LO STEMMA DELLA TIPOGRAFIA "PAVONI", UNA DELLE PRINCIPALI E PIU' ATTIVE NELLA GENOVA DEL 1600
ANDREA ALCIATO (ALCIATI) nacque probabilmente a Milano, oppure ad Alzate Brianza (Como), nel 1492 e morì a Pavia nel 1550.
Ricevette una formazione umanistica a Milano sotto la guida di Aulo Giano Parrasio , Giano Lascaris e Demetrio Calcondila.
Fu a Pavia nel 1507, e poi a Bologna e a Ferrara, dove si addottorò in diritto civile e canonico.
Contemporaneamente all’esercizio dell’avvocatura, si dedicò all’insegnamento del diritto in Italia e in Francia.
Scrisse numerose monografie sul diritto canonico, dando così un prezioso contributo al rinnovamento della tradizione giuridica italiana.
Come letterato, la sua fama è legata alla raccolta di Emblemata (1531) , epigrammi accompagnati da immagini, che ebbero grandissima fortuna nel Rinascimento, dando vita ad un genere autonomo, l’EMBLEMATICA.
Morì a Pavia nel 1550.
Emblema: voce dotta dal latino emblema, derivato dal greco émblema, che propriamente designa una "cosa inserita" in un’altra, cioè un inserto; il termine acquista il significato moderno di figura simbolica con l’Emblematum liber (in prima edizione nel 1531) di Andrea Alciato , che raccoglie una notevole serie di immagini allegoriche, accompagnate da un motto o sentenza , e da una dichiarazione in versi o un commento in prosa. L’aggettivo emblematico, nel significato "che è proprio di mosaico classico", è attestato isolatamente nell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (Venezia 1499).
Impresa : dal latino impresum, participio passato di imprendere, nel senso di "prendere sopra di sé", attraverso lo spagnolo empresa.
Immagine simbolica di una caratteristica morale, di un precetto o di una norma, o di un programma, individuale o collettivo (che si vuole "imprendere", "intraprendere"), realizzata tramite l’associazione di una figura ("corpo") e di una sentenza ("anima") che si illustrano reciprocamente.
Già usata nell’antichità greco-romana, fu diffusa durante il Medioevo nella società cortese di Francia, e di qui, al tempo di Luigi XII, fu introdotta in Italia, dove le sue regole vennero codificate con rigore accademico nel Cinque e Seicento: l’impresa divenne ben presto il contrassegno dell’identità di chi la assume .
Limitata originariamente ai temi militari e amorosi, l’impresa assunse in seguito un significato più esteso (politico, morale, pedagogico), ma mantenne carattere soggettivo, illustre ed eroico; fu infatti adottata da accademie , cardinali, nobili , re.
Progressivamente si distinse dall’emblema, che, essendo in primo luogo "pittura" (cioè immagine autonoma), non esigeva necessariamente la presenza del motto e comunicava messaggi generalizzanti (filosofici, religiosi, morali, culturali) di carattere universale, contigui alla forma del proverbio e dell’apologo . Se gli "emblemi sono o troppo aperti o troppo umili" secondo Stefano Guazzo , le imprese sono "assai più regolate, più difficili e più eccellenti" (Dialoghi piacevoli, Venezia 1586).
Con la diffusione del linguaggio simbolico, geroglifico, allusivo, l’impresa ottenne uno straordinario successo negli ambienti e letterari e divenne un intrattenimento mondano per il pubblico di corte : "tra l’altre piacevoli feste e musiche e danze [...] talor si faceano alcuni giochi ingegnosi [...] spesso si faceano imprese, come oggidì chiamiamo" (Castiglione , Cortegiano , I, 5).
Il Dialogo dell’imprese militari e amorose di Paolo Giovio (Roma 1555) diede avvio a una vastissima trattatistica sul genere, mirante soprattutto a chiarirne la tecnica e a nobilitarne le origini.
Girolamo Ruscelli fece discendere direttamente dai consigli divini il "bellissimo ed utilissimo pensiero e trovamento dell’imprese" (Le imprese illustri, Venezia 1566).
L’argomento fu ripreso da Andrea Palazzi: "Coloro adunque che dell’imprese hanno voluto pù diligentemente ricercar l’invenzione, hanno ritrovato essersi avuta da Dio, che di sua bocca a quei primi sacerdoti del vecchio testamento, nel fare il tabernacolo e l’arca, divisò le figure che egli voleva che vi si scolpissero" (Discorso sopra le imprese, Bologna 1575).
Luca Contile sostenne che "il pubblicar l’imprese tocca a coloro nati nobili di sangue e ricchi di robba e di titoli signorili" (Ragionamento sopra la proprietà delle imprese, Pavia 1574).
Non casualmente Lodovico Domenichi aveva dedicato un’ampia sezione alle "tante onorate academie e raunanze d’uomini virtuosi e letterati, che avendo tutti bellissimi concetti, verisimilmente devono aver fatto argutissime imprese" (Ragionamento sulle imprese d’armi e d’amori, Venezia 1556).
Se Torquato Tasso aveva definito l’impresa "parte o specie d’una muta poesia" (Il Conte overo de le imprese , Napoli 1594), nel Seicento essa divenne un vero e proprio artificio, una " arguzia figurata", la cui bellezza era basata sull’ "ingegno", espresso nella forma complessa e allusiva della significazione.
L’impresa è "un’espressione di un concetto heroico della nostra mente, per via di un simbolo apparente" - scrive Emanuele Tesauro - un "miraculoso composito, che ha l’anima fuor del corpo, avendo il significante sensibile nello scudo e il significato intelligibile nella mente" (Trattato delle imprese, nel Cannocchiale aristotelico, Torino 1654, cap. XV).
[a cura di Floriana Calitti]