“Non v’è nome, che meriti di essere scritto, in fronte al primo volume di questi discorsi più di quello di Giuseppe Biancheri, vigile custode dei diritti della Camera elettiva, per oltre trent’anni compagno in Parlamento ed amico di Agostino Depretis.”
Così Giovanni Zucconi e Giustino Fortunato concludevano la prefazione alla raccolta dei discorsi parlamentari di Depretis il 10 dicembre 1888, indirizzata all’allora Presidente Biancheri.
Presidente, appunto, per antonomasia, il Presidente tecnico, questo era il soprannome che il ventimigliese si era guadagnato già nel 1888 e avrebbe continuato a meritare sino all’uscita dal Parlamento, dopo aver presieduto diciassette sessioni annuali della Camera.
Il “Lorenzo Benoni”, autobiografia di Giovanni Ruffini, al capitolo 36 ci presenta il fuggiasco ospitato dai mazziniani di Ventimiglia, prima nella torre sulla collina presso l’attuale stazione Ferroviaria, ospite di un non identificabile dott. Palli poi a Latte in casa, è certo, d’Andrea Biancheri, padre di Giuseppe, amico d’Agostino Ruffini e certamente affiliato alla Giovine Italia.
Giovanni Giolitti scrive a Tommaso Senise il 31 marzo 1900:
“Caro Amico,
Lunedì si vota per il presidente. Noi portiamo Biancheri come modo di rimettere la pace. La maggioranza si ostina (almeno in gran parte) a riportare Colombo, nel quale modo si fa risorgere il disordine. È di suprema importanza che tutti siano presenti, e ti prego perciò vivamente di non mancare.
Credimi sempre
Aff.mo Gio. Giolitti”
Dall’articolo di Guido Norsa intitolato l’Aula Comotto pubblicato sulla “Nuova Antologia”:
“Biancheri. Uomini ed episodi dell’aula Comotto amavano ricordare nelle amichevoli conversazioni, specialmente la sera, quando dopo la seduta, passeggiava fumando l’immancabile “Virginia”. Pronunciava talora giudizi originali e precisi sugli uomini e sugli avvenimenti. Era quasi sempre lepido, faceva talvolta un po’ di caricatura, ma sempre senza acrimonia, senza fiele. Era paterno per i suoi “onorevoli colleghi”.
Benedetto Cairoli:
“Potevo mettermi con Crispi e Depretis contro tutti i miei amici? Ma la situazione parlamentare è orribile; da questa crisi può uscire il peggio, un connubio Sella-Nicotera. Nulla di bene certamente. Ma ai più pareva il maggior male il Ministero Depretis e non pensano al poi. È certo che quand’anche per le preoccupazioni politiche, cioè per lo spavento di regionali discordie, io mi fossi mosso in favore del Ministero, ne avrei strascinato di ben pochi e si sarebbe in ogni modo costituita una maggioranza contro di lui […]. Mi tentò il pensiero delle dimissioni; avevo anzi già incominciata la lettera, quando sopraggiunse il buon Biancherino il quale col solito calore suo ha fatto osservazioni che purtroppo finirono col persuadermi. Poiché è certo che la mia dimissione accettata dalla Camera e sarebbe interpretata dal paese come un atto di pentimento, sarebbe dunque una manifestazione inutile e non decorosa.”
Giovanni Spadolini:
Per la lapide posta sulla casa di Giuseppe Biancheri in Ventimiglia, Giovanni Spadolini ha composto questa epigrafe:
"Giuseppe Biancheri,
fedele alla religione del Risorgimento si batté per la difesa delle pubbliche libertà senza accettare discriminazioni o cesure, intuì che il destino del liberalismo sarebbe stato inseparabile da quello del progresso. Presidente della Camera per quasi un ventennio incarnò il trapasso dall’Italia come fortezza assediata all’Italia come comunità aperta al moto delle nuove classi e al contatto con le vecchie opposizioni sempre nella coscienza di un paese in ascesa./
Sen.. Giovanni Spadolini"
Ventimiglia all’epoca
Per parlare della Liguria di Ponente, nel periodo tra il 1815 e il 1860, dal punto di vista delle condizioni economiche e sociali, è necessario porre alcune considerazioni preliminari.
Innanzi tutto, è da ricordare che mentre per il periodo medioevale e moderno la storiografia è molto ricca, per il periodo a partire dal 1815 essa è molto più limitata a causa della difficoltà di confrontarsi con una realtà più informe e di incerta definizione in cui le diversità prevalgono sulle omogeneità e in merito alle quali i percorsi della ricerca tendono a farsi più insicuri. Infatti, se fino al ‘700 è possibile identificare la storia del territorio ligure come una gran capitale commerciale finanziaria portata a considerare i domini come una realtà da controllare, a partire dalla restaurazione i termini politici, amministrativi ed economici della Regione, sfumano in un contesto di pluralità di area assai diverse, strette da legami di omogeneità ed integrazioni con altre zone che prima erano collocate fuori da tali confini.
L’assetto amministrativo della Liguria, realizzato dai piemontesi all’indomani dell’annessione, era strutturato in due grandi suddivisioni amministrative facenti capo una a Genova e l’altra a Nizza. All’interno della divisione di Nizza vi erano tre province: quella di Oneglia, quella di Sanremo, e quella di Nizza. Invece, le due province del Ponente delimitavano aree omogenee con il loro entroterra, seguendo le naturali conformazioni geografiche caratterizzate da valli longitudinali che tendono al mare.
All’indomani della caduta di Napoleone era stata la stessa Genova che aveva offerto al Piemonte, in cambio della propria indipendenza, la cessione di tutto il Ponente che considerava probabilmente la parte dei propri domini meno irrinunciabile; aveva posto però, nello stesso tempo, la condizione di continuare a godere del porto franco; ma le cose non erano andate in questa direzione e l’annessione al Regno di Sardegna fu inevitabile.
Le genti del Ponente dimostrarono una pronta adesione al nuovo stato, Ventimiglia e Sanremo avevano, infatti, inviato le loro delegazioni a rendere omaggio di fedeltà e vassallaggio al Re Vittorio Emanuele I. Già da secolo precedente Sanremo chiedeva all’imperatrice Maria Teresa di essere assegnata in feudo ad un savoia o annessa direttamente al Regno di Sardegna. Similmente Ventimiglia aveva un’economia complementare con le regioni transalpine e concorrenziale con la Dominante.
Alla data dell’annessione la situazione del Ponente era di generale difficoltà economica; il periodo francese, al contrario, era stato uno dei più felici per i traffici marittimi e per i commerci. Ma gli anni di guerra che precedettero la caduta di Napoleone furono disastrosi per la marineria e per il commercio ligure, impegnati nelle operazioni militari dell’Impero francese e per via del blocco commerciale dovuto alla guerra. Grazie alla saldatura tra la riviera nizzarda e quella di Ponente le popolazioni rivierasche dell’ex Repubblica di Genova furono portate a sperare in un pronto sviluppo dei loro antichi commerci; naturalmente la ripresa fu lenta e difficile.
Avvenne che tra il 1817 e il 1818 lo Stato Sabaudo fu investito dalla carestia e per la prima volta la Liguria ne dovette subire le conseguenze giacché il sistema protezionistico instaurato dai piemontesi per le merci nazionali si rivela molto dannoso per tutta la Liguria. Allora il Governo, per favorire la riduzione dei prezzi decise di abolire la linea doganale ancora in vigore tra i vecchi stati, e finalmente fu concessa la libera circolazione dei grani nei territori sabaudi di terra ferma.
Ma quale era il quadro dell’economia intorno alla metà dell’800 per il Ponente?
Per vincere la natura impervia delle colline e dei monti i liguri da tempo avevano utilizzato il sistema delle terrazze sostenute da muri in pietra viva e ricoperti da terra vegetale; per questo tipo di configurazione dei terreni coltivabili i mezzi adoperati dai contadini si limitavano alla zappa a due becchi o a quella piatta, mentre l’uso dell’aratro era scarso. La proprietà fondiaria delle due province era estremamente frazionata e di piccola estensione; la gran parte dei proprietari coltivava personalmente la terra con l’aiuto dei familiari ed eventualmente di braccianti assunti nel periodo della raccolta; erano spesso altri proprietari che, finito il raccolto nella loro terra, prestavano la loro opera ai vicini, al compenso giornaliero di 1 lira e di 1 litro di vino. Invece, nel caso di colonia, il prodotto e le spese venivano suddivise a metà, per cereali e per il vino; per gli uliveti dati in colonia, la parte spettante al padrone del fondo era tre quinti nelle annate buone e un mezzo in quelle cattive; la stessa suddivisione era applicata nel territorio di Sanremo anche per gli agrumi.La più importante produzione agricola del Ponente era quella delle olive e nessun’altra produzione vi veniva associata. Il terreno era coltivato al massimo delle sue potenzialità e gli alberi di olivo venivano piantati alla distanza di cinque metri gli uni dagli altri, tanto che un terreno di 10000 m² poteva contenere dalle 150 alle 200 piante di olivo. A Sanremo, le piante erano circa 150000, con un raccolto medio di 1710 ettolitri, mentre a Oneglia era fortemente superiore. La frequenza delle annate piene era molto bassa e avveniva ogni 6 o 10 anni, alternata da annate mediocri o cattive e a volte nulle del tutto; e se a ciò aggiungiamo il flagello della mosca olearia si può convenire sulla poca sicurezza che questa attività offriva, costringendo i contadini a ricorrere al prestito di denaro e alle migrazioni temporanee.
Nelle annate in cui la produzione era scarsa, i prezzi si alzavano, viceversa nelle annate buone i prezzi scendevano, obbligando gli agricoltori a realizzare quanto possibile per recuperare i debiti accumulati nelle precedenti annate. Dopo il gelo del 1709, le colture provenzali erano state danneggiate più di quelle liguri e la domanda era aumentata, inducendo a piantare olivi anche ad alte quote con una densità maggiore per ettaro. Anche l’attività legata alla produzione dell’olio era più sviluppata nell’onegliese che nelle altre zone.
La seconda produzione agricola per importanza era quella degli agrumi, distribuita soprattutto a Ventimiglia, Bordighera e Sanremo e proprio gli agrumi di Sanremo erano stimati i migliori i migliori d’Italia e venivano smerciati in tutta Europa.
Un altro dei prodotti tipici della zona di Bordighera e Sanremo erano le palme, coltivate non per frutto ma per il commercio dei palmizi che venivano inviati a Roma per le celebrazioni della Pasqua.
Per via della sua condizione di terra agricola, il territorio delle due province dell’estremo Ponente si caratterizza, verso la prima metà del 19°Secolo, con una distribuzione della popolazione abbastanza uniforme su tutto il territorio; i fenomeni di spopolamento delle terre più interne della Liguria si affacceranno solo dopo il 1870. In tal modo, lo sviluppo demografico andò di pari passo sia nelle città, sia nelle campagne. Tuttavia la difficoltà di collegamenti viari rendeva quasi nullo il commercio e tra i paesi interni solo alcuni si discostavano da una generale condizione di povertà.
Le mulattiere erano comunque in cattivi stato: da Triora a Briga si impiegavano sette ore e otto per raggiungere Sanremo; tutto l’entroterra montano era ricco di boschi e di pascoli utilizzati per l’allevamento degli ovini; invece i bovini erano molto scarsi. Nella Valle Argentina, che contava circa 1800 persone, aveva un attivo smercio dei prodotti propri (castagne, fagioli, pomodori e olio) con i comuni limitrofi e costieri; Taggia era molto popolata, circa 4000 abitanti, ed era una delle terre più fertili della Riviera di Ponente; vi erano orti, vigneti, grandi alberi da frutta e olivi colossali; anche i suoi boschi davano una buona rendita per l’abbondanza di legna da fuoco e di quella per la costruzione di bastimenti. Invece, Camporosso, San Biagio e Soldano esportavano olio in Piemonte e producevano vino di buona qualità.
Nel 1863, il Prefetto Piniroli lamentava le cause dell’emarginazione dei paesi ponentini e diceva: “ Ad eccezione dei paesi toccati dalle due strade nazionali, ben pochi sono i comuni della provincia cui si possa accedere con i carri; le popolazioni delle nostre montagne, se non avessero la risorsa dell’emigrazione, sarebbero condannati a deperire sotto i continui sforzi, alimentati solamente dai non svariati prodotti del suolo nativo, non suscettibili di scambio per mancanza di strade”. Infatti che quello delle strade fosse uno dei nodi fondamentali per lo sviluppo non vi è dubbio, considerato quello che rappresentò la ferrovia e le nuove strade soprattutto per la nascita del turismo. Il progredire delle comunicazioni è stato molto lento nella nostra provincia.
L’attività marinara era tradizionalmente una delle principali occupazioni degli abitanti della costa, il cui esercizio aveva rappresentato l’unica alternativa all’attività agricola nei tempi di crisi; capitani e marinai di Ventimiglia, Sanremo, Porto e Diano avevano acquistato fama di esperti navigatori, sia in Liguria, sia fuori di essa; erano imbarcati sui bastimenti di vario cabotaggio che alla fine del settecento facevano rotta nel mediterraneo e nei mari europei. Le importazioni provenienti da Genova, Livorno, Napoli e dalla Sardegna riguardavano granaglie ma anche legumi, vino, formaggio; dalla Francia e dall’Inghilterra arrivavano soprattutto tela, panni di lana, vini, concime; dalla Norvegia merluzzo e pesce salato; dall’America caffè e generi coloniali; dalla Spagna carrube, dalla Russia e Turchia grano e avena. Le esportazioni invece si limitavano a olio, agrumi e palme che erano i principali prodotti del territorio.
Nella Liguria Occidentale, vi era un problema rappresentato dai dazi sull’olio e per questo motivo le esportazioni di questo prodotto si erano ridotte, poiché la Francia e l’Olanda, per via della politica protezionistica del Piemonte, si erano rivolte ai prodotti pugliesi e toscani. Per evadere i dazi molto spesso le navi ponentine battevano bandiere di comodo, specialmente francesi, ed anche il contrabbando era molto diffuso; la linea doganale tra il Ponente e la Sardegna era un ulteriore barriera allo sviluppo dei commerci.
Il 1848 segna la data di svolta per il passaggio all’unificazione economica del Regno: l’apertura dello Stato Sabaudo ad una politica liberista e ad una più attenta considerazione delle necessità mercantili della Liguria.
I primi provvedimenti riguardarono l’abolizione dei diritti differenziali attraverso accordi di reciprocità con le nazioni estere; intanto le città ponentine premevano per ottenere i finanziamenti per i loro porti e per l’abolizione dei dazi interni allo stato. La certezza del diritto ottenuta con tale Statuto avrebbe dovuto garantire un’uguaglianza di trattamento per tutti i paesi dello Stato, ma le barriere doganali ed i privilegi mantenuti nei confronti di alcune città rispetto ad altre rendevano vano il dettato costituzionale. Gli effetti a queste e ad altre successive sollecitazioni non tardarono ad arrivare, forse perché ormai erano maturi i tempi del cambiamento. A Badalucco e Taggia la gente manifestava, chiedeva notizie, pretendeva la rimozione di funzionari antiliberali e, in particolare a Sanremo, cacciava i Gesuiti, simbolo dell’oppressione esercitata attraverso l’istruzione.
Il mondo operaio della provincia era formato da un certo numero di addetti alle manifatture e alle piccole industrie; le fabbriche di pasta erano concentrate principalmente nel territorio di Oneglia, dove ben sviluppati erano anche i laboratori di tessitura della canapa e del lino. A Pontedassio era stata impiantato uno stabilimento di macina i cui macchinari pulivano il grano senza lavarlo e questo primo esempio di applicazione innovativa nell’industria rappresentava però un caso isolato, poiché il resto dell’industria rimaneva legata ai vecchi metodi.
Vi era poi il variegato mondo degli artigiani, composto da un’alta percentuale di falegnami, di calzolai, ferrai e muratori; in seguito vi erano innumerevoli altre attività. Questo mondo operaio e artigianale trova nella società di mutuo soccorso una possibilità di difesa dalle avversità economiche che frequentemente lo colpiscono.
Concludendo questa panoramica sulla storia economica e sociale della Liguria Occidentale, si può dire che i problemi di assimilazione dei due paesi furono per i territori del Ponente ancora più accentuati e superati con maggior lentezza rispetto a quanto avvenne per la Liguria del genovesato.
La Famiglia
Per delineare meglio la figura di Giuseppe Biancheri non possiamo non considerare l’importanza della sua famiglia nell’ambito economico intemelio.
Durante il periodo rivoluzionario e quello napoleonico si assiste, specialmente nelle città rivierasche, ad un effettivo ricambio della classe dirigente.
La famiglia Biancheri, originale del piccolo paese di Camporosso è il tipico esempio di casato di “homines novi” in quanto realizza una progressiva conquista di spazi sociali, fatti di piccole cariche rappresentative fino a giungere a incarichi via via sempre più impegnativi. La posizione economica, sempre più florida, del gruppo di famiglia, si fa garante di un’ascesa quantomai solida e concreta.
In particolare il caso di Andrea, padre di Giuseppe Biancheri, (nato a Ventimiglia il 2 marzo 1792 e morto nel 1844) è un esempio lampante della nascente classe dirigente: capitano della Guardia Nazionale nei tumultuosi eventi del 1821, commercia e accumula capitali dal mattino alla sera. Inoltre Andrea aderisce alla Giovine Italia e partecipa ai fermenti Mazziniani tanto da diventare amico di Agostino Ruffini.
Andrea Biancheri si sposa due volte. Dalla prima moglie ha solo due figlie: Giulietta e Marietta. Dalla seconda (Caterina Isnardi, nata nel 1800 e morta nel 1896) ne ha sei: tre maschi e tre femmine.
Caterina possiede una cospicua dote poiché proviene da una ricca famiglia di Loano, arricchitasi col commercio dell’olio e del sapone. La dote della giovane consente alla ditta olearia fondata da Andrea un autentico salto di qualità.
Quando, all’età di 52 anni il commerciante muore, assume il non facile ruolo di capo famiglia e di successore del padre nella gestione dell’azienda di famiglia, il fratello maggiore di Giuseppe Biancheri, Giovanni Battista (nato nel 1820 e morto nel 1906) che inoltre diverrà nel 1876 sindaco di Ventimiglia. È proprio grazie all’affettuoso sostegno di Giovanni Battista che Giuseppe può andare a studiare fuori città: prima nel Principato di Monaco e poi a Torino, dove conseguirà la laurea.
Anche il fratello minore di Giuseppe, Emanuele Secondo (1831-1910) non è da meno: diventerà anch’egli sindaco di Ventimiglia succedendo al fratello nel 1882. Emanuele Secondo portò a compimento una serie di importanti lavori pubblici tesi alla salvaguardia e al decoro del centro urbano.
Delle sorelle è da ricordare almeno Emilia, nonna materna del famoso Avvocato e Politico Orazio Raimondo: principe del foro dei primi del secolo XX, avvocato della contessa Tiepolo nel famoso processo e deputato socialista massone nel collegio di Ventimiglia e Sanremo, nonché sindaco di quest’ultima.
Dietro a questo solido impianto familiare è da sottolineare il ruolo, discreto ma fondamentale, dell’azienda di famiglia.
Ebbene, mentre Giuseppe Biancheri tutela i suoi concittadini in Parlamento, nel 1857 gli amministratori delegati chiudono il bilancio generale di tutto ciò che compone l’attivo e il passivo della ditta “Andrea Biancheri e figli di Ventimiglia”: il bilancio totale è di 117.975 lire di materiale, senza contare la fortuna di famiglia valutata in 285 mila lire. La famiglia possiede persino un bastimento a vela, il Sant’Andrea, impiegato nei trasporti necessari alla conduzione dell’azienda, valutato intorno alle 6 mila lire. I crediti vantati dalla ditta, perlopiù nei confronti di banchieri della zona e piemontesi, ma anche nei confronti di importanti ditte straniere (Nantes, Amburgo, Anversa, Bruxelles, Marsiglia) ammontano a circa 200 mila lire.
In breve tempo l’azienda “Andrea Biancheri e figli” diventa leader intemelio del commercio oleario (che costituisce la branca più importante del mercato d’offerta della ditta), anche se è pur sempre periferica rispetto alla zona di maggior produzione rivierasca, posta tra Cervo (Im) e Arma di Taggia (Im).
Ciò che risulta maggiormente sorprendente è constatare il raggio d’azione dei Biancheri nelle esportazioni internazionali:la dilatazione dei consumi a livello europeo permette a una ditta piuttosto giovane di arricchirsi e ingrandirsi: è questo il caso dell’azienda famigliare di Giuseppe Biancheri che esporta persino a San Pietroburgo e a Mosca
La vita
Giuseppe Biancheri nacque in Ventimiglia il 22 novembre del 1821, da questa famiglia benemerita per operosità e per vivacità di iniziative, che rivelavano, in quei tempi, scioltezza di spirito e ardimento moderno.
Nei primi del secolo XIX il suo territorio natale sebbene irrigato dal ROIA, uno dei più belli e pingui fiumi della Liguria, era poco prospero e languiva; negletta l’agricoltura, ignorate le industrie. Unica risorsa era il commercio che tenevano vivo alcune famiglie del luogo, fra le quali quella dei Biancheri. Dall’importazione dei cereali e dall’esportazione nelle principali piazze d’Italia e di Francia, degli olii prodotti dalla fertile vallata del ROIA e del Nervia, aveva ritratto grossi guadagni e si era formato un cospicuo patrimonio.
Andrea, capo di questa casa, passato a seconde nozze colla signora Isnardi di Loano, divenne padre di tre figlie e di altrettanti figli, di cui il nostro era il secondogenito.
La giovinezza di Giuseppe Biancheri non ha nulla di singolare e di memorabile, anzi, se dal mattino si deve preconizzare il giorno, questo era da aspettarsi ben diverso.
Fino a nove anni non sapeva neppure leggere e scrivere, e non voleva andare a scuola. La prima volta che lo scosse e lo attrasse fu qualche spettacolo sulla scena, originario sintomo d’un’inclinazione naturale, per la quale anche oggi è assai vago nel teatro e assiduo nel frequentarlo. Allora erano rappresentazioni da fanciulli di carattere religioso e a lui toccò più volte di far la parte dell’angelo con le ali dorate; finché, venuta una compagnia di comici e ideata una società di dilettanti, tra i quali il piccolo Giuseppe, aveva una grande smania di imbrancarsi, si accorse che gli mancava una cosa essenziale, il leggere e lo scrivere, del cui valore solo in tal modo si capacitò, e al cui studio, solo per siffatto stimolo, si sobbarcò.
Il padre intanto avviò i figli al commercio, fonte di operosità. Scelta a questo scopo la vicina città di Monaco, dove dall’abate Cauvin, Nizzardo, era stato aperto un istituto per lo studio della lingua francese, delle matematiche, della storia, della geografia, vi collocava nel 1831 i due figli maggiori: Giovan Battista e Giuseppe.
Monaco era allora sotto il protettorato del Piemonte, e comprendeva anche Mentone e Roccabruna.
Il Principe Florestano I, angustiava di monopolii e di tasse, perfino la licenza per tagliare un ramo. La madre del Biancheri, sollecita massaia, mandava ogni otto giorni un domestico con un mulo a portare la biancheria pulita e riprendere quella usata. Con l’occasione mandava loro anche della frutta e delle ciambelle. Il Principe aveva dato a certo Chapon il monopolio del pane, e non sempre riusciva di farlo passare in franchigia: una volta i doganieri sequestrarono mulo, ciambelle, e tutto il resto. Il domestico ottenne di andare almeno fino a Monaco, al collegio.
Giuseppe, quando seppe la cosa, andò su tutte le furie, dicendo che si tassava anche il pane, che era cosa da barbari e simili; e senz’altro uscì e se ne andò dal governatore che risiedeva a Mentone. Era Villarey, padre di quello che morì a Custoza, il quale lasciò parlare il ragazzo e rimase così persuaso che fece subito un decreto per far levare il sequestro, dicendo: “ Cet enfant a de l’intelligence, il aura de l’avenir.”
Il primogenito in collegio fece ottima prova, e succedette quindi di fatto alla successione della ditta commerciale. Ma Giuseppe, che si era segnalato soprattutto nello studio della storia e della lingua francese (tornatogli più tardi di gran giovamento), non parve pago di così angusto orizzonte; e facendo ritorno a casa nelle vacanze del 1835, si aperse in famiglia, mostrando desiderio di conseguire la laurea in giurisprudenza; né trovò opposizione perché non era sfuggito ai provvidi genitori che in lui non era stoffa di mercante.
In Ventimiglia c’era un collegio dove non sappiamo quale fosse il livello didattico. Abbiamo alcuni nomi d’insegnanti come per esempio il grammatico don Bartolomeo Gibelli e il professore di belle lettere Don Andrea Rolando. Di questo, “pré Rolando, la fama popolare ne tramandava la straordinaria ghiottoneria. Il nostro giovine imparò certo utili rudimenti, rivelando notevoli doti di memoria, seguendo nello stesso istituto il corso di filosofia sotto il professor Navone.
Egli cominciava in quel tempo a rivelare il suo carattere, mostrando chiaramente che mentre dal padre aveva ereditato la robustezza e l’amore della libertà, della madre aveva fatto sue la memoria e la tenacità dei propositi, che mai smentì.
Né a caso ho accennato all’amor di libertà istillatogli dal padre, perché si sa che gli uomini sono figli dei bambini e che questi devono nell’area domestica i primi sentimenti e le prime inclinazioni, che poi difficilmente gli abbandoneranno per tutta la vita.
Cosicché la vera educazione sta soprattutto nel costume e nell’esempio circostante.
Recependo nella famiglia simpatie mazziniane, si procurò libri all’epoca proibiti causando severe punizioni al suo direttore spirituale. Si iscrisse all’università di Nizza e si laureò a Torino nel ’46 (anno delle elezioni di Pio IX). Avrebbe desiderato intraprendere la carriera diplomatica ma distolto dai consigli della madre che lo voleva vicino, iniziò il praticantato presso un parente l’avvocato Fruttuoso Biancheri, che sarà deputato al Parlamento per Ventimiglia nella seconda brevissima e drammatica legislatura e per Alassio nella quarta. Non ha mai esercitato l’avvocatura, per la quale nutriva infatti un’istintiva ripugnanza, naturale a chi abbia propensione per la politica. Biancheri rifuggiva dal foro, infatti, ritiratosi nella villa paterna dei Ciotti, leggeva, si può dire, la sana giornata, vivendo solo della vita della famiglia, e, la sera, faceva ore tardissime giocando con gli amici.Oltre quello del gioco, unico suo passatempo era la caccia e l’alpinismo.
La fortuna cominciò ad arridergli nell’incontro dei cari amici Domenico Biancheri poi sindaco, e Giovanni Arrigo di Dolceacqua, famosi cacciatori.Sotto la loro guida Biancheri percorse tutta la lunga e tortuosa spina delle Alpi marittime. L’amore per la natura e le lezioni del suo libro sempre aperto, servivano allora a formare gli uomini di Stato.Inoltre il Biancheri era fortemente istigato dal desiderio di conoscere i luoghi fatti sacri dal sangue, onde furono bagnati quei monti nelle due guerre di successione ed in quella del 1794 mossa dall’esercito repubblicano di Francia contro il re di Sardegna.
Nel memorando atto della costituzione del Regno d’Italia, Camillo Cavour, trascinato da Napoleone alla cessione del contado di Nizza, avendo consentito l’imperdonabile aggiunta del cuneo di Saorgio sulla sinistra del Roya, caposaldo della linea strategica di San Giacomo, provocò le eloquenti filippiche e le dolenti predizioni del giovane deputato Biancheri.
L’Elezione:
Quadro Politico
E’ difficile parlare di quella che fosse la vera opinione pubblica di quei tempi, giacché il voto era elitario ed era ristretto all’aristocrazia, ad alcuni salotti di professionisti e ad un numero ristrettissimo di votanti entro gli aventi diritto. Tra l’altro la Regione aveva sofferto di particolari crisi: il terremoto nel ’31, il colera nel ’37 e delle ghiacciate periodiche che compromettevano la raccolta soprattutto degli agrumi; poi vi erano problemi idrici e Ventimiglia aveva un particolare gioco per la presenza del Roya che ancora oggi è in ballo.
I territori del Ponente costituivano un’area di una certa tranquillità per i Governi torinesi; Genova invece era una raccolta d’insoddisfazioni, sia nelle parti nobiliari, sia in quelle popolari, tanto che un’importante personaggio governativo di Torino la chiamava una specie di “pattumiera”.
In quell’anno, il primo personaggio di un certo rilievo nella vita parlamentare subalpina è il sanremese Siro Andrea Carli, il qual è eletto a Sanremo con 193 voti; Carli è un uomo di tipo più che moderato, non dà fastidio a Torino e quasi quasi può sembrare moderato anche a coloro che leggevano “il Ligure Popolare” di Don Antonio Massabò.
Una qualche importanza avevano anche i Deputati di Nizza; infatti, si è detto che per qualche tempo Ventimiglia era stata piuttosto nell’occhio del Nizzardo piuttosto che nell’occhio del genovese; c’è un Nizzardo, Giovanni De Foresta, il quale si oppose ad angherie regie e volle che si trattasse con la massima rigidezza e discrezione nei problemi d’annessione dei beni ecclesiastici; inoltre fu un uomo che temperò alcuni scontri tra le durezze del Codice Albertino e le proposte di talune popolazioni piuttosto esposte a Sinistra Ottocentesca.
1853
Biancheri entrò la prima volta alla Camera quando aveva di poco superata l’età prescritta dalla legge. Nel 1853, per le elezioni della quinta legislatura, era deputato uscente Ercole Ricotti, Generale, membro dell’accademia delle scienze di Torino, commemorato con un busto nell’atrio del Museo Egizio, docente universitario. Era l’unico Piemontese eletto nei collegi Liguri nelle elezioni del 1849, dopo il proclama di Moncalieri, ed era l’unico rappresentante Ligure che si collocava a Destra.
Biancheri in quel periodo non era a Ventimiglia, e l'iniziativa di proporlo come deputato parte da alcuni suoi amici, che cercano di convincerlo, nonostante la sua riluttanza, a formare uno schieramento in opposizione a Ricotti, candidato ministeriale presentato dai clericali.
L’uscente Ricottisi si era organizzato una campagna elettorale con un tema forte: il permanere in Val Nervia d’alcuni privilegi feudali di bannalità sui frantoi d’olive. Il Ricotti pareva favorito, era partito per tempo.
Sennonché, alla festa dello Statuto del 1853, il Vescovo di Ventimiglia Lorenzo Battista Biale, non partecipò alle cerimonie ufficiali. Ricotti si lasciò andare a qualche commento di censura, che venne puntualmente riportato a Sua Eminenza. Il Vescovo Biale, dimenticando di porgere l’altra guancia, iniziò ad indirizzare la sua influenza verso il Mazziniano Giuseppe Biancheri.
Il Collegio di Ventimiglia comprendeva Ventimiglia, Bordighera e la Val Nervia sino a Pigna. Gli elettori erano poche centinaia, le sezioni elettorali erano 2, una nel comune di Ventimiglia in piazza della cattedrale, (gli elettori di Bordighera votavano a Ventimiglia Alta) l’altra nel palazzo comunale di Dolceacqua che raccoglieva gli elettori della Val Nervia.
Le Elezioni sono vinte da Biancheri con 186 voti rispetto ai 149 dell’uscente Ricotti.
17 elettori di Pigna presentarono ricorso elettorale adducendo che alcuni voti fossero stati comprati da Biancheri. Il comitato della Camera per la verifica dei poteri propose la convalida di Biancheri. Egli, però, chiese che si aprisse una specifica inchiesta amministrativa e non entrò alla camera sinchè non fu totalmente scagionato da ogni sospetto. Risultava infatti che era stato dato un rimborso spese ad alcuni elettori per il viaggio da fuori collegio.
Risultò invece che alcune regalie erano state fatte proprio da alcuni sostenitori dell’altro candidato.
Il Biancheri era intimo di De Foresta, col quale era stato in collegio assieme. Il De Foresta parlò bene di lui al De Viry, il quale votò in favore della sua convalidazione; ma poi quando vide il neo-eletto andare a sedersi a sinistra, se ne lamentò con il De Foresta che rispose: “E’ un giovane di trenta anni; quando avrà l’età matura sarà più a destra di noi”.
Entrerà a far parte del gruppo della Sinistra del Parlamento Subalpino che aveva uomini di grande valore che partirono animati da sentimenti quasi mazziniani, ma che poi passarono all'orbita cavouriana.
Ebbe subito le simpatie di Cavour, sebbene fosse uno dei pochi che osasse, non solo affettarne indipendenza, ma addirittura tenergli testa; e quella di Depretis, col quale fu poi sempre come un fratello. L’indipendenza del carattere e la bontà d’animo lo misero subito in vista e ne fecero un milite da non trascurarsi. Egli metteva questa sua nascente autorità a servizio degli interessi locali che si intrecciavano con grandi interessi nazionali.
La politica nella Liguria Occidentale del Risorgimento
Durante il Risorgimento, la Liguria Occidentale, a differenza di Genova, rappresenta una zona tranquilla, che non desta gravi preoccupazioni dal punto di vista della lievitazione delle idee democratiche. Nonostante ciò vi è una netta distinzione tra Genova (centro del mazzinianesimo e del Movimento Democratico in genere) e il Ponente. Quest’ultimo accetta abbastanza bene la situazione instauratasi dopo il 1814 con la sua annessione al regno di Sardegna: dopo essere stato amministrato male dalla vecchia aristocrazia e oligarchia genovese spera, infatti, in un riscatto.
I motivi ispiratori di un movimento democratico nel Ponente risalgono a partire dalla Rivoluzione Francese: essa aveva suscitato, infatti, entusiasmi e speranze un po’in tutta l’elite colta e dirigente dei vari Stati d’Italia. E il Ponente non è da meno: a Ventimiglia Giovanni Battista Biancheri (nonno di Giuseppe) è stato uno degli entusiasti del nuovo corso francese (ma in generale, tutta la famiglia Biancheri provava entusiasmo per le idee di Francia.
Bisogna sottolineare il fatto che in tutta la Liguria, durante il Risorgimento, le idee democratiche sono più che altro idee d’elite: le masse, infatti, solitamente sono su posizioni di conservazione, a causa delle loro condizioni di vita precarie.
Quando c’è l’annessione della Liguria al Regno di Sardegna, come già detto precedentemente, la Liguria Occidentale ha atteggiamenti piuttosto diversi rispetto a Genova nei riguardi della nuova realtà: il celebre scrittore Ruffiani nel “Lorenzo Benoni”dice chiaramente che la vecchia aristocrazia genovese è fortemente anti piemontese anche semplicemente per il ricordo dell’antica Repubblica, quindi molto spesso questo sentimento di rivolta anti piemontese è di conservazione e anacronistico.
In realtà (anche se il motivo dato dal Ruffini è valido) il risentimento nei confronti del Piemonte nasce dal fatto che quest’ultimo, durante il regno di Vittorio Emanuele I e di Carlo Felice, ha un regime fortemente autoritario, un regime di negazione di libertà cui coloro che hanno aspirazioni di libertà fanno parte di movimenti settari e della Giovine Italia mazziniana. Che il sistema fiscale, doganale, legislativo piemontese mortifica i traffici e le attività del porto di Genova.
La presenza mazziniana e l’organizzazione della Giovine Italia è fortissima anche nel Ponente poiché molti studenti della Riviera di Ponente sono stati compagni di studi di Mazzini e filtrano, quindi un mazzinianesimo che nasce dalla conoscenza diretta con quest’ultimo.
Nell’epistolario di Mazzini egli cita esplicitamente Andrea Biancheri di Ventimiglia (padre di Giuseppe Biancheri) come propagatore e organizzatore della Giovine Italia. Inoltre Ruffini, sempre nel “Lorenzo Benoni” racconta che proprio Andrea Biancheri (anche se sotto mentite spoglie) salva la vita e nasconde Giovanni Ruffini.
Tra il 1833 e il 1848 c’è un notevole cambiamento della situazione politica nell’Occidente ligure: alla vigilia delle riforme molti uomini che sono stati vicini a Mazzini si avviano a diventare dei moderati iniziando a ritenere che i moti mazziniani non danno alcun risultato concreto e che sia più efficace quindi trovare una via moderata alla soluzione del problema nazionale.
Il punto che veramente segna il cambiamento della situazione è la concessione dello Statuto Albertino nel 1848: ora non si può più sostenere posizioni di protesta radicali perché il Piemonte concede delle libertà. L’unico modo per fare dell’opposizione è inserirsi nel sistema per agire nel suo interno: ciò farà Giuseppe Biancheri, eletto al Parlamento come deputato. Eletto al Parlamento, aderirà al cosiddetto terzo partito di Rattazzi.
Biancheri però ha posizioni estremamente autonome in molte occasioni.
Dopo il 1848 nasce, quindi nella Riviera di Ponente, un atteggiamento di collaborazione con il Governo di Torino però sempre su posizioni di grande moderazione.
Naturalmente bisogna contare il fatto che quando si parla di rappresentanza parlamentare, fino al 1882 vota circa l’1% della popolazione, quindi il cosiddetto Paese reale rimane fuor al gioco politico.
Interventi in Parlamento
La guerra di Crimea
La sua attività parlamentare nella Camera Subalpina è segnata dall’opposizione all’impegno del Regno di Sardegna nella guerra di Crimea del 1855; la scelta lungimirante e un po’ azzardata del conte di Cavour non era compresa da gran parte della pubblica opinione.
Tutti i deputati liguri, in gran parte appartenenti alla sinistra, votarono vivacemente contro l’intervento. Il mondo marittimo ligure, armatori e importatori, aveva ottimi rapporti con la grande Russia. Nasce in quell’occasione l’espressione derisoria “votare come gli armatori di Genova…” La posizione di Biancheri, tuttavia, è accompagnata da un forte senso dello Stato e del rispetto della legalità. Durante un lungo discorso pronunciò una frase ad effetto quando si accennò alla possibilità che anche l’Austria partecipasse all’intervento: “Il giorno che il nostro tricolore vessillo sventolasse allato a quello dell’Austria, altamente lo dico, bisognerebbe coprirlo di lutto, perché il sangue dei nostri invendicati fratelli non venisse ad essere contaminato da sì impuro contatto”. Come si può notare dalle sue parole, Biancheri è apertamente contrario all’intervento; ma qualora questo fosse stato approvato, egli dichiara che non avrebbe avuto che un solo pensiero: “L’onore delle nostre armi e il benessere dei nostri soldati”.
Nonostante ciò Biancheri si comportò con grande serenità quando nel 1857 il Governo del Regno di Sardegna decideva lo spostamento dell’arsenale marittimo da Genova a La Spezia. Le sinistre, specialmente i deputati liguri, arrivarono a sostenere che Cavour volesse cedere l’intero arsenale all’Inghilterra.
Biancheri vedeva in tutto questo agitarsi l’interesse di parte della sinistra piemontese piuttosto che un pericolo reale per la sua riviera.
La cessione di Nizza alla Francia
Uno dei momenti più significativi del suo impegno parlamentare a Torino riguarda la discussione nel 1860 sul trattato di cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Il suo discorso, pur fatto da deputato dell’opposizione, non utilizza in modo strumentale i sentimenti espressi dai cittadini liguri, ma mette in campo ragioni strategiche che non riguardano solo la difesa del territorio ma anche la sicurezza dell’intero Paese.
Biancheri aveva presentato un ordine del giorno, invitando il Governo a fare tutti i possibili uffici per conservare il bacino del ROIA, che sarebbe potuto diventare una semplice via d’accesso per eventuali invasioni. Il suo discorso, pur fatto da deputato dell’opposizione, non utilizza in modo strumentale i sentimenti espressi dai cittadini liguri, ma mette in campo ragioni strategiche che non riguardano solo la difesa del territorio ma anche la sicurezza dell’intero Paese.
Il suo maggior discorso, pronunciato il 28 maggio, si chiuse sentimentalmente con queste parole: “Signori, quelle popolazioni si rivolgono al Governo, si rivolgono al Parlamento, e vi dicono per bocca mia: serbateci italiane”.
Si viveva in grandi ansie circa la determinazione del nuovo confine; si diceva che Ventimiglia, San Remo, Porto Maurizio e Oneglia sarebbero passate ai francesi. Biancheri temeva, come Garibaldi, di perdere la patria. Cavour lo rassicura che le popolazioni, le quali non fanno parte del circondario di Nizza, non hanno nulla da temere; egli lo ringrazia, ma insiste; e Cavour gli risponde: “L’on. Biancheri non può dubitare, poiché non ho argomento per ritenerlo fra gli avversari del Ministero, anzi mi ricordo che spesso ci fu cortese del suo appoggio, non può dubitare, dico, del desiderio che noi avremmo avuto di conservare questa provincia. Un sacrificio lo è, lo abbiamo detto: e se lo abbiamo fatto, egli è stato dinanzi ad una necessità suprema, dinanzi a quella gran causa, alla quale tutti individualmente abbiamo fatto molti sacrifici”.
La capacità politica di Biancheri gli fa comprendere che un’opposizione radicale sarebbe inutile: è per questo che accetta di ritirare l’ordine del giorno, e dice di Cavour: “Io ho la profonda convinzione che egli ama il suo paese quanto lo amo io, quanto lo ama ciascuno di noi; che egli anela di procacciargli il maggior bene possibile. Se raggiungerà questo intento, avrà le benedizioni e la riconoscenza di quelle popolazioni”.
Biancheri propone comunque due ordini del giorno, con uno ottiene che sia unita una documentazione topografica all’atto di cessione. Non riesce a far approvare l’altro che chiedeva di salvaguardare l’unità della vallata del ROIA.
La Camera votò il trattato per appello nominale; ma il Biancheri votò contro; i deputati liguri votarono contro o si astennero. E si astenne anche Rattazzi, che aveva combattuto il trattato. Complessivamente i voti contrari furono 33 su 387 deputati membri.
Facciamo osservare che tuttavia il passaggio di Nizza alla Francia presenta due aspetti assolutamente contraddittori.
Da una parte il candidato governativo favorevole all’ammissione pesantemente appoggiato dal prefetto ottiene nelle elezioni del 25 marzo del 1860 solo 5 voti, clamorosamente battuto dal suo avversario italiano Giuseppe Garibaldi con oltre 700 voti.
D’altra parte dal 1793 al 1815 Nizza si era francesizzata nella lingua e nella grafia. I nizzardi erano devotissimi da secoli alla casa di Savoia, si sentivano Italiani, amavano Garibaldi, ma scrivevano e parlavano in francese.
La ferrovia litoranea
Nell’ottobre del 1860 si discute in Parlamento il progetto Paleocapa di una ferrovia Ventimiglia-Pontremoli. E’ qui da osservare che Paleocapa sosteneva il modello belga di ferrovia: linea al minimo di dislivello possibile, massima economicità di gestione, tracciato quanto più rettilineo possibile.
A questa filosofia di servizio pubblico si contrapponeva il modello speculativo della ferrovia inglese, sostenuto in Italia da Carlo Cattaneo. Nella discussione del 16-17 ottobre la proposta del ministro dei L.L.P.P. Iacini è osteggiata da vari deputati, tra i quali Giulio Susani, che paiono legati agli interessi del conte Bastogi.
Biancheri interviene nella seduta pomeridiana del 16 ottobre. La discussione verte sulla scelta tra contratto per conto del governo o per sussidio o per concessione. Biancheri esclude la convenienza per lo stato di procedere per sussidio o concessione.
Le sue argomentazioni sono di tre ordini:
non ci sono proposte reali e affidabili per questi contratti;
la costruzione in concessione induce il concessionario a risparmiare sui costi di costruzione, ad esempio non riducendo le pendenze: la linea risulterebbe più onerosa per la futura gestione statale;
l’assegnazione immediata di un sussidio al concessionario di una quota secca e forfetaria dato il corso al momento della rendita imporrebbe all’erario un costo capitale del 25% maggiore.
Seguiamolo nel suo lucido argomentare:
“L’on. Susani mi lasci proseguire: io ascoltai il suo discorso senza interromperlo… ora, signori, 80 milioni in denaro convertiti in rendita, vi danno 5 milioni di interesse; se dagli 8 milioni che, secondo i calcoli più larghi rappresentano l’interesse del costo della strada*, di falcati 3 milioni di rendita netta, che la stessa solo potrà produrre -la quale cifra, ammetto, per abbondanza, ritenendola d’assai inferiore al vero prodotto di quella strada-, rimarranno 5 milioni a carico delle finanze, che corrispondono appunto ai 5 milioni di interesse degli 80 milioni.
Corre però tra i due sistemi questa diversità, che con quello propugnato dall’onorevole Susani converrebbe alienare la rendita al depresso attuale corso di 80, mentre con quello abbracciato dal Governo, la rendita dovendosi pagare a misura del progredire dei lavori, e così, nel decorrere di anni 6, puossi nutrire speranza fondata di vedere nel frattempo rilevata d’assai e d’altrettanto in tal modo diminuito il gravame della spesa”.
*80 milioni in contanti eventualmente dati al concessionario avrebbero imposto l’emissione di cento milioni di valore nominale di cartelle di rendita. Ma il relatore ritiene che il reddito della ferrovia sarebbe comunque di tre milioni da defalcare dagli otto di costo annuale.
In questa occasione si nota come il deputato di Ventimiglia, su problemi concreti, senza pregiudizi si sia di fatto allineato su posizioni governative, sostenendo con lucide argomentazioni le tesi del governo Cavour e del ministro Stefano Jacini.
E’ iniziata quella trasmigrazione dalla sinistra all’area del governo motivata non da ragioni d’opportunismo politico ma da quella tecnicità dell’amministrazione che caratterizzerà i lunghi anni delle sue ripetute presidenze della Camera.
Il Nuovo Collegio
Il 27 gennaio e il 3 febbraio del 1861, viene eletta l’ottava Camera del Regno e prima Camera d’Italia. Il collegio di Ventimiglia fu unificato con quello di Sanremo.
Il collegio Ventimiglia - Sanremo rinascerà poi nel 1994 con il ritorno al maggioritario.
Biancheri vi sarà costantemente eletto fino al 1904.
Vi fu chi volle portare contro di lui il Mordini, ma questi scrisse una lettera ai giornali ricusando la candidatura, e propugnando quella del Biancheri che, com’egli proclamava era onore del collegio e d’Italia.
Nel 1864 gli sorse contro una candidatura locale. Divulgatosi ciò per mezzo dei giornali, molti collegi d’Italia andarono a gara per offrirgli la candidatura. Ma egli declinò l’offerta, dicendo che non voleva disertare la lotta perché sarebbe stata viltà, e che il giudizio sul suo operato dovevano darlo i suoi elettori, fiducioso che gli avrebbero reso giustizia. Lottò e vinse.
Esperienza Ministeriale
Negli anni 60 vediamo Biancheri scelto dalla Camera a presiedere varie commissioni tra le quali quella sulle ferrovie e sul caso Bastogi. Presentò un ordine del giorno (Biancheri / Mari) sulla incompatibilità tra cariche in consigli d’amministrazione di società con scopo di lucro e seggio parlamentare. Partecipò all’inchiesta sulle ferrovie meridionali che obbligò il conte Bastoni a ritirarsi dalla vita parlamentare. La difesa di Bastogi fu drammatica, parlò due giorni, gli tremava la voce. Bastogi cadde sfinito sul suo banco e la proposta della commissione fu approvata.
E’ importante il suo intervento, nel 67 nella discussione sulla legge sulla leva di mare:
accusò il Ministro di non aver fornito al Parlamento gli elementi utili per una discussione seria e approfondita:
“Il Ministro della Marineria presentò una legge nella quale si stabiliva che tutti i marinai dai 21 ai 25 anni fossero chiamati al servizio militare e poi tenuti fino all'età di 40 in congedo illimitato; domanderei al Ministro di dimostrare che ci sia bisogno di prendere tutti i marinai dello Stato, producendo dati statistici da cui risulti quanti sono i marinai in Italia e quanti invece ne occorrano; perché altrimenti non c'è modo di vedere se egli chieda soverchiamente e troppo poco. Possiamo ora votare questa legge quando ci mancano gli elementi assolutamente necessari?”.
L’esperienza ministeriale di Biancheri fu invece brevissima. Gli era stato offerto dal Lamarmora nel 65 il ministero della Marina. Rifiutò perché non era stata la sua pregiudiziale di escludere Peilon di Persano dal comando della Marina. Dopo l’infelice guerra del 66 fu ministro per brevissimo tempo dal 17 Febbraio al 10 Aprile 67 con Bettino Ricasoli. In quel brevissimo tempo aveva iniziato un’opera di riforma del ministero interrotta dalla crisi.
La Ferrovia della Val Roia
La città di Ventimiglia, dopo la cessione della contea di Nizza alla Francia, si trovava privata di gran parte del suo territorio storico e d’influenza e commercio.
La Val ROIA apparteneva storicamente alla contea di Nizza dai tempi del Regno Angioino di Provenza.
Nei trattati tra il Regno di Sardegna e la Francia si era concordata la cessione di tutta la contea; in deroga l’imperatore Napoleone III aveva fatto omaggio al re Vittorio Emanuele II del massiccio del Mercantour coi comuni di Briga e Tenda. L’alta Val ROIA era quindi italiana, la media Val ROIA, Broglio, Fontan, Saorgio francese, la foce con Ventimiglia italiana.
La città soffriva la situazione geopolitica di strangolamento.
In quest’ottica Biancheri individua la necessità di collegare la città marittima al Piemonte proprio attraverso quella Val ROIA tagliata da due confini.
Caldeggia pertanto i vari progetti che con sorte travagliata si susseguono per una linea Cuneo-Ventimiglia che sarà conclusa nei primi anni del ‘900.
Esisteva un progetto concorrente, una linea Cuneo-Nizza.
Al di là del confine, però, questo progetto suscitava perplessità per la sua possibile utilizzazione militare. Ricordiamo che i rapporti con la Francia sono guastati dagli strascichi della Questione Romana.
Dunque Biancheri approfittò astutamente di ogni qualvolta in Francia la ferrovia Cuneo-Nizza fosse messa in difficoltà dallo Stato Maggiore. Egli presentò tempestivamente il progetto della sua ferrovia, successivamente denominato dai francesi come “le Chemin de fer du Biancheri”, senza riscontrare difficoltà riguardanti la realizzazione ma entrando in contrasto con Oneglia e Porto Maurizio.
Nel 1879 si concretizzava il disegno di legge sulla costruzione della ferrovia Cuneo-Ventimiglia. Durante la discussione svoltasi il giorno 11 Giugno, gli onorevoli Celesia, Borelli e Basteris contrapponevano due proposte al progetto in questione: la prima chiedeva che a “ferrovia Cuneo-Ventimiglia” si aggiungesse “ovvero Ceva-Oneglia-Porto Maurizio”,la seconda chiedeva apertamente che si sospendesse ogni deliberazione.
Fu grazie alla tenacia dell’on. Biancheri di Ventimiglia se la legge andò in porto. Alla fine della discussione, così concludeva Biancheri: “…Io confido che la Camera vorrà respingere l’ una e l’ altra di queste proposte; ravviserei una vera sventura per quelle popolazioni che vi sono interessate, se venissero poste nella dura necessità di dover scegliere tra le due linee, o di dover aspettare ulteriori studi onde avere più tardi e chi sa quando, una decisione. E’ dovere, nonché carità di patria, è dovere del Parlamento di distruggere qualsiasi lievito di dissidi; è dovere del Parlamento di dare il suo giudizio su queste posizioni, quando ad esso sono sottoposte; e di darlo in modo, che il giudizio stesso sia definitivo.
Stimerei una vera sciagura, o signori, per quelle popolazioni, se voi voleste tenere in sospeso la soluzione della questione, che oggi qui si agita, poiché potrebbe diventare un elemento di discordia fra esse, unite da vincoli di affetto reciproco. Ond’è , ch’ io prego e supplico nuovamente la Camera a voler respingere qualsiasi proposta sospensiva; la Commissione ha giustamente osservato nella sua relazione, che la peggiore delle soluzioni , che possa darsi ad una questione, è quella di tenerla in sospeso. E poi, a che pro una proposta sospensiva? Ma il Governo ha detto qual è la linea che presceglie; la Commissione ha pure espresso il suo avviso: vi sono gli studi, vi sono tutti gli elementi per decidere, forse più di quanto non ve ne siano per molte altre linee. A che pro dunque la proposta sospensiva? Per avere un’ulteriore deliberazione del Governo? Ma il Governo ha già deliberato. Per avere un’altra deliberazione della Commissione?. Ma la Commissione ha pure essa deliberato. Quindi è che la proposta sospensiva non potrebbe far altro che produrre i più fatali effetti materiali e morali, senza che potesse menomamente giovare ad alcuno.
Signori, io vi chiedo dunque di respingere ogni proposta contraria alla ferrovia Cuneo-Ventimiglia, e vi chiedo di approvarla perché col vostro voto, o Signori, voi porgerete una mano fraterna a delle popolazioni, che non hanno dimenticato l’Italia, e che l’Italia certamente non potrà mai dimenticare.
Voi darete prova di simpatia e d’affetto a quelle popolazioni che già vi furono unite; affetto e simpatia che un doloroso distacco può far tacere, ma spegnere mai nel vostro cuore.
Signori, io vi chiedo un voto favorevole a questo progetto; poiché voi verrete così a manifestare la vostra affezione a delle popolazioni, che circostanze dolorose per l’Italia hanno collocato in una poco lieta condizione: a popolazioni che, poste in mezzo ad un incerto ed insidioso confine, tengono alta e onorata la bandiera d’Italia, serbano caro il santo affetto alla Patria.
Voi darete un pegno d’affetto a quelle popolazioni, e le incoraggerete, poiché esse sanno che l’Italia ha loro affidato una missione; ed io vi accerto, o signori, che esse sapranno sempre degnamente adempirla. Il votare questo progetto sarà incoraggiare a persistere nel loro patriottico impegno; il negarlo, permettete che io ve lo dica, sarebbe indebolirle, ed indebolirle, sarebbe indebolire voi stessi, sarebbe dir loro che voi disapprovate il modo dignitoso, nobile e patriottico che sanno tenere. Ond’ io non dubito punto, o signori, che voi darete loro questa prova di simpatia e di affetto. Io ve lo chieggo in nome d’Italia, ve lo chieggo in nome di un interesse supremamente nazionale.
Sono ormai quasi trent’anni che io seggo in Parlamento; pochi forse ci troviamo qui ad aver percorso insieme la carriera parlamentare subalpina; molti invece mi conoscono dacché felicemente ci siamo uniti nella grande famiglia italiana; ma tutti potranno farmi fede come io non abbia mai alzato la voce, se non per chiedere quello, che sentivo essere conforme agli interessi della nazione. E oggi più che mai, per la gravità dell’interesse che mi occupa, io oso ancora alzare questa voce e dirvi: Signori, date il vostro voto favorevole a questo progetto, perché è l’interesse d’Italia che lo richiede. Io, non solo confido, ma permettetemi che me ne tenga certo. Poiché non vorrete negare questa prova di benevolenza e di affetto alle popolazioni, in nome delle quali io vi prego”.
Biancheri aveva già esperienza per quanto riguarda le comunicazioni, specificatamente fra Ventimiglia e l’entroterra.
Il suo primo approccio con la rete ferroviaria avvenne a cominciare dal1857 nel Parlamento Subalpino, quando vi presentò un progetto trattasi l’emendamento ad un disegno di legge del Governo che riguardava i collegamenti tra il litorale ligure con l’allora capitale del regno, Torino. Molti parlamentari presentarono i loro emendamenti e tra questi passò quello riguardante la linea ferroviaria che da Torino giungeva a Savona, ma non era una linea sicura perché troppo spesso soggetta ad allagamenti in quanto realizzata sul fiume Tanaro. Al momento in cui il 29 Maggio 1860 il Parlamento Subalpino si occupò della cessione della Savoia e della Contea di Nizza alla Francia, Biancheri era della Sinistra e assieme ad altri 33 Parlamentari, Depretis e Zanardelli votò contro la cessione. La cessione passò e subito dopo Biancheri disse astutamente: “Le comunicazioni con Nizza hanno un confine di mezzo e quindi cerchiamo di fare qualcosa che interessi a noi”. Così nel 1862 ottenne un finanziamento di un milione per realizzare la strada che da Ventimiglia doveva andare verso l’ interno. A causa delle questioni geopolitiche, le quali consistevano nel fatto che Ventimiglia fosse appartenuta per secoli a Genova e che i rapporti con la Val ROIA fossero praticamente inesistenti, non esistevano ancora comunicazioni comode tra Ventimiglia e la Val ROIA ma solo un piccolo sentiero. Quindi Biancheri propose il progetto di questa comunicazione, portato a compimento nel 1891. La ferrovia non scendeva a Ventimiglia e andava a Nizza, perché quest’ultima era stata per quattro secoli il porto esclusivo dei possedimenti dei Savoia dunque si erano formati rapporti molto stretti e questo giustifica l’interesse dei Savoia affinché questo itinerario fosse ammodernato il più possibile. Il suddetto itinerario, realizzato prima del 1600, quando venne spostato a fondo valle, era miserabile, disadorno….passava nell’alta Val Roia, quindi da Briga e Saorgio, per giungere infine a Nizza. Bisogna ricordare che era molto trafficato in quanto il commercio in quella zona era notevolissimo perciò era frequentato da migliaia di muli che trasportavano ogni genere di mercanzie, per lo più di ordine alimentare. Dunque era necessario inventare un rapporto che collegasse Ventimiglia all’interno della Liguria e al Piemonte. Nel 1860 Nizza passò alla Francia e i rapporti tra Italia e Francia iniziarono ad appesantirsi, in seguito anche alla guerra doganale, alla questione di Tunisi, al disastro di Aigues Mortes nel 1883 e alla Triplice Alleanza dove l’Italia abbandonò le antiche alleanze con la Francia. Tutto concorse alla nascita della presenza importantissima dello Stato Maggiore quando si cominciò a discutere di ferrovie. Lo Stato Maggiore sostenne la pericolosità della ferrovia per la Francia, ma Biancheri, uomo astuto, propose la linea che da Cuneo scendeva al mare per la via Nervia come soluzione al problema dei piemontesi concernente il loro passaggio in Francia anziché solo in Italia per poter andare al mare.
La linea avrebbe dovuto bucare il colle di Tenda poi spostarsi ad Est, sbucare in Val Nervia e infine scendere fino a Ventimiglia. Questa però non era più la ferrovia che i piemontesi e i nizzardi volevano perché passare per la Val Nervia diventava un giro troppo lungo. Ma a Nizza si sosteneva con forza la realizzazione di una comunicazione diretta con Cuneo in quanto, è da ricordare, che era quasi esclusivamente a Cuneo dove si approvvigionava di generi alimentari. Quindi i nizzardi pensarono a un secondo progetto, che andò a sommarsi con quello di Biancheri. Si trattava appunto di una linea che non passasse per Ventimiglia e che avesse Nizza come capolinea. Non erano previste diramazioni, nonostante i due progetti avessero un tratto in comune fino a Breil. Nel 1879 Parigi e Roma si trovarono stranamente concordi e elaborarono due leggi che stabilirono la costruzione di 6000 chilometri di nuove ferrovie e Biancheri, ascoltato uomo di potere con importanti conoscenze, riuscì a far inserire la sua linea (che da Cuneo portava a Nizza passando per Ventimiglia e il Colle di Tenda) nel progetto elaborato a Roma a riguardo della ferrovia che da Cuneo portava al mare.
In quella che era l’Italia dei notabili, dove ognuno tirava acqua la suo mulino, non potevano mancare Basteris, Celesia e Borrelli a creare ostacoli. Le conclusioni furono che si sarebbe realizzata una linea ad Ormea e una comunque fino a Ventimiglia. Biancheri, supportando appassionatamente la “sua” ferrovia, disse, senza fornire prove, che il Governo francese era d’accordo a far passare la ferrovia per Saorgio, garantendo che era facile da Cuneo arrivare al mare a Ventimiglia, mentre era molto complicato arrivare a Porto Maurizio. Fu così che suscitò le antipatie di molti e si crearono forti contrasti oltre che con Oneglia anche con Porto Maurizio. Ma la metà da raggiungere non era Porto Maurizio bensì Nizza e in questa causa Biancheri ricevette l’appoggio anche di Depretis. Si giunse infine al voto.
Il Presidente della Camera Farini disse: “ Allora siete tutti d’accordo su quanto ha proposto la Commissione e il Governo e cioè la linea Cuneo-Nizza per Ventimiglia e per il Colle di Tenda? Chi è d’accordo si alzi ”. Tutti si alzarono, compreso chi sino a quel momento aveva avuto idee contrarie. La legge entrò dunque in vigore e nel 1883 venne finalmente realizzato il primo tatto Cuneo-Gesso verso la frontiera. Nel frattempo la Francia temendo un possibile attacco italiano agevolato dalla nuova linea, aveva già cominciato la costruzione d’alcuni forti, i sette Forti di Tenda, a propria difesa. Dunque il 30 Ottobre 1928, giorno successivo all’inaugurazione della ferrovia, la galleria di Berge e quelle dopo Breil furono presidiate da militari per lungo tempo, a testimonianza dei cattivi rapporti italo francesi. Solo quando si arrivò alla conclusione che sarebbero state costruite due ferrovie i rapporti migliorarono, ma solo temporaneamente. Il progetto era di costruire la cosiddetta “Stella di Breil” che da Cuneo sarebbe arrivata a Breil, dove si sarebbe successivamente ramificata in due braccia: una scendeva a Nizza e l’altra a Ventimiglia.
Ma quando Biancheri seppe che stava per nascere questa ferrovia continuò la sua battaglia di facciata dicendo: “Io voglio ancora la ferrovia che passi dalla Valle Nervia”. Quando poi Giolitti riuscì a combinare i rapporti tra le ferrovie dei due stati, e Biancheri seppe con certezza che la una linea sarebbe venuta a Ventimiglia si acquietò e dimenticò il progetto Nervia.
La Presidenza
Nella seduta del 12 marzo 1870 Giuseppe Biancheri fu eletto Presidente della Camera.
La sua elezione fu il risultato di un compromesso: la Destra ritrovò la sua unità sul nome di Biancheri che godeva anche di parecchie simpatie presso la Sinistra, dai cui banchi aveva esordito come giovanissimo parlamentare.
L'elezione di Biancheri scaturì da una scelta completamente politica, tuttavia un problema si pone all'attenzione: comprendere le ragioni per le quali venne rieletto Presidente della Camera (carica che veniva rinnovata all'inizio d’ogni sessione e non all'inizio d’ogni legislatura, come oggi) per ben sedici volte.
La scelta di Montecitorio
Quando il 5 dicembre 1870 Biancheri fu eletto per la terza volta a Firenze Presidente della Camera, si trovò subito coinvolto nel dibattito in corso sulla sede della Camera nella nuova Capitale.
Il trasferimento della capitale da Firenze a Torino si rivelava molto laborioso. Mancavano i locali per gli uffici. Una commissione della Camera presieduta da Biancheri, fu la prima a recarsi a Roma.
Il primo gennaio visitò il Palazzo di Montecitorio che era stato sede del governatore di Roma. Il cortile del Palazzo apparve subito adatto ad essere trasformato in aula parlamentare. Nelle discussioni seguenti Biancheri opterà per la scelta di Montecitorio, escludendo le sedi concorrenti di Palazzo Colonna e Palazzo Venezia.
Si trovò coinvolto non tanto sugli aspetti della conformazione tipologica, strutturale e funzionale di un nuovo edificio da progettare e costruire -dove ospitare il ramo della rappresentanza nazionale- perché l’urgenza del trasferimento di quest’ultimo si opponeva chiaramente all’elevazione di una sede ex novo.
Non fu quindi una soluzione globale d’architettura parlamentare che Biancheri fu costretto ad affrontare, ma una parziale e cioè quella dell’adattamento alle funzioni parlamentari di un edificio già esistente.
Per quanto riguarda la designazione di una sede a Roma, fin dall’ottobre il Sella aveva individuato tale sede per ambedue le Camere nel Palazzo Venezia, allora residenza dell’Ambasciatore d’Austria presso la Santa Sede, scelta perché la disponibilità avrebbe fatto sparire l’eccezione derivante dall’esistenza di un’aula provvisoria per la Camera a Montecitorio e con essa l’inconveniente della distanza fra i due corpi legislativi.
I tentativi di Sella di acquistare Palazzo Venezia caddero tuttavia nel vuoto. Il fatto è che non era opportuno per la Monarchia Asburgica incrementasse ulteriormente l’attenzione assai viva dei cattolici d’Austria dopo la denuncia del Concordato con la Santa Sede del 30 luglio con un altro atto indisponente, quale la vendita allo Stato italiano di Palazzo Venezia.
Nella stampa italiana la notizia dell’acquisto di Palazzo Venezia stava circolando fin da ottobre tanto da indurre l’Ambasciatore d’Austria presso la Santa Sede a richiedere al Cancelliere e Presidente del Consiglio Bois un suo intervento presso il collega Trautmanstolf a Firenze perché provvedesse a smentire tale affermazione.
Lo stesso Trautmanstolf sosteneva che nelle presenti circostanze la vendita di Palazzo Venezia al Governo italiano agli occhi del Partito Romano Clericale e del Vaticano avrebbe assunto il significato di una dimostrazione politica che avrebbe pregiudicato ogni atto politico, nonché una dimostrazione offensiva verso il Papa, in aperto contrasto con il tradizionale atteggiamento della Corte Imperiale.
La sollecitudine con cui il Governo si prodigava nella scelta della futura scelta della Camera, suscitò una certa perplessità nella Presidenza della Camera, anche perché con lo scioglimento della legislatura del 16 ottobre, in considerazione degli affievoliti poteri della Presidenza della stessa Camera, si rafforzava l’impressione che il Governo volesse pervenire ad una decisione senza il concorso e l’intervento della medesima.
Biancheri - subito dopo la sua rielezione - alla vigilia della discussione del progetto di legge sul trasporto della Capitale a Roma, indirizzò il 20 dicembre una lettera al Presidente del Consiglio Lanza, in cui si ribadiva la potestà della Camera di poter decidere in assoluta autonomia sulla scelta della sede più opportuna per lo svolgimento della propria attività in Roma.
Durante il dibattito su quel disegno di legge fu attirata in aula l’attenzione del Presidente su di una particolare questione d’architettura parlamentare, di cui il promotore Nichelini si era già occupato senza esito alcuno durante l’esame della proposta di legge.
La questione consisteva nella raccomandazione al Governo di conferire la nuova sede a Roma dell’aula della Camera non la forma di un emiciclo, ma una forma quadrilunga sul modello del Parlamento inglese.
Michelini fu ripetutamente interrotto da grida di colleghi che gli rimproveravano la natura tecnica -e non politica- della sua richiesta; egli replicò dicendo: “ Essa è una proposta eminentemente politica, perché siccome tende a far scomparire il centro, anzi i centri, è eminentemente politica”.
Per Aristide Calani, il fondatore della Zecca di Torino, che aveva definito Nichelini “Uno dei deputati più indipendenti che esistono alla Camera”, fu una proposta politica tendente a contrastare l’abuso del trasformismo e dell’opportunismo.
Biancheri scriverà nella lettera del 31 gennaio 1871 a Michelini: “Ad imitazione di quanto succede in Francia, dalla quale Nazione abbiamo preso, di seconda mano il reggimento costituzionale”
Michelini rispose: ” I deputati soglionsi dividere in più parti politiche; oltre a destra e sinistra ave centro, centro destro e centro sinistro; trovano comodi seggi coloro che opinioni politiche non hanno; da questo frazionamento proviene una confusione, poco giovevole a buone deliberazioni; molto meglio procedono le cose nel Parlamento inglese, dove non sono che destra e sinistra, anzi sono ignote tali denominazioni chiamandosi ministeriali quelli che siedono sui banchi detti della tesoreria e membri dell’opposizione quelli che lo combattono e seggono a sinistra”.
Grande ammiratore delle istituzioni inglesi, Michelini riecheggiava nella sua insistenza per una futura aula quadrangolare, le considerazioni fatte vent’anni prima ma redatte verso la fine del 1849, da Cesare Balbo. Questi, aveva già sostenuto precedentemente: “Anche materialmente le parti del parlamento inglese non sono e non possono essere se non due; le camere materiali (o sale) in che si adunano i pari e i deputati, sono edificate nella forma quadrilunga delle antiche basiliche; così i membri seggono per forza tutti a destra oppure a sinistra. […] Tra noi prevalse quell’infelice architetture semicircolare […] che ha tra seco un primo inconveniente: d’essere forma teatrale; quello poi molto più grave è di dar luogo a quei centri […] quasi rosa di venti e di tempeste. Questa pianta architettonica fu error peggiore e danno parlamentare che non molte altre politiche ignoranze; non avremo mai buoni parlamenti […] finché siederemo in questi teatri semicircolari”.
Conseguenza diretta di una non palese distinzione in aula tra le parti era dunque, secondo Balbo, l’ingovernabilità. A tale rapporto di causalità tra la forma quadrilunga dell’aula, sostenuta dal Balbo e dal Nichelini, e la genesi di una distinzione istituzionale tra destra e sinistra sono state opposte argomentazioni che ridimensionano la validità di tale interpretazione.Non è sostenibile che la configurazione topografica abbia imposto la struttura rigorosamente binaria tra maggioranza ed opposizione. Il bipartitismo inglese può quindi essere considerato non l’effetto della configurazione architettonica del Parlamento, ma il risultato della composizione del corpo elettorale e soprattutto del sistema maggioritario ad un solo turno; sicché il parallelismo tra bipartitismo e struttura dell’aula deriva da un accidente storico, trasformato solo successivamente in un simbolo significativo della contrapposizione tra governo ed opposizione.
L’iniziativa del Balbo e del Michelini non ha prodotto nulla, tant’e’ che subito dopo la scelta di Montecitorio (1871) da parte della presidenza della Camera, con l’approvazione del progetto Comotto, fu stabilito che l’aula dovesse avere la forma dell’emiciclo, sulla base del modello francese. La richiesta di una diversa struttura parlamentare avanzata dal Michelini incontrò l’avversione non solo del Biancheri della camera, per una naturale tendenza contro un mutamento che avrebbe infranto una tradizione inaugurata con il Parlamento Subalpino, ma soprattutto di Geremia Bentham, il più autorevole esperto di procedura parlamentare dell’epoca, il quale pur essendo inglese, aveva apertamente dichiarato di preferire una forma dell’aula del tutto diversa da quella del suo stesso paese.
Garibaldi
Il 25 gennaio del 1875, Garibaldi è a Roma, è deputato del quinto collegio, ma non entra in aula dalla seduta del 18 aprile 1861. Il clima è teso, si discute una proposta di Cairoli. Entrerà in aula Garibaldi? Giurerà? Giurerà con riserve? Si apre la seconda porta del corridoio, entra Garibaldi sulle grucce, col poncio e il berretto ricamato. Dalle tribune, un solo grido: “Viva Garibaldi!!”. Biancheri intima la calma. Garibaldi chiede tramite il deputato Macchi il permesso di restare col cappello. Il Presidente con gran disinvoltura dice: “Essendo presente il deputato Garibaldi, l’invito a prestare giuramento” e ne legge la formula rituale. Silenzio, attesa… “Giuro!”.
Sappiamo che i rapporti personali fra i due erano ottimi. Entrambi avevano votato contro la cessione di Nizza. La vigila della partenza da Quarto i due si erano incontrati e informati sulla situazione generale.
1876, Nuova prassi
La rivoluzione parlamenta re che porta al governo Depretis, segna un’importante innovazione nella prassi parlamentare.
Infatti, sino a quella data il presidente della Camera votava, come gli altri deputati.
Il 18 marzo Biancheri aveva votato la proposta Minghetti di sospensiva su una risoluzione presentata dalla Sinistra.
La sospensiva fu bocciata, il Governo cadde. Biancheri ne trasse le dovute conclusioni:
“ho votato un documento che è stato battuto: quindi mi sono comportato come esponente di quella maggioranza; sono sconfitto e mi dimetto”.
Cambiato governo, il 29 marzo presenta le dimissioni da presidente della Camera, ma Depretis chiede all’ assemblea di non accettare quelle dimissioni per dare un segno di un diverso sistema di scelta delle persone degli uffizi presidenziali. È chiaramente nella linea del trasformismo nel suo senso alto. Biancheri viene confermato all’unanimità dichiara che da quel momento non parteciperà alle votazioni come segno del mutamento della funzione presidenziale. Quest’innovazione è entrata e permane nella prassi parlamentare.
1887 Il terremoto
Nel 1861, in conseguenza della cessione di Nizza alla Francia, viene istituita la Provincia di Porto Maurizio, che assumerà il nome di provincia d’Imperia negli Anni Venti del XX secolo. Bischeri ne è presidente ininterrottamente sino alla morte. Era prassi nel secolo XIX unire la carica elettiva locale a quella parlamentare: quest’uso continua a valere in Francia dove è tipica la figura del “Député-maire”.
La legislazione italiana tende invece a segnare le incompatibilità.
Tra gli episodi che videro Biancheri protagonista, ricordiamo quello del tragico terremoto del 1887, verificatosi nella riviera di Ponente, che comportò la distruzione pressoché totale del centro di Bussana Vecchia.
Il Sindaco di Genova, la mattina successiva al disastro, aveva inviato generi di prima necessità ai comuni di Noli e San Remo, i primi di cui ebbe notizia. Egli stesso s’incaricò di organizzare una sottoscrizione in favore dei paesi terremotati, che fu aperta con le donazioni del Magistrato della Misericordia e della Contessa Pallavicini.
La Prefettura di Genova inviò medici ed assistenti sanitari.
Torino costituì un comitato per i soccorsi il 27 febbraio e la Giunta Comunale inviò 10000 lire. A Roma il Sindaco disponeva di convertire il comitato nazionale per i colerosi in comitato nazionale per i terremotati liguri.
Lo scrittore Edmondo De Amicis, onegliese, scrisse un commovente appello agli italiani. Gli aiuti pubblici e privati si moltiplicarono.
Ma alle prime e inderogabili esigenze si aggiunsero problematiche più complesse: vi erano orfano, vedove, feriti, molte famiglie non erano più in grado di mantenersi; inoltre le case erano distrutte, i beni immobili erano andati in fumo; le attività commerciali e agricole erano bloccate a tempo indeterminato.
Anche i servizi pubblici erano lontani dall’essere funzionanti: occorreva ripristinare al più presto scuole, ospedali, asili, ricoveri e carceri.
Fino ad allora lo Stato aveva solo curato la prima emergenza. Infatti, il Ministro dell’Interno aveva fatto pervenire solo 15000 lire per i primi soccorsi alle Prefetture di Genova e Imperia.
Il sindaco di San Remo, Asquasciati, aveva telegrafato al Ministro per ottenere nuovi finanziamenti; anche Biancheri aveva raccomandato tale richiesta, tant’è che il Ministro rispose subito, consigliando le procedure più veloci per ottenere ulteriori finanziamenti.
Biancheri nel telegramma così si rivolse al Sindaco di San Remo: “Preg.mo Sig. Sindaco, ricevetti il suo telegramma e mi affrettai ad occuparmi del contenuto dello stesso; il Comitato Centrale di Roma ha spedito 30000 lire al Prefetto di Porto Maurizio; ieri ha nuovamente spedito 30000 lire e oggi spedisce, per mezzo della Banca Nazionale, altre 40000 lire; con questa somma di 100000 lire pare si possa provvedere ai bisogni più urgenti; il Prefetto sa inoltre che si possono chiedere al Governo altri mezzi; debbiasi dunque di intendersi con lui, poiché è necessaria l’unità d’azione e io non posso chiedere provvedimenti staccati”.
Il telegramma è datato 5 marzo 1887 e testimonia come Biancheri fosse attivo, soprattutto per ottenere interventi di lunga durata. Egli, infatti, si adoperò per la rapida stesura di una legge a favore dei terremotati liguri, il cui disegno venne presentato alla Camera il 10 marzo, subito dopo la sua riapertura al termine della crisi di Governo.
Biancheri fu il principale mediatore di questa legge, esponendo la principale esigenza delle genti dei luoghi colpiti: iniziare quanto prima la ricostruzione. Le richieste di cui si fece portavoce allora l’unico giornale che ancora riusciva ad essere stampato, “La Provincia Di Porto Maurizio”, erano estremamente lucide e serie, sostenute da valide analisi della situazione e delle prospettive future. Si coglie la generale aspirazione a voler ripristinare al più presto le condizioni economiche che caratterizzavano il Ponente ligure prima della calamità naturale.
Il panico aveva fatto scappare quasi tutti gli ospiti già all’indoman
i del terremoto, ad eccezione di pochi generosi stranieri che si erano impegnati nei soccorsi. Era dunque urgente rimuovere le macerie, abbattere gli edifici pericolanti e ricostruire case nuove e più sicure. Si giocava, con la ricostruzione, il futuro delle città colpite. Era perciò cruciale la legge che il Governo si accingeva a varare.
Il 10 marzo Biancheri aprì la seduta parlamentare con all’ordine del giorno il progetto di legge cui si è accennato poco sopra. Ne era relatore Depretis medesimo che, illustrando la situazione delle terre di Liguria, motivò la serie di onerosi provvedimenti legislativi con l’eccezionalità della situazione, ed accolse in toto le richieste dei Comuni terremotati.
La relazione riassumeva in quattro punti i provvedimenti da attuare:
· Un sussidio a fondo perduto per i terremotati
· Alcune disposizioni d’esonero, sgravi e sospensioni d’imposta
· Un sistema di prestiti che miri ad iniziare la ricostruzione e le riparazioni che occorrono per evitare alle genti rivierasche l’abbandono delle loro consuete dimore
· Alcune agevolazioni a Comuni e Province per la ricostruzione degli edifici pubblici
Per i prestiti ad enti pubblici venne previsto un sistema di prestiti al 3%da estinguersi in 25 anni decorrenti a partire dai primi cinque anni dopo il sisma
Per i prestiti ai privati veniva posta come tetto massimo l’ingente somma di 20 milioni, alla quale accedere con mutui ipotecari a tassi agevolati per 25 anni decorrenti, anche in questo caso, dopo i primi 5 anni dalla tragedia.
Il Presidente del Consiglio Depretis concludeva raccomandando ai deputati l’approvazione della legge, ritenendo che i provvedimenti proposti fossero relazionati alle eccezionali esigenze della situazione, avvertendo che l’onere per lo Stato non era da ritenersi eccessivo, considerando che l’investimento statale mirava a conservare e ravvivare cespiti produttivi d’imposta di una delle più operose regioni italiane.
Biancheri e gli altri deputati liguri, dopo aver sollevato alcune polemiche riguardanti la parte economica della legge, lavorarono ad un suo miglioramento.
Si riunirono anche in un comitato con presidente Paolo Borselli per elaborare una linea comune per la discussione della legge. Biancheri partecipò a tutte le riunioni del gruppo, ed il 13 marzo guida al delegazione che andò a trattare col Governo.
Il presidente del consiglio Depretis gli promise di riesaminare la legge, ma all’interno del Governo vi era chi riteneva eccessivi i finanziamenti a favore della Liguria e vi era anche chi tendeva a minimizzare l’entità dei danni. Nel corso della discussione alla Camera, l’On. Magliano, che era al Ministero del Tesoro, motivando le sue richieste di riduzione con le condizione non floride delle casse statali, e minimizzando la gravità della situazione, provocò la decisa reazione di Giuseppe Biancheri che minacciò di scendere dal suo seggio di Presidente della Camera per combattere la spilorceria del Governo nei confronti della situazione ligure.
Un giornale dell’epoca riferisse che Biancheri era ospite di Depretis e mentre discuteva con l’antico collega della politica generale, non mancò di portare all’attenzione del presidente del consiglio la questione del terremoto.
Invocava un aiuto il più sollecito possibile.
Con ragioni opposte a quelle presentate dal Biancheri e dagli altri deputati liguri, intervenne alla camera il Segretario Generale Morana, chiamando PRETESE le richieste dei suoi colleghi.
Il Presidente della Camera ebbe pazienza per qualche tempo; poi s’indispettì e disse che non avrebbe più accettato tali contestazioni gratuite. Il diverbio si fece più acceso quando il Morana, accusato di non conoscere né i luoghi né i danni, mise in dubbio anche l’operato del Ministro dei LLPP Genale e annunciò un personale viaggio in Liguria per constatare l’entità dei danni.
Anche Biancheri partì della Liguria approfittando di un periodo di sospensione dell’attività parlamentare. Nel mese che lo separava dalla riapertura della camera (18 aprile) si occupò principalmente delle incombenze che il terremoto aveva sollevato in Provincia. In quel periodo, infatti, egli era Presidente del Consiglio Provinciale di Porto Maurizio.
I dati delle vittime e dei feriti davano la misura ingente del disastro: 658 morti, di cui 597 nella sola provincia di Porto Maurizio, e più di mille feriti. Tra i comuni più colpiti ricordiamo Diano Marina, Bussana e Baiardo.
Era dunque urgente l’approvazione del disegno di legge che avrebbe fatto arrivare ai terremotati il primo milione e mezzo di lire (quello a fondo perduto).
Alla riapertura delle Camere Biancheri sollecitò più volte l’approvazione della legge, che venne approvata il 31 maggio 1887, con il numero 4511. In essa si stabilivano oltre all’entità dei sussidi (articolo primo), anche gli esoneri sulle imposte dei fabbricati e le sospensioni d’imposta per quelle dei terreni, che era stata una delle prime richieste dei Deputati liguri e del Biancheri.
Risultava cruciale ai fini della ricostruzione l’articolo 5, che autorizzava l’espropriazione a fini pubblici e la predisposizione di piani regolatori.
Altrettanto importante, infine, fu l’articolo 17, che stabiliva la creazione di una Commissione Reale, che avrebbe avuto l’incarico di:
· dare il proprio parere per proposte e decreti
· redigere i regolamenti d’attuazione
· dare il proprio parere sulla ripartizione dei sussidi e dei mutui
La Commissione ebbe un ruolo fondamentale per l’attuazione della legge; a presiederla venne chiamato Giuseppe Biancheri; questa volta non era un incarico meramente onorario, ma di fondamentale importanza, in quanto dal suo operato sarebbe dipesa l’efficacia della 4511.
Biancheri vi si dedicò con responsabilità e impegno, come possiamo notare anche dalle 300 pagine di relazione finale, redatta dallo stesso Presidente e data alle stampe nel 1893.
La Commissione era composta di 12 membri. I loro lavori iniziarono il 18 giugno 1887 su tre iniziali compiti:
· verificare l’approvazione degli esoneri e degli sgravi sulle imposte dei fabbricati e sulla ricchezza mobile
· fornire pareri sui regolamenti esecutivi della 4511 e su eventuali dubbi interpretativi
· elaborare un regolamento che stabilisse le classi di priorità per l’accesso ai sussidi
I Comuni ammessi ad usufruire della legge furono 71 nella Provincia di Genova, 106 nella Provincia di Porto Maurizio e 59 in quella di Cuneo.
La Commissione fornì inoltre un parere sui nuovi canoni antisismici da seguire durante la ricostruzione.
I sismologi Taramelli e Mercalli avevano infatti rilevato una grave insufficienza nei metodi di costruzione nel Ponente ligure. Le loro indicazioni furono raccolte nel regolamento per l’esecuzione dell’articolo 17.
Il momento certamente più importante per l’attività della Commissione fu il suo viaggio nei luoghi terremotati, avvenuto nell’ottobre del 1887.
Questa visita aveva lo scopo di verificare la situazione prima di arrivare a provvedimenti a carattere definitivo. L’intento del gruppo guidato da Biancheri era quello di chiarire le modalità d’intervento statale e di raccogliere suggerimenti dalle istituzioni e dalle genti del luogo.
Per Biancheri il viaggio fu momento di gran commozione; egli stesso scriveva :
“ E’ superfluo qui ricordare la dolorosa impressione portata davanti a tante rovine, alla vista di tanti paesi una volta fiorenti, ora ridotti ad un cumulo di macerie; la commissione non aveva certamente bisogno d’eccitamenti per procedere nel suo lavoro, ma non v’è dubbio che lo spettacolo di tante famiglie malamente alloggiate in anguste e sconnesse baracche fece riconoscere la necessità suprema d’urgenti provvedimenti, diretti ad assicurare il ricovero a numerose famiglie per l’imminente stagione invernale”.
Dai Sindaci e dai cittadini emersero alcuni problemi che ostacolavano la ricostruzione e l’accesso ai mutui; la Commissione promise di studiare soluzioni e infatti propose al Governo la modifica di due aspetti:
· la prova di proprietà necessaria alla concessione di mutui, dovendo essere corredata da un numero eccessivo di documenti, impediva la loro totale acquisizione. La Commissione propose di accettare come prova unica e sufficiente il possesso legittimo della casa da oltre un anno
· le proprietà indivise, molto frequenti nei comuni liguri, impedivano l’accesso ai mutui in quanto la richiesta doveva essere presentata da tutti i proprietari. La Commissione chiese l’ammissione al mutuo anche se la domanda era presentata da un solo proprietario a nome di tutti
Tutti i suggerimenti della squadra d’inchiesta guidata da Biancheri confluirono nella legge 5447 del 19 giugno 1888 e nel regolamento d’esecuzione allegato, datato anch’esso 19 giugno e redatto dalla Commissione medesima.
Superate le principali difficoltà la legge iniziò ad essere fruttifera per i Comuni colpiti: 86 Comuni della provincia presieduta da Biancheri ebbero accesso ai prestiti a basso tasso per la realizzazione delle opere pubbliche più urgenti, quali ricostruzione d’edifici pubblici e strade.
Diano Marina iniziò a redigere il nuovo Piano Regolatore che ridisegnava un nuovo paese all’insegna della sicurezza, sulle rovine del precedente.
Bussana aveva invece preso la sofferta decisione di abbandonare l’antico sito per riedificare il nuovo paese più a valle. Sette anni dopo il sisma, con una processione in occasione della Domenica delle Palme, la comunità abbandonò definitivamente il vecchio paese per trasferirsi nel nuovo
Nel dicembre 1887 ritroviamo i primi stranieri a San Remo, segno di una rassicurante ripresa.
Molti avevano collaborato al fine di risollevare al più presto queste terre, fra questi ha certamente un posto d’onore Giuseppe Biancheri.