Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor mio Parente, e Padron Colendissimo.
Le ultime di V.E. nelle quali desidera informazioni del mio stato mi son capitate tardi. Avranno però occasione d'incontrar nella risposta una relazione delle mie calamitati, le quali dovranno compassionarsi da lei, come infortuni d'un suo parzialissimo servitore, non meno che affettuosissimo parente. Sappia dunque V.E. qualmente sono già due mesi ch'io sono prigione, o per meglio dire dannato, e quanto ne' costumi sono più diverso da Cristo, tanto ne' patimenti li sono fatto più simile. Non mi manca ormai altro che la Croce, per confrontare le mie pene all'originale della di lui passione. Ma forse questa longa prigionia è più tormentosa d'una breve morte, ancorché crudele. Contro di me se non è seguito il Concilio adunato contro di Cristo, sonvi state almeno le massime in quello proposte, a fine di determinare quel Sacrilego eccidio. Hic homo multa signa facit. Forte venient Romani, et tollent etc. La invidia degli emuli, che non pativano l'aura di quella poca fama, quale acquistansi quasi miracolosamente le mie debolezze, ha fondata la malignità. L'interesse di stato, per non irritare il dominante tra' Romani, le fomenta, come dichiararà meglio a V.E. la forma dell'esecuzione. In questa non riferisco un Giuda, poiché in questi tempi è più difficile il ritrovare un Apostolo ne' Collegii di tanti Giudi, di quello fosse in altri secoli estraordinario il trovar un Giuda tra gli Apostoli. Fui preso doppo desinare, come Cristo doppo cena, né la differenza pregiudica al confronto, poiché ugualmente si piglia ne' S. Evangeli desinare e cena con indifferente proporzione. Seguì per appunto allor che, doppo il colloquio con alcuni amici, eromi ritirato nella mia stanza, come quegli, doppo il ragionamento a' Discepoli, erasi ritirato nell'orto. Precedette il segno in aggiustata conformità del bacio di Giuda, mentre da uno, che precorse li satelliti, fui fermato in casa, loro preda, con amichevole pretesto d'obligarmi all'attendere un certo Cavaliere, il quale desiderava d'abboccarsi meco per suo piacere. Sopragionto dunque d'improviso, fui imprigionato; né in corto viaggio di terra scorse la opportunità d'alcun strapazzo, poiché in quello delle acque dovevo con maggiore verità figurarmi il traghetto di Caronte, e il passagio all'onde Stigie. Non poteva apparire falsa la imaginazione mentre l'oscurità del luogo in cui mi fu assignato il carcere poteva ragionevolmente effigiarmi il regno di Plutone. Non fui strascinato da un Tribunale all'altro, accioché fossi privo di godere anco quel poco di felicità ch'arroccarmi potevano alcuni, se bene brevi, momenti di luce, o pure a fine di tormi totalmente ogni speranza di giustificazione, onde aver potessi la certezza d'esser condannato. La mia innocenza però non ha avuto miglior sortimento di quella di Cristo. Tutto il fondamento consiste nell'Ecce duo testes deposuerunt etc., parole compendiose nelle quali ristringesi sommariamente tutto il processo. L'accusatore è Monsignor Nunzio di S. Santità il quale mi ha rappresentato a questa Serenissima Republica coi titoli più opprobriosi di bestemmiatore e sedutore di tutta la Cristianità contro il Pontefice. Ratifica le sue accuse con imaginati pretesti d'un libro uscito in luce senza mio nome, ma però confuso con un miscuglio di lettere, che altre volte furono mie, e di altre aggiunte, le quali sostengono la querela. L'accusatore però, come zelante Ministro del suo Padrone, e come finto conservatore della fede commune, si fa Capo della Turba nel gridare contro di me Crucifigatur, accennandomi degno di morte. Né mancano invidiosi, o altri suoi aderenti li quali esclamano a voce piena Crucifige, crucifige. Non manca quivi, ancora, la competenza meco d'un Barabba, quale di consenso del Nunzio medesmo si licenzia e lascia in libertà, e questo è lo Stampatore, che chiaramente colpevole nella publicazione di tal libro, doveva portare la pena di tal contrafazzione al publico Decreto. Né basta alla tirannica crudeltà di quello il vedermi mortificato, se non co' flagelli come Cristo, con gli affanni d'una sì longa prigionia, tra' più orridi patimenti che possano circonscrivere l'Inferno. Come allora per Cristo diventarono amici Erode e Pilato, non altramente rassembra ch'io fatto pegno di sodisfazzione a S. Santità, serva a dimostrar di rappacificazione e di buona intelligenza tra questa Republica e il Pontefice, tra' quali sono continuati mai sempre effetti di poco buona corrispondenza. Quindi a suo grado mi trattengono questi S.S. tra intolerabili orrori, e se bene la giustizia loro, come invariabile, risponda con Pilato Nullam causam invenio, mentre non posso esser convinto reo, o quando anco fossi convinto, non tengo colpa la quale debba da loro punirsi: con tutto ciò il Capo della Turba accennato persevera ostinatamente in gridare Crucifige, e l'interesse di stato esclama anch'egli Si nunc dimittis non es amicus Caesaris, cioè a dire del Papa. Quindi questa Republica vedendo contrario dogma a buona politica l'attacar brighe, o anche il fomentare diffidenze, per una persona privata, che nulla finalmente a lei s'aspetta, concorre in quella sentenza, Expedit, ut unus homo moriatur, o almeno patiatur ne tota gens pereat. Condescende però alla volontà di chi vuole vedermi tormentato e, fieramente barbaro, gode che io mi strugga, dove longhi tormenti sono pena superiore ad una sùbita morte.
In tali termini è la mia causa, che in non diversa forma ha condotte le turbolenze maggiori ch'io già mai temer potessi sotto infausto Cielo. Sono originate da una invecchiata malevollenza, con cui è ricevuta in Roma la fama del mio nome, e molto più le mie composizioni. Molte però di queste sono colà vietate alla lettura de' curiosi, con segno di poco ben affetta inclinazione più che di qualità da cui possa offender chi legge. Ha dipendenza questa mala volontà dalla svisceratissima affezzione quale ho sempre publicamente professata a questa Republica. Ne fu palese dimostrazione il Panegirico, in cui li primi abbozzi della mia penna, ancorché imperfetti, non però vili per esser primizie, furono consacrati alle di lei glorie; sono state non meno evidenti, dove scorgersi potevano meno affettate, altre dichiarazioni di simili sentimenti d'ossequio, in particolari discorsi, ne' quali procuravansi da persone maligne li biasimi di sì glorioso dominio. Ho avuta occasione di contradire a molti aderenti del Pontefice, e rispondere ad alcune Scritture che offendevano la riputazione di questi prudentissimi Signori, per rinversare sopra di esse colpe né meno imaginate.
Ho incontrata questa fortuna di significare in tal modo la mia disinteressata osservanza, in Genova già due anni, a fronte d'un Ministro di S. Santità abitante in Ravenna, da cui si publicarono Scritture, non so se sue o, come altri dissero, inviategli da Monsignor Vitellio, ora mio accusatore, il quale e contro la Republica e contro la Corona di Spagna trattiensi in queste prattiche. Non altrimente mi è occorso in Germania col Secretario del Residente Legato colà appresso S.C.M. con cui, e in voce e in carta, esercitai non meno la lingua che la penna in difesa di questa invariabile prudenza, fatta esemplare immitabile d'ogni ben più regolato governo. Dalle relazioni di questi sonosi a mio credere ingrossati li maligni umori contro di me in quella corte, d'onde però scaturisce quella putredine che ora corrompe la mia felicità. Questi fabri delle mie sciagure sopra la tela d'un certo mio libro, sospeso già due anni nel punto della stampa, dalla auttorità di chi poteva impedirla, hanno formato un riccamo a lor modo, imponendomi una aggiunta infame, postavi forse da loro stessi per giustificare le occasioni di perseguitarmi. La materia del mio lavoro, che era diversità di lettere curiose, ha lasciato campo a costoro in guisa che possono far apparire quasi intessuto da me ciò che nell'opera mia è stato inserto da altri; e come è verisimile che pretendendo io publicare composizioni tali, quali mi s'ascrivono, io non avessi effettuato ciò in Germania, dove la libertà nel credere e nell'operare poteva rappresentarmi qualunque più opportuna commodità? Mi trasferii in quelle parti immediatamente doppo che fumi impedito di dar in luce il libro, là dove vedersi potrebbe che allora incontrando la licenza del paese avessi voluto sortire avvantaggiosamente il compimento del mio desiderio, e romper il freno che m'imponevano le altrui proibizioni. Pure ho dimorato in quelle parti per lo spazio di sedeci mesi, nel mezzo delle maggiori commodità nelle quali potevo approffitarmi, né mai ho sviscerato questo capriccio, che ora vogliono gli emuli siasi da me mandato ad effetto in due o tre mesi; che tanti sono dal mio ritorno di colà sin alla prigionia, in questa Città nella quale i rigori de' publici Decreti dovevano promettermi difficile e periglioso l'esito. Chi vedrà il volume da me composto, e dato in luce nel corso di questo tempo, giudichi se l'ozio m'ha forse sollecitato ad altre vane occupazioni. L'infortunio di questa mia causa, è la incapacità di prove che mi discolpino. Di ciò che non è, può affermarsi solo il non essere. Quanto meno posso schermirmi, tanto più mi feriscono li persecutori, seducendo alcuni pochi li quali attestino a lor grado. Non bastano però di produrre ad ogni loro potere quell'arma, che potrebbe abbattermi mostrando la mia scrittura, ancorché forse abbiano tentata in alcuni la imitazione dello stesso mio carattere per non lasciar modo alcuno d'atterrarmi. Ma le loro malvagità e menzogne non possono non zoppicare, e il mancamento di questo sostegno agevola il precipizio alla loro malignità. E pure dovranno li manuscritti apparire appresso allo stampatore, quali procurarebbero di far trascorrere a mio danno, come con altri vani mezi si sforzano d'avantaggiare li propri disegni: li fingono aboliti, per non esser necessitati di confessarli non miei, onde succeda l'esser false le loro accuse. In questo mentre scorre la mia fortuna in termine di ragione di stato, per sodisfazzione di S. Santità. Non posso esser convinto, ma non meno posso apparentemente sincerare li sospetti, per la uniformità dello stile che mi condanna. Né opinione sì ben palliata di verità può facilmente ritrattarsi avanti de' Tribunali, facendo di mestieri formare un discorso, quasi tra Accademici più che alla presenza di Giudici, nel provare con moltiplicati esempi, e attestazioni d'antichi Scrittori, l'aggiustata conformità delle composizioni. In queste ravvolte basta alla iniquità del mio destino lo strozzarmi, onde mancando ogni aura di respiro provo una vita suffocata al buio di queste miserie.
E accioché ne abbia Vostra Eccellenza alcun saggio di cognizione, le circonscriverò brevemente, ancorché il compendioso ristretto di questa infelicità sia l'essere inesplicabile. Queste prigioni possono chiamarsi vivi sepolcri, e per l'angustia loro, e per la profondità del sito, e per le tenebre continuatamente durevoli. Hanno di meno d'esser tombe de' Cadaveri il non esser imbiancate al meno, e in apparenza abbellite, sì che inorridisce anche la rozezza de' marmi de' quali sono composte. Hanno di più l'essere capaci di patimenti, là dove ne' sepolcri a chi entra si toglie il senso per non più patire. Può dunque più fondatamente dirsi che siano vivi Inferni, ne' quali precorrendosi l'universale giudicio, con le pene de l'anima congiongonsi anche li tormenti del corpo. L'oscurità, non allumata che dolorosamente dal fuoco, si rassomiglia a questa, ch'altro lume non gode di quello che dalla fiamma proviene di lucerne. E ben risplendono solo faci, ove si compiscono solamente uffici d'essequie per l'estinta e sepolta felicità. O pure in conformità di que' popoli che collocavano appresso de' loro morti nei sepolcri lume e cibo, simili trattamenti si concedono a' miseri imprigionati. Convincono però come falso questo credito detto di tomba le esclamazioni e le grida proprie di disperati mentre, senza veder alcuno, odonsi solo le voci, affiguro per appunto le querele delle anime de' dannati, ch'invisibili all'occhio fanno sensibile con le strida il loro supplicio. E le giuro che tal volta, mentre fuori di queste cave parla alcuno, parmi udire intronati quegli accenti sin nei più profondi abbissi, onde risuonando questi marmi, fanno un lagrimevole eco di compassione. Quando S. Paolo participò la gloria del Paradiso rapito al terzo Cielo, riferisce d'aver veduto cose delle quali non era lecito parlare. Mentre quivi si parla con chi non può vedersi, è necessario conchiudere queste carceri il contraposto del Cielo, quale è per appunto l'Inferno. Che se di colà qui vogliono alcuni si veda da' dannati la suprema Beatitudine a lor maggior confusione e dolore, e fondasi questo parere nella parabola del Ricco Epulone, quivi pure lo stesso ci si rappresenta nella figura quadrata, che secondo le revelazioni dell'Apocalisse è tra' Cicli figura particolare dell'Empireo. Èvvi di più, che come a Mosè ordinò Iddio di prender per occhiale il buco d'una pietra, allor quando egli si dimostrò ansioso di vagheggiarlo, così e non altrimente ci si concedono in queste angustiose miserie che due sferici fori, donde possono li sguardi licenziarsi da queste angustie allo scorgere l'Idolo della bramata libertà. Ma anche questa figurata specie di creduta contentezza inganna, mentre queste aperture non trapassano ad altri oggetti che alle più orride tenebre, alla vista de' sventurati che nuovamente sopragiungono, o al riguardare la canaglia delli Guardiani, demoni custodi delle nostre sciagure. Se si concedesse il consorzio di fanciulli innocenti, avendosi alcun sollevamento, queste prigioni credersi potrebbero in vece d'inferno il Limbo, poiché quivi per altro né caldo né freddo approvano la diversità delle stagioni, o nelle intemperie di spietati influssi varietà di tormenti; communque ciò sia, bastami che concordando il fine di questa lettera al principio, posso chiamarmi in questo stato quasi che conforme a Cristo, avverandosi di me il Passus et sepultus est, et descendit ad inferos. Aspetto il resurrexit tertia die. Né per la divinità di quello stimo temerario 'l paragone, poiché quivi ancora con concetti di deità si vive, mangiandosi sopra de' letti, come usavasi cogl'Idoli Antichi, e per la secretezza del luogo, e per mancamento d'altre comodità. O in più verso senso usurparsi possono concetti divini, mentre arde mai sempre, e giorno e notte, avanti noi una lampada accesa; non permettendosi che oglio, o tal volta alcuna candela di cera, come s'accostuma ne' Tempii in riconoscimento della Suprema Maestà di Dio. Ma pure mentre sono sepolto vivo, al mio Resurrexit non si ricerca sopraumana virtù, bastando ordinario favore della Giustizia di questi prudentissimi e benegnissimi Signori, dalla benignità dei quali spero che in breve s'imporrà fine a questo miracolo d'una barbara fortuna. Desidero presta libertà, sì per essere questa il bene maggiore e più desiderabile di cui ci si conceda l'usufrutto in questa stagione della nostra mortalità, sì per esser sciolto alla servitù de' miei Padroni, tra' quali io raffermo il principal luogo a V.E. come suo.
A dì 10 Novembre 1641
Cug[ino] e serv[itore] parzialiss[imo]
Ferrante Pallavicino