cultura barocca
VALLECROSIA: DAL BORGO MEDIEVALE

VALLECROSIA: UN PORTO AI PIANI (NOTIZIE VARIE)

Uno dei fatti meno noti e nello stesso tempo più interessanti della Storia di Vallecrosia riguarda (a parte possibili scali antichissimi di cui s'è persa quasi traccia) l'esistenza, ai primi del '900, di un PORTO nel BRACCIO DI MARE antistante i PIANI DI VALLECROSIA.
Ma a questo punto viene da porsi un quesito fondamentale, quello del PERCHE' DI UN PORTO in tal zona, a che cosa servisse, per quali ragioni fosse stato realizzato in tempi abbastanza rapidi e poi, altrettanto rapidamente, abbandonato al degrado.
Se la valle del Crosa o Verbone non conobbe specificatamente la civiltà del castagno (tipica dell'epoca medievale ligure), certamente conobbe quella, terribile per tanti versi, legata all'uso del legno, essenziale per il sostentamento della "vita rustica".
All'alba di questo secolo la valle risentì a tal proposito dello sfruttamento del patrimonio ligneo che a nord, nell'area di Perinaldo, si presentava in boschi secolari.
Sull'argomento non esistono molte documentazioni scritte e latitano anche quelle fotografiche: ma da quanto si è potuto ricostruire dalla consultazione dell'archivio privato di Silvio Croesi (padre dell'ex Sindaco di Perinaldo Emilio Croesi) l'iniziativa nel suo momento di massima fioritura del 1909-10, fu stimolata da Pietro Malfassi grosso operatore bergamasco nel settore dei legnami da costruzione che, pur avendo nel Tirolo la fonte principale dei suoi interessi, seppe individuare nell'area di Perinaldo un'autentica vena lignea.
In verità il Malfassi non operò direttamente nella zona e si valse piuttosto della competenza del citato Silvio Croesi, il cui padre già gestì a Genova una consistente azienda commerciale.
Sanremo fu il luogo in cui i due personaggi escogitarono, oltre le necessarie operazioni legali e pubbliche con cui ottenere tutte le diverse autorizzazioni, un intelligente meccanismo per il cui tramite superare gli ostacoli geomorfologici del terreno e condurre i tronchi tagliati a destinazione: cioè ai Piani di Vallecrosia, campo principale e deposito del materiale.
Perinaldo come testa di ponte di un sistema di trasporti era un problema, tenendo conto e degli strumenti utilizzabili all'epoca, insufficienti per le esigenze del Malfassi (lettera del Malfassi del 2-V-l909 in "Archivio cit.": "non si deve vendere meno di 200 vagoni annui nella media di 3 anni") e di un improprio sistema viario: la provinciale da Vallecrosia era ARDUA e inutilizzabile la strada litorale di Camporosso a Perinaldo (di cui già si discusse dal lontano 1831, doc. del 18-VIII-1831 in "Archivio privato Poggi/Bordighera").
Ci si appoggiò quindi ad un vetusto itinerario di trasporti che, dall'area di disboschimento più arretrata rispetto a Perinaldo (loc. Ceppo), portava qualsiasi tipo di materiale sino alla testa di ponte istituzionale (Suseneo-S. Martino) che apriva il più facile percorso attraverso la valle del Verbone.
Il torrente veniva superato con una TELEFERICA sin all'area di Massabò (loc. Poggio dei Rossi).
Fu così potenziata una rete viaria "montagnosa" per il tramite di un SISTEMA A ROTAIA: su impossibili pendenze, trainati da mule o controllati da un frenatore in discesa autonoma, carrelli di consistenti dimensioni portavano i tronchi tagliati sino al punto di poter essere rovesciati nella valle del Verbone e di lì ancora per il tramite di rotaie e vagoncini, condotti sino a Vallecrosia, sfruttando o superando le tortuosità della provinciale con l'aiuto degli animali (Archivio privato S. Croesi - Perinaldo - lettere ad anno 1909).
A VALLECROSIA (PIANI) esisteva il TERMINALE DI QUESTO SISTEMA DI TRASPORTO GRAZIE AI MULI DEL LEGNAME RICAVATO DAI BOSCHI DEL MONTE CEPPO il deposito del materiale e sul LITORALE (foce del Verbone non molto lontano dai resti del GUADO ROMANO NEL TORRENTE> non ancora distrutto) quello che i più vecchi ricordano come PORTO: in realtà un pontile a rotaia, di ferro e penetrante nel mare per qualche centinaio di metri, su cui correva una gru, o meglio un elevatore destinato a caricare il legname che avrebbe preso la strada per Genova (tramite battelli, in parte ancora a vela, da carico) e di lì anche per la Sardegna, la Spagna, la Tunisia (dove il Malfassi tenne affari).
In effetti l'azienda bergamasca operava però prioritariamente sul litorale ligure e nel piemontese: " ... la vendita di 200 vagoni per anno dell'importo di L. 240.000 circa, questi certamente devono essere venduti sul litorale, anche nel piemontese, perchè tengo altro contratto" (Archivio cit., lettera del Malfassi datata Bergamo 20-IV-1909).
Ma il Malfassi non fu l'unico a sfruttare il patrimonio boschivo del territorio a Nord e Nord-Est del terminale della val Crosa.
Altre aziende sfruttarono alcune improvvide concessioni e un programma, non sempre criteriato di disboscamento.
A Vallecrosia (Piani) operava una GROSSA SEGHERIA , una vera e propria azienda (zona attuale via Colombo - antico toponimo Segheria ): temendone la concorrenza, ed il fatto che i valligiani di esso si erano abitualmente serviti, Silvio Croesi allarmato scrisse da Perinaldo al Malfassi a Bergamo (in Archivio cit. 26-IV-1909): "... vi è inoltre da calcolare che la segheria di Vallecrosia è di non indifferente ostacolo giacchè da molto tempo ha accapparati la maggior parte ed il miglior contingente dei consumatori del litorale pur non tenendo conto delle colossali ditte di Sampierdarena che non hanno mai tralasciato a mezzo dei loro agenti la viva e inappuntabile distribuzione dei loro prodotti" .
Ma l'imprenditore bergamasco tenne duro, fece scivolare i contratti nella direzione, anche, dei paesi iberici: l'operazione decollò, pure sfruttando mano d'opera di Vallecrosia e S. Biagio.
Poi, cambiato il mercato del legname, l'emorragia dei boschi venne meno e sulle cime oltre Perinaldo ritornò l'antica tranquillità.
L'impianto di funivie e binari venne smantellato, il pontile fu demolito (sott'acqua si può rischiare d'incappare in qualche troncone metallico della vecchia struttura tuttora ancorato al fondale) ma, sotto gli effetti del ricordo e del tempo che tutto ingigantisce, nel ricordo di qualcuno finì per diventare l'appendice di un porto molto grande che Vallecrosia non ebbe mai o di cui al limite, fatte sempre le debite proporzioni, fu dotata solo in tempi lontanissimi.

Insediamenti antichi ai PIANI DI VALLECROSIA

INDICE
-DUECENTESCHI BENI FONDIARI SPARSI TRA VALLECROSIA ALTA E I PIANI.
-DUECENTESCHI BENI FONDIARI SPARSI NELL'INTERNO DELLA VALLE, NELL'AGRO DI VALLECROSIA MEDIEVALE.
-DUECENTESCHI COMPLESSI INSEDIATIVI ALLA FOCE DEL VERBONE POI "RIO CROSA"?
-UN DUECENTESCO "PORTO" AI PIANI?
-STRUTTURE DEL COMPLESSO OSPEDALIERO AI "PIANI" DETTO "DE ARENA"

Nel cartolare n. 56, atto n. 26 del di Amandolesio si nomina certa Aldisia, vedova di Iacopo Golabi , cui dal giudice venne assegnata la proprietà di diversi terreni: una porzione di terra, coltivata a VITI e FICHI (valutata 16 lire di genovini), risulta sita in valle Vervonis in località Marcer e ne vengono tratteggiati i confini.
Superiormente era delimitata da una strada (quale però?) mentre da qui la proprietà si stendeva per dodici canne circa e mezzo (la canna, unità di misura agricola, equivaleva a 12 palmi); da un lato la pezza di terreno confinava con la terra di altri eredi di Iacopo Golabi e da qui si stendeva per ben 45 canne: confinava poi per il restante lato con le proprietà di Rainaldo Bolferio Maggiore e di Guglielmo Priore (estendendosi da questa parte per 36 canne).
Tali dati, della seconda metà del XIII secolo, sono forse alquanto meccanici ma certamente esaurienti dal lato documentario e soprattutto testimoniano una vitalissima e attentissima (specie dal lato legale) presenza umana nell'area di Vallecrosia.
Già da essi comunque si ricava l'impressione che queste proprietà fossero in stretta relazione con nuclei insediativi viciniori.
Nel marzo del 1258 Oberto Giudice, figlio del defunto Raimondo Giudice e curatore dei fratelli Giovanni e Marineto cede ai fratelli Anselmo e Manuele Ventura, una pezza di terra sita in valle Vervoni secondo i termini di un contratto ad medium plantandum (che era poi una sorta di contratto di locazione a lungo termine, in questo caso di 18 anni, il cui canone era quasi sempre corrisposto in natura: metà o un quarto di prodotti. Scaduti i termini del contratto la proprietà veniva divisa in due parti ma il locatore conservava alcuni privilegi tra cui quello di scegliere per primo la sua parte e il diritto di prelazione sulla parte assegnata al locatario in caso di sua vendita).
La potente famiglia Giudice, latifondista per eccellenza del XIII secolo, deteneva vaste proprietà nel ventimigliese e particolarmente godeva di vasta influenza economica nell'area ad oriente del Nervia.
Nel caso citato sopra, i riceventi si obbligarono a plantare de ficubus quella terra per un periodo settennale di tempo e per il restante arco cronologico di 11 anni si impegnarono ad ipsam tenere, meliorare et usufructare : contemporaneamente si giudicarono tenuti a corrispondere annualmente ai locatari la quarta parte dei profitti ( omnium proventum qui procedunt ex dicta terra ), per giunta autoimponendosi di portare quei prodotti a Ventimiglia, all'interno dell'abitazione dei Giudice.

Costoro rappresentavano una vera potenza economica di Ventimiglia e del suo contado orientale: essi avevano i loro clienti, il loro ossequioso seguito che gestivano da autentici padri-padroni.
E stupisce che, dal XV secolo, non si abbia più indicazione della loro presenza in quella specie di potentato che meno di due secoli prima gestirono nell'area del Verbone.

Il 23-X-1261 Aldina, sorella di Oberto Giudice e sposa di Oberto de Volta, locò per quattro anni ad un certo Oberto Mighele tre lotti agricoli posti in valle Vervoni partim aggregatas et partim vacuas : il canone era costituito dalla corresponsione annua della metà dei FICHI e della quarta parte omnium blavarum et frumenti (cartolare n. 57, atto n. 422).

Oberto, Giovanni, Marineto e Aldina Giudice discendenti ed eredi del defunto Raimondo Giudice furono dunque autentici protagonisti della vita economica della valle Vervonis, al terminale storico della vallata di Vallecrosia; ma non furono gli unici.
Quella zona era fertile e riparata, molti altri proprietari vi concentrarono i loro sforzi o vi intrapresero particolari attività: quasi a testimoniare la valenza economica e sociale che la località andava assumendo nel giudizio dei ventimigliesi del XIII secolo.
Il 7-XI-1259 Anselmo Guinanno ed Imberto de Tolosa vendettero a Rainaldo Bulferio un appezzamento di terreno coltivato a FICHI ed a VITI sito ad buccam Vervonis (cartolare n. 57, atto n. 129).
Il documento peraltro non è interessante solo per questa indicazione toponomastica o perchè veicola il costo dell'operazione (lire 5 e soldi 10) ma per quella specificazione logistica che veicola, comunicando ai fruitori che gli insediamenti agricoli sopravvivevano in qualche forma nell'area dei Piani alla foce del Verbone (il che non equivale ad una contraddizione con quanto detto prima).
L'area dei Piani conservò una sua significanza rurale - e forse insediativa come attesta la presenza della Chiesa di S. Rocco, una presumibile struttura monastica connessa con l'edificio detto dei FRATI cui facevano capo diversi elementi abitativi di cui si son perse le tracce documentarie in tempi solo relativamente recenti, visti anche i riadattamenti cui queste strutture andarono incontro: tal complesso sorgeva poco a nord della via romana, in linea quasi retta col sistema della chiesa di S. Rocco, e se ne videro una struttura più grande, poi trasformata [XVI sec.?] in CASA FORTIFICATA collegata ad un edificio in località vicina, detta VIGNASSE e tuttora nominata "terra dei frati" [il toponimo allude chiaramente ad una terra posta a coltura di viti] ove poi sorse una presumibile TORRE ANTITURCHESCA.
Oltre a tutto ciò resta sempre aperto il discorso sull'OSPEDALE DE ARENA una delle tante strutture assistenziali sorte nell'agro intemelio principalmente per offrire assistenza tanto ai pellegrini di fede per la Terrasanta od i Santuari iberici ma anche utilizzato consuetamente onde dar sollievo a crociati, cavalieri, viandanti, commercianti e abitanti del luogo.
Esso, stando all'analisi dei documenti rogati dal notaio Di Amandolesio nel XIII secolo, aveva proprietà e terreni e strutture insediative sia nell'agro di Nervia che ai Piani vallecrosini: certo si tratta d'un argomento difficilissimo ma nemmeno si può escludere che i ruderi di cui si è fatto cenno e che risultavano connessi con una qualche struttura fratesca fossero proprio espressione dei possessi del complesso ospedaliero e certamente in questo contesto di riflessioni -calcolando anche che l'Ospedale era sì un luogo di cura ma anche di riposo per i viandanti per terra o mare verso le Spagne appena liberate dagli Arabi ed in piena rinascita cristiana o verso la Terrasanta, un interessante interrogativo risulta quello di un SUPPOSTO APPRODO PORTUALE di cui nel secolo scorso si sarebbero rinvenute delle tracce poi andate disperse.
E' tuttavia indubbio che la maggior parte delle operazioni economiche rogate dal de Amandolesio, a proposito dell'area nominata dal Verbone si riferiscono a terreni locati più all'interno rispetto alla linea costiera Il 17-IV-1264 un certo Oberto Saonese per esempio cede a suo fratello Iacopo la terza parte di un suo prato sito in Vervono, ubi dicitur Alma Antiqua.
Confrontando questo documento con il precedente si ricava qualche stonatura, a prescindere dal fatto che si ignorano le dimensioni di quelle proprietà; si evidenzia comunque che la terza parte di un prato sito nell'interno valeva praticamente 4 volte più di un terreno coltivato sito in prossimita della costa: cosa che potrebbe già far ipotizzare un superiore valore riconosciuto alle proprietà della valle Vervonis site in profondità all'interno.

-VALLE "DEL VERBONE" o "DEL CROSA"

INDICE

TRADIZIONE AGRONOMICA: LE PRINCIPALI COLTURE NEL TEMPO
PASTORIZIA ED ALLEVAMENTO
PODERI RURALI: LORO CARATTERISTICHE E TIPOLOGIE COLTURALI

Per tanti aspetti la Valle del Verbone costituì un unicum, una continuità insediativa che pur segmentata in grumi umani distinti e distinguibili li fuse entro identiche scelte operative e sulla base di un quasi identico tessuto socio-economico: e se Perinaldo, che propriamente appartiene alla Valle del Verbone per l'appendice di Suseneo, ebbe sviluppo e storia abbastanza anomala come dipendenza della SIGNORIA DI DOLCEACQUA è fuor di dubbio che Vallecrosia (nelle sue diverse frazioni), San Biagio e Soldano furono sempre serrate nello stretto spazio di un comune destino.
E nel campo di certe scelte amministrative pare un emblema, magari di origine burocratica, la fusione di Soldano e San Biagio con Vallecrosia in un unico Comune, nominato da quest'ultimo centro ( Raccolta ufficiale delle leggi e decreti del Regno d'Italia , a. 1923, Roma 1924, V. X, p. 8567, Regio Decreto n. 2769).
il regime fascista, occupandosi della concentrazione di piccole unità in iperstrutture amministrative, finì col sancire certe convergenze culturali di queste località e nello stesso tempo ribadì nelle coscienze lo spirito di antichi particolarismi (il 7-VIII-1925 Soldano ridiventò Comune autonomo, poi, il 15-IV-1928, venne aggregato a S. Biagio della Cima e infine, il 22 novembre 1946, riconsegnato alla sua attuale unicità ammi nistrativa: cfr. F. AMALBERTI, Notizie storiche sull'abitato di Soldano , in "Riviera dei Fiori", XXVIII (1984), nn. 1-2, pp. 33-34).
I dati, attraverso i secoli, confortano comunque nel giudizio di parecchie similarità tra questi luoghi, sia a livello politico che socio-economico.
La loro origine, come ville intemelie magari incrementate per l'esodo dalle coste dopo le devastazioni barbare e saracene, può essere benissimo identica e magari egualmente incanalata entro i registri di antichissime diramazioni rurali di Albintimilium.
Egualmente similare fu il destino di ville accomunate nella loro qualità di centri rurali di rimpetto al destino urbano della Ventimiglia medioevale: con l'incrociarsi e lo scontrarsi dei rispettivi interessi.
Ed anche se Soldano fu in antico qualificato come un castrum (quasi un fortilizio destinato ad accogliere una popolazione = AMALBERTI cit., p. 35) i tre borghi ebbero in comune l'evoluzione urbanistico-demografica e la valenza di centri rurali.
E tutti, da sempre, si caratterizzarono, per questo ultimo aspetto, secondo parametri di pieno parallelismo: in antico le piante più diffuse in queste località furono la vite e il FICO e forse colture arboree da frutto ed anche prodotti cerealicoli come grano, panico, frumento, orzo (A.S.G. Sez. Not., not. Joanne de Amandolesio, cart. nn. 56-57).
Dai documenti non risulta, nell'epoca più antica di cui si hanno dati (XIII secolo), la presenza di terreni tenuti ad ulivo o castagno (a differenza che nel genovese): si ebbe poi quale ulteriore comunanza, terreni gerbidi.
Discreta fu in valle la diffusione della pastorizia (sulla quale abbiamo dati anche per Perinaldo: il 5-V-1260, in Ibidem c. 57, Arnaldo Beldies di Perinaldo dichiarò di aver ricevuto la somma di lire 10 da Jacopo Beldici promettendo, in ossequio alla sua volontà, di consegnargli usque ad proximum festum Sancti Michaelis, pastorem unum (50 capi et bestias duas inter capras, tetas et montonos invernatas, bonas et comunales).
Sul piano di tutte queste riflessioni bisogna sempre tener presente che nel PONENTE DI LIGURIA, specie nelle valli interne, la PASTORIZIA ebbe uno straordinario ruolo alimentare ed economico

Dal ducentesco notaio de Amandolesio si deduce come, per questi borghi, le proprietà fossero estremamente spezzettate, coi terreni confinanti quasi sempre appartenenti a 4 proprietari: e in tutti molte terre incolte venivano concesse ad plantandum (o ad medium plantandum ) ed in pastino, cioè furono gradualmente disboscate per favorire, in genere, la coltura delle VITI o degli alberi di FICHI (L. BALLETTO, Agricoltura e agricoltori a Ventimiglia alla metà del Duecento, in "Rassegna Storica della Liguria", (1974), n. 1, pp. 12-3).

Un peculiare contratto di locazione (ad laborandum = per doversi lavorare) aveva la durata di sei anni e l'esempio più significante fu quello stipulato in un atto (19-V-1258, in Ibidem, cart. n. 56, atto n. 207) da Oberto Giudice del fu Raimondo che, come curatore dei fratelli Giovanni e Marineto, appunto concesse ad laborandum a Guglielmo Lorenzi, per un periodo di sei anni, omnes terras cultas et incultas, aggregatas et non aggregatas, da lui controllate in valle Vervonis, a colla de Banchis usque ad acquam Vervonis ad eccezione di quelle già ad altri concesse ad plantandum.
Una vasta proprietà sull'attuale sito di Vallecrosia sino a Vallebona venne quindi affittata a questo Lorenzi che, in qualità di canone annuale, doveva ai Giudice la quarta parte omnium blavarum e la metà dei FICHI (da portare a sue spese, data la lontananza e in segno di ossequio, a Ventimiglia, nell'abitazione di quei potenti latifondisti).

Nel XV e XVI secolo si hanno vari dati sulle caratteristiche agricole: alle colture prima ricordate si erano aggiunte quella degli olivi (che una radicata tradizione volle diffusa ab antiquo dai Benedettini), degli agrumi e degli ortaggi (A.S.G., Sez. Not., Notai Ignoti, not. Stefano Berruto, docc. del 6 gennaio, 26 febbraio e 17 marzo 1560).

A proposito della fine del XV secolo si ricavano alcune notizi dai contratti riportati dal notaio locale Bernardo Aprosio che ha lasciato alcuni dati utili sulla vita economica del paese di vallecrosia e del suo territorio di cui molte proprietà rusrali continuavano a fiorire ai lati del rio Verbone se non addirittura alla sua foce (rogito, secondo le date espresse qui, custodito presso l'Archivio di Stato di Genova):

1486 31 Agosto. Giovanni Biamonti di Vallecrosia (scritto Valecroxia) nomina suo procuratore Stefano Gibelli di Ventimiglia.

1486 5 Settembre. Giovanni Biamonti sostituisce il suo procuratore Stefano Gibelli con Antonio Malaverna.

1486 8 Settembre. Lazzarino Sismondi di Vallecrosia riceve da Antonio Lamberto dello stesso luogo 160 lire (genovesi) come dote di Battistina sorella di detto Antonio e moglie di Lazzarino.

1486 29 Settembre. Antonio Porro figlio del defunto Giorgio Porro di Ventimiglia restituisce a Marco Aprosio figlio del defunto Bartolomeo Aprosio di Vallecrosia lire 215 che aveva ricevuto a titolo di prestito.

1486 4 Ottobre. Antonio Porro del fu Giorgio di Ventimiglia dà a Paolo di Lamberto di Vallecrosia lire 215 ad estinzione di parte del debito di lire 350 che detto Antonio aveva nei confronti di Paolo.

1486 9 Dicembre. Ludovico Aprosio di Vallecrosia dà a Simone Raibaudo di Ventimiglia una casa posta a Ventimiglia nel luogo detto Carrogio Sottan in cambio di un terreno coltivato con viti, fichi e altri alberi posto in localita detta fascia longa : è difficile identificare questa fascia longa anche se dagli altri atti stesi dal quattrocentesco notaio si evince che il l'area del torrente Verbone/Vervone continuava ad ospitare buoni insediamenti agricoli: è comunque interessante notare, in generale, la diffusione di nuove colture e in particolare il fatto che anche nell'area dei Piani vallecrosini e comunque di tutto il territorio della villa i vitigni ed il vino prodotto erano nominati ancora secondo l'uso antico e quindi in base al luogo di provenienza e produzione: in questo circostanza si trattava per esempio del vin vermiglio della fascia longa

1486 28 Dicembre. Giovanni Gibelli di Ventimiglia vende a Ludovico Aprosio di Vallecrosia una casa posta a Vallecrosia per il prezzo di lire 20.

1487 4 Gennaio. Monegino Lamberti di Vallecrosia riceve da Luca Curto di Ventimiglia lire 140, e sono lire 85 per un terreno posto nel luogo detto Vervon (area del torrente Verbone) e le restanti come dote di Gentile (?) figlia di Luca e moglie di Monegino.

1487 22 Gennaio. Teramo Lamberti (già citato in un atto dell'11-XI- 1486) di Vallecrosia, amministratore del figlio Rinaldo, riceve da Giacomo Biancheri di Vallebona lire 140 come dote di Zeneizine figlia di Giacomo e moglie di Rinaldo.



La VITICOLTURA e la produzione vinicola furono, nel ventimigliese, un'attività arcaica: e la Valle del Verbone vi ebbe un ruolo non indifferente.

Purtroppo le operazioni commerciali si svolgevano a Ventimiglia e mancano quindi per quest'area appendicolare dati in dettaglio: comunque di questi vini non si davano neppure indicazioni generiche (tipo: bianco, rosso, rosato...), al massimo se ne indicava l'area vinicola di provenienza (forse anche per la realta, nel ventimigliese, della monocoltura che rendeva superflua qualsiasi specificazione = L. BALLETTO, II vino a Ventimiglia alla metà del Duecento , in << Studi in memoria di Federigo Melis >>, 1978, I, p. 458).

Doveva però essere buon vino data la sua facile commerciabilità e la richiesta da operatori di Savona, Arenzano, Voltri, Genova, Chiavari: la vendemmia era precoce, nel morente mese di luglio comparivano i vini nuovi mentre la massa della vinificazione si teneva già a metà settembre (anche se, non essendosi ancora avuta la riforma gregoriana del calendario, esisteva una sfasatura di circa 12 giorni tra la data del calendario e l'epoca astronomico-stagionale) .

Il vino commerciabile nel ventimigliese (mancano dati su quello da consumo locale) fu nominato come vermiglio nel '400 (J. HEERS, Le livre de comptes de Giovanni Piccamiglio, homme d'affaire Genois (1456-1459), Paris, 1959, p. 199); nel '600 si elogiava il moscatello che l'erudito bibliofilo Angelico Aprosio giudicò bevanda degna degli dei (B. DURANTE, Alla ricerca di un vino perduto, in << La Regione Liguria >>, IX [1981], 10) e che testimoniò prodotto anche nell'area del Verbone: purtroppo i VITIGNI da cui si ricavava non resistettero all'assalto della filossera e della peronospora, contro cui pure si combattè un'ardua battaglia dalla metà del secolo scorso (M. DE APOLLONIA - B. DURANTE, Evoluzione della VITICOLTURA... nell'imperiese, in <>, XXV [1981], 1/2).

Dalle sue ceneri emerse comunque il Rossese un ottimo vino da pasto, specie da arrosto, di cui i centri della valle sono eccellenti produttori (Ibidem, p. 22).

Benedettini o no la valle del Verbone fu uno dei templi dell'olivicoltura: a Soldano nel 1560 erano attivi due mulini e due frantoi (A.S.G., Sez. Not., not. Stefano Berruto, f. unica, doc. del 3 gennaio 1528, Notai Ignoti, not. Stefano Berruto, docc. del 17-III e 25-VIII-1560) ed a Vallecrosia il vivere bene o male fu legato alle buone o cattive annate dell' olivo.
Comunque in questa località si arrivò a 5 mulini e ad un'intensa copertura delle fasce di terreno con tale coltura: che, come negli altri borghi, cominciò ad essere surrogata con altre, quando aumentò la concorrenza e mutarono le esigenze di mercato, dai primi del '900.

Come sempre di concerto, i simboli botanici della vallata persero valore contemporaneamente a Vallecrosia, Soldano e S. Biagio: per primo scomparve il fico, quindi l'olivo dovette cedere terreno alle VITI, poi anche queste, quando sembravano dover trionfare, subirono una improvvisa battuta d'arresto.

Con le VITI ridotte su spazi limitati e con l'olivo esiliato in terreni che non consentivano diverse colture apparvero i FIORI.
o meglio si propose, commercialmente, la FLORICOLTURA.
Naturalmente i fiori nella vallata vi furono da sempre e qui si allude a quell'attività che nell'ottocento si scoprì e parve così lucrosa da condizionare nuove scelte produttive (v. B. DURANTE, Vallecrosia, in "Riviera dei Fiori", XXVII (1983), nn. 5-6, pp. 9-11) .
Nicola Orengo in una operetta ormai introvabile (Guida dell'estrema Liguria Occidentale = una copia fotostatica in Bibl. Aprosiana di Ventimiglia), scrisse ormai 50 anni fa: Il piano Vallecrosino è una specie di Valle di Tanipe, ricco di selve, di ulivi, e di deliziosi boschetti di aranci e di arbusti di tutte le varieta; un vero Eldorado, un Eden di Sori d'ogni maniera: rose, violette, garofani e narcisi che profumano l'aere di mille soavi fragranze (p. 128).
A prescindere dai toni romantici, l'Orengo diede una notazione esatta: nei primi decenni del '900 a Vallecrosia (e contestualmente, seppur in modo meno clamoroso, nei borghi viciniori) l'attività floricola costituì un rilevante caso economico cui finirono per fare da corrispettivo i mercati dei fiori di Ventimiglia e della stessa Vallecrosia.
Uno dei patriarchi dell'attività nuova in quest'ultimo borgo fu Antonio Diana che fece curare a fiori (per lo più garofani) le sue proprietà nell'area di S. Rocco e ad oriente del Verbone.
Per la floricoltura nella valle del Verbone ebbe un ruolo positivo proprio un originario di Vallecrosia, Mario Aprosio, nato a Genova il 17-II-1880 da una famiglia là trasferitasi.
La nostalgia riportò il padre, distintosi nella seconda guerra di indipendenza, a Vallecrosia; nostalgia e pragmatismo riportarono in Liguria occidentale anche quel Mario Aprosio che intensificò i suoi impegni nel settore floricolo. Rivestì un'infinita di cariche e fu onorato con una tante titolature pubbliche, ma si rivelò utile, per l'economia del Ponente ligustico, quale presidente (per 15 anni) della Società esportatori di fiori e particolarmente quale "membro della Commissione Nazionale per lo sviluppo della Floricoltura e dell'Industria dei Profumi" (ORENGO cit., p. 132).
La sua attività ebbero una precisa finalita pubblica e pare fuor di dubbio che l'esplosione della coltura di fiori commerciabili in tutto il "ventimigliese" sia da collegare col suo intelligente dinamismo.
Vallecrosia, S. Biagio e Soldano si trovarono comunque ancora una volta incastrate su un identico vettore socio-economico, anzi, contestualmente a quella dei fiori i tre borghi attuarono anche la scelta dei PROFUMI .
Il terminale della coltura di piante da profumo fu in verità locato nella zona logisticamente più comoda della vallata intiera: i Piani di Vallecrosia.
Nei primi decenni di questo secolo lo Stabilimento Italo-Francese - Profumi e Prodotti Chimici diretto dal Prof. Guido Rovesti e dal Chimico Dott. Paolo Rovesti, si presentava, stante la documentazione dell' Orengo (p. 128), quale un'efficiente struttura destinata ad un brillante futuro purtroppo poi distrutto da mutate scelte economiche.
Nelle sale di distillazione si provvedeva a lavorazioni intensive ed i prodotti risultarono costantemente di buon livello e universalmente riconosciuti: le piante più frequentemente lavorate, e in abbondanza provenienti dai borghi lambiti dal Verbone, appartenevano in genere alla flora locale ed avevano alle loro spalle un'archeologia fatta delle diverse manipolazioni (V. GUIDO DONTE - G. GARIBBO - P. STACCHINI, La provincia di Imperia, Imperia, 1934, pp. 42-5).
I fiori d'arancio amaro, le rose, il gelsomino, le violette e la lavanda erano in particolare le qualità botaniche del programma industriale di distillazione: e ciò per tanti aspetti non fu casuale, in particolare la lavanda, pianta simbolo della ligusticità, rientrò per secoli, attraverso i suoi poliedrici usi nella cultura domestica e nella spiritualità delle genti della Val Verbone (come anche di tutta la Liguria pur attraverso diverse fruizioni).
Qualcuno potrebbe dire che l' industria dei profumi è anche espressione di rottura coi termini della "vita rustica", uno iato tra presente e passato; ma ciò non è vero, nella sua espressione macroscopica e scientifica essa fu il risultato estremo di antiche intuizioni contadine che fecero di un'empirica conoscenza del mondo vegetale uno strumento interventista contro i mali dell'esistenza: l'attività legata ai profumi e quindi a un certo anche rozzo edonismo, la distillazione, la fitoterapia furono un patrimonio ligustico vetustissimo (D. MANTA - D. SEMOLLI, Le erbe nostre amiche, Ginevra, 1976, I-III).




Un fatto che ab antiquo costituì un problema comunitario per gli abitanti di Vallecrosia, San Biagio, Soldano e Perinaldo fu comunque quello dell'approvvigionamento idrico: al rifornimento di acqua era in definitiva connessa non solo la possibilità della sussistenza umana ma di qualsiasi attività agricola, sostegno istituzionale di quella.
Il torrente "Verbone" fu sempre povero d'acqua e pur sbarrato da casuali dighe non pote sempre fornire il necessario: nonostante fosse anche capace di piene improvvise, evocate da eccezionali periodi di piovosità, come nel 1860 quando investì gli abitati più esposti di Soldano e Vallecrosia alta.
Per i tre centri della valle (Perinaldo come visto costituiva per antonomasia un fenomeno a sè stante) il problema del rifornimento idrico ottenne una soluzione definitiva solo nei primi decenni di questo secolo quando la Società Anonima Distribuzione Acqua (S.A.D.A.), su progetto dell'ing. Francesco Tresso, organizzò un grosso impianto sul Nervia (Zona "Braie") con cui si sarebbero sopraelevati giornalmente, da quel corso torrentizio, 12.000 metri cubi d'acqua: l'impianto era composto da tre pozzi artesiani (nel Nervia - prof. 37 metri), capaci di dare individualmente 1.000 metri cubi d'acqua giornalieri; gli elevatori erano tre pompe capaci di sollevare 20 litri, al secondo, sino a 360 metri ed un motore Diesel da 180 HP con due serbatoi da 1.100 metri cubi ciascuno (la ramificazione delle condotte, afferenti che alla grande vasca eretta sul S. Croce, era poi distinta in 5 km di condotta primaria (da 700 metri cubi giornalieri di condotta) e in 20 km di condotta secondaria per la distribuzione idrica a Camporosso, S. Biagio della Cima, Soldano, Vallecrosia, Borghetto S. Nicolò, Vallebona, Bordighera, Sasso = gli Otto Luoghi erano stati riconciliati artificialmente dal problema dell'acqua e dalla soluzione tecnica della S.A.D.A.