Scrive dunque l'autore nella sua DISSERTAZIONE:
"[TRADUZIONE DAL LATINO]L'uomo, appena nato, più d'ogni altra creatura abbisogna del soccorso dei genitori: e la setssa natura, essendone Tullio Cicerone dotto testimone, si adopra ad eccitare proficuo amore nei parenti verso la loro prole. Profondo amore verso i propri figli e delicati sentimenti, intrisi di profondissima dedizione, sembrano in ogni tempo vieppiù eccitare entro l'animo genitori ogni preoccupazione onde salvaguardare i propri nati. La natura stessa daltronde sembrò prodigarsi, lungo un'infinita serie di anni, a rendero dolcissimo per le madri il compito di allattare. Ed il latte materno, sopra ogni altro alimento, è quello che giova all'infante, fortificandone il corpo e favorendone l'armonico sviluppo. Giammai si potrà intendere sino a qual punto l'uso scriteriato di razionalità ed utilitaristico intelletto abbia potuto consumare il naturale istinto di tante giovani madri, in che modo, proprio mentre gli altri esseri animati giammai si astennero dall'alimentare da sé i propri cuccioli, proprio gli uomini, che tanto s'affannano a predominare sulla natura, per quanto richiamati da natura, buon senso e dovere al proprio uffizio, abbiano finito per abdicare dal compito sommo verso la prole e per dar da nutrire i propri infanti a mercenarie nutrici.
Chi mai, tra i nostri avi avrebbe mai potuto credere che in questi nostri tempi le donne, ignorando sia i precetti della natura che i pericoli del vivere che, ancora, i tanti esempi di animali feroci che ai propri cuccioli offrono le poppe del seno, risultassero tanto dissennate da far sì che i figli loro potessero venir cresciuti lontano dalla loro custodia? Del resto tutti gli esseri animati concedono soltanto ai cuccioli loro il proprio seno ed a nessun altro. E allora, donde deriva questa ignominosa umana consuetudine? Una volta solo quando la madre era senza latte od era morta subito dopo il parto pareva doversi far allevare un infante da altra donna: e non sussisteva eccezione a questa norma. Se leggiamo le storie antiche, e valgano qui per tutti gli esempi delle donne Greche e Romane, ben apprendiamo che le antiche, davvero degne d'esser dette madri, immantinente scoprivano il petto per dar nutrimento ai propri figli. Così, presso i greci antichi, quasi eran venerate le donne che crescevano col loro latte la prole ed al contrario venivano quasi disprezzate quelle non volevano ottemprerare a siffatto sacro dovere. Gli stessi Romani imponevano che i piccini venissero nutriti dal seno materno piuttosto che da quello, mercenario, di nutrici comprate dal denaro. Ed altresì ci è dato scoprire che nemmeno le donne più nobili o potenti si siano astenute da tal pietoso obbligo: fu questo il caso di Filacilla, nobile moglie dell'imperatore Teodosio, che col succo del suo seno crebbe il figliolo Ottorio ed a tal stregua si comportò l'antica Cornelia madre dei Gracchi. E tanti altri illustri esempi potremmo qui citare, su cui peraltro in un dotto libro di storie, autore il grande Tacito, si legge a guisa d'onorifica citazione: "il proprio infante ciascuno voleva che crescesse, non nella stamberga d'una nutrice vendutasi al miglior offerente, ma al caro seno della propria madre, quietamente riparato dal tepore del grembo di lei, della Domina per cui lode massima era d'aver custodito la casa e direttone con giustezza i servitori". Peraltro bisogna sapere che se ad ogni piè sospinto si mentovava tra gli antichi la professione di "nutrice" tal nome non era affatto usato per indicar femmine che si vendessero a nutrir l'altrui discendenza: in simil modo eran invece chiamate le buone donne ch'avevan sì cura degl'infanti ma giammai davan loro il proprio latte e, non a caso, puranco v'erano tra i maschi alcuni, detti "nutritori", che custodivano i pargoli, concorrendo al loro tranquillo sviluppo.
Le madri antiche davano prova di estrema sollecitudine al fine di nutrire i propri figli: e la stessa madre d'Ettore diede prova della straordinaria importanza data a questo diritto irrevocabile della prole.
Ella infatti per stornare l'amato figlio dall'imminente scontro con il temuto Achille così prese a parlargli, come si legge nel XXII libro dell'Iliade di Omero:"Intanto la madre Ecuba in disparte si tormentava nel pianto: poi denudando il seno con la mano rimasta libera mise alla vista le mammelle. Si rivolse quindi lacrimando ad Ettore con parole singhiozzanti, trasportate velòoci dall'aria: 'Ettore!...figlio mio!...abbi rispetto di queste! e compassione di me...che ti diedi queste mammelle per calmare il pianto da infante...figlio, rammentati di tutto ciò, non dimenticartene mai!'".
Se vi fosse bisogno di riferire altri esempi ancora, d'altre genti, facilmente vedremmo che nei tempi remoti furono sempre e soltanto le madri a crescere col loro latte la prole.
Ma i tempi son cambiati, si può anzi dire che con il trascorrere dei secoli tra gli uomini s'affermarono vieppiù la ricerca dei piaceri e le mode, al punto, che proprio ai giorni nostri, sembra vieppiù formidabile la voglia da parte delle donne di infrangere i sacrosanti vincoli dell'amore materno ed obliare quei santissimi doveri, cose cui, atteso ch'esse stesse in quanto femmine soggiacciono prima d'ogni cosa alle leggi di natura, nemmeno l'umano diritto può giammai consentire.
Le donne non sono in grado d'emanciparsi dai vincoli della forza ch'ogni cosa avviluppa nel mondo naturale!
Ma qual è il sommo piacere che consegue la madre che rispetta gli obblighi del proprio essere?
Marco Aurelio imperatore ce lo dice, a ragione e con suo merito, laddove afferma che soltanto una donna divenuta madre merita il sacro nome di moglie giacché col proprio latte ha infuso vita ed energie nel figlio: ed il grande Gellio, scrivendo ad un'amica, anche diceva..."Oro te mulier, sine eam totam integram esse matrem filii sui. Quid est enim hoc contra naturam imperfectum, atque dimidiatum matris genus peperisse, ac statim ab se se abjecisse?""
Ma se adesso le madri si rifiutano d'ascoltare la voce possente che anima tutte le cose, cerchino anche di rammentarsi che per nulla la natura agisce, che niente fa di inutile, che non reci utilità al genere nostro: ed anzi, grandi perigli gravitano sulla prole quando i genitori restano sordi verso i sacrosanti doveri