GIOVAN BATTISTA GUARINI

ATTO SECONDO
AT.2, SC.1
ERG. Oh quanti passi ho fatti! al fiume, al poggio,
al prato, al fonte, a la palestra, al corso
t'ho lungamente ricercato: alfine
qui pur ti trovo, e ne ringrazio il cielo.
MIRT. Ond'hai tu nuova, Ergasto,
degna di tanta fretta? hai vita o morte?
ERG. Questa non ti darei, ben ch'io l'avessi;
e quella spero dar, ben ch'io non l'abbia.
Ma tu non ti lasciar sì fieramente
vincer al tuo dolor: vinci te stesso,
se vuoi vincer altrui; vivi, e respira
talvolta. Ma, per dirti la cagione
del mio venir a te sì ratto, ascolta.
Conosci tu (ma chi non la conosce?)
la sorella d'Ormino? è di persona
anzi grande che no; di vista allegra,
di bionda chioma, e colorita alquanto.
MIRT. Com'ha nome? ERG. Corisca. MIRT. I' la conosco
troppo bene, e con lei alcuna volta
ho favellato ancora. ERG. Or sappi ch'ella
da un tempo in qua, vedi ventura! è fatta,
non so già come o con che privilegio,
de la bella Amarillide compagna,
onde a lei tutto ho l'amor tuo scoperto
segretamente e quel che da lei brami,
holle mostrato, ed ella prontamente
m'ha la sua fede in ciò promessa e l'opra.
MIRT. Oh mille volte e mille,
se questo è vero, e più d'ogn'altro amante
fortunato Mirtillo! Ma del modo
t'ha ella detto nulla? ERG. Appunto nulla,
e ti dirò perché. Dice Corisca
che non può ben deliberar del modo,
prima ch'alcuna cosa ella non sappia
de l'amor tuo più certa, ond'ella possa
meglio spiare e più sicuramente
l'animo de la ninfa, e sappia come
reggersi, o con preghiere o con inganni,
quel che tentar, quel che lasciar sia buono.
Per questo solo i' ti venìa cercando
sì ratto. E' sarà ben che tu da capo
tutta la storia del tuo amor mi narri.
MIRT. Così a punto farò; ma sappi, Ergasto,
che questa rimembranza
(ah, troppo acerba a chi si vive amando
fuori d'ogni speranza)
è quasi un agitar fiaccola al vento,
per cui, quanto l'incendio
sempre s'avanza, tanto
a l'agitata fiamma ella si strugge,
o scuoter pungentissima saetta
altamente confitta,
che, se senti di svellerla, maggiore
fai la piaga e 'l dolore.
Ben cosa ti dirò, che chiaramente
farà veder com'è fallace e vana
la speme degli amanti e come amore
la radice ha soave, il frutto amaro.
Ne la bella stagion che 'l dì s'avanza
sovra la notte, or compie l'anno a punto,
questa leggiadra pellegrina, questo
novo sol di beltade,
venne a far di sua vista,
quasi d'un'altra primavera, adorno
il mio solo per lei leggiadro allora
e fortunato nido, Elide e Pisa,
condotta da la madre
in que' solenni dì che del gran Giove
i sacrifici e i giochi
si soglion celebrar, famosi tanto,
per farne a' suoi begli occhi
spettacolo beato;
ma furon que' begli occhi
spettacolo d'Amore
d'ogn'altro assai maggiore.
Ond'io, che fin allor fiamma amorosa
non avea più sentita,
oimè! non così tosto
mirato ebbi quel volto,
che di subito n'arsi,
e, senza far difesa al primo sguardo
che mi drizzò negli occhi,
sentii correr nel seno
una bellezza imperiosa e dirmi:
"Dammi il tuo cor, Mirtillo".
ERG. Oh quanto può ne' petti nostri Amore!
né ben il può saper se non chi 'l prova.
MIRT. Mira ciò che sa fare anco ne' petti
più semplici e più molli Amore industre.
Io fo del mio pensiero una mia cara
sorella consapevole, compagna
de la mia cruda ninfa
que' pochi dì ch'Elide l'ebbe e Pisa.
Da questa sola, come Amor m'insegna,
fedel consiglio ed amoroso aiuto
nel mio bisogno i' prendo.
Ella de le sue gonne femminili
vagamente m'adorna
e d'innestato crin cinge le tempie;
poi le 'ntreccia e le 'nfiora,
e l'arco e la faretra
al fianco mi sospende;
e m'insegna a mentir parole e sguardi,
e sembianti nel volto, in cui non era
di lanugine ancora
pur un vestigio solo.
E, quando ora ne fue,
seco là mi condusse, ove solea
la bella ninfa diportarsi, e dove
trovammo alcune nobili e leggiadre
vergini di Megara,
e di sangue e d'amor, siccome intesi,
a la mia dea congiunte.
Tra queste ella si stava
sì come suol tra le violette umìli
nobilissima rosa;
e, poi che 'n quella guisa
state furono alquanto,
senz'altro far di più diletto o cura,
levossi una donzella
di quelle di Megara, e così disse:
"Dunque in tempo di giochi
e di palme sì chiare e sì famose,
starem noi neghittose?
Dunque non abbiam noi
armi da far tra noi finte contese
così ben come gli uomini? Sorelle,
se 'l mio consiglio di seguir v'aggrada,
proviam oggi tra noi così da scherzo
noi le nostr'armi, come
contra gli uomini, allor che ne fie tempo,
l'userem da dovero.
Bacianne, e si contenda
tra noi di baci; e quella, che d'ogni altra
baciatrice più scaltra,
li saprà dar più saporiti e cari,
n'avrà per sua vittoria
questa bella ghirlanda."
Risero tutte a la proposta e tutte
subito s'accordâro;
e si sfidavan molte, e molte ancora,
senza che dato lor fosse alcun segno,
facean guerra confusa.
Il che veggendo allor la megarese,
ordinò prima la tenzone e poi
disse: "De' nostri baci
meritamente sia giudice quella
che la bocca ha più bella".
Tutte concordemente
elesser la bellissima Amarilli;
ed ella, i suoi begli occhi
dolcemente chinando,
di modesto rossor tutta si tinse,
e mostrò ben che non men bella è dentro,
di quel che sia di fuori;
o fosse che 'l bel volto
avesse invidia a l'onorata bocca
e s'adornasse anch'egli
de la purpurea sua pomposa vesta,
quasi volesse dir: "Son bello anch'io".
ERG. Oh come a tempo ti cangiasti in ninfa,
avventuroso e quasi
de le dolcezze tue presago amante!
MIRT. Già si sedeva a l'amoroso ufficio
la bellissima giudice, e, secondo
l'ordine e l'uso di Megara, andava
ciascheduna per sorte
a far de la sua bocca e de' suoi baci
prova con quel bellissimo e divino
paragon di dolcezza,
quella bocca beata,
quella bocca gentil che può ben dirsi
conca d'Indo odorata
di perle orientali e pellegrine;
e la parte che chiude
ed apre il bel tesoro,
con dolcissimo mèl purpura mista.
Così potess'io dirti, Ergasto mio,
l'ineffabil dolcezza
ch'i' sentii nel baciarla!
Ma tu da questo prendine argomento,
che non la può ridir la bocca stessa
che l'ha provata. Accogli pur insieme
quant'hanno in sé di dolce
o le canne di Cipro o i favi d'Ibla;
tutto è nulla, rispetto
a la soavità ch'indi gustai.
ERG. Oh furto avventuroso, oh dolci baci!
MIRT. Dolci sì, ma non grati,
perché mancava lor la miglior parte
de l'intero diletto:
davagli Amor, non gli rendeva Amore.
ERG. Ma dimmi: e come ti sentisti allora
che di baciar a te cadde la sorte?
MIRT. Su queste labbra, Ergasto,
tutta sen venne allor l'anima mia;
e la mia vita, chiusa
in così breve spazio,
non era altro che un bacio,
onde restâr le membra,
quasi senza vigor, tremanti e fioche.
E quando io fui vicino
al folgorante sguardo,
come quel che sapea
che pur inganno era quell'atto e furto,
temei la maestà di quel bel viso.
Ma, da un sereno suo vago sorriso
assicurato poi,
pur oltre mi sospinsi.
Amor si stava, Ergasto,
com'ape suol, ne le due fresche rose
di quelle labbra ascoso.
E mentre ella si stette
con la baciata bocca,
al baciar de la mia,
immobile e ristretta,
la dolcezza del mèl sola gustai.
Ma, poi che mi s'offerse anch'ella e porse
l'una e l'altra dolcissima sua rosa,
(fosse o sua gentilezza o mia ventura,
so ben che non fu Amore),
e sonâr quelle labbra
e s'incontrâro i nostri baci (oh caro
e prezioso mio dolce tesoro,
t'ho perduto, e non moro?),
allora sentii de l'amorosa pecchia
la spina pungentissima soave
passarmi il cor, che forse
mi fu renduto allora
per poterlo ferire.
Io, poi ch'a morte mi sentii ferito,
come suol disperato,
poco mancò che l'omicide labbra
non mordessi e segnassi;
ma mi ritenne, oimè! l'aura adorata
che, quasi spirto d'anima divina,
risvegliò la modestia
e quel furore estinse.
ERG. O modestia, molestia
degli amanti importuna!
MIRT. Già fornito il su' arringo avea ciascuna
e con sospension d'animo grande
la sentenza attendea,
quando la leggiadrissima Amarilli,
giudicando i miei baci
più di quelli d'ogn'altra saporiti,
di propria man con quella
ghirlandetta gentil, che fu serbata
premio a la vincitrice, il crin mi cinse.
Ma, lasso! aprica piaggia
così non arse mai sotto la rabbia
del can celeste allor che latra e morde,
come ardea il cor mio
tutto allor di dolcezza e di desio,
e più che mai ne la vittoria vinto.
Pur mi riscossi tanto,
che la ghirlanda trattami di capo
a lei porsi, dicendo:
"Questa a te si convien, questa a te tocca,
che festi i baci miei
dolci ne la tua bocca".
Ed ella, umanamente
presala, al suo bel crin ne feo corona;
e d'un'altra, che prima
cingea le tempie a lei, cinse le mie.
Ed è questa ch'io porto,
e porterò fin al sepolcro sempre,
arida come vedi,
per la dolce memoria di quel giorno,
ma molto più per segno
de la perduta mia morta speranza.
ERG. Degno se' di pietà più che d'invidia,
Mirtillo, anzi pur Tantalo novello,
ché nel gioco d'Amor chi fa da scherzo,
tormenta da dovero. Troppe care
ti costâr le tue gioie; e del tuo furto
e il piacer e 'l gastigo insieme avesti.
Ma s'accorse ella mai di questo inganno?
MIRT. Ciò non so dirti, Ergasto.
So ben ch'ella, in que' giorni
ch'Elide fu de la sua vista degno,
mi fu sempre cortese
di quel soave ed amoroso sguardo.
Ma il mio crudo destino
la 'nvolò sì repente,
che me ne avvidi appena; ond'io, lasciando
quanto già di più caro aver solea,
tratto da la virtù di quel bel guardo,
qui, dove il padre mio
dopo tant'anni ancor, come t'è noto,
serba l'antico suo povero albergo,
men venni, e vidi, ah misero! già corso
e sempiterno occaso
quell'amoroso mio giorno sereno,
che cominciò da sì beata aurora.
Al mio primo apparir, sùbito sdegno
lampeggiò nel bel viso;
poi chinò gli occhi e girò il piede altrove.
"Misero!", allor i' dissi,
"questi son ben de la mia morte i segni".
Avea sentita acerbamente intanto
la non prevista e sùbita partita
il mio tenero padre,
e, dal dolore oppresso,
ne cadde infermo, assai vicino a morte;
ond'io costretto fui
di ritornar a le paterne case.
Fu il mio ritorno, ahi lasso!
salute al padre, infermitate al figlio,
ché, d'amorosa febbre
ardendo, in pochi dì languido venni.
E, da l'uscir che fe' di Tauro il sole
fin a l'entrar di Capricorno, sempre
in cotal guisa stetti;
e sarei certo ancora,
se non avesse il mio pietoso padre
opportuno consiglio
a l'oracolo chiesto, il qual rispose
che sol potea sanarmi il ciel d'Arcadia.
Così tornaimi, Ergasto,
a riveder colei
che mi sanò del corpo,
(oh voce degli oracoli fallace!)
per farmi l'alma eternamente inferma.
ERG. Strano caso nel vero
tu mi narri, Mirtillo, e non può dirsi
che di molta pietà non ne sii degno.
Ma solo una salute
al disperato è 'l disperar salute.
E tempo è già ch'io vada a far di quanto
m'hai detto consapevole Corisca.
Tu vanne al fonte e là m'attendi, dove
teco sarò quanto più tosto anch'io.
MIRT. Vanne felicemente! Il ciel ti dia
di cotesta pietà quella mercede
che dar non ti poss'io cortese Ergasto.
AT.2, SC.2
DOR. O del mio bello e dispietato Silvio
cura e diletto, avventuroso e fido,
foss'io sì cara al tuo signor crudele,
come se' tu Melampo! Egli, con quella
candida man ch'a me distringe il core,
te, dolcemente lusingando, nutre,
e teco il dì, teco la notte alberga:
mentr'io, che l'amo tanto, invan sospiro,
e 'nvano il prego; e, quel che più mi duole,
ti dà sì cari e sì soavi baci,
ch'un sol che n'avess'io, n'andrei beata.
E, per più non poter, ti bacio anch'io,
fortunato Melampo. Or, se benigna
stella, forse, d'Amore a me t'invia
perché l'orme di lui mi scorga, andiamo
dove Amor me, te sol Natura inchina.
Ma non sent'io tra queste selve un corno
sonar vicino? SILVIO Te' Melampo, te'!
DOR. Se 'l desio non m'inganna, quella è voce
del bellissimo Silvio, che 'l suo cane
chiama tra queste selve. SILVIO Te', Melampo,
te', te'! DOR. Senz'alcun fallo è la sua voce.
Oh felice Dorinda! il ciel ti manda
quel ben che vai cercando. E` meglio ch'io
serbi il cane in disparte: io farò forse
de l'amor suo con questo mezzo acquisto.
Lupino! LUP. Eccomi. DOR. Va' con questo cane,
e ti nascondi in quella fratta. Intendi?
LUP. Intendo. DOR. E non uscir, s'io non ti chiamo.
LUP. Tanto farò. DOR. Va' tosto, LUP. E tu fa' tosto,
ché, se venisse fame a questa bestia,
in un boccone non mi manicasse.
DOR. Oh come se' da poco! Su, va' via!
SILVIO Dove misero me! dove debb'io
volger più il piede a seguitarti, o caro,
o mio fido Melampo? Ho monte e piano
cercato indarno, e son già molle e stanco.
Maladetta la fèra che seguisti!
Ma ecco ninfa, che di lui novella
mi darà forse. Oh come male inciampo!
Questa è colei che mi dà sempre noia.
Pur soffrir mi bisogna. O bella ninfa,
dimmi: vedesti il mio fedel Melampo,
che testé dietro ad una damma sciolsi?
DOR. Io bella, Silvio? io bella?
Perché così mi chiami,
crudel, se bella agli occhi tuoi non sono?
SILVIO O bella o brutta, hai tu il mio can veduto?
A questo mi rispondi, o ch'io mi parto.
DOR. Tu se' pur aspro a chi t'adora, Silvio!
Chi crederia che 'n sì soave aspetto
fosse sì crudo affetto?
Tu segui per le selve
e per gli alpestri monti
una fèra fugace, e dietro l'orme
d'un veltro, oimè! t'affanni e ti consumi;
e me, che t'amo sì, fuggi e disprezzi.
Deh! non seguir damma fugace; segui,
segui amorosa e mansueta damma,
che, senza esser cacciata,
è già presa e legata.
SILVIO Ninfa, qui venni a ricercar Melampo,
non a perder il tempo. Addio. DOR. Deh! Silvio
crudel, non mi fuggire,
ch'i' ti darò del tuo Melampo nova.
SILVIO Tu mi beffi, Dorinda? DOR. Silvio mio,
per quello amor che mi t'ha fatta ancella,
io so dove è il tuo cane.
Nol lasciasti testé dietro a una damma?
SILVIO Lasciailo e ne perdei tosto la traccia.
DOR. Or il cane e la damma è in poter mio.
SILVIO In tuo poter? DOR. In mio poter. Ti duole
d'esser tenuto a chi t'adora, ingrato?
SILVIO Cara Dorinda mia, dàglimi tosto.
DOR. Ve', mobile fanciullo, a che son giunta!
ch'una fèra ed un can mi ti fa cara.
Ma vedi, core mio, tu non gli avrai
senza mercede. SILVIO E` ben ragion: darotti.
(Vo' schernirla, costei). DOR. Che mi darai?
SILVIO Due belle poma dora, che l'altr'ieri
la bellissima mia madre mi diede.
DOR. A me poma non mancano; potrei
a te darne di quelle che son forse
più saporite e belle, se i miei doni
tu non avessi a schivo. SILVIO E che vorresti?
un capro od una agnella? Ma il mio padre
non mi concede ancor tanta licenza.
DOR. Né di capro ho vaghezza né d'agnella:
te solo, Silvio, e l'amor tuo vorrei.
SILVIO Né altro vuoi che l'amor mio? DOR. Non altro.
SILVIO Sì sì, tutto tel dono. Or dammi dunque,
cara ninfa, il mio cane e la mia damma.
DOR. Oh se sapessi quanto
vale il tesor di che sì largo sembri,
e rispondesse a la tua lingua il core!
SILVIO Ascolta, bella ninfa. Tu mi vai
sempre di certo amor parlando, ch'io
non so quel ch'e' si sia. Tu vuoi ch'i' t'ami,
e t'amo quanto posso e quanto intendo.
Tu di' ch'io son crudele, e non conosco
quel che sia crudeltà, né so che farti.
DOR. O misera Dorinda! ov'hai tu poste
le tue speranze? onde soccorso attendi?
In beltà che non sente ancor favilla
di quel foco d'Amor, ch'arde ogn'amante.
Amoroso fanciullo;
tu se' pur a me foco, e tu non ardi;
e tu, che spiri amore, amor non senti.
Te, sotto umana forma
di bellissima madre,
partorì l'alma dea che Cipro onora;
tu hai gli strali e 'l foco:
ben sallo il petto mio ferito ed arso.
Giugni agli òmeri l'ali:
sarai novo Cupido,
se non c'hai ghiaccio il core,
né ti manca d'Amore altro che amore.
SILVIO Che cosa è questo amore?
DOR. S'i' miro il tuo bel viso,
amore è un paradiso;
ma, s'i' miro il mio core,
è un infernal ardore.
SILVIO Ninfa, non più parole:
dammi il mio cane ormai!
DOR. Dammi tu prima il pattuito amore.
SILVIO Dato non te l'ho dunque? (Oimè, che pena
è il contentar costei!) Prendilo, fanne
ciò che ti piace. Chi tel nega o vieta?
Che vuoi tu più? che badi?
DOR. (Tu perdi ne l'arena i semi e l'opra,
sfortunata Dorinda!)
SILVIO Che fai? che pensi? ancor mi tieni a bada?
DOR. Non così tosto avrai quel che tu brami,
che poi mi fuggirai, perfido Silvio.
SILVIO No certo, bella ninfa. DOR. Dammi un pegno.
SILVIO Che pegno vuoi? DOR. Ah, che non oso a dirlo!
SILVIO Perché? DOR. Perch'ho vergogna. SILVIO E pur il chiedi!
DOR. Vorrei senza parlar esser intesa.
SILVIO Ti vergogni di dirlo e non avresti
vergogna di riceverlo? DOR. Se darlo
tu mi prometti, i' tel dirò. SILVIO Prometto,
ma vo' che tu me 'l dica. DOR. Ah, non m'intendi,
Silvio, mio ben! T'indenderei pur io,
s'a me 'l dicessi tu. SILVIO Più scaltra certo
se' tu di me. DOR. Più calda, Silvio, e meno
di te crudele io sono. SILVIO A dirti il vero,
io non son indovin: parla, se vuoi
esser intesa. DOR. Oh misera! Un di quelli
che ti dà la tua madre. SILVIO Una guanciata?
DOR. Una guanciata a chi t'adora, Silvio?
SILVIO Ma careggiar con queste ella sovente
mi suole. DOR. Ah! so ben io che non è vero.
E talor non ti bacia? SILVIO Né mi bacia,
né vuol ch'altri mi baci.
Forse vorresti tu per pegno un bacio?
Tu non rispondi. Il tuo rossor t'accusa.
Certo mi son apposto. I' son contento;
ma dammi con la preda il can tu prima.
DOR. Mel prometti tu, Silvio? SILVIO I' tel prometto.
DOR. E me l'attenderai? SILVIO Sì, ti dich'io.
Non mi dar più tormento. DOR. Esci Lupino!
Lupino! ancor non odi? LUP. Oh, se' noioso!
Chi chiama? Oh, vengo, vengo! Io non dormiva, no certo. Il can dormiva. DOR. Ecco il tuo cane,
Silvio, che più di te cortese, in queste...
SILVIO Oh, come son contento! DOR.... in queste braccia,
che tanto sprezzi tu, venne a posarsi...
SILVIO Oh dolcissimo mio fido Melampo!
DOR.>... cari avendo i miei baci e i miei sospiri.
SILVIO Baciar ti voglio mille volte e mille.
Ti se' fatto alcun mal, forse, correndo?
DOR. Avventuroso can! perché non posso
cangiar teco mia sorte? A che son giunta,
che fin d'un can la gelosia m'accora?
Ma tu, Lupin, t'invia verso la caccia;
ché fra poco i' ti seguo. LUP. Io vo, padrona.
AT.2, SC.3
SILVIO Tu non hai alcun male. Al rimanente:
ov'è la damma che promessa m'hai?
DOR. La vuoi tu viva o morta? SILVIO Io non t'intendo.
Com'esser viva può, se 'l can l'uccise?
DOR. Ma se 'l can non l'uccise? SILVIO E` dunque viva?
DOR. Viva. SILVIO Tanto più cara e più gradita
mi fia cotesta preda. E fu sì destro
Melampo mio, che non l'ha guasta o tócca?
DOR. Sol è nel cor d'una ferita punta.
SILVIO Mi beffi tu, Dorinda, o pur vaneggi?
Com'esser viva può, nel cor ferita?
DOR. Quella damma son io,
crudelissimo Silvio,
che, senza esser attesa,
son da te vinta e presa,
viva, se tu m'accogli;
morta, se mi ti togli.
SILVIO E questa è quella damma e quella preda
che testé mi dicevi?
DOR. Questa e non altra. Oimè! perché ti turbi?
Non t'è più caro aver ninfa che fèra?
SILVIO Né t'ho cara né t'amo, anzi t'ho in odio,
brutta, vile, bugiarda ed importuna!
DOR. E` questo il guiderdon, Silvio crudele?
è questa la mercé che tu mi dài,
garzon ingrato? Abbi Melampo in dono,
e me con lui, ché tutto,
pur ch'a me torni, i' ti rimetto, e solo
de' tuoi begli occhi il sol non mi si nieghi.
Ti seguirò, compagna
del tuo fido Melampo assai più fida;
e, quando sarai stanco,
t'asciugherò la fronte,
e sovra questo fianco,
che per te mai non posa, avrai riposo.
Porterò l'armi, porterò la preda;
e, se ti mancherà mai fèra al bosco,
saetterai Dorinda. In questo petto
l'arco tu sempre esercitar potrai:
ché, sol come vorrai,
il porterò, tua serva,
il proverò, tua preda,
e sarò del tuo stral faretra e segno.
Ma con chi parlo? ahi, lassa!
teco, che non m'ascolti e via ten fuggi.
Ma fuggi pur: ti seguirà Dorinda
nel crudo inferno ancor, s'alcun inferno
più crudo aver poss'io
de la fierezza tua, del dolor mio.
AT.2, SC.4
COR. Oh, come favorisce i miei disegni
Fortuna molto più ch'io non sperai!
Non ha ragion di favorir colei
che, sonnacchiosa, il suo favor non chiede.
Ha ben ella gran forza, e non la chiama
"possente dea' senza ragione il mondo;
ma bisogna incontrarla e farle vezzi,
spianandole il sentiero. I neghittosi
saran di rado fortunati o mai.
Se non m'avesse la mia industria fatta
compagna di colei, che potrebbe ora
giovarmi una sì comoda e sicura
occasion di ben condurre a fine
il mio pensiero? Avria qualch'altra sciocca
la sua rival fuggita; e, segni aperti
de la sua gelosia portando in fronte,
di mal occhio guatata anco l'avrebbe,
e mal avrebbe fatto, ch'assai meglio
da l'aperto nemico altri si guarda,
che non fa da l'occulto. Il cieco scoglio
è quel ch'inganna i marinari ancora
più saggi. Chi non sa finger l'amico,
non è fiero nemico. Oggi vedrassi
quel che sa far Corisca. Ma sì sciocca
non son io già, che lei non creda amante.
A qualcun altro il farà creder forse,
che poco sappia; a me non già, che sono
maestra di quest'arte. Una fanciulla
tenera e semplicetta, che pur ora
spunta fuor de la buccia, in cui pur dianzi
stillò le prime sue dolcezze Amore,
lungamente seguìta e vagheggiata
da sì leggiadro amante, e, quel ch'è peggio,
baciata e ribaciata, e starà salda?
Pazzo è ben chi sel crede; io già nol credo.
Ma vedi il mio destìn come m'aita.
Ecco a punto Amarilli. Ah, i' vo' far vista
di non vederla e ritirarmi alquanto.
AT.2, SC.5
AMAR. Care selve beate,
e voi solinghi e taciturni orrori,
di riposo e di pace alberghi veri;
oh, quanto volentieri
a rivedervi i' torno! E se le stelle
m'avesser dato in sorte
di viver a me stessa e di far vita
conforme a le mie voglie,
i' già co' Campi Elisi,
fortunato giardin de' semidèi,
la vostr'ombra gentil non cangerei.
Ché, se ben dritto miro,
questi beni mortali
altro non son che mali.
Meno ha chi più n'abonda,
e posseduto è più che non possede:
ricchezze no, ma lacci
de l'altrui libertate.
Che val ne' più verdi anni
titolo di bellezza
o fama d'onestate,
e 'n mortal sangue nobiltà celeste;
tante grazie del cielo e de la terra:
qui larghi e lieti campi,
e là felici piagge,
fecondi paschi e più fecondo armento,
se 'n tanti beni il cor non è contento?
Felice pastorella,
cui cinge a pena il fianco
povera sì, ma schietta
e candida gonnella,
ricca sol di se stessa
e de le grazie di natura adorna;
che 'n dolce povertade
né povertà conosce né i disagi
de le ricchezze sente;
ma tutto quel possede,
per cui desio d'aver non la tormenta,
nuda sì, ma contenta!
Co' doni di natura
i doni di natura anco nudrìca;
col latte il latte avviva;
e col dolce de l'api
condisce il mèl de le natie dolcezze.
Quel fonte ond'ella beve,
quel solo anco la bagna e la consiglia;
paga lei, pago il mondo.
Per lei di nembi il ciel s'oscura indarno
e di grandine s'arma,
ché la sua povertà nulla paventa:
nuda sì, ma contenta.
Sola una dolce e d'ogn'affanno sgombra
cura le sta nel core:
pasce le verdi erbette
la greggia a lei commessa, ed ella pasce
de' suo' begli occhi il pastorello amante,
non qual le destinâro
o gli uomini o le stelle,
ma qual le diede Amore.
E tra l'ombrose piante
d'un favorito lor mirteto adorno,
vagheggiata, il vagheggia; né per lui
sente foco d'amor che non gli scopra;
ned ella scopre ardor ch'egli non senta:
nuda sì, ma contenta.
Oh vera vita, che non sa che sia
morire innanzi morte!
Potess'io pur cangiar teco mia sorte!
Ma vedi là Corisca. Il ciel ti guardi,
dolcissima Corisca. COR. Chi mi chiama?
Oh, più degli occhi miei, più de la vita
a me cara Amarilli, e dove vai
così soletta? AMAR. In nessun altro loco,
se non dove mi trovi e dove meglio
capitar non potea, poi che te trovo.
COR. Tu trovi chi da te non parte mai,
Amarilli mia dolce, e di te stava
pur or pensando e fra mio cor dicea:
"S'io son l'anima sua, come può ella
star senza me sì lungamente?" e, 'n questo,
tu mi se' sopraggiunta, anima mia.
Ma tu non ami più la tua Corisca.
AMAR. E perché ciò? COR. Come perché? tu 'l chiedi?
Oggi tu sposa... AMAR. Io sposa? COR. Sì, tu sposa
ed a me nol palesi? AMAR. E come posso
palesar quel che non m'è noto? COR. Ancora
tu t'infingi e mel neghi? AMAR. Ancor mi beffi?
COR. Anzi tu beffi me. AMAR. Dunque m'affermi
ciò tu per vero? COR. Anzi tel giuro; e certo
non ne sai nulla tu? AMAR. So che promessa
già fui; ma non so già che sì vicine
sien le mie nozze. E tu da chi 'l sapesti?
COR. Da mio fratello Ormino. Esso l'ha inteso,
dice, da molti; e non si parla d'altro.
Par che tu te ne turbi. E` forse questa
novella da turbarsi? AMAR. Gli è un gran passo,
Corisca; e già la madre mia mi disse
che quel dì si rinasce. COR. A miglior vita
si rinasce per certo; e tu per questo
viver lieta dovresti. A che sospiri?
Lascia pur sospirar a quel meschino.
AMAR. Qual meschino? COR. Mirtillo, che trovossi
presente a ciò che 'l mio fratel mi disse,
e poco men che di dolor nol vidi
morire. E certo e' si moriva, s'io
non l'avessi soccorso, promettendo
di sturbar queste nozze; e, ben che questo
dicessi sol per suo conforto, io pure
sarei donna per farlo. AMAR. E ti darebbe
l'animo di sturbarle? COR. E di che sorte!
AMAR. E come ciò faresti? COR. Agevolmente,
pur che tu ti disponga e ci consenta.
AMAR. Se ciò sperassi e la tua fé mi dessi
di non l'appalesar, ti scovrirei
un pensier che nel cor gran tempo ascondo.
COR. Io palesarti mai? aprasi prima
la terra e per miracolo m'inghiotta.
AMAR. Sappi, Corisca mia, che, quand'io penso
ch'i' debbo ad un fanciullo esser soggetta,
che m'ha in odio e mi fugge e ch'altra cura
non ha che i boschi, e ch'una fèra e un cane
stima più che l'amor di mille ninfe,
malcontenta ne vivo e poco meno
che disperata; ma non oso a dirlo,
sì perché l'onestà non mel comporta,
sì perché al padre mio n'ho di già data
e, quel ch'è peggio, a la gran dea, la fede.
Che se per opra tua, ma però sempre
salva la fede mia, salva la vita
e la religion e l'onestate,
troncar di questo a me sì grave nodo
si potesser le fila, oggi saresti
tu ben la mia salute e la mia vita.
COR. Se per questo sospiri, hai gran ragione.
Amarilli. Deh! quante volte il dissi:
"Una cosa sì bella a chi la sprezza?
Sì ricca gioia a chi non la conosce?".
Ma tu se' troppo savia, a dirti il vero,
anzi pur troppo sciocca. E che non parli?
che non ti lasci intendere? AMAR. Ho vergogna.
COR. Hai un gran mal, sorella. I' vorrei prima
aver la febbre, il fistolo, la rabbia.
Ma, credi a me, la perderai tu ancora,
sorella mia, sì ben; basta una sola
volta che tu la superi e rinieghi.
AMAR. Vergogna, che 'n altrui stampò natura,
non si può rinegar, ché, se tu tenti
di cacciarla dal cor, fugge nel volto.
COR. O Amarilli mia, chi, troppo savia,
tace il suo male, alfin, da pazza, il grida.
Se questo tuo pensiero avessi prima
scoperto a me, saresti fuor d'impaccio.
Oggi vedrai quel che sa far Corisca.
Ne le più sagge man, ne le più fide
tu non potevi capitar. Ma, quando
sarai per opra mia già liberata
d'un cattivo marito, non vorrai tu
d'un buon amante provvederti? AMAR. A questo
penseremo a bell'agio. COR. Veramente
non puoi mancare al tuo fedel Mirtillo.
E tu sai pur s'oggi è pastor di lui,
né per valor, né per sincera fede,
né per beltà, de l'amor tuo più degno.
E tu 'l lasci morire (ah troppo cruda!),
senza che dir ti possa, almeno: "Io moro?".
Ascoltalo una volta. AMAR. Oh quanto meglio
farebbe a darsi pace, e la radice
sveller di quel desio ch'è senza speme!
COR. Dàgli questo conforto anzi che moia.
AMAR. Sarà piuttosto un raddoppiargli affanno.
COR. Lascia di questo tu la cura a lui.
AMAR. E di me che sarebbe, se mai questo
si risapesse? COR. Oh quanto hai poco core!
AMAR. E poco sia, purch'a bontà mi vaglia.
COR. Amarilli, se lecito ti fai
di mancarmi tu in questo, anch'io ben posso
giustamente mancarti. Addio. AMAR. Corisca,
non ti partir; ascolta. COR. Una parola
sola non udirei, se non prometti...
AMAR. Ti prometto d'udirlo, ma con questo,
ch'ad altro non m'astringa... COR. Altro non chiede.
AMAR. ... e tu gli facci credere che nulla
saputo i' n'abbia... COR. Mostrerò che tutto
abbia portato il caso. AMAR.... e ch'indi possa
partirmi a mio piacer, né mi contrasti...
COR. Quando ti piacerà, pur che l'ascolti.
AMAR.>... e brevemente si spedisca. COR. E questo
ancora si farà. AMAR.>... né mi s'accosti
quanto è lungo il mio dardo. COR. Oimè, che pena
m'è oggi il riformar cotesta tua
semplicità! Fuor che la lingua, ogn'altro
membro gli legherò, sì che sicura
star ne potrai: vuoi altro? AMAR. Altro non voglio.
COR. E quando il farai tu? AMAR. Quando a te piace,
pur che tanto di tempo or mi conceda
ch'i' torni a casa, ove di queste nozze
mi vo' meglio informar. COR. Vanne, ma guarda
di farlo accortamente. Or odi quello
ch'io vo pensando: ch'oggi sul meriggio
qui, sola, fra quest'ombre e senz'alcuna
de le tue ninfe tu ten venghi, dove
mi troverò per questo effetto anch'io.
Meco saran Nerine, Aglauro, Elisa,
e Fillide e Licori, tutte mie
non meno accorte e sagge che fedeli
e segrete compagne, ove, con loro
facendo tu, come sovente suoli,
il giuoco "de la cieca', agevolmente
Mirtillo crederà che non per lui,
ma per diporto tuo ci sii venuta.
AMAR. Questo mi piace assai; ma non vorrei
che quelle ninfe fossero presenti
a le parole di Mirtillo, sai?
COR. T'indendo, e ben avvisi; e fie mia cura
che tu di questo alcun timor non aggia,
ch'io le farò sparir quando fia tempo.
Vattene pur, e ti ricorda intanto
d'amar la tua fidissima Corisca.
AMAR. Se posto ho il cor ne le sue mani, a lei
starà di farsi amar quanto le piace.
COR. Parti ch'ella stia salda? A questa ròcca
maggior forza bisogna. S'a l'assalto
de le parole mie può far difesa,
a quelle di Mirtillo certamente
resister non potrà. So ben anch'io
quel che nel cor di tenera fanciulla
possano i prieghi di gradito amante.
Se ridur ci si lascia, a tal partito
la stringerò ben io con questo giuoco,
che non l'avrà da giuoco. Ed io non solo
da le parole sue, voglia o non voglia,
potrò spiar, ma penetrar ancora
fin ne l'interne viscere il suo core.
Come questo abbia in mano e già padrona
sia del segreto suo, farò di lei
ciò che vorrò senza fatica alcuna,
e condurrolla a quel che bramo, in guisa
ch'ella stessa, non ch'altri, agevolmente
creder potrà che l'abbia a ciò condotta
il suo sfrenato amor, non l'arte mia.
AT.2, SC.6
COR. Oimè, son morta! SAT. Ed io son vivo. COR. Torna,
torna, Amarilli mia, ché presa sono.
SAT. Amarilli non t'ode. Ah! questa volta
ti converrà star salda. COR. Oimè, le chiome!
SAT. T'ho pur sì lungamente attesa al varco,
che ne la rete se' caduta. E sai,
questo non è il mantello; è 'l crin, sorella.
COR. A me, Satiro? SAT. A te. Non se' tu quella
Corisca sì famosa ed eccellente
maestra di menzogne, che mentite
parolette e speranze e finti sguardi
vendi a sì caro prezzo? che tradito
m'ha' in tanti modi e dileggiato sempre,
ingannatrice e pessima Corisca?
COR. Corisca son ben io; ma non già quella,
Satiro mio gentil, ch'agli occhi tuoi
un tempo fu sì cara. SAT. Or son gentile,
sì, scelerata; ma gentil non fui,
quando per Coridon tu mi lasciasti.
COR. Te per altrui? SAT. Or odi meraviglia
e cosa nuova a l'animo sincero!
E quando l'arco a Lilla e 'l velo a Clori,
la veste a Dafne ed i coturni a Silvia
m'inducesti a rubar, perché 'l mio furto
fosse di quell'amor poscia mercede,
ch'a me promesso, fu donato altrui;
e quando la bellissima ghirlanda,
che donata i' t'avea, donasti a Niso;
e quando, a la caverna, al bosco, al fonte
facendomi vegghiar le fredde notti,
m'hai schernito e beffato, allor ti parvi
gentile, ah, scelerata? Or pagherai,
credimi, or pagherai di tutto il fio.
COR. Tu mi strascini, oimè! come s'i' fussi
una giovenca. SAT. Tu 'l dicesti a punto.
Scòtiti pur, se sai; già non tem'io
che quinci or tu mi fugga: a questa presa
non ti varranno inganni. Un'altra volta
ten fuggisti, malvagia; ma se 'l capo
qui non mi lasci, indarno t'affatichi
d'uscirmi oggi di man. COR. Deh! non negarmi
tanto di tempo almen, che teco i' possa
dir mia ragion comodamente. SAT. Parla.
COR. Come vuoi tu ch'io parli, essendo presa?
Lasciami. SAT. Ch'i' ti lasci? COR. I' ti prometto
la fede mia di non fuggir. SAT. Qual fede,
perfidissima femmina? ancor osi
parlar meco di fede? I' vo' condurti
ne la più spaventevole caverna
di questo monte, ove non giunga mai
raggio di sol, non che vestigio umano.
Del resto non ti parlo; il sentirai.
Farò con mio diletto e con tuo scorno
quello strazio di te, che meritasti.
COR. Puoi tu dunque, crudele, a questa chioma
che ti legò già il core, a questo volto
che fu già il tuo diletto, a questa un tempo
più de la vita tua cara Corisca,
per cui giuravi che ti fôra stato
anco dolce il morire, a questa puoi
soffrir di far oltraggio? Oh cielo! oh sorte!
In cui pos'io speranza? a cui debb'io
creder mai più, meschina? SAT. Ah, scelerata!
pensi ancor d'ingannarmi? ancor mi tenti
con le lusinghe tue, con le tue frodi?
COR. Deh! Satiro gentil, non far più strazio
di chi t'adora. Oimè! non se' già fèra,
non hai già il cor di marmo o di macigno.
Eccomi a' piedi tuoi. Se mai t'offesi,
idolo del mio cor, perdon ti cheggio.
Per queste nerborute e sovrumane
tue ginocchia ch'abbraccio, a cui m'inchino;
per quello amor che mi portasti un tempo;
per quella soavissima dolcezza
che trar solevi già dagli occhi miei
che tue stelle chiamavi, or son duo fonti;
per queste amare lagrime, ti prego,
abbi pietà di me, lasciami omai.
SAT. (La perfida m'ha mosso; e, s'io credessi
solo a l'affetto, a fé che sarei vinto!)
Ma insomma io non ti credo. Tu se' troppo
malvagia e 'nganni più chi più si fida.
Sotto quell'umiltà, sotto que' preghi
si nasconde Corisca: tu non puoi
esser da te diversa. Ancor contendi?
COR. Oimè il mio capo! Ah crudo! ancor un poco
ferma, ti prego; ed una sola grazia
non mi negar, almen. SAT. Che grazia è questa?
COR. Che tu m'ascolti ancor un poco. SAT. Forse
ti pensi tu con parolette finte
e mendicate lagrime piegarmi?
COR. Deh! Satiro cortese, e pur tu vuoi
far di me strazio? SAT. Il proverai. Vien' pure.
COR. Senza avermi pietà? SAT. Senza pietate.
COR. E 'n ciò se' tu ben fermo? SAT. In ciò ben fermo.
Hai tu finito ancor questo incantesimo?
COR. O villano indiscreto ed importuno,
mezz'uomo e mezzo capra, e tutto bestia,
carogna fracidissima e difetto
di natura nefando, se tu credi
che Corisca non t'ami, il vero credi.
Che vuoi tu ch'ami in te? quel tuo bel ceffo?
quella sucida barba? quell'orecchie
caprigne? e quella putrida e bavosa
isdentata caverna? SAT. O scelerata!
a me questo? COR. A te questo. SAT. A me, ribalda?
COR. A te caprone! SAT. Ed io con queste mani
non ti trarrò cotesta tua canina
ed importuna lingua? COR. Se t'accosti
e fossi tanto ardito... SAT. In tale stato
una vil femminuzza, in queste mani,
e non teme? e m'oltraggia? e mi dispregia?
Io ti farò... COR. Che mi farai, villano?
SAT. I' ti mangerò viva. COR. E con qua' denti,
se tu non gli hai? SAT. O ciel, come il comporti?
Ma s'io non te ne pago.... Vien' pur via.
COR. Non vo' venir. SAT. Non ci verrai, malvagia?
COR. No, mal tuo grado; no. SAT. Tu ci verrai,
se mi credessi di lasciarci queste
braccia. COR. Non ci verrò, se questo capo
di lasciarci credessi. SAT. Orsù! veggiamo
chi di noi ha più forte e più tenace,
tu il collo, od io le braccia. Tu ci metti
le mani, né con questo anco potrai
difenderti, perversa. COR. Or il vedremo.
SAT. Sì certo. COR. Tira ben. Satiro, addio;
fiàccati il collo. SAT. Oimè dolente! ahi lasso!
oimè il capo! oimè il fianco! oimè la schiena!
oh che fiera caduta! A pena i' posso
movermi e rilevarmene. E pur vero
è ch'ella fugga e qui rimanga il teschio?
Oh maraviglia inusitata! O ninfe,
o pastori, accorrete e rimirate
il magico stupor di chi sen fugge
e vive senza capo. Oh come è lieve!
quanto ha poco cervello e come il sangue
fuor non ne spiccia! Ma che miro? o sciocco!
o mentecatto! Senza capo lei?
Senza capo se' tu. Chi vide mai
uom di te più schernito? Or mira s'ella
ha saputo fuggir, quando tu meglio
la pensavi tener. Perfida maga!
Non ti bastava aver mentito il core
e 'l volto e le parole e 'l riso e 'l guardo,
s'anco il crin non mentivi? Ecco! poeti,
questo è l'oro nativo e l'ambra pura
che pazzamente voi lodate. Omai
arrossite, insensati, e, ricantando,
vostro soggetto in quella vece sia
l'arte d'una impurissima e malvagia
incantatrice, che i sepolcri spoglia
e, dai fracidi teschi il crin furando,
al suo l'intesse e così ben l'asconde,
che v'ha fatto lodar quel che aborrire
dovevate assai più che di Megera
le viperine e mostruose chiome.
Amanti, or non son questi i vostri nodi?
Mirate e vergognatevi, meschini.
E se, come voi dite, i vostri còri
son pur qui ritenuti, omai ciascuno
potrà senza sospiri e senza pianto
ricoverar il suo. Ma che più tardo
a publicar le sue vergogne? Certo
non fu mai sì famosa né sì chiara
la chioma ch'è là sù con tante stelle
ornamento del ciel, come fie questa
per la mia lingua, e molto più colei
che la portava, eternamente infame.
CORO Ah, ben fu di colei grave l'errore,
cagion del nostro male,
che le leggi santissime d'Amore,
di fé mancando, offese;
poscia ch'indi s'accese
degli immortali dèi l'ira mortale,
che, per lagrime e sangue
di tante alme innocenti, ancor non langue.
Così la Fé, d'ogni virtù radice,
e d'ogn'alma ben nata unico fregio,
là su si tiene in pregio!
Così di farci amanti, onde felice
si fa nostra natura,
l'eterno Amante ha cura!
Ciechi mortali, voi che tanta sete
di possedere avete,
l'urna amata guardando
d'un cadavero d'òr, quasi nud'ombra
che vada intorno al suo sepolcro errando;
qual amore o vaghezza
d'una morta bellezza il cor v'ingombra?
Le ricchezze e i tesori
son insensati amori. Il vero e vivo
amor de l'alma, è l'alma: ogn'altro oggetto,
perché d'amare è privo,
degno non è de l'amoroso affetto.
L'anima, perché sola è riamante,
sola è degna d'amor, degna d'amante.
Ben è soave cosa
quel bacio che si prende
da una vermiglia e delicata rosa
di bella guancia. E pur chi 'l vero intende,
com'intendete vui,
avventurosi amanti che 'l provate,
dirà che quello è morto bacio, a cui
la baciata beltà bacio non rende.
Ma i colpi di due labbra innamorate,
quando a ferir si va bocca con bocca
e che in un punto scocca
Amor con soavissima vendetta
l'una e l'altra saetta,
son veri baci, ove con giuste voglie
tanto si dona altrui, quanto si toglie.
Baci pur bocca curiosa e scaltra
o seno o fronte o mano: unqua non fia
che parte alcuna in bella donna baci
che baciatrice sia, se non la bocca, ove l'un'alma e l'altra
corre e si bacia anch'ella, e con vivaci
spiriti pellegrini
dà la vita al bel tesoro
de' bacianti rubini,
sì che parlan tra loro
gran cose in picciol suono,
e segreti dolcissimi che sono
a lor solo palesi, altrui celati.
Tal gioia amando prova, anzi tal vita,
alma con alma unita,
e son come d'amor baci baciati
gli incontri di duo còri amanti amati.
ATTO TERZO
AT.3, SC.1
MIRT. O primavera, gioventù de l'anno,
bella madre di fiori,
d'erbe novelle e di novelli amori,
tu torni ben, ma teco
non tornano i sereni
e fortunati dì de le mie gioie;
tu torni ben, tu torni,
ma teco altro non torna
che del perduto mio caro tesoro
la rimembranza misera e dolente.
Tu quella se', tu quella
ch'eri pur dianzi sì vezzosa e bella;
ma non son io già quel ch'un tempo fui
sì caro agli occhi altrui.
O dolcezze amarissime d'Amore,
quanto è più duro perdervi, che mai
non v'aver o provate o possedute!
Come saria l'amar felice stato,
se 'l già goduto ben non si perdesse;
o, quando egli si perde,
ogni memoria ancora
del dileguato ben si dileguasse!
Ma, se le mie speranze oggi non sono,
com'è l'usato lor, di fragil vetro,
o se maggior del vero
non fa la speme il desiar soverchio,
qui pur vedrò colei
ch'è 'l sol degli occhi miei;
e, s'altri non m'inganna,
qui pur vedrolla al suon de' miei sospiri
fermar il piè fugace.
Qui pur da le dolcezze
di quel bel volto avrà soave cibo
nel suo lungo digiun l'avida vista;
qui pur vedrò quell'empia
girar inverso me le luci altère,
se non dolci, almen fère,
e, se non carche d'amorosa gioia,
sì crude almen, ch'i' moia.
Oh lungamente sospirato invano
avventuroso dì, se, dopo tanti
foschi giorni di pianti,
tu mi concedi, Amor, di veder oggi
ne' begli occhi di lei
girar sereno il sol degli occhi miei!
Ma qui mandommi Ergasto, ove mi disse
ch'esser doveano insieme
Corisca e la bellissima Amarilli
per fare il gioco "de la cieca'; e pure
qui non veggio altra cieca
che la mia cieca voglia,
che va con l'altrui scorta
cercando la sua luce, e non la trova.
O pur frapposto a le dolcezze mie
un qualche amaro intoppo
non abbia il mio destino invido e crudo?
Questa lunga dimora
di paura e d'affanno il cor m'ingombra,
ch'un secolo agli amanti
per ogn'ora che tardi, ogni momento,
quell'aspettato ben che fa contento.
Ma chi sa? troppo tardi
son fors'io giunto, e qui m'avrà Corisca,
fors'anco, indarno lungamente atteso.
Fui pur anco sollecito a partirmi.
Oimè! se questo è vero, i' vo' morire.
AT.3, SC.2
AMAR. Ecco la cieca. MIRT. Eccola a punto. Ahi, vista!
AMAR. Or che si tarda? MIRT. Ahi, voce m'ha punto
e sanato in un punto!
AMAR. Ove sète? che fate? e tu, Lisetta,
che sì bramavi il gioco "de la cieca",
che badi? e tu, Corisca, ove se' ita?
MIRT. Or sì che si può dire
ch'Amor è cieco ed ha bendati gli occhi.
AMAR. Ascoltatemi voi,
che 'l sentier mi scorgete e quinci e quindi
mi tenete per man: come fien giunte
l'altre nostre compagne,
guidatemi lontan da queste piante,
ov'è maggior il vano, e quivi sola
lasciandomi nel mezzo,
ite con l'altre in schiera e tutte insieme
fatemi cerchio, e s'incominci il gioco.
MIRT. Ma che sarà di me? fin qui non veggio
qual mi possa venir da questo gioco
comodità che 'l mio desire adempia;
né so veder Corisca,
ch'è la mia tramontana. Il ciel m'aiti.
AMAR. Alfin sète venute. E che pensaste
di non far altro che bendarmi gli occhi?
Pazzerelle che sète! Or cominciamo.
CORO Cieco, Amor, non ti cred'io,
ma fai cieco il desio
di chi ti crede;
ché, s'hai pur poca vista, hai minor fede.
Cieco o no, mi tenti invano;
e per girti lontano
ecco m'allargo;
che, così cieco, ancor vedi più d'Argo.
Così cieco m'annodasti
e cieco m'ingannasti;
or che vo sciolto,
se ti credessi più, sarei ben stolto.
Fuggi e scherza pur, se sai;
già non fara' tu mai
che 'n te mi fidi,
perché non sai scherzar se non ancidi.
AMAR. Ma voi giocate troppo largo e troppo
vi guardate da rischio:
fuggir bisogna, sì, ma ferir prima.
Toccatemi, accostatevi, ché sempre
non ve n'andrete sciolte.
MIRT. O sommi dèi, che miro? o dove sono?
in cielo o in terra? O cieli,
i vostri eterni giri
han sì dolce armonia? le vostre stelle
han sì leggiadri aspetti?
CORO Ma tu pur, perfido cieco,
mi chiami a scherzar teco;
ed ecco scherzo
e col piè fuggo e con la man ti sferzo.
E corro e ti percoto,
e tu t'aggiri a vòto.
Ti pungo ad ora ad ora:
né tu mi prendi ancora,
o cieco Amore,
perché libero ho il core.
AMAR. In buona fé, Licori,
ch'i' mi pensai d'averti presa, e trovo
d'aver presa una pianta.
Sento ben che tu ridi.
MIRT. Deh, foss'io quella pianta!
Or non vegg'io Corisca
tra quelle fratte ascosa? E` dessa certo;
e non so che m'accenna,
che non intendo, e pur m'accenna ancora.
CORO Sciolto cor fa piè fugace.
O lusinghier fallace,
ancor m'alletti
a' tuo' vezzi mentiti, a' tuo' diletti?
E pur di nuovo i' riedo,
e giro e fuggo e fiedo
e torno; e non mi prendi
e sempre invan m'attendi,
o cieco Amore,
perché libero ho il core.
AMAR. Oh! fusti svelta, maladetta pianta,
che pur anco ti prendo,
quantunque un'altra al brancolar mi sembri!
Forse ch'i' non credei
d'averti franca a questa volta, Elisa?
MIRT. E pur anco non cessa
d'accennarmi Corisca, e sì sdegnosa,
che sembra minacciar. Vorrebbe forse
che mi mischiassi anch'io tra quelle ninfe?
AMAR. Dunque giocar debb'io
tutt'oggi con le piante?
COR. Bisogna pur che mal mio grado i' parli
ed esca de la buca.
Prendila, dappochissimo: che badi?
ch'ella ti corra in braccio?
o làsciati almen prendere. Su, dammi
cotesto dardo, e valle incontra, sciocco!
MIRT. Oh come mal s'accorda
l'animo col desio!
Sì poco ardisce il cor che tanto brama!
AMAR. Per questa volta ancor tornisi al gioco,
ché son già stanca e, per mia fé, voi sète
troppo indiscrete a farmi correr tanto.
CORO Mira nume trionfante,
a cui dà il mondo amante
empio tributo!
Eccol oggi deriso, eccol battuto.
Sì come ai rai del sole
cieca nottola suole,
c'ha mille augei d'intorno
che le fan guerra e scorno,
ed ella picchia
col becco invano e s'erge e si rannicchia;
così se' tu beffato,
Amore, in ogni lato:
chi 'l tergo e chi le gote
ti stimola e percote;
e poco vale
perché stendi gli artigli o batti l'ale.
Gioco dolce ha pania amara;
e ben l'impara
augel che vi s'invesca.
Non sa fuggir Amor, chi seco tresca.
AT.3, SC.3
AMAR. Affé t'ho colta, Aglauro!
Tu vuoi fuggir? t'abbraccerò sì stretta...
COR. (Certamente, se contra
non gliel avessi a l'improvviso spinto
con sì grand'urto, i' faticava in vano
per far ch'egli vi gisse.)
AMAR. Tu non parli: se' dessa o non se' dessa?
COR. (Qui ripongo il suo dardo, e nel cespuglio
torno per osservar ciò che ne segue.)
AMAR. Or ti conosco, sì: tu se' Corisca
che se' sì grande e senza chioma. A punto
altra che te non volev'io, per darti
de le pugna a mio senno.
Or te' questo e quest'altro,
e quest'anco e poi questo. Ancor non parli?
Ma, se tu mi legasti, anco mi sciogli,
e fa' tosto, cor mio,
ch'i' vo' poi darti il più soave bacio,
ch'avessi mai. Che tardi?
par che la man ti tremi. Se' sì stanca?
Mettici i denti, se non puoi con l'ugna.
Oh quanto se' melensa!
Ma lascia far a me, ché da me stessa
mi leverò d'impaccio.
Or ve' con quanti nodi
mi legasti tu stretta!
Se può toccar a te l'esser la cieca...
Son pur, ecco, sbendata. Oimè! che veggio?
Lasciami, traditor! Oimè! son morta!
MIRT. Sta' cheta, anima mia! AMAR. Lasciami, dico,
lasciami! Così dunque
si fa forza a le ninfe? Aglauro, Elisa!
ah, perfide! ove sète?
Lasciami, traditore! MIRT. Ecco ti lascio.
AMAR. Quest'è un inganno di Corisca. Or togli
quel che n'hai guadagnato. MIRT. Dove fuggi, crudele?
Mira almen la mia morte. Ecco, mi passo
con questo dardo il petto.
AMAR. Oimè! che fai? MIRT. Quel che forse ti pesa
ch'altri faccia per te, ninfa crudele.
AMAR. Oimè, son quasi morta!
MIRT. E se quest'opra a la tua man si deve,
ecco 'l ferro, ecco 'l petto.
AMAR. Ben il meriteresti. E chi t'ha dato
cotanto ardir, presontuoso? MIRT. Amore.
AMAR. Amor non è cagion d'atto villano.
MIRT. Dunque in me credi amore,
poi che discreto fui, ché se prendesti
tu prima me, son io tanto men degno
d'esser da te di villania notato,
quanto, con sì vezzosa
comodità d'esser ardito e quando
potei le leggi usar teco d'Amore,
fui però sì discreto,
che quasi mi scordai d'esser amante.
AMAR. Non mi rimproverar quel che fei cieca.
MIRT. Ah, che tanto più cieco
son io di te, quanto più sono amante!
AMAR. Preghi e lusinghe, e non insidie e furti,
usa il discreto amante.
MIRT. Come selvaggia fèra,
cacciata da la fame,
esce dal bosco e 'l peregrino assale,
tal io, ché sol de' tuo' begli occhi i' vivo.
Poi che l'amato cibo
o tua fierezza o mio destìn mi nega,
sa, famelico amante,
uscendo oggi de' boschi ov'io soffersi
digiun misero e lungo,
quello scampo tentai per mia salute,
che mi dettò necessità d'amore,
non incolpar già me, ninfa crudele;
te sola pur incolpa,
ché, se co' preghi sol, come dicesti,
s'ama discretamente, e con lusinghe,
e ciò da me non aspettasti mai,
tu sola, tu m'hai tolto,
con la durezza tua, con la tua fuga,
l'esser discreto amante.
AMAR. Assai discreto amante esser potevi,
lasciando di seguir chi ti fuggiva.
Pur sai che 'nvan mi segui.
Che vòi da me? MIRT. Ch'una sola fiata
degni almen d'ascoltarmi, anzi ch'io moia.
AMAR. Buon per te che la grazia,
prima che l'abbi chiesta, hai ricevuta.
Vattene dunque. MIRT. Ah! ninfa,
quel che t'ho detto, a pena
è una minuta stilla
de l'infinito mar del pianto mio.
Deh! se non per pietate,
almen per tuo diletto ascolta, cruda,
di chi si vuol morir gli ultimi accenti.
AMAR. Per levar te d'errore a me d'impaccio,
son contenta d'udirti;
ma ve'! con queste leggi:
di' poco, e tosto parti, e più non torna.
MIRT. In troppo picciol fascio,
crudelissima ninfa,
stringer tu mi comandi
quell'immenso desio, che, se con altro,
misurar si potesse
che con pensiero umano,
a pena il capirìa ciò che capire
puote in pensiero umano.
Ch'i' t'ami, e t'ami più de la mia vita,
se tu nol sai, crudele,
chiedilo a queste selve,
che tel diranno, e tel diran con esse
le fère loro e i duri sterpi e i sassi
di questi alpestri monti,
ch'i' ho sì spesse volte
inteneriti al suon de' miei lamenti.
Ma che bisogna far cotanta fede
de l'amor mio, dov'è bellezza tanta?
Mira quante vaghezze ha 'l ciel sereno,
quante la terra, e tutte
raccogli in picciol giro; indi vedrai
l'alta necessità de l'arder mio.
E come l'acqua scende e 'l foco sale
per sua natura, e l'aria
vaga e posa la terra e 'l ciel s'aggira,
così naturalmente a te s'inchina,
come a suo bene, il mio pensiero, e corre
a le bellezze amate
con ogni affetto suo l'anima mia.
E chi di traviarla
dal caro oggetto suo forse pensasse,
prima torcer porrìa
da l'usato cammino e cielo e terra
ed acqua ed aria e foco,
e tutto trar da le sue sedi il mondo.
Ma, perché mi comandi
ch'io dica poco, ah cruda!
poco dirò, s'io dirò sol ch'io moro;
e men farò morendo
, s'io miro a quel che del mio strazio brami.
Ma farò quello, aimè! che sol m'avanza,
miseramente amando.
Ma, poi che sarò morto, anima cruda,
avrai tu almen pietà de le mie pene?
Deh! bella e cara e sì soave un tempo
cagion del viver mio, mentre a Dio piacque,
volgi una volta, volgi
quelle stelle amorose,
come le vidi mai, così tranquille
e piene di pietà, prima ch'i' moia,
ché 'l morir mi sia dolce.
E dritto è ben che, se mi fûro un tempo
dolci segni di vita, or sien di morte
que' begli occhi amorosi;
e quel soave sguardo,
che mi scorse ad amare,
mi scorga anco a morire;
e chi fu l'alba mia,
del mio cadente dì l'espero or sia.
Ma tu, più che mai dura,
favilla di pietà non senti ancora;
anzi t'inaspri più, quanto più prego.
Così senza parlar dunque m'ascolti?
A chi parlo, infelice? a un muto marmo?
S'altro non mi vuoi dir, dimmi almen: "Mori!"
e morir mi vedrai.
Questa è ben, empio Amor, miseria estrema,
che sì rigida ninfa
e del mio fin sì vaga,
perché grazia di lei
non sia la morte mia, morte mi neghi,
né mi risponda, e l'armi
d'una sola sdegnosa e cruda voce
sdegni di proferire
al mio morir. AMAR. Se dianzi t'avess'io
promesso di risponderti, sì come
d'ascoltar ti promisi,
qualche giusta cagion di lamentarti
del mio silenzio avresti.
Tu mi chiami crudele, immaginando
che da la ferità rimproverata
agevole ti sia forse il ritrarmi
al suo contrario affetto;
né sai tu che l'orecchie
così non mi lusinga il suon di quelle
da me sì poco meritate e molto
meno gradite lodi,
che mi dài di beltà, come mi giova
il sentirmi chiamar da te crudele.
L'esser cruda ad ogn'altro,
già nol nego, è peccato;
a l'amante, è virtute;
ed è vera onestate
quella che 'n bella donna
chiami tu feritate.
Ma sia, come tu vuoi, peccato e biasmo
l'esser cruda a l'amante: or quando mai
ti fu cruda Amarilli?
Forse allor che giustizia
stato sarebbe il non usar pietate?
E pur teco l'usai
tanto, ch'a dura morte i' ti sottrassi.
I' dico allor che tu, fra nobil coro
di vergini pudiche,
libidinoso amante,
sotto abito mentito di donzella
ti mescolasti e, i puri scherzi altrui
contaminando, ardisti
mischiar tra finti ed innocenti baci
baci impuri e lascivi,
che la memoria ancor se ne vergogna.
Ma sallo il ciel, ch'allor non ti conobbi,
e che poi, conosciuto,
sdegno n'ebbi, e serbai
da le lascivie tue l'animo intatto;
né lasciai che corresse
l'amoroso veneno al cor pudico,
ch'alfin non violasti
se non la sommità di queste labbra.
"Bocca baciata a forza,
se 'l bacio sputa, ogni vergogna ammorza'.
Ma dimmi tu: qual frutto avresti allora
dal temerario tuo furto raccolto,
se t'avess'io scoperto a quelle ninfe?
Non fu sull'Ebro mai
sì fieramente lacerato e morto
da le donne di Tracia il tracio Orfeo,
come stato da loro
saresti tu, se non ti dava aita
la pietà di colei che cruda or chiami.
Ma non è cruda già quanto bisogna,
ché, se cotanto ardisci
quanto ti son crudele,
ché faresti tu poi,
se pietosa ti fussi?
Quella sana pietà che dar potei,
quella t'ho dato. In altro modo è vano
che tu la chiedi o speri,
ché pietate amorosa
mal si dà per colei
che per sé non la trova,
poi che l'ha data altrui.
Ama l'onestà mia, s'amante sei;
ama la mia salute, ama la vita.
Troppo lunge se' tu da quel che brami.
Il proibisce il ciel, la terra il guarda
e 'l vendica la morte;
ma più d'ogn'altro e con più saldo scudo
l'onestate il difende,
ché sdegna alma bennata
più fido guardatore
aver del proprio onore. Or datti pace
dunque, Mirtillo, e guerra
non far a me. Fuggi lontano e vivi,
se saggio se': ch'abbandonar la vita
per soverchio dolore,
non è atto o pensiero
di magnanimo core;
ed è vera virtute
il sapersi astener da quel che piace,
se quel che piace, offende.
MIRT. Non è in man di chi perde
l'anima, il non morire.
AMAR. Chi s'arma di virtù, vince ogni affetto.
MIRT. Virtù non vince ove trionfa Amore.
AMAR. Chi non può quel che vuol, quel che può voglia.
MIRT. Necessità d'amor legge non have.
AMAR. La lontananza ogni gran piaga salda.
MIRT. Quel che nel cor si porta, invan si fugge.
AMAR. Scaccerà vecchio amor novo desio.
MIRT. Sì, s'un'altra alma e un altro core avessi.
AMAR. Consuma il tempo finalmente amore.
MIRT. Ma prima il crudo amor l'alma consuma.
AMAR. Così, dunque, il tuo mal non ha rimedio?
MIRT. Non ha rimedio alcun, se non la morte.
AMAR. La morte? Or tu m'ascolta e fa' che legge
ti sian queste parole. Ancor ch'i' sappia
che 'l morir degli amanti è più tosto uso
d'innamorata lingua che desio
d'animo in ciò deliberato e fermo,
pur se talento mai
e sì strano e sì folle a te venisse,
sappi che la tua morte
non men de la mia fama
che de la vita tua morte sarebbe.
Vivi dunque, se m'ami;
vattene, e da qui innanzi avrò per chiaro
segno che tu sii saggio,
se con ogni tuo ingegno
ti guarderai di capitarmi innanti.
MIRT. Oh sentenza crudele!
Come viver poss'io
senza la vita? o come
dar fin senza la morte al mio tormento?
AMAR. Orsù! Mirtillo, è tempo
che tu ten vada; e troppo lungamente
hai dimorato ancora.
Pàrtiti; e ti consola,
ch'infinita è la schiera
degli infelici amanti.
Vive ben altri in pianti
sì come tu, Mirtillo. Ogni ferita
ha seco il suo dolore,
né se' tu solo a lagrimar d'amore.
MIRT. Misero infra gli amanti
già solo non son io; ma son ben solo
miserabile esempio
e de' vivi e de' morti, non potendo
né viver né morire.
AMAR. Orsù! pàrtiti omai
. MIRT. Ah! dolente partita!
ah, fin de la mia vita!
da te parto e non moro? E pur i' provo
la pena de la morte
e sento nel partire
un vivace morire,
che dà vita al dolore
per far che moia immortalmente il core.
AT.3, SC.4
AMAR. O Mirtillo, Mirtillo, anima mia,
se vedessi qui dentro
come sta il cor di questa
che chiami crudelissima Amarilli,
so ben che tu di lei
quella pietà, che da lei chiedi, avresti.
Oh anime in amor troppo infelici!
che giova a te, cor mio, l'esser amato?
che giova a me l'aver sì caro amante?
Perché, crudo destino,
ne disunisci tu, s'Amor ne strigne?
e tu, perché ne strigni,
se ne parte il destin, perfido Amore?
Oh fortunate voi, fère selvagge,
a cui l'alma natura
non die' legge in amar se non d'amore!
Legge umana inumana,
che dài per pena de l'amar la morte!
Se 'l peccar è sì dolce
e 'l non peccar sì necessario, oh troppo
imperfetta natura
che repugni a la legge!
oh! troppo dura legge
che la natura offendi!
Ma che? poco ama altrui chi 'l morir teme.
Piacesse pur al ciel, Mirtillo mio,
che sol pena al peccar fusse la morte!
Santissima Onestà, che sola sei
d'alma bennata inviolabil nume,
quest'amorosa voglia,
che svenata ho col ferro
del tuo santo rigor, qual innocente
vittima a te consacro.
E tu, Mirtillo, anima mia, perdona
a chi t'è cruda sol dove pietosa
esser non può; perdona a questa, solo
nei detti e nel sembiante
rigida tua nemica, ma nel core
pietosissima amante;
e, se pur hai desio di vendicarti,
deh! qual vendetta aver puoi tu maggiore
del tuo proprio dolore?
Che se tu se' 'l cor mio,
come se' pur mal grado
del cielo e della terra,
qualor piagni e sospiri,
quelle lagrime tue sono il mio sangue,
que' sospiri il mio spirto e quelle pene
e quel dolor, che senti,
son miei, non tuoi, tormenti.
AT.3, SC.5
COR. Non t'asconder già più, sorella mia.
AMAR. (Meschina me, son discoperta!) COR. Il tutto
ho troppo ben inteso. Or non m'apposi?
non ti diss'io ch'amavi? Or ne son certa.
E da me tu ti guardi? a me l'ascondi?
a me che t'amo sì? Non t'arrossire,
non t'arrossir, ché questo è mal comune.
AMAR. Io son vinta, Corisca, e tel confesso.
COR. Or che negar nol puoi, tu mel confessi.
AMAR. E ben m'avveggio, ahi, lassa!
che troppo angusto vaso è debil core
a traboccante amore.
COR. O cruda al tuo Mirtillo,
e più cruda a te stessa!
AMAR. Non è fierezza quella
che nasce da pietate.
COR. Aconito e cicuta
nascer da salutifera radice
non si vide già mai.
Che differenza fai
da crudeltà ch'offende,
a pietà che non giova?
AMAR. Oimè, Corisca! COR. Il sospirar, sorella,
è debolezza e vanità di core,
e proprio è de le femmine da poche.
AMAR. Non sarei più crudele,
se 'n lui nudrissi amor senza speranza?
Il fuggirlo è pur segno
ch'i' ho compassione
del suo male e del mio.
COR. Perché senza speranza?
AMAR. Non sai tu che promessa a Silvio sono?
Non sai tu che la legge
condanna a morte ogni donzella ch'aggia
violata la fede?
COR. O semplicetta! ed altro non t'arresta?
Qual è tra noi più antica,
la legge di Diana o pur d'Amore?
Questa ne' nostri petti
nasce, Amarilli, e con l'età s'avanza;
né s'apprende o s'insegna,
ma negli umani cuori,
senza maestro, la natura stessa
di propria man l'imprime;
e dov'ella comanda,
ubbidisce anco il ciel, non che la terra.
AMAR. E pur, se questa legge
mi togliesse la vita,
quella d'Amor non mi darebbe aita.
COR. Tu se' troppo guardinga. Se cotali
fusser tutte le donne
e cotali rispetti avesser tutte,
buon tempo, addio! Soggette a questa pena
stimo le poche pratiche, Amarilli;
per quelle, che son sagge,
non è fatta la legge.
Se tutte le colpevoli uccidesse,
credimi, senza donne
resterebbe il paese; e, se le sciocche
v'inciampano, è ben dritto
che 'l rubar sia vietato
a chi leggiadramente
non sa celare il furto,
ch'altro alfin l'onestate
non è che un'arte di parere onesta.
Creda ognun a suo modo: io così credo.
AMAR. Queste son vanità, Corisca mia.
Gran senno è lasciar tosto
quel che non può tenersi.
COR. E chi tel vieta, sciocca?
Troppo breve è la vita
da trapassarla con un solo amore;
troppo gli uomini avari,
o sia difetto o pur fierezza loro,
ci son de le lor grazie.
E sai? tanto siam care,
tanto gradite altrui, quanto siam fresche.
Levaci la beltà, la giovinezza;
come alberghi di pecchie
restiamo, senza favi e senza mèle,
negletti aridi tronchi.
Lascia gracchiar agli uomini, Amarilli,
però ch'essi non sanno
né sentono i disagi de le donne,
e troppo differente
da la condizion de l'uomo è quella
de la misera donna.
Quanto più invecchia, l'uomo
diventa più perfetto,
e, se perde bellezza, acquista senno.
Ma in noi con la beltate
e con la gioventù, da cui sì spesso
il viril senno e la possanza è vinta,
manca ogni nostro ben; né si può dire
né pensar la più sozza
cosa né la più vil di donna vecchia.
Or, prima che tu giunga
a questa nostra universal miseria
, conosci i pregi tuoi.
Se t'è la vita destra,
non l'usar a sinistra.
Che varrebbe al leone
la sua ferocità, se non l'usasse?
Che gioverebbe a l'uomo,
l'ingegno suo, se non l'usasse a tempo?
Così noi la bellezza,
ch'è virtù nostra, così propria come
la forza del leone
e l'ingegno de l'uomo,
usiam mentre l'abbiamo.
Godiam, sorella mia,
godiam, ché 'l tempo vola e posson gli anni
ben ristorar i danni
de la passata lor fredda vecchiezza;
ma, s'in noi giovinezza
una volta si perde,
mai più non si rinverde.
Ed a canuto e livido sembiante
può ben tornar amor, ma non amante.
AMAR. Tu, come credo, in questa guisa parli
per tentarmi, Corisca,
più tosto che per dir quel che ne senti.
E però sii pur certa
che, se tu non mi mostri agevol modo,
e sopra tutto onesto,
di fuggir queste nozze,
ho fatto irrevocabile pensiero
di più tosto morir che macchiar mai
l'onestà mia, Corisca.
COR. (Non ho veduto mai la più ostinata
femmina di costei.)
Poi che questo conchiudi, eccomi pronta.
Dimmi un poco, Amarilli:
credi tu forse che 'l tuo Silvio sia
tanto di fede amico
quanto tu d'onestate?
AMAR. Tu mi farai ben ridere: di fede
amico Silvio? e come,
s'è nemico d'amore?
COR. Silvio d'amor nemico? O semplicetta!
tu nol conosci. E' sa far e tacere,
ti so dir io. Quest'anime sì schife, eh?
non ti fidar di loro.
Non è furto d'amor tanto sicuro
né di tanta finezza,
quanto quel che s'asconde
sotto il vel d'onestate.
Ama dunque il tuo Silvio,
ma non già te, sorella.
AMAR. E quale è questa dea,
ché certo esser non può donna mortale,
che l'ha d'amore acceso?
COR. Né dea né anco ninfa. AMAR. Oh che mi narri!
COR. Conosci tu la mia Lisetta? AMAR. Quale
Lisetta tua? la pecoraia? COR. Quella.
AMAR. Di' tu vero, Corisca? COR. Questa è dessa,
questa è l'anima sua.
AMAR. Or vedi se lo schifo
s'è d'un leggiadro amor ben provveduto!
COR. E sai come ne spasima e ne muore?
Ogni giorno s'infinge
d'ire a la caccia...
AMAR. Ogni mattina a punto
sento su l'alba il maladetto corno.
COR.>... e sul fitto meriggio,
mentre che gli altri sono
più fervidi ne l'opra, ed egli allotta
da' compagni s'invola e vien soletto
per via non trita al mio giardino, ov'ella
tra le fessure d'una siepe ombrosa,
che 'l giardin chiude, i suoi sospiri ardenti,
i suoi prieghi amorosi ascolta, e poi,
a me gli narra e ride. Or odi quello
che pensato ho di fare, anzi ho già fatto,
per tuo servigio. Io credo ben che sappi
che la medesma legge, che comanda
a la donna il servar fede al suo sposo,
ha comandato ancor che, ritrovando
ella il suo sposo in atto di perfidia,
possa, mal grado de' parenti suoi,
negar d'essergli sposa, e d'altro amante
onestamente provvedersi. AMAR. Questo
so molto bene, ed anco alcuno esempio
veduto n'ho: Leucippe a Ligurino,
Egle a Licota, ed a Turingo Armilla,
trovati senza fé, la data fede
ricoveraron tutte. COR. Or tu m'ascolta.
Lisetta mia, così da me avvertita,
ha col fanciullo amante e poco cauto
d'esser in quello speco oggi con lei
ordine dato, ond'egli è 'l più contento
garzon che viva, e sol n'attende l'ora.
Quivi vo' che tu 'l colga. I' sarò teco
per testimon del tutto, ché senz'esso
vana sarebbe l'opra, e così sciolta
sarai senza periglio, e con tuo onore
e con onor del padre tuo, da questo
sì noioso legame. AMAR. Oh quanto bene
hai pensato, Corisca! Or che ci resta?
COR. Quel ch'ora intenderai. Tu bene osserva
le mie parole. A mezzo de lo speco,
ch'è di forma assai lunga e poco larga,
su la man dritta, è nel cavato sasso
una, non so ben dir se fatta sia
o per natura o per industria umana,
picciola cavernetta, d'ogni intorno
tutta vestita d'edera tenace,
a cui dà lume un picciolo pertugio
che d'alto s'apre, assai grato ricetto
ed a' furti d'amor comodo molto.
Or tu, gli amanti prevenendo, quivi
fa' che t'ascondi e 'l venir loro attendi.
Invierò la mia Lisetta intanto;
poi, le vestigia di lontan seguendo
di Silvio, come pria sceso ne l'antro
vedrollo, entrando anch'io subitamente,
il prenderò perché non fugga, e 'nsieme
farò (ché così seco ho divisato)
con Lisetta grandissimi rumori,
a' quali tosto accorrerai tu ancora
e, secondo il costume, esequirai
contra Silvio la legge; e poi n'andremo
ambedue con Lisetta al sacerdote,
e così il marital nodo sciorrai.
AMAR. Dinanzi al padre suo? COR. Che 'mporta questo?
Pensi tu che Montano il suo privato
comodo debbia al publico antiporre?
ed al sacro il profano? AMAR. Or dunque, gli occhi
chiudendo, fedelissima mia scorta,
a te regger mi lascio
. COR. Ma non tardar; entra, ben mio. AMAR. Vo' prima girmene al tempio a venerar gli dèi,
ché fortunato fin non può sortire,
se non la scorge il ciel, mortale impresa.
COR. Ogni loco, Amarilli, è degno tempio
di ben devoto core.
Perderai troppo tempo.
AMAR. Non si può perder tempo
nel far preghi a coloro
che comandano al tempo.
COR. Vanne dunque, e vien' tosto.
Or, s'io non erro, a buon camin son vòlta.
Mi turba sol questa tardanza. Pure
potrebbe anco giovarmi. Or mi bisogna
tesser novello inganno. A Coridone
amante mio creder farò che seco
trovar mi voglia; e nel medesim'antro
dopo Amarilli il manderò, là dove
farò venir per più segreta strada
di Diana i ministri a prender lei,
la qual, come colpevole, a morire
sarà senz'alcun dubbio condennata.
Spenta la mia rivale, alcun contrasto
non avrò più per ispugnar Mirtillo,
che per lei m'è crudele. Eccol a punto.
Oh come a tempo! I' vo' tentarlo alquanto,
mentre Amarilli mi dà tempo. Amore,
vien' ne la lingua mia tutto e nel volto.
AT.3, SC.6
MIRT. Udite, lagrimosi
spirti d'Averno, udite
nova sorte di pena e di tormento;
mirate crudo affetto
in sembiante pietoso:
la mia donna, crudel più de l'inferno,
perch'una sola morte
non può far sazia la sua fiera voglia
(e la mia vita è quasi
una perpetua morte),
mi comanda ch'i' viva,
perché la vita mia
di mille morti il dì ricetto sia.
COR. (M'infingerò di non l'aver veduto).
Sento una voce querula e dolente
sonar d'intorno, e non so dir di cui.
Oh! se' tu, il mio Mirtillo?
MIRT. Così foss'io nud'ombra e poca polve!
COR. E ben, come ti senti
da poi che lungamente ragionasti
con l'amata tua donna?
MIRT. Come assetato infermo
che bramò lungamente
il vietato licor, se mai vi giunge,
meschin! beve la morte,
e spegne anzi la vita che la sete;
tal io, gran tempo infermo
e d'amorosa sete arso e consunto,
in duo bramati fonti,
che stillan ghiaccio da l'alpestre vena
d'un indurato core,
ho bevuto il veleno;
e spento il viver mio
più tosto che 'l desio.
COR. Tanto è possente amore
quanto dai nostri cor forza riceve,
caro Mirtillo; e, come l'orsa suole
con la lingua dar forma
a l'informe suo parto,
che per sé fôra inutilmente nato,
così l'amante al semplice desire,
che nel suo nascimento
era infermo ed informe,
dando forma e vigore,
ne fa nascere amore.
Il qual prima, nascendo,
è delicato e tenero bambino,
e, mentre è tale in noi, sempre è soave;
ma, se troppo s'avanza
divien aspro e crudele,
ch'alfin, Mirtillo, un invecchiato affetto
si fa pena e difetto.
Che, s'in un sol pensiero
l'anima, immaginando, si condensa
e troppo in lui s'affisa,
l'amor, ch'esser dovrebbe
pura gioia e dolcezza,
si fa malinconia
e, quel ch'è peggio, alfin morte o pazzia.
Però saggio è quel core
che spesso cangia amore.
MIRT. Prima che mai cangiar voglia o pensiero,
cangerò vita in morte,
però che la bellissima Amarilli,
così com'è crudel, com'è spietata,
sola è la vita mia,
né può già sostener corporea salma
più d'un cor, più d'un'alma.
COR. O misero pastore,
come sai mal usare
per lo suo dritto amore!
Amar chi m'odia e seguir chi mi fugge? Eh!
i' mi morrei ben prima.
MIRT. Come l'oro nel foco,
così la fede nel dolor s'affina,
Corisca mia, né può senza fierezza
dimostrar sua possanza
amorosa invincibile costanza.
Questo solo mi resta,
fra tanti affanni miei, dolce conforto.
Arda pur sempre o mora
o languisca il cor mio,
a lui fien lievi pene
per sì bella cagion pianti e sospiri,
strazio, pene, tormenti, esilio e morte,
pur che prima la vita,
che questa fé, si scioglia,
ch'assai peggio di morte è il cangiar voglia.
COR. Oh bella impresa! Oh valoroso amante,
come ostinata fèra,
come insensato scoglio,

AT.3, SC.6 rigido e pertinace!
Non è la maggior peste
né 'l più fero e mortifero veleno
a un'anima amorosa, de la fede.
Infelice quel core
che si lascia ingannar da questa vana
fantasima d'errore e de' più cari
amorosi diletti
turbatrice importuna!
Dimmi, povero amante:
con cotesta tua folle
virtù de la costanza,
che cosa ami in colei che ti disprezza?
Ami tu la bellezza,
che non è tua? la gioia che non hai?
la pietà che sospiri?
la mercé che non speri?
Altro non ami alfin, se dritto miri,
che 'l tuo mal, che 'l tuo duol, che la tua morte.
E se' sì forsennato,
ch'amar vuoi sempre, e non esser amato?
Deh! risorgi, Mirtillo;
riconosci te stesso.
Forse ti mancheran gli amori? forse
non troverai chi ti gradisca e pregi?
MIRT. M'è più dolce il penar per Amarilli,
che il gioir di mill'altre;
e se gioir di lei
mi vieta il mio destino, oggi si moia
per me pure ogni gioia.
Viver io fortunato
per altra donna mai, per altro amore?
né, volendo, il potrei
né, potendo, il vorrei.
E, s'esser può che 'n alcun tempo mai
ciò voglia il mio volere
o possa il mio potere,
prego il cielo ed Amor che tolto pria
ogni voler, ogni poter mi sia.
COR. Oh core ammaliato!
Per una cruda, dunque,
tanto sprezzi te stesso?
MIRT. Chi non spera pietà, non teme affanno,
Corisca mia. COR. Non t'ingannar, Mirtillo,
ché forse da dovero
non credi ancor ch'ella non t'ami e ch'ella
da dovero ti sprezzi.
Se tu sapessi quello
che sovente di te meco ragiona!
MIRT. Tutti questi pur sono
amorosi trofei da la mia fede.
Trionferò con questa
del cielo e de la terra,
de la sua cruda voglia,
de le mie pene e de la dura sorte,
di fortuna, del mondo e de la morte.
COR. (Che farebbe costui quando sapesse
d'esser da lei sì grandemente amato?)
Oh qual compassione
t'ho io, Mirtillo, di cotesta tua
misera frenesia!
Dimmi: amasti tu mai
altra donna che questa?
MIRT. Primo amor del cor mio
fu la bella Amarilli,
e la bella Amarilli
sarà l'ultimo ancora.
COR. Dunque, per quel ch'i' veggia,
non provasti tu mai
se non crudele Amor, se non sdegnoso.
Deh, s'una volta sola
il provassi soave
e cortese e gentile!
Provalo un poco, provalo; e vedrai
com'è dolce il gioire
per gratissima donna che t'adori
quanto fai tu la tua
crudele ed amarissima Amarilli;
com'è soave cosa
tanto goder quanto ami,
tanto aver quanto brami;
sentir che la tua donna
ai tuoi caldi sospiri,
caldamente sospiri,
e dica poi: "Ben mio,
quanto son, quanto miri,
tutto è tuo. S'io son bella,
a te solo son bella; a te s'adorna
questo viso, quest'oro e questo seno;
in questo petto mio
alberghi tu, caro mio cor, non io".
Ma questo è un picciol rivo
rispetto a l'ampio mar de le dolcezze
che fa gustar Amore;
ma non le sa ben dir chi non le prova.
MIRT. Oh mille volte fortunato e mille
chi nasce in tale stella!
COR. Ascoltami, Mirtillo
(quasi m'uscì di bocca: "anima mia'),
una ninfa gentile,
fra quante o spieghi al vento o 'n treccia annodi
chioma d'oro leggiadra,
degna de l'amor tuo
come se' tu del suo,
onor di queste selve,
amor di tutti i cori;
dai più degni pastori
invan sollecitata, invan seguìta,
te solo adora ed ama
più de la vita sua, più del suo core.
Se saggio se', Mirtillo,
tu non la sprezzerai.
Come l'ombra del corpo,
così questa fia sempre
de l'orme tue seguace;
al tuo detto, al tuo cenno
ubbidiente ancella, a tutte l'ore
de la notte e del dì teco l'avrai.
Deh! non lasciar, Mirtillo,
questa rara ventura.
Non è piacere al mondo
più soave di quel che non ti costa
né sospiri né pianto
né periglio né tempo.
Un comodo diletto,
una dolcezza a le tue voglie pronta,
a l'appetito tuo sempre, al tuo gusto
apparecchiata, oimè! non è tesoro
che la possa pagar. Mirtillo, lascia,
lascia di piè fugace
la disperata traccia,
e chi ti cerca, abbraccia.
Né di speranze vane
ti pascerò, Mirtillo:
a te sta comandare.
Non è molto lontan chi ti desia.
Se vuoi ora, ora sia.
MIRT. Non è il mio cor soggetto
d'amoroso diletto.
COR. Proval sola una volta,
e poi torna al tuo solito tormento,
perché sappi almen dire
com'è fatto gioire.
MIRT. Corrotto gusto ogni dolcezza aborre.
COR. Fàllo almen per dar vita
a chi del sol de' tuo' begli occhi vive.
Crudel! tu sai pur anco
che cosa è povertate
e l'andar mendicando. Ah! se tu brami
per te stesso pietate,
non la negare altrui.
MIRT. Che pietà posso dare,
non la potendo avere?
Insomma io son fermato
di serbar fin ch'io viva
fede a colei ch'adoro, o cruda o pia
ch'ella sia stata e sia.
COR. Oh veramente cieco ed infelice,
oh stupido Mirtillo!
A chi serbi tu fede?
Non volea già contaminarti e pena
giugner a la tua pena;
ma troppo se' tradito,
ed io, che t'amo, sofferir nol posso.
Credi tu ch'Amarilli
ti sia cruda per zelo
o di religione o d'onestate?
Folle se' ben se 'l credi.
Occupata è la stanza,
misero! ed a te tocca
pianger quand'altri ride.
Tu non parli? se' muto?
MIRT. Sta la mia vita in forse
tra 'l viver e 'l morire,
mentre sta in dubbio il core
se ciò creda o non creda;
però son io così stupido e muto.
COR. Dunque tu non mel credi?
MIRT. S'io tel credessi, certo
mi vedresti morire; e, s'egli è vero,
i' vo' morire or ora.
COR. Vivi, meschino, vivi;
sèrbati a la vendetta.
MIRT. Ma non tel credo e so che non è vero.
COR. Ancor non credi, e pur cercando vai
ch'io dica quel che d'ascoltar ti duole.
Vedi tu là quell'antro?
quello è fido custode
de la fé, de l'onor de la tua donna.
Quivi di te si ride,
quivi con le tue pene
si condiscon le gioie
del fortunato tuo lieto rivale.
Quivi, per dirti in somma,
m olto sovente suole
la tua fida Amarilli
a rozzo pastorel recarsi in braccio.
Or va', piagni e sospira; or serva fede:
tu n'hai cotal mercede.
MIRT. Oimè! Corisca, dunque
il ver mi narri e pur convien che il creda?
COR. Quanto più vai cercando,
tanto peggio udirai
e peggio troverai.
MIRT. E l'hai veduto tu, Corisca? ahi lasso!
COR. Non pur l'ho vedut'io,
ma tu ancor il potrai
per te stesso vedere, ed oggi a punto,
ch'oggi l'ordine è dato, e questa è l'ora.
Talché, se tu t'ascondi

AT.3, SC.8
tra qualcuna di queste
fratte vicine, la vedrai tu stesso
scender ne l'antro ed indi a poco il vago.
MIRT. Sì tosto ho da morir? COR. Vedila a punto,
che per la via del tempio
vien pian piano scendendo.
La vedi tu, Mirtillo?
e non ti par che mova
furtivo il piè, com'ha furtivo il core?
Or qui l'attendi, e ne vedrai l'effetto.
Ci rivedrem da poi.
MIRT. Già ch'io son sì vicino
a chiarirmi del vero,
sospenderò con la credenza mia
e la vita e la morte.
AT.3, SC.7
AMAR. Non cominci mortale alcuna impresa
senza scorta divina. Assai confusa
e con incerto cor quinci partimmi
per gire al tempio, onde, mercé del cielo,
e ben disposta e consolata i' torno,
ch'a le preghiere mie pure e devote
m'è paruto sentir moversi dentro
un animoso spirito celeste
e rincorarmi e quasi dir: "Che temi?
Va' sicura, Amarilli". E così voglio
sicuramente andar, ché 'l ciel mi guida.
Bella madre d'Amore,
favorisci colei
che 'l tuo soccorso attende.
Donna del terzo giro,
se mai provasti di tuo figlio il foco,
abbi del mio pietate.
Scorgi, cortese dea,
con piè veloce e scaltro
il pastorello a cui la fede ho data.
E tu, cara spelonca,
sì chiusamente nel tuo sen ricevi
questa serva d'Amor, ch'in te fornire
possa ogni suo desire.
Ma che tardi, Amarilli?
Qui non è chi mi vegga o chi m'ascolti.
Entra sicuramente.
O Mirtillo, Mirtillo,
se di trovarmi qui sognar potessi!
AT.3, SC.8
MIRT. Ah pur troppo son desto e troppo miro!
Così nato senz'occhi
foss'io piuttosto, o più tosto non nato!
A che, fero destìn, serbarmi in vita
per condurmi a vedere
spettacolo sì crudo e sì dolente?
O più d'ogni infernale
anima tormentata,
tormentato Mirtillo,
non stare in dubbio, no; la tua credenza
non sospender già più; tu l'hai veduta
con gli occhi proprio, e con gli orecchi udita.
La tua donna è d'altrui,
non per legge del mondo,
che la toglie ad ogni altro;
ma per legge d'Amore,
che la toglie a te solo.
O crudele Amarilli,
dunque non ti bastava
di dar a questo misero la morte,
s'anco non lo schernivi
con quella insidiosa ed incostante
bocca, che le dolcezze di Mirtillo
gradì pur una volta?
Or l'odiato nome,
che forse ti sovvenne
per tuo rimordimento,
non hai voluto a parte
de le dolcezze tue, de le tue gioie,
e 'l vomitasti fuore,
ninfa crudel, per non l'aver nel core.
Ma che tardi, Mirtillo?
Colei che ti dà vita,
a te l'ha tolta e l'ha donata altrui;
e tu vivi, meschino? e tu non mori?
Mori, Mirtillo, mori
al tormento, al dolore,
com'al tuo ben, com'al gioir se' morto.
Mori, morto Mirtillo:
hai finita la vita,
finisci anco il tormento.
Esci, misero amante,
di questa dura ed angosciosa morte,
che per maggior tuo mal ti tiene in vita.
Ma che? debb'io morir senza vendetta?
Farò prima morir chi mi dà morte.
Tanto in me si sospenda
il desio di morire,
che giustamente abbia la vita tolta
a chi m'ha tolto ingiustamente il core.
Ceda il dolore a la vendetta, ceda
la pietate a lo sdegno
e la morte a la vita,
finch'abbia con la vita
vendicato la morte.
Non beva questo ferro
del suo signor l'invendicato sangue,
e questa man non sia
ministra di pietate
che non sia prima d'ira.
Ben ti farò sentire,
chiunque se' che del mio ben gioisci,
nel precipizio mio la tua ruina.
M'appiatterò qui dentro
nel medesmo cespuglio, e, come prima
a la caverna avvicinar vedrollo,
improvviso assalendolo, nel fianco
il ferirò con questo acuto dardo.
Ma non sarà viltà ferir altrui
nascosamente? Sì. Sfidalo adunque
a singolar contesa, ove virtute
del tuo giusto dolor possa far fede.
No, che potrebbon di leggieri in questo
loco, a tutti sì noto e sì frequente,
accorrere i pastori ed impedirci,
e ricercar ancor, che peggio fôra,
la cagion che mi move: e s'io la nego,
malvagio, e s'io la fingo, senza fede
ne sarò riputato, e s'io la scopro,
d'eterna infamia rimarrà macchiato
de la mia donna il nome, in cui, ben ch'io
non ami quel che veggio, almen quell'amo
che sempre volli e vorrò fin ch'i' viva
e che sperai e che veder devrei.
Moia dunque l'adultero malvagio,
ch'a lei l'onore, a me la vita invola!
Ma, se l'uccido qui, non sarà il sangue
chiaro indizio del fatto? E che tem'io
la pena del morir, se morir bramo?
a l'omicidio, alfin fatto palese,
scoprirà la cagione; onde cadrai
nel medesmo periglio de l'infamia
che può venirne a questa ingrata. Or entra
ne la spelonca e qui l'assali. E` buono,
questo mi piace. Entrerò cheto cheto,
sì ch'ella non mi senta. E credo bene
che ne la più segreta e chiusa parte,
come accennò di far ne' detti suoi,
si sarà ricovrata, ond'io non voglio
penetrar molto a dentro. Una fessura
fatta nel sasso e di frondosi rami
tutta coperta, a man sinistra a punto
si trova a piè de l'alta scesa: quivi
più che si può tacitamente entrando,
il tempo attenderò di dar effetto
a quel che bramo. Il mio nemico morto
a la nemica mia porterò innanzi;
così d'ambiduo lor farò vendetta;
indi trapasserò col ferro stesso
a me medesmo il petto, e tre saranno
gli estinti, duo dal ferro, una dal duolo.
Vedrà questa crudele
de l'amante gradito
non men che del tradito
tragedia miserabile e funesta;
e sarà questo speco,
ch'esser dovea de le sue gioie albergo,
de l'un e l'altro amante,
e, quel che più desio,
de le vergogne sue tomba e sepolcro.
Ma voi, orme già tanto invan seguìte,
così fido sentiero
voi mi segnate? a così caro albergo
voi mi scorgete? e pur v'inchino e seguo.
O Corisca, Corisca,
or sì m'hai detto il vero, or sì ti credo.
AT.3, SC.9
SAT. Costui crede a Corisca? e segue l'orme
di lei ne la spelonca d'Ericina?
Stupido è ben chi non intende il resto
. Ma certo e' ti bisogna aver gran pegno
de la sua fede in man, se tu le credi,
e stretta lei con più tenaci nodi
che non ebb'io quando nel crin la presi.
Ma nodi più possenti in lei dei doni
certo avuto non hai. Questa malvagia,
nemica d'onestate, oggi a costui
s'è venduta al suo solito, e qui dentro
si paga il prezzo del mercato infame.
Ma forse costà giù ti mandò il cielo
per tuo castigo e per vendetta mia.
Da le parole di costui si scorge
ch'egli non crede invano, e le vestigia,
che vedute ha di lei, son chiari indizi
ch'ella è già ne lo speco. Or fa' un bel colpo:
chiudi il foro dell'antro con quel grave
e soprastante sasso, acciò che quinci
sia lor negata di fuggir l'uscita.
Poi vanne, e 'l sacerdote e' suoi ministri
per la strada del colle a pochi nota
conduci, e fàlla prendere, e, secondo
la legge e' i suoi misfatti, alfin morire.
E so ben io che data a Coridone
ha la fé maritale, il qual si tace
perché teme di me, che minacciato
l'ho molte volte. Oggi farò ben io
ch'egli di due vendicherà l'oltraggio.
Non vo' perder più tempo. Un sodo tronco
schianterò da quest'elce... a punto questo
fia buono..., ond'io potrò più prontamente
smover il sasso. Oh com'è grave! oh come
è ben affisso! Qui bisogna il tronco
spinger di forza e penetrar sì dentro,
che questa mole alquanto si divella.
Il consiglio fu buono. Anco si faccia
il medesmo di qua. Come s'appoggia
tenacemente! E` più dura l'impresa
di quel che mi pensava. Ancor non posso
svellerlo, né per urto anco piegarlo.
Forse il mondo è qui dentro? o pur mi manca
il solito vigor? Stelle perverse,
che machinate? il moverò mal grado.
Maladetta Corisca e, quasi dissi,
quante femmine ha il mondo! O Pan Liceo,
o Pan che tutto se', che tutto puoi,
moviti a' prieghi miei:
fosti amante ancor tu di cor protervo.
Vendica ne la perfida Corisca
i tuoi scherniti amori.
Così virtù del tuo gran nume il movo,
così in virtù del tuo gran nume e' cade.
La mala volpe è ne la tana chiusa;
or le si darà il foco, ov'io vorrei
veder quante son femmine malvage
in un incendio solo arse e distrutte.
CORO Come se' grande, Amore,
di natura miracolo e del mondo!
qual cor sì rozzo o qual sì fiera gente
il tuo valor non sente?
ma qual sì scaltro ingegno e sì profondo
il tuo valor intende?
Chi sa gli ardori che 'l tuo foco accende,
importuni e lascivi,
dirà: "Spirto mortal, tu regni e vivi
ne la corporea salma".
Ma chi sa poi come a virtù l'amante
si desti e come soglia
farsi al suo foco, ogni sfrenata voglia
subito spenta, pallido e tremante,
dirà: "Spirto immortale, hai tu ne l'alma
il tuo solo e santissimo ricetto".
Raro mostro e mirabile, d'umano
e di divino aspetto;
di veder cieco e di saver insano;
di senso e d'intelletto,
di ragion e desio confuso affetto!
e tale, hai tu l'impero
de la terra e del ciel ch'a te soggiace.
Ma (dirol con tua pace)
miracolo più altèro
ha di te il mondo e più stupendo assai,
però che quanto fai
di maraviglia e di stupor tra noi,
tutto in virtù di bella donna puoi.
O donna, o don del cielo,
anzi pur di Colui
che 'l tuo leggiadro velo
fe', d'ambo creator, più bel di lui,
qual cosa non hai tu del ciel più bella?
Ne la sua vasta fronte,
mostruoso ciclope, un occhio ei gira,
non di luce a chi 'l mira,
ma d'alta cecità cagione e fonte.
Se sospira o favella,
com'irato leon rugge e spaventa;
e non più ciel, ma campo
di tempestosa ed orrida procella,
col fiero lampeggiar folgori avventa.
Tu col soave lampo
e con la vista angelica amorosa
di duo soli visibili e sereni,
l'anima tempestosa
di chi ti mira, acqueti e rassereni.
E suono e moto e lume
e valor e bellezza e leggiadria
fan sì dolce armonia nel tuo bel viso,
che 'l cielo invan presume
(se 'l cielo è pur men bel del paradiso)
di pareggiarsi a te, cosa divina.
E ben ha gran ragione
quell'altèro animale
ch'"uomo' s'appella ed a cui pur s'inchina
ogni cosa mortale,
se, mirando di te l'alta cagione,
t'inchina e cede; e, s'ei trionfa e regna,
non è perché di scettro o di vittoria
sii tu di lui men degna,
ma per maggior tua gloria,
ché quanto il vinto è di più pregio, tanto
più glorioso è di chi vince il vanto.
Ma che la tua beltate
vinca con l'uomo ancor l'umanitate,
oggi ne fa Mirtillo a chi nol crede
maravigliosa fede.
E mancava ben questo al tuo valore, donna, di far senza speranza amore.