatori erano] guardati da ognuno, ma pur sempre accolti con gli stessi segni di rispetto e di simpatia con cui erano
stati accompagnati per tutto il giorno. Qualche paesano di tratto in
tratto fermava il Dottore pregandolo, che andasse a visitare alcun malato; ma non essendo il caso urgente, con un cortese sorriso la visita
era rimessa all'indomani".
Le parole
chiave della sezione sono i lessemi
"rispetto, simpatia, cortese sorriso,
pregare": in seguito alla loro disposizione tattica si modula un discorso fortemente connotato, cui è demandato il compito di qualificare il
costume pubblico dei Castellaresi.
Questo viene peraltro assimilato
all'ideale sociale più gradito agli
stranieri, specie anglosassoni; gli
abitanti di Castellaro hanno modi
deferenti e cortesi verso i visitatori
altolocati ed il loro carattere non ha
assolutamente i connotati di quella
violenza comportamentale spesso
attribuita agli Italiani.
Nel quarto tempo (avvicinamento al
Santuario) l'istanza enunciativa prevede l'attività di Antonio che, come
narratore di secondo grado (intradiegetico), racconta una storia da
cui è assente (narratore eterodiegetico): "I Ca
stellaresi che hanno fatto questa
strada col sudore della loro fronte
—disse Antonio— la mostrano con
orgoglio, e ne han ragione. Vi raccontano con compiacenza come
ciascuno dei ciottoli di cui è selciata, fu portato su dalla riva del mare:
quelli che avean mule adoperanvele, e quelli che non ne avevano, portandone carichi sulle spalle; vi raccontano come tutti, signori e contadini, vecchi e giovani, donne e fanciulli, lavorassero giorno e notte
senz'altro eccitamento che l'amor
per la Madonna. La Madonna di
Lampedusa è la loro fede, la loro occupazione, il loro orgoglio, il loro
Carroccio, la loro idea fissa".
La ragione del messaggio, di carattere apparentemente documentario,
rientra nel meccanismo che presiede alle scelte narrative del Ruffini.
L'autore vuole sottrarre energia ad
un giudizio demolitore tipicamente
inglese secondo cui gli Italiani sarebbero o cantanti o briganti o nobili squattrinati e del tutto privi di senso sociale (giudizio peraltro veicolato, assieme ad altri, da Sir John nei
capitoli II e IV del romanzo).
Il racconto sottende infatti una valutazione etica appena mascherata dalla
funzione documentaria: che cioè gli Italiani
sapranno unirsi come fratelli nell'impresa patriottica).
Anche il quinto tempo del racconto (visita al
Santuario) è sostenuto dalla istanza enunciativa
del narratore di secondo grado (Antonio) che
vuole apporofondire e concludere un di
scorso già impostato nel quarto tempo
" ..Quanto
si riferisce all'immagine miracolosa - rispose
Antonio - alla data e al modo della sua
traslazione a Castellaro, ci è detto per disteso
in due iscrizioni. Una è in latino, l'altra in cattivi
versi italiani e si possono vedere nell'interno
della piccola cappella del Santuario.
Andrea
Anfosso nativo di Castellaro, capitanando un
bastimento in corsa, fu un giorno attaccato e
disfatto dai Turchi e portato all'sola di
Lampedusa. Qui ne riuscì a fuggire e
nascondersi, finchè il bastimento turco che
l'aveva catturato lasciasse l'isola. Anfosso, che
era un uomo pieno di espedienti si mise allora
a costruire un battello. Ma trovandosi in
grand'imbroglio per la vela, si azzardò al passo
ardito e originale di prendere dall'altare di non
so quale chiesa o cappella dell'isola, un qua
dro della Madonna per servRsene di vela. La
cosa corrispose a meraviglia al suo intento, che
fece un viaggio singolarmente felice di ritorno
alle sue rive natie; e in un accesso di generosità
offrì quella santa vela all'adorazione de' suoi
concittadini.
A ciò non si ferma il meraviglioso
del fatto.
Per universa acclamazione scelto un
posto a circa un dugento passi dal'attuale
Santuario, vi fu eretta una CAPPELLA [località Costaventosa a circa 500 m. dall'attuale Santuario e di cui sopravvive qualche rudere: dopo le ripetute "fughe" la cappella che ora dà nome al luogo fu abbandonata], ove con
ogni debito onor venne posto il dono. Ma la
Madonna, a quel che pare, aveva
un'insormontabile avversione per quel luogo,
chè ogni matfina da Dio messa in terra, il quadro
era trovato nel luogo preciso dove sta ora la
chiesa.
Furono postate sentinelle alla porta della
cappella tutto il paese restò in piedi per notti
intere, montando la guardia all'istesso tuttavia
tutte
queste precauzioni non valsero a
nulla. A dispetto della più stretta
guardia, l'effigie ora innegabilmente miracolosa, trovò modo di farsi
strada per irsene al posto preferito.
Alla fine i Castellaresi vennero a capire, essere volontà espressa della
Madonna che fosse il suo quartier
generale collocato dove la sua effigie si trasferiva ogni notte. E benchè le fosse piaciuto di scegliersi la
più scoscesa parte della montagna,
che proprio era necessario farvi delle arcate per porre stabili fondamenta al suo Santuario; pure i Castellaresi si posero con amore a quell'impresa loro sì chiaramente rivelata; e
questa cappella nei dintorni tanto
famosa fu compita. Ciò accadde nel
1619. In decorso di tempo vi furono
annesse alcune camere, per comodo dei visitanti e pellegrini, e costrutta una terrazza; e anche in oggi
di molte aggiunte e abbellimenti si
stanno formando progetti, e senza
dubbio saranno eseguiti un giorno;
perchè, quantunque i Castellaresi
abbiano piccola borsa, hanno però
in lor favore la gran leva che puo rimuovere ogno impedimento, quella
che produsse le Crociate".
Il racconto si articola in due macrosequenze ordinate secondo un parametro spazio-temporale.
La prima
tratta del ritrovamento e dell'utilizzazione dell'icona; presenta i caratteri della favola ed è articolata secondo le tecniche consuete per tale
istituto letterario.
Il protagonista si costruisce una
barca per fuggire da Lampedusa
(miglioramento da ottenere) ma,
mancando di una vela (ostacolo da
eliminare), utilizza, tra i possibili, un
mezzo perlomeno inusuale con effetti sorprendentemente favorevoli
(successo dei mezi).
La seconda
macrosequenza (eziologia del Santuario) è complementare e tratta del
"vero miracolo".
Questa seconda
sezione è strutturata secondo una
scrittura letteraria che presuppone
la mediazione dell'istituto dell'aretalogia classica ancor più che
dell'agiografia cristiana.
L'intervento superumano si manifesta prima
nella realtà attraverso la sospensione di una legge naturale (alterazione della staticità di un corpo inerte)
o
ed interferisce di riflesso sulla realtà umana, presentando caratteri di
eccezionalita tali da turbare l'animo
dei Castellaresi.
A parte l'evento miracolistico e le conseguenze fideistiche, la taumaturgia del fatto, nell'istanza enunciativa di Antonio, si
oggettivizza in un positivo fenomeno sociale: di fronte ad uno scopo in
cui credono i Castellaresi sanno rinunciare anche al necessario.
Il quarto ed il quinto tempo del racconto, al di la della lettura di superficie, sono comunque pluri-isotopi,
sono cioe sottesi da più livelli di codificazione che determinano fenomeni di connotazione: (I) I'uomo italiano (Andrea Anfosso ne è un emblema) è ingegnoso, attivo e non si
abbandona, come molti stranieri ritengono, ad un inerte languore di
fronte ad un ostacolo esistenziale;
(II) la fede religiosa dei Castellaresi
(solito emblema degli Italiani) è
semplice e pulita come la fede
evangelica che, secondo un metastorico giudizio romantico, determinò le Crociate; (III) i Castellaresi come tutti gli Italiani sanno trovare la
concordia sociale, superare le divisioni e pagare di persona se si offre
loro uno scopo superiore da realizzare.
II sesto tempo (osservazione di Taggia e del paesaggio circostante
dall'area del Santuario) è in apparenza statico e descrittivo, anzi contemplativo, ma nella sostanza costituisce il culmine del racconto, che
assume a questo punto i connotati
dell'idillio sentimentale.
La narrazione si articola in tre sezioni distinte cronologicamente in altrettanti
momenti: giorno, tramonto, sera.
Prima di pranzo Lucy, dall'area antistante al Santuario, contempla lo
scenario circostante.
L'osservazione procede dapprima in maniera circolare abbracciando uno spazio vastissimo delimitato dalle Alpi, dagli
ammassi collinosi e dal Mediterraneo.
Si focalizza quindi sulla linea
ideale discendente che congiunge il
Santuario con Taggia e si oggettivizza in inquadrature settoriali sempre più ristrette: la valle di Taggia, la
vegetazione e le colture, Taggia, il
campanile della chiesa dei Domenicani .
Verso il tramonto, dopo aver pranzato e riposato, Lucy ed Antonio contemplano nuovamente il paesaggio
ma dalla terrazza del Santuario e secondo una linea di osservazione
ascendente la cui inquadratura iniziale e il cielo limpido, d'acciaio.
Quasi di colpo l'osservazione si
concentra pero sulie catene montuose e sullo scherzo di luci e di ombre che il sole, tramontando, intraprende con ie giogaie dei monti.
L'idillio raggiunge però l'acme
quando "la quiete solenne della sera fu subitamente interrotta dalle
campane delle sei chiese di Castellaro suonanti l'Ave Maria; accompagnate in rapida successione da
quelle delle chiese molto più numerose di Taggia, e dei lontani conventi de' Cappuccini e de' Domenicani.
Era il più soave e melanconico concerto immaginabile".
Le considerazioni razionali, le prove
documentarie, scandite nei tempi
precedenti, vengono recuperate e
riassorbite nella sfera superiore del
sentimento, che è poi in chiave romantica evasione dalla forma.
Quella natura semplice e solenne, quel
suono mesto di campane hanno
evocato nell'animo sensibile di Lucy, accuratamente preparata da Antonio, sentimenti mai provati, una
nostalgia indefinita (Sehnsucht),
una riflessione malinconica (Gemuth): "...e Antonio diessi a recitare
quasi all'orecchio di Lucy quelli impareggiabili versi di Dante tanto citati, e tanto degni d'esser citati ancora:
Era già l'ora che volge il disio
A' naviganti, e 'ntenerisce il cuore
Lo di c'han detto a' dolci amici: a
ddio
E che lo nuovo peregrin di amore
Punge, se ode squilla di lontano,
Che paja il giorno pianger che si
muore.
"Non ho sentito mai pienamente
com'ora — disse Lucy con occhi
splendenti di luce— tutto il patetico di questi bei versi. Il rammarico
per la patria lontana, che spira da
essi, penetra al piu intimo del cuore.
Denno essere stati scritti in un'ora
come questa." "E da un esule —ag
giunse Antonio — Probabilmente
gli occhi del gran Ghibellino erano
rivolti ad una catena di monti simili
a quella che ci sta dinanzi, la quale
si frapponeva fra lui e il bello ovile
ov'ei dormì agnello, / Nimico ai lupi
che gli fanno guerra".
Quel "non ho sentito mai" è di per
sè un programma; le nozioni letterarie apprese razionalmente sono ora
sentite a quel livello supremo ed
indistinto che è la coscienza più
profonda e genuina.
La facoltà giudicatrice, i dubbi, le domande e le
stesse risposte qui non hanno più
senso; anche il realismo, abbastanza banale, dei tempi precedenti, perse le sue funzioni strumentali, svanisce nel nulla.
Tutto il viaggio al
Santuario assume a questo punto i
connotati di un vettore morale cui è
demandata la funzione di condurre
la fanciulla al tempo supremo della
"Gemuth".
Nei precedenti capitoli Antonio ha guidato Lucy attraverso l'lnferno del pregiudizio e nel Purgatorio del dubbio e l'ha emancipata dalla schiavitù delle prevenzioni verso
l'ltalia e gli Italiani (liberali e no). Nel
capitolo XV l'inglesina giunge nel
Paradiso dell'intuizione metafisica;
la fanciulla, finalmente purificata"
è ora in grado di sentire il dramma
dell'esule (e quindi del liberale, la figura di Italiano più perseguitata
dall'opinione pubblica inglese).
Secondo una storica pregiudiziale
inglese del primo '800 poche situazioni potrebbero essere più preoccupanti di questa gita al Santuario:
una nobile e fragile inglesina, un
esule forse cospiratore, una terra
popolosa e povera, frequentata da
briganti e tormentata da un clima
impossibile, la gita a un tempio simulacro deli'idolatria papista.
E
invece l'lnferno possibile si rivela di
fatto una piccola Arcadia: l'esule è
un giusto e un colto, l'ambiente è
rasserenante, la gente industriosa,
socievole, quasi reverente, nel Santuario non v'è traccia di paganesimo; la fanciulla inglese non e affatto turbata anzi sente profondamente la bellezza di quella terra e la
struggente malinconia di chi lotta
per essa.
Non fa quindi meraviglia che, all'apparire del romanzo, gli Inglesi ven
gano subito colpiti e incuriositi da
questo episodio; la disposizione lineare delle frasi (anche nell'originale) emette un segnale stilistico piuttosto debole che non disturba e
l'umana sincerità che traspare dal
racconto (come da tutto il romanzo)
contribuisce a suscitare, sin dalla
prima edizione, un diverso e meno
severo interesse per l'ltalia.
II capitolo XV de Il Dottor Antonio
non costituisce indubbiamente lo
"Spannung" del romanzo, cioé il momento estremo di tensione; e tuttavia possibile che costituisca il tempo cardine di prima intuizione attorno al quale è stata poi costruita l'intiera opera narrativa. Non è un'illazione critica sostenere, col Varnai,
che, proprio nei lughi descritti nei
capitoli XV-XVII, Ruffini abbia concepito il nucleo idilliaco de "Il Dottor
Antonio".
Nella primavera del 1853
Giovanni, assieme alla Turner, si reca a visitare la madre a Taggia; egli
stesso ammette che l'idea del lavoro gli venne contemplando dal PONTE SULL'ARGENTINA sull'Argentina, in compagnia dell'amica inglese, quello stesso suggestivo paesaggio che attrae Lucy
ed Antonio.
In conseguenza di tale
evento e del particolare rapporto
sentimentale ed intellettuale con la
Turner non è improbabile che il Ruffini abbia maturato il genotesto,
cioè il luogo profondo dell'elaborazione del romanzo.
Secondo questo
ordine di idee il "capitolo XV" sarebbe
la traccia superstite dell'originaria
intuizione, successivamente ampliata, integrata ma sempre così viva nella coscienza dell'autore da essere manifestata nelle strutture linguistiche.
In conclusione non è improbabile che questo romanzo, programmaticamente non autobiografico per voluta antitesi col "Lorenzo
Benoni", abbia il suo arcaico motore
in una esperienza vissuta ("Erlebnis")
successivamente trasvalutata nell'espressione artistica. II che ci porta a ritenere che per molti aspetti la
passeggiata ed il dialogo tra Lucy
ed Antonio siano la registrazione,
alterata a livello estetico ma non sostanziale, di un simile evento, verificatosi nel reale tra il patriota Giovanni e la patetica inglesina Cornelia (Turner).
In teoria "Il Dottor Antonio", come sostiene il Varnai, non esisterebbe;
esisterebbe piuttosto un romanzo
inglese "Doctor Antonio" composto
dal Ruffini sotto la guida della Turner e della Jenkin (con la prima Giovanni convisse per 28 anni).
Dopo
due anni di lavoro (1853-5) il "Doctor
Antonio" fu inviato nel luglio 1855
all'editore Constable di Parigi; nello
stesso anno uscì ad Edimburgo con
una sommaria premessa.
II "Dottor
Antonio" giunse in Italia nel 1856 attraverso la traduzione di "Bartolomeo Acquarone" forse un po' banale
ma corretta ed assai letterale (oltre che accettata dal Ruffini).
Per questa via il romanzo si collocò con notevole successo nella narrativa italiana contemporanea e per questo
motivo ho ritenuto giusto valutarlo
come un prodotto, magari atipico,
della nostra letteratura ottocentesca.